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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

IL RISORGIMENTO ITALIANO

RIVISTA STORICA

(Organo della “Società nazionale per la storia del Risorgimento italiano”)

DIRETTA DAL

Prof. BENIAMINO MANZONE

VOLUME PRIMO

MILANO TORINO ROMA

FRATELLI BOCCA EDITORI

1908

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)


GIUDIZI D’UN ESULE SU FIGURE E FATTI DEL RISORGIMENTO

Insigne patriota e cospiratore e soldato, Benedetto Musolino, da Pizzo di Calabria, fu uno dei più ardenti nemici della tirannide borbonica. Giovane ancora, dopo fatti gli studi legali a Napoli, dove si strinse in fraterna amicizia col Settembrini, a venticinque anni fondava nel 1834 una società politica dei Figliuoli della Giovine Italia,la quale, pur avendo comuni gli ideali con la Giovine Italiadel Mazzini, restò tuttavia indipendente da questa, con un catechismo dettato dallo stesso Musolino e con un ordinamento e con un governo proprio. — “Cominciammo noi due — narra il Settembrini — a spargere la setta fra i giovani e gli amici cui ci potevamo confidare; e quei volentieri l’accettavano perché a quella età si accetta ogni proposta che pare bella e generosa. Il mio amico per usare un po’ di santa impostura, e mostrare carte stampate che venivano dall’alto, ebbe a spendere molti quattrini e si privava del necessario nel vitto e nel vestito, e non viveva che in quel pensiero, e sperava che il numero degli affiliati crescesse tanto da poter dare egli il segnale della rivoluzione e scoprirsi. E questa fu la Giovine Italiasparsa nel regno, e creduta esser quella del Mazzini” (1).

Ma, dopo cinque anni di propaganda, un brutto giorno la polizia borbonica riuscì a metter le mani sul Musolino, sul Settembrini e su alcuni altri affiliati alla setta; però tutti, dopo tre anni e mezzo di carcere e dopo un processo dinanzi alla Commissione suprema sui reati di Stato, furono assolti per insufficienza di prove. Tuttavia il Musolino fu costretto a restar confinato, per ordine della polizia, nel paese natio, sotto la più rigorosa vigilanza e con assai modeste limitazioni alla sua libertà personale, finché la rivoluzione del 1848 lo liberò dalla larvata prigionia in cui era tenuto e lo esaltò all’onore e alla responsabilità del mandato politico al Parlamento di Napoli. Ma spenta la breve luce di libertà, di cui ebbe conforto il Regno, e incominciata di nuovo la brutale reazione borbonica, il Musolino, ch’era stato uno dei sessantaquattro deputati i quali, avevano firmata la famosa protesta del 15 maggio contro l’“atto di cieco e incorreggibile dispotismo”, prese parte gagliarda ai moti di Calabria scoppiati dopo quella reazione. Soffocata nel sangue con due mesi di lotta l'insurrezione calabrese — di cui il Musolino narrò poi le vicende (2) — e atrocemente decimata con gli eccidi anche la sua famiglia, egli con alcuni compagni e col nipote Giovanni Nicotera riuscì a sfuggire alla strage, riparando con una piccola barca da pesca a Corfù, e di là ad Ancona ed a Soma. Quivi, mentre dal Borbone era condannato in contumacia alla pena di morte, il Musolino prese parte molto onorevole col grado di maggiore alla difesa della repubblica del 1849, e dopo la caduta di essa emigrò in Piemonte, in Inghilterra ed in Francia, dove visse più lungamente a Parigi, campando a stento la vita con lezioni di lingua italiana, poiché tutti i beni della sua famiglia erano stati confiscati dal Governo di Napoli. E l’onorata miseria lo costrinse talvolta, in mancanza di lezioni, a fare il copista, lavorando — come scriveva a Giuseppe Ricciardi il 6 settembre 1857 — otto ore al giorno per guadagnare appena quaranta soldi (3).

Ma le difficili condizioni del vivere non impedirono però al Musolino di seguire con impazienza tutto il movimento politico d’Europa, in quanto esso poteva preparare nuove insurrezioni in Italia. Amico di Mazzini senz’essere veramente mazziniano, di fede repubblicana, ma sopra tutto unitario, il Musolino era un osservatore di spiriti indipendenti e un critico troppo esclusivo e severo per esser anche un cospiratore utile ed attivo e per abbandonarsi alla volontà di un capo. Già anche da giovane il Settembrini aveva notato in lui il molto ingegno, con una facile tendenza a colorire “strani disegni arditi”, oltre a una così smodata vivacità di critica che “rivedeva sempre i conti a Cesare, Alessandro, Maometto, Tamerlano, Napoleone” (4). Appunto la stessa severità dei giudizi dimostra il Musolino durante l’esilio di Parigi. Egli ebbe frequenti occasioni d’intrattenersi per lettera sui fatti e sugli uomini del tempo con Giuseppe Ricciardi, amico suo e compagno d’armi, storico e poeta, soldato e patriotta, che aveva cospirato e combattuto a Napoli e capitanati i moti di Calabria del 1848. Parecchie lettere del Musolino al Ricciardi, conservate nella biblioteca Vittorio Emanuele di Roma, palesano adunque cotesto spirito piuttosto acerbo, già segnalato dal Settembrini, ma hanno tuttavia un certo interesse storico, perché è sempre utile sentire tutte le voci e le impressioni dei contemporanei agli avvenimenti, specie quando esse vengono da chi, come il Musolino, seguì con ansia le vicende che prepararono il Risorgimento, e scrutò sempre fin troppo attentamente e con sospettoso intelletto il pensiero e l’opera dei principali artefici di esso. Il pregiudizio di parte turba assai spesso, la. mente dell’esule calabrese: la sua impaziente fede repubblicana ed unitaria lo induce a veder sempre sotto una luce poco benevola ogni atto, che non sembri in armonia con quella fede. Così, quando dopo il congresso di Parigi la fiducia della maggior parte degli esuli e dei patriotti si volge verso il Piemonte, il Musolino non comprende l’importanza di quel momento storico e mostra di sdegnarsi di quanti, come il Manin, il Montanelli, il

La Farina, sacrificano le loro idee repubblicane al programma di libertà e d’indipendenza annunziato dal trono di Vittorio Emanuele. Certi giudizi possono anzi dirsi irriverenti se, oltre al natural pessimismo, il vivissimo amor di patria e la preoccupazione della fede unitaria non li avessero ispirati.

Certamente invece assai più. equo è il giudizio su Pisacane e giuste e opportune le considerazioni del Musolino sulla infelice impresa di Sapri, Un tentativo contro il regno dei Borboni avrebbe potuto farsi soltanto a condizione che la spedizione fosse forte di circa tremila uomini e di trentamila fucili, e le ragioni addotte dall'esule calabrese sembrano giustificare pienamente la fatale, disastrosa fine dell'eroica impresa. Il Musolino ebbe egli pure una parte nell’idearla; e perciò i particolari ch’ei narra acquistano un notevole interesse, per quanto assai più tardi, composta l’Italia a unità e chiusa l'era delle cospirazioni, sulla base di più sicuri elementi intorno alle accuse fatte al Mazzini, abbia creduto necessario di modificare il grave giudizio sulla responsabilità del grande apostolo (5).

Ma dove è più manifesto che il pregiudizio di parte suole far velo anche ai migliori è nell’esame della politica liberale del Piemonte e della magistrale opera del conte di Cavour per l’alleanza francese e per l’indipendenza d’Italia. Già alla metà di marzo del 1859 il Musolino mostrava di non voler credere ancora all’imminente guerra, e, tutt’al più, se questa veramente si fosse fatta, egli prevedeva, in caso di vittoria delle armi alleate, la sostituzione della protezione collettiva dell’Europa, oppure della Francia, a quella particolare dell’Austria sugli Stati d’Italia. E poiché, per ciò che riguardava la causa nazionale di tutta Italia, riteneva che il Piemonte fosse sulla via falsa, pensava “la politica sabauda essere tanto impotente e fatale quanto lo è quella di Mazzini. Quando considero le stupide velleità sabaude, non posso difendermi da un sentimento di tristezza, vedendo come la santa causa, la vera causa nazionale è ballottata fra i partiti più impotenti a farla trionfare: Casa di Savoia e Mazzini”.

Senonché alle prime vittorie degli alleati parvero vacillare la fede repubblicana e il pessimismo dell’esule. Di fatti, poiché egli ad ogni altra cosa anteponeva la liberazione del regno di Napoli dalla tirannide borbonica e l’unità d’Italia, non esitò a rivolgersi all’imperatore, al re Vittorio Emanuele ed al Cavour con un progetto di spedizione armata contro il Borbone.. Un corpo di volontari, dagli otto ai diecimila uomini, con trentamila fucili e con due batterie da campo, raccolto all’infuori degli alleati, ma col segreto loro aiuto, in territorio neutrale con l’apparente obbiettivo di concorrere alla guerra d’indipendenza, invece di sbarcare a Genova sarebbe dovuto piombare sopra un punto della costa napoletana, e di là, fatte insorgere le popolazioni, liberare il regno. Così, cacciati i Borboni e data la corona d’Italia a Vittorio Emanuele, la rivoluzione vittoriosa avrebbe potuto, nell’intimo pensiero del Musolino, esigere dal re “uno Statuto tanto largo da avere la vera repubblica sotto le apparenze di una monarchia”.

