Eleaml - Nuovi Eleatici

Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

GIOVANNI NICOTERA ED I FATTI DI SAPRI

PER F. PALLESCHI ATTORE E TESTIMONE NEI FATTI STESSI

E NEL CONSEGUENTE PROCEDIMENTO PENALE

RISPOSTA ALLE PUBBLICAZIONI DELLA GAZZETTA D’ITALIA

FIRENZE

TIPOGRAFIA FIORETTI

1876

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

A CARLO PANCRAZI

_______________

Nella mia qualità di meridionale e di attore e testimone nei fatti di Sapri e nel conseguente procedimento penale, rispondo ai vostri scritti contenuti nella gazzetta di cui siete direttore e proprietario. ,

Innanzi tutto però mi è d’uopo dichiarare, onde a voi non resti dubbio alcuno, di non conoscervi che per sola fama, e di non conoscere neppure il Barone Nicotera; conoscere però minuziosamente tutti i fatti che illustrano la vita ed il nome dell’insigne patriotta da voi sì codardemente calunniato. E valga questa mia franca manifestazione a persuadervi che nessuna influenza mi spinse a rispondervi, tranne il desiderio di entrare in partita per dir di voi come dei Barone Nicotera quel tanto che in coscienza mi è noto, e che forma oggetto di miei speciali ed accurati appunti, tratti da quei fatti, nei quali io et)bi una certa ingerenza diretta.

Meridionale, come già vi dissi, io sono seriamente preoccupato per la scelta che dovrò fare nella maniera di trattarvi. Nel caso presente la usanza nostra, quella spagnola, che esclude i preamboli ed i sottintesi non gioverebbe affatto: voi il sapete, il guanta non si dà mai a disonorata persona; e la mano di onesto cittadino non deve prestarsi per ferire chi ha fama di vile e di fellone.

Tal voi siete, ma non della specie che natura condannò

per sua volontà assoluta: voi siete vile di doppio carato; inquantochè, ognun che appena conosca i vostri precedenti, sa, e non mette in dubbio, il turpe significato del vostro preannunzio circa la pubblicazione dei cenni biografici relativi al Barone Nicotera. L’ammanco in vostra cassa è forte, e per di più è continuo e crescente: qualche migliaio di franchi, anche se pervenuto da ignota mano, non avrebbe pò poi così tanto sconcertata la vostra mente; e la dimane, lo spazio destinato per la pubblicazione dell’autobiografia, voi lo avreste invece impiegato con sensibile compiacenza a narrar della festa dei morti e dei cimiteri di Firenze.

Senonchè però nella pania ci cascaste voi stesso; quantunque l'acuto dolore per il non realizzato guadagno vi avesse affidato al partito (estremo partito, invero!) di ritardare di un giorno la pubblicazione, per cullarvi così nella speranza per altre ventiquattr’ore.

Quella del 31 ottobre al 1° novembre, signor Pancrazi, dovette essere per voi angosciosa e funestissima notte. Sfumati in un sogno gli avidi desideri e le vane lusinghe, voi vi trovaste nella dura condizione di dover attendere alle fatte promesse; e siccome l’assunto impegno aveva parvenza piuttosto seria, ne derivò, per natural conseguenza, la necessità di pubblicare assolutamente qualche cosa. Combinaste così un libello, che a voi sembrò tanto più

opportuno quanto maggiore ed intenso un occulto rimorso vi faceva rimpiangere l'esito nullo di un tiro così maestrevolmente condotto.

Non vi conosco, già il dissi: ma di vostra pregiudicata fama io seppi sempre due tanti di più, senza volerlo.

Voi vendeste costantemente la vostra penna a quel partito che alla patria procurò sciagure e dolori immensi; né un sentimento di pudore vi trattenne alcuna volta dalle smodate pretese: — «grande è il mio giornale, grosso dev‘essere perciò il boccone» — così interpretaste mai sempre le prerogative di pubblicista. E quel partito stesso che per sedici anni inneggiò alla corruzione ed alla disonestà, non esitò gran fatto per ammettervi nella privilegiata famiglia dei sussidiati «per convenienza» assegnandovi eziandio nella famiglia stessa un posto distintissimo.

Avvenne da ciò, che in breve tempo voi costituiste un ingente patrimonio; e, caso stranissimo! lo costituiste appunto quando la storia della nostra stampa periodica e contemporanea, segnava illusioni o decadenza.

Né qui è tutto:

Avviato così nello sdrucciolo, dove gli scrittori da bordello soglion far capolino, voi v’insinuaste ancora, tanto per ottenere novelli favori, dai quali dovevano derivarvi altri e non indifferenti guadagni. Chiedeste perciò di poter provvedere alle pubbliche amministrazioni dello Stato stampati ed oggetti affini; chiedeste concessioni speciali nelle relative tariffe, e chiedeste anche riguardi particolari nei conseguenti concorsi alle pubbliche aste.

E la Consorteria, che largheggiò sempre di favori verso i suoi affiliati, tutto vi concesse. Anzi, talvolta vi usò preferenza estimabilissima ammettendovi a private trattative, e spesso, passò sopra anche a questa formalità, a marcio dispetto del prescritto dalla Legge e relativo Regolamento di Contabilità generale dello Stato.

Il vostro patrimonio crebbe perciò in breve a dismisura; e da vostra parte, riteneste come fatto indiscutibile e come diritto invariabile, il poter attingere alla pubblica finanza nei modi e nella quantità che meglio vi fosse sembrato.

Non vi conosco, il ripeto: ma tutto ciò che dissi è storia, perchè ugualmente io la trovai mai sempre ripetuta in pubblico ed in privato, a Firenze come a Milano, a Torino come a Roma. E, se mal non mi guida la mente, non è gran tempo che voi la confermaste in parte, (forse astretto dagli incessanti attacchi del giornalismo di ogni colore) nei considerandi compresi in un certo articolo destinato a furbemente mistificare i lettori (i lettori idioti) del vostro giornale, in sul proposito di un assegno mensile di L. 6000, che si disse percepito sin qui da voi a titolo di mercede per i servigi (sic) resi dal vostro giornale alla patria.

Ed in siffatta guisa la magagna, signor Pancrazi, lunga e piacevole, vi trasse certamente a calcoli sublimi; inquantochè, a dir vero, foste unico nel campo dei volgari malviventi a risolvere l'astruso problema di saper accumulare oro su oro, senza incomodar mai né la questura né la carcere.

Venne però il 18 Marzo; e voi, da prudente, avreste dovuto segnar la vostra fine. Ma ciò non vi garbò punto, e pensaste invece di barcamenarvi.

Mi spiegherò meglio:

Coperto il viso da uno strato di fango e da obbrobriosa ignominia, voi osaste perfino tentare di trovar maniera onde servire alla meglio anche i nuovi venuti al governo. (Vedi Gazzetta d’Italia e suo contegno dopo risoluta la crisi del 18 Marzo). E pur di non rinunziare ai disonesti guadagni a, cui indegna cupidigia vi aveva per sì lungo tempo strettamente abituato, voi avreste chissà mai quante volte giurato il sacrifizio non solo della vostra penna, ma eziandio quello della donna del vostro cuore.

Ma anche in cotal tentativo, impropizia la sorte, non vi arrise nemmanco. Quel ragionar del vostro giornale fra il melato ed il dispettoso, valse soltanto a procurarvi un esito completamente opposto alle vostre speranze. L’opera ed il concorso di un fellone, fu valutato tal quale come giustizia ed onore richiedeva: voi foste sdegnosamente respinto dal, consorzio delle persone oneste.

Nè la repulsa ebbe carattere partigiano; giacché la istessa stampa periodica, quella onesta, seria, rispettata, che milita nel campo politico cui si dice (così per ridere) militar voi col vostro giornale, non volle, specialmente dall’epoca dell'ultima crisi — 18 Marzo —, condividere responsabilità alcuna della condotta vostra incomprensibile ed equivoca sempre. Quindi in breve volgere di tempo voi vi vedeste irremissibilmente abbandonato e condannato ad un triste e penoso isolamento.

Una condotta prudente da vostra parte avrebbe potuto an cora in certa guisa procurarvi se non la riabilitazione, certo l’oblio. Ma così non fu, perchè natura, vostra matrigna inesorabile, vi creò scarsissimo anche di comune discernimento.

Voi che scioglieste nella Gazzetta d’Italia per ben sedici anni i più bei inni di gloria ai santi del consortesco partito, perdeste i lumi in un momento; e da vero politicante in cinquantesimo, non appena vi vedeste colpito da iattura siffatta, pensaste bene di affidarvi al libello.

Ma la pubblica opinione non rinunzia così facilmente alle proprie prerogative; ciò doveva preoccuparvi alquanto. Toccar Giovanni Nicotera, l’ardito e generoso patriotta, il profugo del 1848 da Napoli, 1’indomito cospiratore, il condannato a morte dai tribunali del Borbone, il validissimo difensore della nostra unità nazionale, ripeto, ciò doveva seriamente preoccuparvi. Inquantochè, il tentativo di poter giungere, con falsi commenti ed arrischiatissime considerazioni, a crear sospetti sulla integrità del carattere di un tanto emerito cittadino, ciò doveva farvi temere non solo una condegna pena dai competenti tribunali, ma eziandio la universale riprovazione al vostro maligno e insidioso procedere.

Ed invero, se il Barone Nicotera avesse potuto desiderare un pubblico attestato di alta benemerenza, egli ora dovrebbe andare obbligatissimo a voi ed al vostro istesso giornale.

Rarissime volte il sentimento pubblico si manifestò siffattamente compreso da uguale indignazione. E se per manifesto disegno, le vostre basse accuse dovevano contribuire ad originar possibili turbamenti nelle politiche elezioni testé compiute, giammai a vostro riguardo i fasti della nostra vita politica potrebbero registrare un più solenne verdetto, verdetto che incarna il giudizio savio, calmo e sereno, della parte eletta fra i cittadini tutti dello Stato.

La dimostrazione di grande stima a cui è fatto segno il Barone Nicotera, ormai può dirsi, è dimostrazione nazionale; e Salerno, la patriottica Salerno, la città testimone delle eroiche gesta dei due arditi capitani, Nicotera e Pisacane, riconfermando al prefato Barone alla unanimità assoluta il mandato di rappresentante politico di quel collegio, ha inteso benanche di recarvi sfregio mortale, di colpirvi sul viso come colpir si potrebbe un volgar ladruncolo da mercato.

Ed ora, prima di por mano a commentare i vostri stessi commenti, m’è d’uopo di dir due parole sia sulla versione di Guerrazzi nel romanzo «il Secolo che muore, » là dove forma oggetto la condotta di Giovanni Nicotera nella campagna del 1866, periodo che io vidi trascritto nella vostra gazzetta; sia sulla lettera di Giovanni Nicotera al Barone Ricasoli in data 14 settembre 1860, pur essa riportata dal vostro giornale. Ed il farò veramente con animo compreso da un sentimento di cordoglio a vostro riguardo, non tanto per la scelta infelice che feste, quanto perchè dal 3 novembre il pubblico attende ansioso da voi manifestazioni di maggior rilievo. Dulcis in fundo, signor Pancrazi; voi condiste invece il vostro svergognato libello con melensaggini di nessun sapore, con salsa putrida, rifatta, stravecchia.

Dirò dunque, in sul riguardo di ciò che Guerrazzi scrisse nel suo ultimo romanzo, che non vi è italiano il quale non sappia con quanta facilità Guerrazzi stesso cadesse nelle inimicizie, negli odii e nei rancori.

L’alto e profondo suo ingegno, la elevatissima sua mente, quei culto incarnato in lui di amar disperatamente la patria sua, spesso, queste prerogative, delle quali egli andò sempre fieramente superbo, lo indussero nel grave errore di attribuire, in tutti i gloriosi periodi di sua vita, una certa infallibilità ai suoi atti ed ai suoi giudizi, ai suoi scritti come alla sua parola. Infallibilità naturalmente incompresa e non accetta dai più, giacché (m’è duro il dirlo) così scriveva il Boncompagni il 6 maggio 1859 indirettamente a Guerrazzi, a nome del governo provvisorio della Toscana:

«Il decreto del governo provvisorio apre le porte della Toscana a tutti gli esuli: ma se il Guerrazzi vorrà dare prova di amore patrio, non rientrerà per ora. La sua presenza sarebbe facilmente occasione di discordia fra quelli che furono suoi aderenti, e quelli che furono suoi avversari. In tempi regolari queste discussioni non sarebbero pericolose come sarebbero ora, che tutti gli animi debbono unirsi in un pensiero solo.