Non consta che l’esule calabrese abbia avuto una qualche risposta al suo progetto: per quanto fossero tempi di rivoluzione, non pareva ancora possibile che un Governo accettasse di trattare con un privato, fosse pure il più degno e autorevole, intorno a un’impresa di quella natura. Certo è che quando' pochi giorni dopo il Mugolino apprese la fine della guerra e la pace di Villafranca, ebbe ragione di ricordare che i suoi dubbi e i sospetti s’erano avverati, e come d’altro canto il Piemonte, che da principio “s’era indotto alla guerra coll’idea d’ingrandire in un modo qualunque i suoi possedimenti, vedendo che uon poteva aver tutto, e non bastandogli l’animo di lanciarsi nella rivoluzione, si contentò della Lombardia, fedele alla politica di Casa Savoia che si contenta di tutto purché si tratti di estendere i propri domini”. Che fare adunque dopo sì gran delusione? Tentare il Cavour, dimostrargli che la confederazione degli Stati d’Italia, prevista dal trattato di Villafranca, avrebbe chiusa la via al trono unitario e che quindi “occorreva mettere a soqquadro il regno delle Due Sicilie, mediante il progetto da me proposto. E questa volta per non insospettire la Francia non si griderebbe Viva Vittorio Emanuele,ma sibbene Viva la Costituzione del 1848,che per Napoli è sempre in vigore, come quella che non venne abolita da alcun decreto. Se si fallisce nell’impresa, Iddio protegga Casa di Savoia e l’Italia; se si riesce, dopo aver messo giù il Borbone, Napoli armerà poderosamente e si metterà alla testa della rivoluzione italiana per costituire una monarchia unitaria con alla testa Vittorio Emanuele. Il Piemonte da principio non si innoverà né pro né contro. Napoli dovrà fare la massima parte dell’impresa sinché sarà a Roma. Allora si griderà l’Unità ed il Piemonte entrerà anche in causa. Per far questo si domandano al Piemonte quei mezzi di azione che io proposi, ossia gli aiuti necessari per tradurre in pratica il mio disegno. Che il Piemonte abbia fiducia in noi, per Dio, perché quando noi, repubblicani onesti, scendiamo a tale transazione, abbiamo l’orgoglio di dire che sappiamo mantenere la promessa anche meglio dei Santi che stanno in Paradiso” (6).

Che poeti cotesti cospiratori ed uomini d’azione! Prescindevano affatto nei loro sogni da quella formidabile forza conservatrice che è la diplomazia e maledicevano il Cavour, perché sembrava loro che nel preparare con maravigliosa industria i mezzi della redenzione d’Italia l’opera sua fosse or timida, or lenta ed incerta e perfino non conforme ai voti della nazione. — “Io non sono niente contento dell’attuale piega dei nostri affari; — scriveva il Musolino il 29 aprile del ’60 — Cavour è un grande imbroglione, e sventuratamente la maggioranza sostiene la di lui politica scellerata. Amico mio, è questione d’ingrandimento dinastico e non di ricostituzione nazionale”.

Però cotesto pessimista arcigno, il quale, tutto infatuato del suo progetto di cospiratore prudente, era giunto perfino a sconsigliare come una follia Impresa dei Mille, affermando che il nome e la presenza di Garibaldi in Sicilia “non farà nulla se voi non sarete accompagnati almeno da 5 o 6 mila uomini e provveduti abbondantemente d’armi” non tardò a raggiungere Garibaldi nell’isola dopo la presa di Palermo. Col grado di colonnello, allorché l’Eroe s’indusse a valicare lo stretto e a penetrare nella Calabria, poté aver l’onore di capitanare l’avanguardia mandata a tentar di sorpresa il forte di Altafiumana. Con lo stesso grado il Musolino partecipò a tutta la campagna meridionale, finché dopo il plebiscito i nuovi comizi lo designarono a rappresentare il collegio natio al Parlamento italiano. Sedette sempre a sinistra e fu tra i più gagliardi oppositori della Convenzione di settembre. Quindi nel 1880 rinunziò al mandato politico e, fatto senatore, visse ancora cinque anni nel conforto della reverente stima che gli dimostravano quanti sanno onorare la virtù di chi ha cospirato, sofferto e combattuto per la patria.

ITALO RAULICH.

SIRTORI: LA SAND

Parigi, 4 aprile 1857.— Dai giornali, non francesi, ma Indipendenza Belga, ho rilevato che Sirtori ha pubblicato in Genova una specie di programma politico relativamente alla questione napoletana, ch’egli vorrebbe isolare dalla italiana, lasciando ad un’assemblea nazionale il diritto di pronunziare sulla forma di governo da sostituirsi all'attuale borbonico. Non ho quindi letto il programma originale, e desidererei leggerlo. Ma se le cose stanno secondo quello che si riferisce dal suddetto giornale belga, che volete che vi dica del merito politico e morale dell’atto? Viviamo, mio caro amico, in un tempo in cui pare che un fatale spirito di stordimento e di vertigine tocchi tutti gli spiriti; sicché regna tanta confusione nelle idee dei migliori, o pretesi migliori, che non si sa più su che contare di positivo e di logico. Sapete già che Sirtori adesso è uno dei muratiani più accaniti. Vi replico che non ho letto il suo programma originale; ma suppongo che le sue tendenze siano forse muratiane, comunque non lo dica apertamente. Isolare la questione napolitana dalla italiana?! Ed anche che potesse ciò farsi, ritorneremo dunque alle questioni di campanile? Ma poi come s’isola? Innanzi tutto bisogna abbattere il Borbone. Ciò non potrebbe ottenersi che per un’insurrezione radicale, e dopo una lotta seria. Ora possiamo noi ammettere che battendosi a Napoli popolo ed esercito all’ultimo sangue, il resto d’Italia rimarrebbe spettatore indifferente della lotti? La quistione napolitana, se débb’esser decisa per opera del popolo napoletano, diventa per necessità italiana, sicché risguardo il programma di Sirtori come un’aberrazione non solo, ma come una vera fatuità ispirata dall’accecamento del partito da lui imprese a patrocinare. Quanto poi alla polemica della Giorgio Sand, Manin ed altri, io ne arrossisco per i nostri compatrioti. La Sand però li tratta come meritano. Avete visto come nell’ultima lettera indirizzata a Manin ed allora solamente li chiami veri idioti, sebbene sotto un giro di frase gentile ed apparentemente anche adulatorio —gli uomini politici sanno che cosa sia un romanzo, s'interessano a leggere dei romanzi, etc. etc.?Avete visto come Laforge poi si dichiari contento dacché la Sand assicura di continuar sempre a consacrar la sua penna alla difesa della causa italiana? Oh. questa è veramente classica! Adesso, mio caro amico, possiamo esser contenti; dacché abbiamo per noi la penna della Sand, non abbiamo altro a pretendere. L’Italia è salva. Altro che penne ci vogliono! Abbiamo bisogno di una spada e non di una penna. Si è scritto, e si scrive troppo, anzi, ed inutilmente. E poi che significa quella lettera ultima scritta anche isolatamente da Manin alla Sand? La Sand non la pubblica, ma dal tenore della breve risposta pare che ci sia stato qualche voltafaccia nell’ex-dittatore della Laguna. Credete voi non ne sia capace? Io lo credo fermamente.

MANIN E MONTANELLI

Parigi, 8 ottobre 1857. —Una sola osservazione infine sopra Manin. Io potrei dire molto, ma non è cosa di lettera. Forse un giorno le mie idee saranno pubblicate, ed il pubblico pronunzierà la sua sentenza. Per ora mi limito ad una sola considerazione compresa nel seguente dilemma: In Manin noi vediamo due uomini: il democratico al governo di Venezia, il monarchico piemontese nell'emigrazione. Ora io domando: Manin ha fatto bene o male di ripudiare le sue antiche idee democratiche per adottare le monarchiche? Se male, è un apostata, dunque non merita tutte le dimostrazioni di omaggio e di idolatria, l’apoteosi che gli si fa. Se bene, ed allora non solo non bisogna limitarsi a fargli questa apoteosi, ma è dovere seguire la sua politica, cioè rinunziare alla democrazia e diventare monarchico piemontese. Diversamente facendo noi ci esponiamo all’accusa ed al rimprovero di in congruenza e di contraddizione. Credo che non si possa uscire da questi estremi di fatto. Ora, secondo me, seguire la politica del Piemonte è fare la causa dell’Austria. E ve lo provo. Il Piemonte, malgrado tutte le sue magnifiche parole, non vuole, non dico già l’unità, ma neppure la indipendenza. Ne sia di prova il Congresso di Parigi, in cui il gran Cavour non solo non protestò contro il dominio austriaco e la negazione degli altri Stati, ma si limitò a riforme non costituzionali ma semplicemente amministrative per gli altri Stati d’Italia, e fra le cose progettate ci fu la separazione delle Legazioni da Poma con un governo a parte, cioè un nuovo smembramento italiano! Poi ritornato a Torino, rispondendo agli attacchi di alcuni deputati, rispose che il governo del re era sollecito di tutto ciò che poteva aver rapporto alla felicità italiana (belle parole!), ma che non poteva mai incoraggiare la rivoluzione, giacché questa si opponeva ai trattati. Dunque se si rispettano i trattati, si rispetta anche il dominio austriaco in Italia, e la esistenza degli altri governi tutti. Ed è questo il governo che porta alta la bandiera della nazionalità italiana? Sicché se Manin ha fatto la propaganda a favore del Piemonte, ha fatto la causa dell’Austria: è stato istrumento di fuorviamento per gli spiriti; la sua azione tendeva a ritardare con speranze illusorie la vera rivoluzione. Questo importa menzogna e non vero patriottismo; e chi predica la menzogna converrete con me che non merita neppure il nome di uomo onesto.