Dunque Guerrazzi ebbe tendenza facilissima per crearsi inimicizie; quindi nessun serio significato 'può avere il suo asserto contro il Barone Nicotera. Anzi, dirò di più, che se si volesse tener conto di tutto quello che di disdicevole il Guerrazzi scrisse e pubblicò a carico di quante furono le persone alle quali vennero conferite alte missioni, specialmente nei primordi della nostra nazionale unità, un volume non basterebbe all’uopo; beninteso però, che il suo contenuto per quattro quinti apparterrebbe non ad altri che a quel medesimo partito a cui voi vendeste stima ed onore.

Ed a riconferma di quanto ho detto, io mando voi stesso e quei pochi dubbiosi miei lettori, se pur ve ne saranno dei dubbiosi, a consultar quel che scrisse su tal proposito quell’anima candida di Carlo Pigli, governatore di Livorno nel 1818-49, in risposta all'apologia di F. D. Guerrazzi; e son certo che chi svolgerà le pagine scritte dai Pigli non avrà d’ uopo di altre spiegazioni.

I Garibaldini, e con essi il Barone Nicotera, ben meritarono della patria anche nel 1866; e se vi furono errori in quella malaugurata ma pur gloriosa campagna, convien ricercarli altrove piuttosto che nel campo dei volontari.

Quanto poi alla lettera di Giovanni Nicotera al Barone Ricasoli in data 14 settembre 1860, io debbo francamente dichiarare qualmente letta e riletta quella lettera per più volte, ho dovuto convenire che essa onora sempre più lo stesso Barone che la scrisse. La sua franchezza, quello stile chiaro e spogliato da ogni preambolo, rivelano una volta ancora la tempra ardita del fiero calabrese, il quale, avuto riguardo che scriveva in momenti veramente supremi e per cose di altissima importanza, non avrebbe potuto altrimenti esprimere i suoi giusti risentimenti.

Non intendo però di venire con considerazioni inopportune a discernere se convenga o meno ai due Baroni di coltivar sentimenti reciproci di stima e di amicizia: ma intendo invece di farvi notare che voi cadeste in un marchiano errore supponendo che la pubblicazione di siffatta lettera avesse potuto far rivivere nell’animo nobilissimo del Barone Ricasoli un briciolo di qualche antico rancore verso il Barone Nicotera. Ciò si schiama, a parer mio, misurare altrui coi proprio metro, Signor Pancrazi, ed il Barone Ricasoli, credetemi, non si sarà certo dichiarato soddisfatto della vostra postuma pubblicazione.

Del resto, come dianzi vi rimandai agli scritti del Pigli, così ora son costretto di rimandarvi a riscontrare i più recenti fatti della nostra storia contemporanea; dai quali voi apprenderete che Gioberti fu nemico di Rattazzi, di Gualterio, di Dabormida e di tanti altri: che Cavour ebbe nemici a josa; che La Marmora ebbe rancori con Cialdini e con molti ancora; alcuni illustri Generali napolitani ritennero a giusto titolo quali loro nemici i membri della militar consorteria piemontese; l’ammiragliato della nostra marina è composto di rivali implacabili: ma ebbene, che ciò? La patria nei momenti di grande cimento trovò sempre ciascuno al proprio posto, e le ire partigiane se non calmate del tutto, represse di certo.

E qui vorrei dar termine a questo mio indirizzo, se non mel vietasse un obbligo a cui è mestieri io sottoponga la mia volontà già stanca di ragionar in sì sdegnosa maniera. Dirò dunque che dove la vostra penna, non saprei se più codardemente o goffamente maneggiata, insozzò terribilmente gli scritti vostri, si fu quando al venerato nome di Giovanni Nicotera voi osaste associare quello di Luciani, di Frezza, di Armati ed altri. Convengo, ormai non si discute altrimenti della vergogna che vi circonda per trovar cosa naturale in voi quei lezzo che è l’espressione vivissima di una lotta dh sperata che nei segreti dell’anima vostra coinvolge un mal sentito residuo di pudore, solo, contro mille vergogne.

Ma la pubblica opinione non usa di far dipendere i suoi verdetti da considerazioni pietose: voi foste perciò da essa irremissibilmente condannato.

F. PALLESCHI.

Rivelazioni attribuite al Barone Nicotera

===========================================


Ed ora veniamo agl’interrogatori ed alle rivelazioni attribuite al Barone Nicotera relativamente ai fatti di Sapri.

Il 2 di luglio 1857, egli, in primo esame, rispondeva al giudice del circondario di Sanza nei termini seguenti:

(Si omettono le formalità di uso).

«Che per affari politici del 1848 emigrò dalla sua patria rifugiandosi in Torino, quindi passò in Genova dove nel giorno 25 dello scorso giugno s’imbarcò con vari altri di Genova istessa recandosi in questo regno onde promuovere una rivoluzione per liberare la sua patria dalla tirannia.

«Dimandato chi erano i compagni di lui con i quali si partì da Genova, ha risposto: conoscere il solo Pisacane, ignorando il nome degli altri.

«Dimandato chi abbia noleggiato il legno, dove e a chi apparteneva ha risposto: di non conoscerlo, ma è certo che per mezzo di un legno a vapore si recarono in questi luoghi a fare la rivoluzione.

«Dimandato chi gli ha somministrato le armi e munizioni, ha risposto: che rinvennero tutto sul vapore e se le presero — Altro non conosce. —

«Dimandato se il signor Pisacane era in loro compagnia, e dove si trova attualmente, ha risposto: di essere giunti uniti in questo comune, e ora dicesi di essere stato ucciso.

«Lettura data, ha detto non potere sottoscrivere perchè ferito alla mano. —

«Firmati — Pietro Rinaldi — Giovanni Pastore, Cancelliere Sostituto.»

Ed il 3 dello stesso mese dichiarava per iscritto quanto segue:

«Dietro replicate istanze di un ufficiale de' cacciatori la scio la presente dichiarazione, che potrà giustificare il vero mio modo di pensare.

«Cospirazioni di gran rilievo sono preparate da altri residenti in Francia ma che per mia delicatezza non posso or ora disvelare, epperò siccome a tale cospirazione io sono avverso ed anzi l’odio e vorrei combatterla, non voglio prima che fossi giudicato rivelarla per evitare che si possa immaginare che per interesse proprio e per esentarmi da una condanna agissi in tal modo. Dichiaro che la vera mia intenzione nello svelare la cospirazione in discorso è quella di liberare la mia patria da una bruttura chè potrebbe rimanere di eterno obbrobrio. Parlerò

quindi a suo tempo, non per ismentire la mia opinione, non per discaricare le mie gesta, ma solo per non volere addivenire ad un concertato che nel mio animo si reputa di orrore e di viltà.

«In fede di quanto espongo il giornale addimandato il Diritto in Piemonte potrà giustificare quanto asserisco, giacché l’anno scorso in esso fu foggiata una mia dichiarazione contro tal cospirazione, che poscia per mandarla a vuoto ho dato il passo recarmi nel Regno di Napoli per promuovere una rivolta, e sventare le mene della cospirazione di cui sopra ho fatto cenno, e nel tempo stesso ottenere il trionfo delle mie opinioni.

«Buonabitacolo 3 luglio 1857 — firmato — Giovanni Nicotera.»,

Il 9 di luglio ripetuto, ebbe luogo in Salerno innanzi al Procuratore Generale di quel Tribunale Speciale, il seguente, interrogatorio:

«L’anno 1857 il giorno 9 luglio in Salerno.

«Noi Francesco Pacifico Pacifico Procuratore generale del Re presso la Corte Criminale della provincia del Principato Citeriore, e primo agente della Polizia giudiziaria, assistiti dal Vice-segretario D. Michele Orienzi.

«Abbiamo fatto tradurre innanzi a noi D. Giovanni Nicotera, che è uno de’ capi rivoltosi degli avvenimenti consumati in Ponza, in Sapri e altri paesi di questa provincia.

«Alla dimanda d’indicare le sue qualità personali.

«Ha risposto — Mi chiamo Giovanni Nicotera figlio di Felice, di anni 29, nato in S. Biase, provincia di Catanzaro, dimorante quando era nel regno in Nicastro e S. Biase, studente di avvocheria nell’anno 1848, ma da quell’epoca ho abbandonato gli studi.

«Richiesto a dirci come sia avvenuto che egli trovavasi fuori questo reame, e a dimostrarci quali si erano le sue relazioni fuori del Regno, con quali persone ebbe contatto e come si sia determinato a qui venire. .

«Ha risposto — Capo della Guardia Nazionale dj S. Biase, nominato dall’Intendente Barone Marsico, partii pe’ campi di Filadelfia col grado di capitano, e presi parte in quel conflitto — Sbandate le masse, mi portai in Tirioli e di là per la Sila giunsi a Botricella che sta sulla marina fra Catanzaro e Cotrone, ove m’imbarcai con Ricciardi, Rocco, Satrana, Eugenio De Riso, Luigi Miceli, Luigi Caruso, Peppino Sarda, Stanislao Lupinacci, Basilio Mele, Paolo Vacatello, Pasquale e Benedetto Masolino, Salvatore Lamacchia, Domenico Mauro e Nicola Lepiane — Ciò fu attuato su di una piccola barca, la quale arrivata nelle vicinanze di Cotrone ci trasbordò su due trabacoli molfettesi: presimo la volta di Corfù, dove fummo provveduti di passaporti inglesi e venne posto a nostra disposizione un vapore inglese, che pagammo 120 talleri, ci trasportò in Ancona. Di là andammo a Roma, ove presimo parte a quelle rivolture. Io vi serviva in qualità di uffiziale nel reggimento Monaco: fui ferito.

«Nel finir di dicembre 1849 andai a Torino, e di là a Genova ed a Nizza, ove portavami allo spesso. 11 mio domicilio però fu fissato a l’orino. Ivi sono Lepiane, i fratelli Plutino e Giovannandrea Nesci.

«Non ho fatto mai parte di alcuna setta, ma partecipai delle idee del partito Nazionale. Romeo va e viene da Francia e Piemonte, Mosciaro è in Inghilterra. Ritengo che sètte non ve ne siano, perchè ignoro perfettamente come possano essere organizzati nel regno. Comitati ve ne sono (specialmente murattisti) in tutte le province, e corrispondenti ne’ comuni. Sono però a mia notizia tutti i particolari della spedizione, perchè ne’ primi giorni di maggio venne in mia casa a l'orino ad invitarmi per la spedizione Pisacane, rendendomi certo della riuscita, e mi fece mostra all’uopo di lettere del Comitato Napoletano, e con questa sicurezza mossi di là, come verrò in appresso a raccontare.

«Avendogli messo in mostra le carte assicurate per indicare a chi si appartenevano, e quali schiarimenti potesse fornirci.

«Ha detto. Il portafoglio al N° 5 si apparteneva a Pisacane: esso però si conteneva in altra coverta di pelle color scuro cannella, che si spiegava, e conteneva altre carte; che la lettera al N° 8 anche mi venne mostrata, e mi diedi occasione a decidere di non andare a S. Stefano, perchè di difficile riuscita l’impresa e di poco risultato; che il proclama incendiario al N(e) 10 fu stampato-in Genova, e fu mandato in Napoli qualche mese prima dell’avvenimento, fu l’opera dello stesso Pisacane: che il documento al N° 11 lo ebbe da Napoli; che nel foglio N° 12 si contiene il progetto ed il programma di quello che dovea farsi e fu mandato al Comitato di Napoli; che la lettera al N° 13 era lettera scritta dallo stesso Comitato, ma con cifre che non si possano interpetrare altrimenti, se non avendo sott'occhio una copia del libro a riscontro, di cui uno era presso lo stesso Pisacane, e l’altro presso il Presidente del Comitato di Napoli. Né gli abecedarii numerici sono bastevoli per riuscire alla spiegazione delle cifre che vi si contengono. Il documento al N’ 14 contiene progetti e nozioni — Il documento al N° 18 fu mandato dal Comitato di Napoli, e contiene lo stato della forza del partito, e degli ostacoli che conveniva superare. Mi aveva saputo da Pisacane che vi erano oltre i comitati, arrolatori e lavoratori. Questi s’incaricavano della preparazione e direzione; quelli aveano cura di far proseliti. La lettera al N° 17 veniva scritta da Marsiglia, ma non potrei su di essa fornire spiegazione alcuna.

«Richiesto a fare narrazione di circostanze.