Del resto non sono il solo a pensare in tal modo rispetto a Manin. Avete visto che i soscrittori italiani non si riducono finora neppure a 20, e fra questi non vi sono che due notabilità politiche, cioè voi e Montanelli; sebbene quest’ultimo è notabilità un poco nebulosa, come quello che non solo ba cessato di essere anch’egli repubblicano, ma non è più neppure costituzionale; è assolutista dinastico come uno dei bandierai muratiani, e se bisogna credere a Sirtori, si può accusare di qualche cosa di più grave Montanelli si sforza di far credere il contrario, ed affetta anzi il più sperticato liberalismo, ma non tutti vi prestano fede. A questo proposito avete visto come si è firmato nella sottoscrizione per Manin? — Giuseppe Montanelli, antico presidente della Repubblica Toscana. — Repubblica che non ha mai esistito, presidenza ch’egli non ebbe mai!!! Eppure queste cose si scrivono con un cinismo vero; e presto o tardi si accreditano perchè nessuno le smentisce. E questi gonzi di francesi le ritengono come vere. Quanto ai francesi poi vi dirò che la massima parte sottoscrissero per fare una dimostrazione contro il loro governo. Non avendo potuto farla in occasione della morte del Béranger, profittarono di quella di Manin.

LA FARINA

Parigi, 17 marzo 1858.— ... Non è così però per La Farina; perdonate la mia franchezza. La Farina è uomo d’ingegno, gli errori in tali uomini vanno giudicati assai più severamente. La Farina fu prima democratico e, quando scriveva in Toscana prima del ’48 e nel ’48, associato ai democratici messinesi suoi compatrioti. Fu tale riputazione che lo fece assumere al Ministero in Sicilia. Avuto in mano un portafoglio però diventò affatto ligio di Stabile, ossia partigiano di una politica che menava diritto alla restaurazione borbonica. Caduta la Sicilia, ritornò ad essere repubblicano, corrispondente di Mazzini, associato ai democratici francesi, parte attiva nelle agitazioni di dicembre ’52, nella quale occasione anzi fu destinato a distribuirvi danari fra gli operai per incitarli alla resistenza. Adesso è anch’egli Sabaudo, e partigiano della confederazione dinastica. In tutto questo voi vedete sempre rettitudine d’intenzioni? Perdonate, mio caro amico, io non ho il coraggio di esser tanto indulgente” (7).

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI

Parigi, adì, 11 luglio 1857.— Vi scrivo col cuor lacerato, considerando la rovina che ci ha colpiti e che si poteva evitare; giacché io l’aveva preveduta, ed è accaduto tutto giusta le mie precise previsioni. Il povero Pisacane non è più. — Leggete la Patrie di oggi 11 comparsa qui ieri sera, come giornale della Sera. — Ferito in un secondo scontro avuto colle truppe regie a S. Lorenzo della Padula, fu immediatamente passato per le armi, d’unita a molti altri anche feriti o prigionieri. — I borboniani non danno quartiere! Pace alle loro ceneri!! Io amava e stimava moltissimo Pisacane; ma egli ha avuto la colpa di lasciarsi abbindolare da Mazzini.

Ecco quel che posso dirvi sul proposito, e con troppa conoscenza di causa.

Da lungo tempo io era in relazione con Pisacane per un tentativo serio. All’epoca che venni a passare una settimana da voi, se ben vi sovviene, vi parlai della cosa di proposito, onde trovare, se era possibile, dei mezzi pecuniali in proporzione. Mi rispondeste che non conoscevate che Giorgio De Lafayette, ormai fuori di azione. Poscia andai a Londra per delegazione sempre dei nostri di Piemonte ed in ispecie del Pisacane sempre in intimità con Mazzini. Riuscita inutile la mia gita a Londra si continuò a trattari con quei di Piemonte. Arriva la guerra di Oriente e la formazione della legione Anglo-Italiana. Tutti si scagliarono contro essa sconsigliandola, e Pisacane fra gli altri. Io gli scrissi dicendogli che faceva male; che invece bisognava incoraggiarla, essendo quello un mezzo di fare i fatti nostri col danaro dell’Inghilterra. Ed ecco il come. La legione non poteva essere composta che da italiani già militari rivoluzionari, e da ex-uffiziali della rivoluzione, cioè da gente nostra. Una volta formata bisognava guadagnare gli ufiziali onde farli entrare nelle nostre vedute. La legione doveva imbarcarsi o tutta intera od in dettaglio a Genova per passare a Malta o andare direttamente in Oriente. E bene nella traversata bisognava fare un colpo di mano. Mettere in gabbia il comandante in capo e gli ufiziali superiori inglesi, e facondo opposizione lanciarli in acqua, e poi invece di andare a Malta o in Oriente sbarcare sulla costa del Napolitano. Erano 3 mila uomini belli ed armati, e tutti italiani, quanto precisamente ci bisognerebbe! Pisacane gustò il progetto, e da allora in poi non solo si fece ad incoraggiare il reclutamento anglo-italiano, ma diè opera a guadagnare ufiziali nel senso da me indicato. La legione partì in dettaglio da Genova per riunirsi tutta in Malta. Quivi fu incaricato Fabbrizi a continuare le trattative cogli ufiziali; ma queste dovettero essere condotte con poca abilità e prudenza; giacché i legionari ed alcuni fra gli stessi ufiziali si permisero degli atti che suscitarono loro contro le popolazioni arci-cattoliche e superstiziose di Malta; sicché ne nacquero le collisioni, che ricorderete; conseguenza delle quali fu lo scioglimento della legione. Un battaglione che acconsentì di restare al servizio inglese partì da Malta per la Granbretagna e nella traversata, essendo in faccia alla Sicilia, Anghera ch’era luogotenente nello stesso corpo tentò di fare il colpo; arringò i soldati; pose addosso le mani al comandante; ma la maggior parte dei militi rimase inerte, e disarmato fu messo in carcere. La passò bene, perché fu solamente licenziato. Anghera era malvisto nel battaglione come quello che veniva accusato di orgoglio e di violenza; ed ecco perché il suo tentativo non ebbe adesione.

Questa prima idea di colpo di mano ha potuto suggerire (almeno lo credo) a. Pisacane l’altra d’impossessarsi del Cagliaricarico di armi pel bey di Tunisi. L’idea era certo bella. Erano a bordo per un milione di franchi in fucili e munizioni. Quale prezioso acquisto per armarne le popolazioni del napolitano! Ma l’operazione non fu condotta colla dovuta sagacia. Sicché dunque io non sono del vostro avviso che il fatto di Ponza fu quasi eroico. Non fu neppure audace. Si era certi di non trovarvi seria resistenza, tutti i depositi penitenziari essendo nel regno di Napoli presidiati da pochi veterani. Audace fu solo lo sbarco a Sapri, ossia il tentativo di sbarcare nel napolitano: mentre non era Sapri il punto in cui si doveva ed in cui si avrebbe dovuto sbarcare. Ma l’audacia non è più merito oggigiorno fra gl’italiani. È qualità comune, ve n’ha di troppo anzi, e bisognerebbe moderarla. È la sagacia del concepimento che manca; è la prudenza e l’accorgimento dell’esecuzione quello di cui abbiamo bisogno. Il fatto di Ponza anzi fu fatale, perché fece perdere tempo. Non poteva né doveva ignorarsi che il passaggio del legno e l’approdo nell’isola non potevano restare occulti al governo napolitano. I telegrafi della costa hanno l’obbligo di segnalare tutt’i legni mercantili come da guerra, a vela come a vapore, che valicano le acque anche alla distanza di un grado geografico o marittimo, ossia di 60 miglia. In effetti appena il Governo seppe l’approdo del Cagliariche diè ordine a due fregate a vapore di mettersi in corso. Fu data la caccia al Cagliariche muoveva verso mezzogiorno; e come la celerità delle fregate napolitano era maggiore, Pisacane temendo di essere arrivato e catturato sopra mare si affrettò di sbarcare a Sapri invece di arrivare in Calabria, per dove avrebbe dovuto essere a preferenza diretto, giusta gli antecedenti discussi tra noi, come luogo dove potevasi trovare più adesioni e concorso. Così si spiega come non si ebbe tempo neppure di sbarcare le armi che erano a bordo del legno, e come le fregate napolitano se ne impossessarono. Funesto dunque fu l’approdo a Ponza, perché fece perdere tempo, e perché fece avvertito il governo napolitano un giorno prima di quello che avrebbe potuto e dovuto esserlo, se si fosse sbarcato direttamente in Calabria. —Ma si ebbe così un rinforzo di gente! Falso calcolo. In generale i prigionieri accettano la libertà che loro si offre, ma non sempre né tutti sono egualmente disposti a prendere le armi per sostenere una lotta. Avete visto come molti dei liberati di Ponza non seguirono i loro liberatori. Poi non mancava il personale. Se si fossero riuniti i congiurati di Genova e di Livorno per farli fondere tutti sullo stesso posto napolitano unitamente a quei di Malta si avrebbe potuto contare per un migliaio di uomini; ed anche più se si avesse voluto a tempo concertare una seria spedizione; giacché il personale di azione non manca in Italia. Bisognava dunque noleggiare un altro o due celeri vapori come si fece a Malta, imbarcarvi tutta la gente di Genova e di Livorno e farla partire di conserva col Cagliaricatturato per isbarcare tutti direttamente in Calabria; punto di ritrovo e di riunione le acque di Lipari per esempio, od altro che avrebbe potuto concertarsi preventivamente. Pisacane era un abile strategista; io lo conobbi a Roma, e lo stimavo molto: ma accecato dall’ardore egli dimenticò in questa occasione ultima tutte le regole della sua arte; ed avvertite che precedentemente aveva convenuto con me nelle pratiche discusse tra noi che il napolitano era il posto su cui bisognava operare con tutte le forze. Seguo dunque il filo dei fatti.

Fallito il colpo di sorpresa della Legione Anglo-Italiana si continuò a trattare in altro modo. Nello scorso inverno mi si scriveva che Mazzini finalmente aveva assentito ad operare nel napolitano; giacché, sia detto di passaggio, egli fino allora aveva avuto grande avversione in questo; ed io dico perciò che Mazzini è l’amico più caro del Bomba. Io fui consultato a richiesta dal Pisacane. Risposi ch’ero pronto a prender parte al l’impresa; ma vi mettevo tre condizioni, giacché non mi fidava delle solite strambatene di Mazzini, inteso a far rumore senza suo pericolo personale e non il vero bene d’Italia; mentre io non rifuggiva il pericolo, ma esigeva che restandovi vittima non mi esponessi al ridicolo od al rimprovero d’imbecille. Le condizioni che io metteva erano queste:

1° Almeno da 2 a 3 mila uomini di sbarco bene armati e 30 mila fucili con corrispondenti munizioni per armare le popolazioni; giacché nel regno di Napoli non si trova uno schioppo neppure se si paga a peso di oro; tranne quelli delle poche guardie di campagna dipendenti dai grandi proprietari tutt’altro che favorevoli all’insurrezione; e tranne quelli delle poche guardie urbane scelte dalla Polizia colla lanterna. E poi si sa il valore di tali armi. Noi ne facemmo l’esperienza nel ’48. Fucili da caccia che hanno appena la portata di 100 metri; mentre le milizie regie ci salutavano alla distanza di 300 e più: e adesso è peggio, giacché specialmente i bersaglieri sono muniti di carabine alla Delvigne che portano sino a 1200 metri, ma con cui si può tirare con sicurezza sino ad 800, mentre dagli 800 ai 1200 il proiettile incomincia a deviare sensibilmente. E curioso come si voglia insorgere, e non solo non si cerchi di evitare per quanto è possibile la grande disproporzione di forze e di mezzi che esiste tra noi ed i governi costituiti, ma si faccia di tutto per accrescerla. E mi chiamate questa audacia eroica?Ma, mio caro amico, questa è follia parricida, perché condanna ad un inutile macello parziale tanti generosi elementi di azione che, riuniti tutti e condotti con sagacia, ci farebbero guadagnare la partita.

2° Spedizione preventiva di un individuo non compromesso, ma sicuro, esperto nella materia, e sagace; il quale, sbarcando come viaggiatore non compromesso nel regno di Napoli, a Reggio, avesse percorso tutto lo stradale da Reggio a Salerno per vedere e conoscere con precisione quali punti delle provincie fossero occupati da guarnigione ed in che numero. Comprendete bene che prima di fare uno sbarco bisogna sapere dove si sbarca, (0) se s incontra resistenza immediata o no. Il mio progetto era, nel caso che la Calabria e la Basilicata non avessero guarnigioni sul littorale, di sbarcare simultaneamente a Sapri, Paola e Pizzo con un migliaio di uomini su ciascun punto, occupare questi punti e munirli validamente con lavori di terra provvisori, onde impedire che il governo napolitano potesse attaccare dopo 24 ore per mare, ed obbligarlo così ad attaccare per terra, ciò che avrebbe portato il tempo almeno di 12 o 15 giorni di marcia, tempo che avrebbe dato agio all’insurrezione di organizzarsi invitando le popolazioni dell’interno, ed in ultimo anche costringendole ad armarsi. Nel caso poi che il littorale del Tirreno era munito di guarnigioni, sbarcare con tutta la gente alla marina di Catanzaro sul Jonio; e da lì, guadagnato rapidamente Tiriolo, trincerarvisi; e da quel punto, come base di operazione spingere alla rivolta il paese circostante, e prima di tutto i distretti più eccitabili di Nicastro e di Cosenza.

3° Non proclamarsi da prima né Unità Italiana, e molto meno Repubblica, ma solamente costituzione; e perciò portare scritto sur una bandiera bianca questa leggenda — Costituzione dei 10 febbraio 1848 — e ciò per non complicare la quistione rendendola quistione europea. La repubblica unitaria italiana sarebbe venuta dopo aver abbattuto il Borbone, e messo in piedi almeno un esercito di 400 mila uomini. Ricordate le lettere scritte a Masciaro. Né uscire immediatamente dalla Calabria, ma organizzarvi un esercito regolare, giacché, marciando con bande incomposte anche numerosissime, il Borbone ci avrebbe aspettato con tutte le sue forze — fanteria, artiglieria, cavalleria — nei piani della provincia di Salerno; ed in una giornata campale avrebbe avuto ragione a fronte delle nostre genti raccogliticce.

Pisacane conveniva completamente su queste mie vedute, sotto tutt’i punti di vista morali, politici, strategici, ma bisognava farli gustare anche a Mazzini. S’impegnò quindi tra loro una lunga corrispondenza. Pisacane mi diceva che mi avrebbe avvertito di tutto; ma il fatto sta che io non ne seppi più nulla. Egli è partito con un pugno di gente; sbarcò dove non doveva sbarcare; e l’esito non poteva essere certo felice. Vi pare che con 200 o 250 uomini si poteva incutere rispetto ai nemici ed ispirare coraggio agli amici? Ma come non persuadersi che in casi simili niuno dei più cari e zelanti fautori osa manifestarsi; mentre gli avversari ed anche gl’indifferenti s’inanimiscono a combattersi nella certezza di vincere e così farsi merito al governo, che poi è prodigo di croci, titoli, pensioni etc. etc.? Gli esempi dei Bandiera e dei Romeo erano freschi; adesso possiamo aggiungere quello del Pisacane, il quale trovò per primi avversari ed oppositori le guardie urbane. Se si fosse presentato con un migliaio di uomini, tutti lo avrebbero acclamato e seguito.

Io credo che mio nipote Gio. Nicotera sia partito con Pisacane, e che per conseguenza abbia avuto la stessa sorte, morto in azione o fucilato dopo essere stato ferito o fatto prigioniero. Gli ho scritto due lettere e da 15 giorni aspetto ancora la risposta! Egli era a parte di tutto. Né Pisacane né mio nipote vollero farmi motto di nulla, come avevano entrambi promesso, tenendo per certo che li avrei sconsigliati e rimproverati. Gene rosi da un lato, ma stolti dall’altro!

Ecco come io vi diceva a principio: una rovina preveduta e che si poteva evitare col vero bene d’Italia.

In questa occasione, mio carissimo amico, debbo pregarvi di un favore: segreto assoluto con tutti delle confidenze fattevi. Le fo a voi perché vi conosco, a chiunque altro non le avrei fatte. E vi prego del segreto non per me, ma per la causa. Io non dispero dell’avveuire malgrado tanti rovesci, che in generale tendono più a scoraggine che altro. Forse quando che sia ci sarà dato di eseguire ciò che Mazzini non ha voluto fare finora. Ma è d’uopo che il governo napolitano ignori le nostre idee. Io tengo dietro con vera ansia a tutt’i progressi dispotici che esso fa. Ha portato l’esercito a 140 o 150 mila uomini, fra cui 20 mila svizzeri. La flotta aumenta tutti gli anni. Telegrafi elettrici legano il continente colla Sicilia. Una sola cosa non ha pensato ancora, quella cioè di munire convenientemente la provincia più favorevole ai rivoluzionari, la provincia dove può tentarsi sempre il colpo che può sconvolgere il regno e salvare l’Italia. Se arrivasse a fortificare e provvedere di guarnigioni permanenti Paola, Pizzo e Tiriolo, l’avvenire, mio caro amico, sarebbe per sempre chiuso per noi. Non resterebbe allora che un’insurrezione in massa di tutto il regno; idea poetica e non attendibile. E questa per me la delenda Carthago. La salvazione dell’Italia non può dipendere che dal regno di Napoli, e il Borbone non può essere abbattuto che incominciando dal far insorgere la Calabria.

Il povero Pisacane conveniva con me di tutte queste cose, ma Mazzini fu sempre contrario; e se in questa ultima circostanza si fece qualche cosa, bisogna dire che abbia dovuto aver luogo tra essi qualche transazione. Pisacane era necessario a Mazzini come quello che aveva grande seguito fra la gioventù ardente. Per non privarsi del suo concorso bisognava contentarlo. Ma vedete in quali microscopiche proporzioni si operò nel napolitano che pure doveva essere il punto principale di azione. Pisacane per l’ardore e l’impazienza acconsentì, giacché Mazzini dava i mezzi. Ed allora con 50 uomini s’impossessò del Cagliaried un altro centinaio circa furono mandati da Malta a Reggio. Reggio punto di sbarco! Ma come non si sapeva che il distretto di Reggio è forse in tutto il regno il meno disposto ad insorgere? Pisacane ebbe torto di accettare. Non potendo agire come conveniva, bisognava piuttosto restare inerte, aspettando occasione migliore. Da qualunque lato si risguarda la cosa, se animosi furono gli esecutori, ignorantissimi debbono chiamarsi i direttori principali: ed ignorantissimi delle cose più ordinarie.

Vengo adesso a rispondere ad altri passaggi della vostra lettera. Il governo del Piemonte è il solo governo d’Italia non disonesto. Mi permetterete qualche riserva su tal proposito: secondo me il governo piemontese è d più gesuita, e non il p iù onesto. Conserva la costituzione perché non gli fa male e gli prepara l’avvenire. Ecco tutto. Ma che cosa fa per l’unità ed indipendenza italiana? Nulla. Dunque è nostro nemico come tutti gli altri. Ciò non pertanto sono di accordo con voi che il fatto di Genova fu non solo stolto, ma immorale:

1° Perché il Piemonte non può prendere l’iniziativa dell’insurrezione essendo troppo vicino e troppo aperto alle armi di Austria e di Francia (1) anche Francia, badate bene, qualunque sia il suo governo. Vi sono molti francesi amici d’Italia, ma finché sono privati; al governo diventano immediatamente nemici. Vedete Ledru-Rollin, consorte di Mazzini sempre; intanto quando fu al governo provvisorio voleva impossessarsi per sorpresa della Savoia e del Belgio senza dare in compenso al re di Sardegna la Corsica.