«Ha ripetuto — Tre partiti vi sono attualmente che agitano l'Italia, cioè il Nazionale, cui appartengo, il Murattista ed il Piemontese — Il primo ha molti affiliati; il secondo nel Regno, e specialmente in Napoli, è imponente sì per numero che per qualità di soggetti che ne fan parte, marcandosi sopratutto la capitale, dove molti della nobiltà e de’ ricchi possidenti vi sono ascritti; il terzo infine è debole e conseguentemente dispregevole. Alla testa del partito Nazionale vi stava Pisacane, il quale era in continua relazione col Comitato Nazionale Napoletano, che promettendo mari e monti credeva dal principio alla rivoluzione, mi venne sollecitato nel fine di prevenire la riforma murattista.

«Infatti Pisacane, di conserva agli altri capi, seppe che ne’ principi del decorso maggio un congresso murattista, presieduto da Saliceti, riuni vasi in Parigi per determinare ciò che conveniva praticare onde mettere sul trono delle due Sicilie Luciano Murat. Esso invero risolveva di eseguire tre sbarchi nelle spiagge di questo reame, con altrettante legioni franco-polacche, numerose almeno di mille uomini ciascheduno, con tre mila fucili, e forti somme di danaro — Ed ove queste legioni fossero vinte dalle Regie truppe, v’interverrebbe subito il Governo Francese per violato onore nazionale? Le tre spedizioni progettate, una delle quali capitanata dal figlio del pretendente, chiamato Giovacchino, dovrebbero eseguire lo sbarco in un punto della provincia di Salerno, in Calabria ed in Puglia. — il quale progetto forse ritarderà ancora per qualche poco a realizzarsi, a causa della nostra sconfitta, ma devesi esser sicuro che sarà attuato.

«È a sapersi inoltre che fra componenti del su enunciato congresso murattista, un tal Sirtori, veneziano, il quale si oppose a tutt’uomo alle tendenze murattiane, ma inutilmente, stantechè con gran maggioranza si pronunziò a favore dei pretendente, fu dal Governo Francese rinchiuso nel Manicomio di Parigi, donde venne liberato ad istanza di Girolamo Ulloa, e di altri napoletani, che minacciarono il detto Governo di pubblicare per le stampe la cagione che aveva dato luogo a siffatta misura.

«Pisacane e gli altri del partito nazionale appena vennero in conoscenza delle summentovate cose, si determinarono di affrettare la rivoluzione, la quale dovea cominciar tanto a Napoli che nelle provincie il giorno 13 giugno; ma non fu agevole attuarsi, perchè un battello genovese con cento fucili venne obbligato da fiera burrasca a rientrare nel porto, e gettare le armi a mare per locchè fu fissata la rivolta pel giorno 29 detto mese.

«Dietro tale accaduto Pisacane prese la risoluzione di continuare il viaggio per Napoli con passaporto sotto altro nome, e di fatti vi giungeva il giorno 13 giugno su di un legno postale francese — Ivi trovò il partito murattista in gran maggioranza, e perciò messosi eli accordo col Comitato nazionale, che gli promise l’intiero suo appoggio, si determinò di prevenire la rivolta Murattista, vieppiù perchè questo partito credea facile il trionfo pel gran numero de’ suoi affiliati.

«Ritornato il Pisacane in Genova il 20 o 21 del ripetuto mese, dette opera a trovar danaro per via di soscrizioni, col fermo proponimento di provvedersi di bel nuovo di armi e muovere per Sapri il giorno 25. Infatti si acquistarono altri cento fucili, e c'imbarcammo di unita a venti Romagnoli su di un battello genovese, il quale doveva raggiungere il vapore a trenta miglia da Genova — Ma per fatalità questo non rinvenne quello, per cui tenendosi consiglio fra i capi si deliberò assalire il capitano e la ciurma, e impossessarsi delle armi, nonché della munizione ch'erano sul legno: dietro di che si chiese al Comandante dello stesso lo stato delle mercanzie imbarcate, per vedere se e quante armi vi erano, ben conoscendosi che i vapori postali soleano portarne in Tunisi.

«In realtà si rinvennero sette casse, delle quali tre con settantacinque due colpi, altrettante con sessanta tromboni, contenente canne smontate, che furon lasciate sul vapore.

«Dopo ciò praticato, venne presa la risoluzione di sbarcare per sorpresa in Ponza, di fermare la poca guarnigione, impadronirsi delle sue armi, prendere seco quanti relegati e soldati della compagnia di punizione più si potesse e muovere verso Sapri. Riuscito felicemente questo tentativo, ed impadronitosi Pisacane e i suoi compagni di circa settanta fucili militari si diressero a Sapri, dopo però aver perduto sessantatré due botte, e circa trenta tromboni, che rimasero in mano di que’ fra i relegati di Ponza, i quali non vollero imbarcarsi.