2’ Perché minacciando il Piemonte può cessare di essere così buono come è per noi. Dico buono non perché abbia intenzione di favorirci, ma perché involontariamente a causa della indole sua ci offre il mezzo di fare i fatti nostri. Il Piemonte debb’essere travolto nella fiumana, ma l’ultimo, Per adesso anzi bisogna rispettarlo, accarezzarlo. E ciò nel nostro interessò, Esso è il punto di riunione della massima parte degli emigrati; è un campo dove si può cospirare ed operare. Io sono stato un anno e mezzo in questa provincia d’Italia. Non potete avere idea quanto le autorità siano di buona fede, buona fede patriarcale; se ne può fare quel che si vuole, purché si sappiano prendere. Vedete in questo ultimo fatto di Genova quante armi s munizioni s’introdussero. Dove avrebbe potuto farsi altrettanto? In nessun altro luogo. Ciò mostra che cosa sono la polizia e la dogana. Si parlava pubblicamente della cospirazione, si erano fatte delle mine sotto tutte le caserme. Il governo ignorava tutto. Il Prefetto di Polizia di Parigi lo avverte del pericolo. La Polizia piemontese dorme. Quando si scuote? L’ha dichiarato al Parlamento lo stesso Rattazzi ministro dell’interno: si scuote quando i congiurati rompono i fili dei telegrafi elettrici. Senza di questo, disse Rattazzi, avrebbero potuto aver di tempo tutta la notte per mandare rinforzi al forte del Diamante che avevano già occupato e per impadronirsi del resto. Sicché dunque le mine potevano scoppiare, la città essere messa in soqquadro, e caduta in potere degli insorgenti che il governo dormirebbe ancora. Ora un tal governo serafico debb’essere rispettato, perché ci offre sul suo territorio largo campo di azione. Io son sicuro che nella riviera di Genova, da Nizza alla Spezia, potrebbero riunirsi 4 o 5 mila uomini disseminati nelle varie città del littorale ed imbarcarsi in una notte per un punto qualunque d’Italia. Mazzini, vi replico, vuol far rumore, e. niente di positivo per l’Italia.

LA VIGILIA DELLA GUERRA DEL 1859

Parigi, 16 marzo 1859. —Mi chiedete ciò che pensi delle nostre cose. Sin dal principio delle attuali vertenze io vi manifestai il mio pensiero, quando vi dissi che sono S. Tommaso. Adesso vi dico che i fatti posteriori e giornalieri mi confermano sempre più in tale convinzione. Non credo alla guerra, e se mai dovesse accadere, essa finirebbe come quella di Crimea. Si voleva mettere un freno alla Russia ed assicurare l’indipendenza ed integrità dell’Impero Ottomano, La Russia è rimasta forte come era, perché non fu smembrata, unico mezzo di ottenere veramente lo scopo; sicché potrà, quando vorrà, ritornare più tardi alla carica. L’Impero Ottomano è stato smembrato pel fatto dei principati danubiani, ed ha perduto la sua indipendenza pel fatto della continua ingerenza che vi prendono Francia, Inghilterra, Austria, etc. etc.

Non dissimile sarebbe la soluzione della nostra quistione, per quanto apparisce dai giornali; giacché noi poveri mortali non possiamo poi essere nel vero segreto dei gabinetti. Di che si tratta? Voi lo sapete meglio di me. 1° Evacuazione dello Stato romano; 2° riforme amministrative e non politiche; 3° soppressione dei trattati speciali dell’Austria coi principi italiani, e sostituzione a favore di questi della protezione collettiva dell’Europa alla protezione individuale dell’Austria. Ora delle due luna: o l’Austria accede a questo, o non accede. Se accede, noi avremo in vece di un tutore cento tutori; se non accede, guerra. Ma in qual senso si farà questa guerra? Sempre nel senso delle tre basi precedenti, giacché se la Francia volesse cambiarle o oltrepassarle avrebbe contr’essa tutta l’Europa, e Napoleone non vuole guerra generale. Dunque conchiudo come ho detto di sopra, noi non avremo né unità,indipendenza,libertà. Ed è questa la soluzione nazionale che il Piemonte ci fa aspettare da tanti anni? Io temo forte che in questa occasione l’italianissima Casa di Savoia rimarrà troppo crudelmente scornata. Io apprezzo fino ad un certo punto la buona fede del governo piemontese in quanto ha rapporto colla coscienza del regime costituzionale; ma per ciò che spetta alla causa nazionale di tutta Italia lo credo sulla falsa via. La nostra quistione anche in senso monarchico è rivoluzionaria, e se il Piemonte non vuole la rivoluzione deve dimettere ogni pretensione di rigenerare l’Italia. Sotto questo punto di vista penso che la politica sabauda è tanto impotente e fatale all'Italia quanto lo è quella di Mazzini.

Quanto poi alla immobilità delle Due Sicilie non deve sorprendervi. Siamo giusti, mio buon amico, e guardiamo lo stato in cui si trova quel povero regno. Ma voi sapete che in tutto lo Stato non si trova un fucile, tranne quei che stanno nelle mani degli ultra-fedelissimi. Ed allora come volete che s’imponga, senza armi, e contro un’armata borbonica, la quale, giusta le ultime notizie, e per effetto delle ultime leve, è stata portata a 160 mila uomini?!!

Ed è questo, secondo me, il torto del Piemonte, quando pretende di aspirare al trono d’Italia. Invece di limitare la sua azione al Lombardo-Veneto, dove trova sempre pronto un nemico potente, l’Austria, dovrebbe procurare di metter sossopra il regno di Napoli, dove, smantellato una volta il Borbone e proclamato il re di Sardegna, si potrebbe giuocare a carte scoperte non solo contro l’Austria, ma contro qualunque altro, e senza altro aiuto straniero. Io parlo contro i nostri interessi democratici: ma quando considero le stupide velleità sabaude, non posso difendermi da un sentimento di tristezza, vedendo come la santa causa, la vera causa nazionale è ballottata fra i partiti più impotenti a farla trionfare: Casa di Savoia e Mazzini.

PREVISIONI PESSIMISTE SULLA GUERRA DEL 1859

Parigi, 16 aprile 1859. -— Vorrei dividere le vostre speranze e partecipare alle generali illusioni relativamente alla politica; ma vi ripeto quel che vi dissi varie volte: credo che la guerra non abbia luogo, perché tutte le potenze sono interessate ad evitarla; ma se ed alla fine, ad onta di tutti gli sforzi della diplomazia, tale guerra dovesse verificarsi, io confesso francamente che non ne aspetto i vantaggi che comunemente si sperano. Si è lasciato troppo tempo all’Austria per fortificarsi, e tutte le altre potenze, non esclusa la Russia, saranno per essa contro la Francia. È guerra di principio per l’Europa dinastica. Si comprende che la Francia vorrebbe" lacerare i trattati del 1815, e perché tutte le potenze si trovano nella condizione dell’Austria, tutte faranno causa comune con essa. Da prima lascieranno impegnare la Francia in Lombardia, dove l’Austria sosterrà una lotta tremenda perché difensiva, e quando la Francia indebolita, dopo avervi perduto tre o quattrocento mila uomini, non sarà più in grandi forze, l’Europa le piomberà addosso. Rivoluzione! Chi la farà? In tempo di guerra non vi è rivoluzione. È la storia di tutti i tempi e di tutti i paesi che ce lo prova. E poi né la Francia né lo stesso Piemonte vogliono la rivoluzione. Vedete quante apprensioni si hanno pei volontari, che infine sono monarchici e si mostrano docili ed obbedienti agli ufiziali che dà lo stesso governo piemontese. In ultimo, ammesso anche, cosa poco probabile, che la Francia rovesciasse in una sola campagna tutte le formidabili posizioni dell’Austria, e che questa si persuadesse di non poter più conservare il Lombardo-Veneto, il Piemonte sarebbe frustrato nelle sue aspettative, mentre si emanciperebbero le province italiane elevandole a regno sotto un principe austriaco; e così si avrebbe in Italia uno Stato nuovo, cosa nella quale l’Austria sarebbe sostenuta da tutte le altre potenze, supposto che queste non volessero spingersi ad entrare in lizza contro la Francia. Saremmo noi, è vero, liberati da una dominazione straniera in apparenza, ma in realtà avremmo una nuova dinastia, che seguirebbe le idee, le simpatie e la politica antica, come la seguono il Papa, il re di Napoli, etc. etc. E supponendo che la Francia ottenesse tali trionfi da poter dettar legge, il Piemonte verrebbe ingrandito, ma la Francia conserverebbe la Savoia, ed eserciterebbe in Italia lo stesso predominio esercitato finora dall’Austria; ché non potete aspettare libertà nel nostro paese da chi l’ha soffocata nd proprio; né veder ricostituita una grande nazione unitaria da uomini la cui politica tradizionale è stata sempre quella di circondarsi di Stati piccoli e deboli su cui si possa sempre influire e padroneggiare. Noi dunque dalla guerra che si aspetta non avremo né unità nazionale né libertà: ma solo cambiamento di padrone. Desidero ingannarmi nelle mie congetture, ma io prevedo questo. Possano gli avvenimenti farmi rimanere falso profeta!

LA POLITICA FRANCO-PIEMONTESE

Parigi, 26 maggio 1859. —Non bisogna farsi illusione sull'indole degli avvenimenti che si preparano. La Francia ci darà forse l’indipendenza se sarà vittoriosa, ma quanto ad unità e forse anche libertà vi è molto riserbo a fare. Oggigiorno sono in campo i re, non solo per le grandi forze di cui dispongono, ma per l’opinione pubblica che è tutta per essi. Che volete sperare in Italia fuori della politica franco-piemontese? Vedete la Toscana, vedete lo Stato Pontificio, si sono tutti pronunziati in tal senso; non vi parlo poi degli individui; tutti i più arrabbiati repubblicani sono diventati entusiasti monarchici franco-piemontesi. Dunque, in tale stato di cose, o bisogna restare spettatore indifferente di ciò che accade, od accettare la posizione che ci sarà fatta dagli avvenimenti e dalle Potenze protettrici dell’Italia; o senz’anche agire, bisogna agire nel senso franco-piemontese, solo colla speranza potere più tardi profittare della eventualità di avere complicazioni generali europee.

Io sono perfettamente, come lo sono stato sempre, del vostro avviso, che bisogna operare, fortemente operare. Ma nella circostanza attuale, se non m’inganno, credo che il mezzo da voi proposto non solo non ci farebbe raggiungere lo scopo, ma non sarebbe tollerato neppure dalle Potenze, che, volete o non volete, dominano attualmente gli spiriti e le cose d’Italia, Francia, cioè, e Piemonte. Un direttorio equivarrebbe ad una dichiarazione di guerra; e se la Francia volesse adottare questo temperamento, farebbe una spedizione direttamente contro Napoli; non ha bisogno di una rappresentanza napolitana.

Questo allarmerebbe l’Europa, dando alla Francia ed al Piemonte il carattere d’instigatori d’insurrezioni e rivoluzioni nelle provincie inerti, e voi sapete che per evitare questa taccia e per tenere a bada la Germania specialmente, la Francia adesso, bloccando il litorale dell’Adriatico, esclude dal blocco Trieste; ed è in guerra coll’Austria! Mi direte che la Società Nazionale italiana ha messo fuori una circolare per fare insorgere le altre provincie italiane. Ma badate che l’azione di tale società è occulta, si estende alle provincie limitrofe al teatro della guerra, già insorte o fortemente agitate, ed agisce in senso monarchico piemontese per ottenere concorso alla guerra dell’Indipendenza. Un direttorio composto di deputati napolitani, fra cui molti passiamo per repubblicani e peggio, darebbe sospetto che il movimento da esso governato in Napoli potrebbe oltrepassare i limiti monarchici che Francia e Piemonte si propongono. In ultimo questo direttorio darebbe la sveglia al governo napolitano, e nell’attuale stato di cose un colpo di mano, se Francia e Piemonte acconsentono, dovrebbe essere tentato per sorpresa.

Io credo che a voi non sia sfuggita l’intima idea del governo specialmente francese. Napoleone vuole forse ¿lare intera indipendenza all’Italia ma vuole nello stesso tempo avere l’agio e la gloria di dire che è la Francia che ha fatto tutto, od almeno la massima parte della bisogna. E se le cose continuano come si è incominciato egli otterrà il suo scopo, ed a guerra finita noi non avremo che qualche miserabile cencio di uniforme, ma non unità né vera libertà. Ora i nostri sforzi nello stato attuale di cose dovrebbero tendere, se non mi illudo, a sventare tale politica, facendo intanto le viste di volerla pienamente secondare.

Se il regno di Napoli resta inerte, a guerra finita non avrà nulla o pochissimo. Ma se prende parte alla lotta, coll’importanza che ha, può alla fine far ascoltare la sua voce nel congresso che terrà dietro alla guerra, e se non si vuole l’unità italiana anche monarchica, noi potremmo senza dubbio esigere un largo Statuto costituzionale.

Dominato dunque da tali convinzioni, io qui ho scritto un Memorandum in italiano e francese, che ho presentato a Villamarina per ispedirlo a Torino, ed al maresciallo Randon, ministro della guerra, perché lo faccia pervenire a Napoleone. L’uno e l’altro mi hanno accolto assai cortesemente, e mi hanno detto anche delle parole lusinghiere sull’indole della proposta da me fatta, ma mi hanno detto che non potevano decidere nulla da loro. Però che lo avrebbero immediatamente spedito al suo indirizzo, e mi avrebbero immediatamente del pari comunicate le risposte che avrebbero fatte il re di Sardegna e l’Imperatore. È questa risposta che io avrei voluto partecipare a voi prima di ogni altro dei nostri (intendo nostri di principi), ed è per ciò che ho tardato tanto a rispondere alla prima vostra dei 7 del corrente. Questa risposta ancora non è venuta, e gli avvenimenti di Napoli forse influiranno a ritardarla ancora, se non pure a mandare a monte ogni disegno.

Di che si tratta? Voi potete comprenderlo. Non posso né debbo spiegarmi troppo chiaramente in una lettera; a suo tempo ne sarete istruito a voce se la fortuna seconda i nostri sforzi. Si tratta di un fatto che Francia e Piemonte vorrebbero segnatamente aiutare, ma che in apparenza avrebbe l’aria di essere opera privata. S’intende bene che lo svolgimento delle cose dovrebbe sempre essere in armonia colla politica franco-piemontese. Ve lo ripeto: nello stato attuale delle cose o bisogna astenersi da qualunque azione o bisogna secondare il movimento applaudito dalla generalità. In appresso gli eventi ci potrebbero dare occasioni di fare e tentare qualche cosa di più.

Questo che vi dico resta santissimo segreto fra noi due. In seguito vi comunicherò ciò che si farà, dacché voi sapete che quando si tratta di azione,io non mi sono mai rifiutato né mi rifiuterò mai. Non ho offerto i miei servizi al Piemonte, perché un uomo di più o di meno in Lombardia non fa nulla; il paese in cui posso essere più utile alla causa italiana è il Napolitano. Per quelle provincie ho offerto i miei servigi. Aspettiamo la risoluzione diffinitiva.

IL PROGETTO DI UNA SPEDIZIONE ARMATA CONTRO NAPOLI

Parigi, 26 maggio 1859. —…Senza dubbio che non sarei stato a Parigi se in Italia dovesse farsi qualche cosa. Ma venire costì a fare che cosa? Nella guerra contro l’Austria non si ha bisogno di me, né io potrei essere utile a nulla. Altrove ed in altra sì, ma se non si tratta di azione io non veggo che potrei fare adesso in Italia. E tutto ciò a prescindere da certi ostacoli che voi ben comprenderete e che perciò mi dispenso di enumerarvi. Io vado spesso a visitare l’ottima nostra sorella signora Irene Capecelatro, ed or son pochi giorni il Cavaliere mi fece leggere una delle vostre ultime lettere nella quale gli scrivevate la risoluzione presa in Torino da 33 emigrati napolitani e siciliani con un progetto di dichiarazione ideata da Poerio e consorti. Vi assicuro, mio caro amico, che se non avessi letto i documenti da voi suscritti e se non foste stato voi a suscriverli io non vi avrei prestato fede. Ma puossi scendere a tal grado di stoltezza e d’insipienza? E che conto volete che tenga lo stesso governo piemontese della vostra emigrazione? Quei due atti importano perfettamente la stessa cosa; sebbene quello di Poerio è più esplicito e indipendente. Essi non potrebbero avere altro oggetto che quello di riabilitare la dinastia borbonica in Italia. Imperocché se il re di Napoli prendesse una parte anche minima alla guerra e facesse qualche leggerissima concessione politica sanerebbe tutte le peccata e del padre e proprie e rientrerebbe nelle grazie e della Francia e dei regni liberali all’acqua eli rosa. Invece noi che aspiriamo alla rigenerazione del paese ed a formare un’Italia, dobbiamo far voti che il re di Napoli si tenga duro a tutto negare, perché in tal modo vi potrà essere la probabilità che le due potenze alleate protettrici della causa italiana si decidano presto o tardi a mandarlo al diavolo. Ed è doloroso il vedere come tali individui, che pur passano per fior di ingegno e di patriottismo, e più di tutti il Poerio, dopo tali anni di catena venga ancora a borboneggiare. Oh mio caro, direte sempre ancora ch’è l’uomo di buona fede? Ma se è di buona fede dev’essere pure tanto indebolito di mente da non poterne fare più alcun conto, anzi da tenerlo d’occhio come pericolosissimo in ogni occasione.

Nessuna risposta, mio caro, al Memorandumda me inviato il 16 maggio ah Imperatore ed a Vittorio Emanuele, come nessuna risposta ad altra lunga lettera scritta a Cavour il 20 dello scorso giugno. E vi dico che io mi dichiarava pronto ad agire in senso strettamente piemontese, giusta le aspirazioni universali italiane. Voi mi direte a questa meravigliato: Come, non sei più repubblicano? No, mio caro, io son sempre repubblicano quale sono stato finora e quale sarò fino alla mia morte. Ma agendo in tal modo io non manco alla fede repubblicana. Per me la repubblica non istà nel nome, ma nell’indole della sua costituzione. È repubblica anche quella monarchia in cui il re non comanda le armate, non nomina agli impieghi di nessuna specie, non può disporre di un solo centesimo relativamente alle spese pubbliche. Ed è monarchia assoluta, o quasi, quella repubblica che ha un presidente che nomina agli impieghi, che comanda le armate, che è depositario della pecunia pubblica, sia quanto volete efficace la sorveglianza ed il sindacato di un’assemblea nazionale. Io anzi vorrei in una repubblica un re, come mito, come simbolo, che fosse di ostacolo alle ambizioni private, le quali profittando di certi tempi calamitosi gittano sul potere tutto il biasimo e lo rovesciano per impossessarsi del trono. E vedete in effetto che per questo tutte le repubbliche, in cui i poteri non sono veramente equilibrati, finiscono alla monarchia assoluta e al dispotismo. Io vorrei un re, come erano i re a Sparta, tranne il comando delle truppe, come erano i dogi a Venezia, ma non elettivi, sibbene ereditari, cioè re circondati da tutto il fasto possibile; onori e piaceri quanti ne vogliono, ma nessuna ingerenza nelle cose pubbliche; il popolo chiamato a far tutto da sé per mezzo dei rappresentanti od ufiziali scelti a maggioranza di voti e con suffragio universale. Questa costituzione, mi direte voi, è impossibile. Possibilissima, vi dirò io. Ma qui non è tempo e luogo d’intrattenersi con simili dimostrazioni.