«Discesi in Sapri nella notte del 28 al 29 non vi rinvenirammo la forza armata di mille a duemila compromessi, come il Comitato napoletano avea fatto crederle a Pisacane. Pur tuttavia i rivoltosi, dopo aver chiesto notizie del Barone Gallotta, e che peraltro non si fece mica vedere, mossero verso il fortino, col disegno di prendere la volta di Potenza, ch'era stata destinata come punto centrale della rivoluzione. Ed in realtà cade a proposito soggiungere, che ivi doveano riunirsi gli affiliati di tutti i punti, per guisa da concentrarvisi trentamila uomini, e marciare sulla capitale dove sebbene il partito nazionale sia poco esteso, ma audace, aveasi in mira d’impadronirsi per sorpresa di S. Elmo e Castelnuovo mentre contemporaneamente i rivoltosi di Genova covavano il progetto di rendersi padroni de’ forti, delle armi e dell’arsenale, inviando armi e gente armata nel nostro reame per appoggiarvi il movimento. Il che costituiva una naturale illazione delle premesse, giacche essendo generale la cospirazione negli Stati Italiani, dovea la rivolta scoppiare nel medesimo tempo in Roma, Firenze e altri punti, meno la Lombardia, le Calabrie e gli Abbruzzi, tra cui non erano state ancora rannodate le opportune corrispondenze. Ed invero il Comitato napoletano avea già commesso a Pisacane di mandar corrieri nelle Calabrie e stabilire nesso di relazioni con quelle contrade per poter così, fra l'altro, ripiegare colà in caso di rovescio? Pisacane ed i suoi seguaci nella sicurezza di trovare simpatie ne’ paesi che doveano percorrere, giunsero in Torraca, ove furono incontrati da due Padulesi, i cui nomi sono da me ignorati. Uno di essi aveva alta taglia, capelli castagni, pochi peli sul viso e circa anni 28. L’altro di bassa statura, con capelli e pochi peli su la faccia anche. castagni, e forse contava 32 anni. Entrambi costoro invitarono Pisacane ed i suoi di recarsi in Padula, dove cinque o sei cento armati si sarebbero a loro riuniti. Mostrandosi inchinevoli allo invito, mossimo per quella volta, spintivi ancora dal bisogno di provvederci di viveri, di che assolutamente difettavamo. Ivi pernottammo in una casa, che giace verso la parte superiore del paese, e precisamente nel luogo detto la Piazzetta, in cui abitava una signora cognominata Romano con una figlia morente. Io però e gli altri capi, durante la breve dimora fattavi, dormimmo in una stalla sottostante, e con paglia a terra. Appena giunti in Padula ci accorgessimo dello inganno in cui eravamo caduti, poiché non vi rinvenimmo appoggio alcuno: che anzi quattro o cinque paesani ci consigliarono di partirne subito perchè in Sala era riunita una forza imponente. Solo i due preaccennati giovani che erano del loro partito vi si mostrarono anche però consigliandoci no’ medesimi sensi. Fu allora che volendo profittare del suggerimento facemmo premura al Sindaco per la consegna dei viveri, ma non facemmo a tempo di svignarcela, poiché la forza, che ci avea circondati fin dalle nove e mezza del mattino, incominciò a combatterci, mentre dipoi la intera popolazione, la quale sparando e gittando per le finestre pietre e ciò che meglio le veniva fra le mani, cooperava efficacemente a scacciarci alla fine del conflitto, che fu lungo e ostinato, poiché par circa due ore e mezza in tre le guardie urbane con i gendarmi si battevano con noi a qualche distanza, ma giunti presso le dodici i Cacciatori e impegnata l’azione con la solita loro bravura dopo mezz’ora di resistenza, fummo obbligati ad una precipitosa ritirata, che avremmo voluto eseguire verso il Vallo, non per alcuna preesistente intelligenza con quelle contrade, ma per la speranza di trovarvi simpatie, e persone che ci avessero nascosti, o procurato un imbarco, meravigliati altamente della generale resistenza sperimentata in Padula, che anzi non le taccio che il secondo dei due padulesi, quantunque prima del combattimento ci avesse accompagnati per mezz’ora, onde indicarci una posizione sopra Padula, di dove ci fosse stato agevole vedere Sala, e da quale punto essendo facile venire assaliti dagli Urbani e dalla poca Gendarmeria, ci rendea agevole neil’occorrenza di piegare verso Basilicata, pur tuttavolta quando si giunse vicino l’abitato, ci abbandonò, manifestando non volersi compromettere prima dell’esito del conflitto.

«Relativamente però al conflitto del 1° luglio non debbo tacere, che se dopo la disfatta la Gendarmeria a cavallo si fosse trovata sotto Padula, e non già in qualche distanza, i involtosi sarebbero stati nella massima parte fatti prigionieri, senza renderci agevoli, come avvenne, di attraversare la pianura, e guadagnare le montagne di Sanza. Sebbene poi fu in questo comune che noi, giudicando impossibile il prolungamento della resistenza, ci arresimo, inalberando il segnale della bandiera bianca, non potendo mai immaginare che, dopo di esserci resi prigionieri, avremmo dovuto sottostare alla ferocia di uomini armati che si nominavano Guardie Urbane. Fummo non solo derubati di trentamila franchi in oro, di che solamente eravamo padroni, e di cui seimila trovavansi presso Pisacane, quattromila dugento gli aveva io, e poco meno Giambattista Falcone (Cosentino e non Reggino) mentre il rimanente era in potere degli altri compagni, ma financo spogliati, ignudi, e quindi percossi a colpi di scure, di bastoni e di coltelli; e fu cosi che rimasero estinti più di ottanta de’ nostri, fra quali Pisacane e Falcone.

«Ad altre dimande.

«Ha risposto — null’altro conoscere.

«Datagli lettura della presente dichiarazione, l’ha confermata, e si è sottoscritto con noi — Firmati — Giovanni Nicotera — Francesco Pacifico — Michele Orienzi.

Quindi il Barone Nicotera in pubblica udienza avrebbe o nei seguenti termini dichiarato a favore del Barone Ajossa, già Intendente di Salerno:

«Che quando Ajossa era Intendente.nella provincia di Salerno serbò una buona condotta politica, in guisa che stava continuamente in urto col Procuratore Generale di quel tempo il quale voleva opprimere ingiustamente tanto il dichiarante che i compagni liberali di sue sventure; che Aiossa in que’ tempi non serbò una condotta politica peggiore di quella di altri Intendenti che lo seguirono. E che il dichiarante coglie la presente occasione per esternare la gratitudine per la giustizia che gli rese in allora, e tutto ciò a malgrado che lo Ajossa e il dichiarante sieno di ben diverse opinioni politiche.»

A quali dichiarazioni un tal Valletta, coimputato col Barone Nicotera, avrebbe replicato nei termini seguenti:

«Che, rispettando la opinione del signor Nicotera, deve dire per onor del vero che non siavi mai stato un Intendente più assassino del signor Ajossa nell’amministrazione politica e fra le altre crudeltà usò questa di far stare riuniti 225 imputati politici in una sola stanza, ripiena d’insetti, e che, essendosi sviluppata la scabbia, tutti ne furono affetti, molti ebbero l’emotisiti e fra questi esso Valletta dichiarante, parecchi altri ne morirono, ed intanto l’Ajossa pregato da quegli sventurati a volerli dividere e farli cambiare di prigione, vi si negò assolutamente.

«Son vere o no coteste cose? — disse il Valletta rivolgendosi al Nicotera. Questi che era stato detenuto separatamente da’ 225, rispose:

«Di essere vero il fatto de’ 225 detenuti in una stanza, ma di esser vero altresì che allora tutte le prigioni erano zeppe e non vi era alcuna località, e che inoltre que’ detenuti non dipendevano più dall’Intendente, ma dal Procuratore Generale di quella provincia. Ripete il dichiarante che la condotta politica del signor Ajossa fu tanto umana per quanto nessuno degl’imputati politici per l’affare di Sapri fu tratto in arresto per ordine del signor Ajossa. Soggiunge ancora che costui fece un rapporto favorevolissimo in prò de’ fratelli Magnone, i quali erano veramente perseguitati per opinione politica dal Maggiore della Gendarmeria Signor de’ Liguori, e che gl’imputati affetti da scabbia, che erano fra i 225 altri imputati furono messi in disparte dal signor Ajossa.»