Ora io dichiarando di agire in senso piemontese non intendo che le cose dovrebbero restare come adesso stanno in Piemonte. Se potessimo mandare al diavolo il Borbone di Napoli, quel regno porterebbe nella bilancia il peso di un esercito di 160 mila uomini per ora e di un altro esercito di uguale forza dopo pochi mesi. Ed allora noi diremo a Vittorio Emanuele: noi vi proclamiamo re di tutta Italia, ma l’Italia reclama da voi uno statuto democratico, di cui noi vi daremo le basi ed il tenore. Certo io non ho parlato in tal modo né nel Memorandum,né nella lettera a Cavour. Quando si vuole ottenere da un governo mezzi di agire,è d’uopo fare usò di un poco di prudenza o di macchiavellismo, come vogliate dire Cavouriano per ora, s’è possibile di ottenere l’unità,la questione di libertà è conto di famiglia che aggiusteremo più tardi da noi dopo che saremo uniti in nazione compatta e forte. Allo stato attuale delle cose o bisogna condannarsi all’inerzia, o, se si vuole agire, dobbiamo agire in senso piemontese. Vedete come l’opinione pubblica s’è dichiarata in tal modo. Supponete che noi volessimo proclamare spiattellatamente altro principio, il nostro puro e netto, e chi ci ascolterebbe? saremmo anzi chiamati austriaci e peggio! Bisogna dunque, s’è possibile, ottenere aiuto dal governo piemontese e servircene per dare sì la corona di tutta Italia a Vittorio Emanuele, ma nello stesso tempo metterci in grado di poter pretendere, dimandare ed ottenere uno statuto tanto largo da avere la vera repubblica sotto le apparenze di una monarchia. Diversamente facendo noi non avremo nulla; né unità e neppure libertà anche modestissima. Io dunque mi sono dichiarato, spiattellato sabaudo, senza tacere che finora sono stato repubblicano, ma che in vista delle manifestazioni unanimi di tutta Italia io mancherei al dovere di onestà cittadina il non inchinarmi innanzi al voto pubblico, e che se il governo piemontese accettasse le mie profferte, io gli presterei i miei servigi collo stesso zelo con cui finora ho seguito e predicato pel servizio democratico. Ed a voi ripeto che il farei, salvo sempre, come vi ho esposto di sopra, la riforma dello statuto costituzionale,quando sarebbe quistione di ricostituire politicamente l’Italia.

Nel Memorandumho indicate le operazioni preliminari a farsi, riserbandomi poscia di presentare il progetto strategicodell’intrapresa. Per operazioni preliminari intendo la riunione di un corpo di volontari, che io indicava necessario dagli 8 ai 10 mila uomini, e più l’acquisto di 30 mila fucili almeno, con due batterie di campo. Gli uomini sarebbero riuniti su terreno neutro, poiché l’operazione dovrebbe aver l’aria di essere fatta da un’associazione di privati senza cooperazione od assistenza di governi di Francia e di Sardegna, apposta per non comprometterli a fronte dell’Europa dinastica, ed indicava i luoghi dove tale riunione si farebbe per corpi. Il segreto dell’impresa sarebbe conservato per tutti gli uomini, tranne pei capi comandanti di corpo, sicché a parte di tale segreto non sarebbero che un centinaio di persone comandanti di corpo ed altri capi principali ed agenti: il resto saprebbe di reclutarsi per la causa italiana, ma non saprebbe dove andrebbe a sboccare effettivamente. La riunione dei vari corpi si farebbe a giorno fisso sopra mare, e da lì si piomberebbe nel Napolitano invece di sbarcare a Genova.

A tale proposito, come io vi diceva, non ho avuto risposta alcuna, neppure da Cavour, dopo l’ultima lettera pressante scrittagli ai 20 dello scorso giugno, nella quale fra le altre cose gli facevo osservare che il vento dell’opinione spirava ormai non già alla semplice indipendenza,ma alla assoluta unità,e che se si manca in questa occasione il re Vittorio Emanuele non manca solo al voto di tutta Italia, ma manca a se stesso ed alla sua dinastia.

Forse la Francia, se vuole mandar via gli austriaci, non guarderebbe di buon occhio la riunione di tutta Italia. Ma il governo di Piemonte può agire anche senza far conoscere i suoi fatti al suo alleato. La nostra operazione può essere condotta indipendentemente, da noi, di concerto segreto col Piemonte, ed avrebbe tutta l’aria, vi ripeto, di fatto privato e non governativo. Che il Piemonte dia i mezzi, cioè il danaro, e neppure a noi; che destini persone di sua fiducia a fare le spese, che queste persone vengano con noi sui vari luoghi indicati, e quivi procedano alla compra delle armi, all’equipaggio e pagamento degli uomini, all’acquisto delle munizioni, al noleggio dei bastimenti; il resto lo faremo noi. O soccomberemo, e se noi sappiamo mettere in pericolo la testa, il Piemonte potrà arrischiare pochi milioni di franchi, o riusciremo e Vittorio Emanuele sarà re di tutta Italia!!

Io non so a che attribuire il silenzio serbato specialmente da Cavour, armi è questo il caso di mettere in moto quella tale persona, da cui voi nella vostra dei 30 maggio mi dicevate poter far parlare a Cavour di viva voce. Mi dite pure che potreste scrivere anche voi stesso a Cavour per appoggiare la proposta. Tutto va bene, e se voi potete farlo fatelo pure ed al più presto. Solo credo conveniente farvi un’osservazione. Credete voi che le ultime pubblicazioni da voi fatte specialmente nella Terre Promisein cui dite che non gridereste mai viva Vittorio Emanuelee che per conseguenza molto non contribuireste a farlo gridare, credete, ripeto, che ciò non possa nuocere all’accettazione della cosa, sospettando Cavour che essendo anche voi nell’affare, io fossi un prestanome e che intanto noi volessimo servirci dei mezzi di azione mossi a nostra disposizione per agire in senso repubblicano e non sabaudo? Certo anch’io sono stato tenuto per repubblicano, ma io non sono legato da antecedenti di pubblicazioni letterarie, perché finora non ho scritto nulla. Il mio repubblicanismo può esser tenuto in poco conto, od almeno non tanto tenace qual’è infatti. Ma per voi il caso è diverso. Per cui concludo, se credete che questa considerazione non influisca o possa influire sfavorevolmente, e voi scrivete direttamente a Cavour; ma se credete che possa paralizzare e nuocere sarebbe meglio che faceste appoggiare la proposta mia da altra persona che ha goduto riputazione di essere stata sempre monarchica, ma che voglia agire adesso nel nostro senso, che in sostanza è anche monarchico. Comunque, in fondo noi ci proponiamo, se la fortuna arride ai nostri sforzi, di costituire una monarchia repubblicana. Voi potete esser certo che la mia proposta essendo approvata, voi sareste uno dei primissimi chiamati alla direzione della cosa, come al governo dell’insurrezione una volta che si fosse messo il piede nel napolitano, e si fosse stabilito un principio di governo provvisorio. Il vostro ingegno, il vostro specchiato patriottismo e più di tutto la rarissima vostra integrità sono tali titoli che in un governo popolare qualunque vi dànno diritto a prender parto principale.

Nello stato attuale delle cose io penso che per voi e per tutti quelli che vogliano far qualche cosa pel Napolitano e per l’Italia, non vi è altro partito a prendere; e vorrei che tutti si penetrassero di tale verità e cooperassero ad insistere sul governo piemontese onde ci somministrasse i convenienti mezzi di azione. Sul Napolitano non si può operare diversamente. Tutti i proclami, tutti gli incitamenti morali, tutti gli emissari del mondo sono insufficienti a produrre il menomo effetto. Non dico già che noi antichi deputati siamo impotenti a tutto ottenere, ma se si lanciasse un proclama d’insurrezione in nome degli stessi Vittorio Emanuele e Napoleone, e questo proclama non fosse accompagnato da altri mezzi materiali di operazione, sarebbe di nessun risultato. Vedete quello ch’è accaduto e che accade in tutto il resto d’Italia malgrado gli incitamenti e la presenza di Garibaldi, malgrado la marcia trionfale di due grandi eserciti; e dov’è l’insurrezione? l’insurrezione non si vivifica (e quale insurrezione!) che dopo che gli austriaci abbandonano i luoghi e si ritirano sconfitti. Ora non volete che accada diversamente a Napoli, dove, tranne la capitale, non esistono grandi centri di agglomerazione di popolo, e dove specialmente mancano completamente le armi? L’insurrezione a Napoli dev’essere imposta colla forza, procurata da un corpo che vi arrivi dal di fuori, corpo sufficientemente importante da far fronte ai primi scontri delle truppe regie da ispirare fiducia agli amici, affinché si pronunzino, e paura ai nemici, perché non si oppongano ai primi momenti di arrivo, corpo capace d’impossessarsi di un punto qualunque ed organizzare un principio di resistenza, chiamando ed obbligando la popolazione ad accorrere per armarsi colle armi che bisognerebbe portare anche dal di fuori. Senza questo non si farebbero che delle operazioni inutili e luttuose, come quelle di Murat, Romeo, fratelli Bandiera ed in ultimo Pisacane, alle quali tutta la reazione è partita da prima dalle stesse popolazioni sui luoghi di cominciamento, più che dallo stesso governo centrale. Noi adesso non siamo più nel 48, in cui si poterono e si fecero in certo modo e fino a certo punto dei miracoli per semplice sorpresa; adesso esistono telegrafi elettrici da per tutto in Sicilia e nel Napoletano. L’esercito è di 150 mila uomini e nella massima parte concentrato in Napoli e dintorni. Dovunque si sbarca e si principia la insurrezione, il governo ne è istruito dopo mezz’ora, e dopo due giorni o tre al più tardi può far piombare contro gl’insorgenti un corpo di truppa almeno di sei a dieci mila uomini mediante i molteplici e poderosi mezzi di trasporto a vapore che possiede. E d’uopo dunque arrivarvi con forze tali da poter almeno respingere simili primi assalti, con forze da poter imporsi alla provincia e luogo in cui si approda, giacché vi replico sempre: la rivoluzione a Napoli dovrebbe essere imposta. Il malcontento è generale, ma non è generale la disposizione di battersi. Esistono i buoni e bravi, ma son pochi.