Ed a seconda di come vorrebbe far credere la Gazzetta dei Tribunali di Napoli del 16 e 20 gennaio 1858, sembra di aver potuto spiegare, il prenominato Procurator Generale, nel modo seguente, alcuni documenti in cifre rinvenuti negli abiti di Pisacane.

«Amico carissimo — 29 maggio 1857.


S i g a r s
«Il Commesso 95 43 36 8 86 161 à avuto

Polizia
Vapore
una visita 78 sul 108 ed à bruciato quanto aveva,

S p a z z o l a
gli è restata solo la 113 72 6 117 240 188 172 8

col contenuto, ma non l’abbiamo ancora ricevuta. Sono inquietatissimo


A g r e s t i
di questa faccenda 9 36 86 29 97 103 45 mi à risposto

alla mia lettera di principii, che gli pervenne prima, ed alla vostra che accompagnai con ultra mia. Vi trascrivo il brano più interessante della prima, e vi rimetto originalmente la seconda.

O’ avuto finalmente il mezzo di scrivere a

M a t i n a
arresto
56 5 102 14 64 8 che è sempre in 121

mi promette di darmi tutte le istruzioni necessarie


P o n z a
a riprendere l’affare 73 86 64 118 8 che

vi ò altre volte detto, fu da lui proposto, se avrò a tempo queste istruzioni ve le rimetterò.


p i a n o
L’amico del 75 46 9 65 69 vi rimette una letterina che vi

Napoli
accludo, io veggo per 63 meno di ciò che egli vede, ma spero forse

p a e s e
più di lui paese de' bisogni del 76 7 30 97 29 e dal

momento che mi pare sì grave che se non si coglie, dispero per molti anni. Non debbo negarvi però che son convinto che se mi si fosso concesso da principio qualche mese seguito di tempo, ed avrebbe potuto prestarmisi qualche aiuto maggiore da poter intraprendere varie cose,


armi
che avevano d’uopo di tal tempo, come per esempio quella delle 20

e di qualche fatto determinante ecc. ecc., ora avrei potuto dirvi assai più di quello che vi scrive l’amico, e ci avreste potuto contare come cosa più concretata che concertata. Ecco la trascrizione del brano della lettera succennatavi che vi trascrivo


p r u s s i a t o
colla 75 85 105 95 93 44 9 102 63

d o r s o
in 120 69 85 95 188

Isola
«L’ 46 è distante da Ventotene trenta miglia, senz’alcun porto

intermedio, per cui non vi è telegrafo; quest’ultima è distante


Isole
da Ischia anche trenta miglia, di modo che le tre dette 646

formano un triangolo equilatere. Da Ventotene a S. Stefano vi è un canale di mare di un miglio. In Ponza vi sono pochissimi relegati politici, e più centinaia di relegati comuni, soldati di voluta cattiva condotta; in Ventotene vi sono circa una cinquantina di relegati politici; son colà per accedervi una scorridoia della Dogana, ed una della marina armata a guerra di un pezzo. In S. Stefano siamo tra condannati a' ferri ed all’ergastolo trenta, e circa 800 condannati comuni per omicidio. In Ventotene vi è una mezza compagnia della così detta riserva, comandati da un ajutante, ed altrettanti uomini del Reggimento Marina comandati da un ergente, tutti sono sotto gli ordini del Comandante dell'ergastolo. Lo sghizzo che mi chiedete non posso mandarvelo, perché mancante di mezzi per farlo, e perché noi non vediamo che cielo, e Patrio del bagno; siamo come in una gabbia, solo da un piccolo spiraglio vediamo il mare in lontananza = Qui finisce. L’altra ve l’ò acchiusa originalmente per mancanza del tempo.


arresti
truppe
«Qui vi sono moltissimi 121 e 105 Si assicura

da tutti la partenza de' Principi Spagnuoli, e de' Principi Reali, e due vapori sono a ciò pronti.


Cilento
p r o n t i
Gli amici di 127 si dicono 76 88 68 65 104 46

e premurano perché dicono danneggiare col tempo.


Cilento
Napoli
In 18 vi è fermento grande, ed in 63 si

banda armata truppa
esagerano scontri 11 105. Dopo

il penultimo tempo da voi fissato noi abbiamo


Provincia
scritto in 73 lettere che certo àn prodotto

proclama
un certo allarme, e quel vostro 76 non à

dovuto contribuire meno. Non posso, né devo celarvi che sono in un grave dubbio, ed è se dopo


A g r e s t i
la lettera di 8 37 86 129 99 103 45

l u o g o
voi siete fermi per l’epoca, e per il 52 112 68 36 129

o se per intraprendere preparativi su di altro luogo trasportate

l’ e p o c a
51 29 79 69 19 10!!!

Ciò è indispensabile me lo diciate nella risposta che darete à questa. Nella mia posizione e precise nel momento questo dubbio deve produrre un brivido nervoso. Pel resto attenetevi alle ultime precedenti mie. — Addio di cuore. —»

«Segue un foglio manoscritto Condizioni Generali interpretato nelle cifre numeriche, e rivela quali ostacoli bisogna superare, quali aiuti aspettare e da chi.

«Eccolo:

«Condizioni Generali — La provincia di Bari, Lecce, Basilicata e Foggia sono sotto l'ascendente


L i b e r t i n o
di 49 43 9 26 83 39 44 63 65

costui può molto sui buoni ed i ricchi, ed è prigioniero anch’esso;


prigioni

Lecce
da poco è ritornato dalle 49 43 e trovasi a 51

è antimurattiano, amico di Lafarina, ma lo crede delle idee vostre — in un mese può mobilizzare il lavoro di Bari e Lecce.

«I distretti di ogni provincia sono suddivisi in sezioni.

«Distretto di Lagonegro — l(a) Sezione 36, 2(a) 16, 3(a) 20, 4(a) 8, 5(a) 20, 6(a) 29, 7(a) 12, 8(a) 5, 9(a) 20 — Totale del distretto 166 —

«Idem Potenza — l(a) 124 2(a)...

«Idem Padula — l(a) 50 2(a)....

«Ma completando i stati di questa provincia si raggiunge la cifra di 2000 pronti ad iniziare ed armati, vi sono poi 405 senz’armi.