Per le generalità, bisognerebbe obbligarle; e non si obbliga che colla forza. L’impresa presenta certamente degli ostacoli non lievi; ma se si volesse seguire il mio piano strategicoche ho dichiarato a Cavour presentare anche più tardi, cioè dopo che il progetto della spedizione è accettato e risoluto in principio,io nutro la certezza che il successo sarebbe infallibile; e Vittorio Emanuele potrebbe allora presentarsi all’Europa non più come l’eletto di popolazioni che possono far voti, ma che non presentano grandi contingenti armati come sono i paesi che finora gli hanno dato la dittatura, ma come l’eletto di un popolo che lo appoggia con tre o  quattrocento mila uomini; ed a fronte di tale spettacolo di popolo armato e risoluto a sostenere la sua elezione, l’Europa s’inchinerebbe innanzi al fatto compiuto; e la stessa Francia, se ha qualche segreta idea di non volere una unità italiana,non potrebbe fare a meno di accettare e sostenere anch’essa in un Congresso lo stesso fatto compiuto.

Se il nostro interesse e dovere è di pesare sul governo sardo nel senso indicato di sopra, è anche interesse e dovere dello stesso governo sardo di accettare e favorire energicamente le nostre offerte. Facendo diversamente esso manca al voto unitario di tutta Italia, e manca anche a sé stesso. Allora sì che si potrebbe dire che Vittorio Emanuele, fedele alla politica tradizionale di sua famiglia, avrebbe agito per sola ambizione di guadagnare qualche provincia di più, e non per ¡spirito di nazionalità. Se adesso si fallisce non si potrà dire che è stata colpa d’Italia, giacché individui, partiti e popolazioni si sono tutti unanimemente pronunziati pel Piemonte. A Napoli stesso le manifestazioni sono nello stesso spirito. Non s’insorge perché, replico, non si può.

E dico di più che sovvertendo il regno delle Due Sicilie Vittorio Emanuele può ottenere dei vantaggi effettivi. Un Congresso può dargli nuove provincie, ma potrebbe anche non dargliele. Imperocché non sarebbe fuori di probabilità che quando l’Austria vedesse di non poter assolutamente più conservare il Lombardo-Veneto, per non dare del tutto vinta la causa ai suoi avversari dimandasse che quella provincia si costituisse a regno affatto indipendente con un principe qualunque purché non fosse Vittorio Emanuele. Ed in questo forse sarebbe secondata da quasi tutte le potenze: dall’Inghilterra i cui uomini di stato se biasimano l’Austria non sono troppo favorevoli al Piemonte cui rimproverano spirito di ambizione; dalla Prussia e dalla Confederazione germanica per ragioni di equilibrio a non ingrandire il Piemonte; dalla Russia che spererebbe di mettere sul trono del Lombardo-Veneto un figlio del fu Duca di ……………, progetto vagheggiato da lungo tempo in Russia; dalla stessa Francia infine, la quale se vuole umiliare l’Austria non ha visto forse troppo di buon occhio tanta simpatia italiana per Vittorio Emanuele ch’essa non vorrebbe rendere troppo potente; e perché anche quel principe russo come figlio di un Beauharnais è suo procugino. All’incontro se da Napoli si pronunziasse pel Piemonte dopo un’insurrezione trionfata, non apporterebbe soli voti, ma forza armata in appoggio di tali voti; ed a fronte delle eventualità d’incominciare una guerra di distruzione l’Europa accetterebbe l’unità italiana. Io penso che sotto questo punto di vista sarebbe forse più probabile vedere questa Europa assentire all’Unità, anziché cooperare od aderire alla formazione di un nuovo forte Stato nell’Italia settentrionale.

La sola difficoltà che potrebbe opporre il Piemonte è l’intenzione della Francia per sostenere il Papa. Ma, replico, i suoi aiuti a noi dovrebbero essere segreti e non pubblici; e risolute una volta le quistioni a Napoli, lo Stato Romano sarebbe travolto nella fiumana vivificatrice e Napoleone non potrebbe più pretendere che il solo Papa facesse ostacolo a tale vivificazione.

LA SPEDIZIONE DEI MILLE

Parigi, 29 aprile 1860. —..... Io non sono niente contento dell’attuale piega dei nostri affari. Cavour è un grande imbroglione, e sventuratamente la maggioranza sostiene la di lui politica scellerata. Amico mio, è questione d’ingrandimento dinastico e non di ricostituzione nazionale.

P. S. Io avevo già scritto la precedente quando mi è pervenuta la vostra del 25 corr. Per quello che spetta al vostro viaggio, per obbligo di coscienza e d’amico e di cittadino che ama l’Italia quanto voi e quanto ogni altro e che son pronto a far qualunque sacrificio, debbo dirvi che non vi sarà alcun uomo di senso retto che possa approvarlo, salvo che voi non ¡sbarchiate nel Regno di Napoli ed in Sicilia con un corpo almeno di 5 o 6 mila uomini e con 20 mila fucili con munizioni corrispondenti. Se vi arrivate con una mano di generosi, composta di qualche centinaio, voi, ricordatevi bene di quanto vi dico, non solo non farete ora Italia, ma ripeterete la terza edizione del caso dei Bandiera e di Pisacane, ed allora non solo nessuno benedirà la vostra memoria, ma vi daranno del matto. Non vi illudete sul movimento di Sicilia. Voi stesso alla detta vostra del 25 convenite che le notizie sono sempre incerte. È questa la prova più limpida ed irrefragabile della nullità dell’agitazione. Se avesse avuto mezzo di consoli delle Potenze straniere che tutto riferiscono ai loro governi si sarebbe saputo qualche cosa di positivo. La mancanza di nuove esatte, l’incertezza insomma è prova che tutto è fallito o vicino a fallire. Il nome e la presenza di G. non farà nulla se voi non sarete accompagnati almeno da 5 o 6 mila uomini e provveduti abbondantemente di armi. Se sarete pochi a mostrarvi sur un punto qualunque, i pochissimi buoni, non incoraggiati, anzi spaventati dal vostro piccolo numero se non avendo essi stessi armi, non oseranno pronunziarsi per voi e rimarranno spettatori passivi. La maggioranza composta di tristi, profittando del vostro piccolo numero, vedendo in voi una preda facile ed una bella occasione di farsi merito col governo, vi daranno addosso. Il vostro disegno è imprudente e rovinoso per l’Italia. Io ve lo sconsiglio con tutte le mie forze, almeno, ripeto sempre, che non sia eseguito da forte corpo di armati. Spero che questa mia lettera vi arrivi in tempo per farvi cambiare risoluzioni.

Rileggendo la vostra lettera dei 25 corrente sempre più mi confermo nella mia idea, e non si comprende come voi, uomo di senno, non vediate la stranezza del divisamento. Come il vostro messo reduce da Napoli dice che è impossibile qualunque iniziativa nelle provincie continentali, voi vi arrischiate a dare l’impulso forse con qualche centinaio di genovesi? Credete cosa facile questa? Per amore della vostra riputazione che è sempre cosa dolorosa perdere dopo tanti sacrifizi, badate a quel che fate. Non vi lasciate illudere né trascinare da chi non calcola l’importanza dell’impresa. Se non avete almeno con voi 5 o 6 mila uomini e 20 mila fucili voi andrete a morte sicura e nessuno vi compatirà.

IVANO RAULICH

NOTE

(1) SETTEMBRINI, Ricordanze, I c 8.

(2)Il breve scritto s’intitola: La rivoluzione del 1848 nelle Calabrie, e fu preparato a Parigi nel 1859. È pubblicato da SAVERIO MUSOLINO presso il Morano di Napoli, 1903.

(3) Biblioteca Naz. V. E. di Roma: fondo Risorg., 83-15.

(4)Settembrini I, c.

(5)... Poi lasci supporre che la fazione di Sapri sia stata suggerita da Mazzini, mentre anche cosa notoria che non solamente Mazzini la sconsigli aspramente, ma che fu Pisacane che volle eseguirla ad ogni costo, ed in quelloccasione la ruppe con Mazzini. Bibl. Naz. V. E. di Roma, fondo Risorga 83-45; Roma, 20 luglio 1873.

(6) Biblioteca Naz. V. E. di Roma; fondo Risorg., 83-23; 16 luglio 1859.

(7)Biblioteca Naz. V. E. di Roma, fondo Risorg., 83-12, 13. 14, 1, 21, 22, 24.




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Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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