«In Bari, Lecce e Foggia vi è una specie di organizzazione carbonaresca; molti hanno per motto Mazzini e il berretto rosso; ascendono quasi a 6000.

«Nel Molise vi è il distretto di Larino.

«Nella provincia di Salerno i limitrofi


M a g n o n e
sono i 54 116 36 63 66 178 26

M a t i n a
e 54 118 99 41 63 3

p r e t e P a d u l a
il 74 84 27 110 142 71 16 2 105 51 3

i primi sono in arresto.

«Le forze di Bari, Lecce e Foggia subiscono molto l’ascendente de’ dottrinarii. —

Ho scritto in frontespizio di questo libercolo che io sono un attore ed un testimone dei fatti di Sapri e del conseguente procedimento penale. Convien quindi che io spieghi e dimostri a Sebastiano Visconti, gerente della Gazzetta d’Italia, di non aver abusato del titolo che mi appropriai, quantunque il mio nome non sia compreso fra quelli indicati come testimoni attivi nel processo in parola.

Vi dirò dunque, Signor Visconti, che fra i Cacciatori dell’esercito delle due Sicilie i quali circondarono a Sapri le legioni. Pisacane-Nicotera, militava, giovane in età e con le vesti di sottufficiale, chi ora, dolentissimo è costretto a dovei(1) scrivere queste linee al vostro indirizzo.

Non è da supporsi per altro che fra i generosi superstiti di quelle legioni e fra gli avanzi di quelle truppe regolari, non vi siano altri che per altezza d’ingegno e per autorità di nome, molto meglio di me potrebbero soddisfare la pubblica aspettazione col riferire completamente la storia funesta sì, ma pur sempre gloriosa di quell’ardito ed eroico tentativo.

Non disperate però, Signor Visconti; che se qualche piccola cosa soltanto si scrisse fin qui relativamente alla spedizione di Sapri, molto ancora verrà pubblicato quando tranquillate le menti, la penna potrà scorrere libera per tributare solenni atti di gratitudine a quei generosi che rischiando impavidi la propria vita, seppero audacemente sfidare le insane ire del temutissimo Borbone.

Ripeto dunque che io fui attore, perchè presi parte alla repressione di quei moti insurrezionali, allo arresto ed afl. disarmo delle masse già comandate da Pisacane e dal Barone Nicotera; e che fui testimone passivo nel conseguente processo, per la chiarissima ragione che io era non solo alloggiato nella caserma di S. Domenico in Salerno, dove appunto si svolse ed ebbe luogo l’ormai storico e famoso procedimento, ma quanto ancora io dovetti costantemente assistere nell’apposita sala e per ragioni di servizio a tutte le sedute, dal principio alla fine.

Riportandomi quindi alle deposizioni del Barone Nicotera, da voi con tanta diligenza commentate, compreso di meraviglia, Signor Visconti, e con animo veramente commosso, io ho letto con viva soddisfazione tutto ciò che a voi piacque di dire a favore del prefato Barone in omaggio al contegno fiero e dignitoso da lui serbato nell’interrogatorio del 2 luglio 1857 a Sanza, innanzi a quel ff. da giudice di circondario.

Ed invero, la vostra magnanimità di gran lunga ha sorpassato il credibile quando con generoso pensiero voi voleste benignemente attribuire al Barone Nicotera anche il merito di «saper affrontare impavido, le conseguenze del fatto proprio.»

Oh! sì, credetemi, Giovanni Nicotera nutrirà per voi eterna gratitudine; e la nutrirà tanto più perchè deve a voi soltanto, se dagli scaffali luridi di un secolare archivio, insaputo e dimenticato, rivivesse, dopo quattro lustri, un documento che non lo disonora di certo, e che suona nei termini seguenti:

«Estratto di un incartamento di documenti, rinvenuti sulle persone e sui cadaveri dei rivoltosi che sbarcarono nella marina di Sapri.

«Noi qui sottoscritti, dichiariamo altamente che avendo tutti congiurato d’impossessarsi del vapore Cagliari, ci siamo imbarcati come passeggieri. Dopo che eravamo due ore lontano da Genova, abbiamo impugnato le armi, e forzato jl capitano e tutto l'equipaggio a cedere il comando del vapore. Il capitano e tutti i suoi, vedendoci decisi piuttosto di perire che di cedere, hanno fatto quanto era in loro potere per evitar spargimento di sangue, e tutelare gli interessi dell’amministrazione. Bravi a bordo come passeggiero per Cagliari, il capitano marittimo Daneri; avendolo saputo, l’abbiamo costretto a prendere il comando: egli ha ceduto alla forza né poteva fare altrimenti sprezzando le calunnie del volgo, stretto dalla giustizia della causa e dalla gagliardia delle nostre armi, ed operiamo da iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non risponderà al nostro appello, noi, senza maledirlo, sapremo morire da forti, seguendo le nobili falangi dei martiri italiani. Trovi in altra nazione del mondo uomini, che come noi, s’immolarono alla sua libertà, ed ora solo potrà paragonarsi all’Italia, abbenchè fino ad oggi ancora schiava.

«Sul vapore il Cagliari. — Alle ore 9 ½ di sera del 25 giugno 1857.

«Firmati: — Carlo Pisacane — Giovanni Nicotera — Gio. Battista Falcone — Barbiere Luigi, di Sicilia — Achille Pomart — Cesare Fardone — Poggi Felice, di Sora — Gagliani Giovanni, di Sora — Rolla Domenico — Cesare Cori, di Ancona. — Fuschini Federigo — Ludovico Negromonti, di Orvieto — Metarci Francesco, da' Sensi, marinaio — Sala Giovanni — Lorenzo Giannoni — Filippo Faiello — Giovanni Canriellani — Domenico Massone, di Ancona — Necasteri Pietro».

Ma in un tratto però, voi signor Visconti, mi cambiate le carte in mano. Traendo argomento da una certa dichiarazione scritta dal Barone Nicotera il 3 luglio 1857, dichiarazione richiesta insistentemente da un ufficiale dell’esercito delle due Sicilie, voi mostrate di essere seriamente preoccupato dall’idea di non aver più per le mani un onesto cittadino, ma sibbene un facile delatore. Anzi, in un eccesso d’inespicabile ira erompete addirittura in termini poco convenienti, e denunziate lo stesso Barone quale uomo capace di «mutare il sentimento del coraggio con quello della paura, il sentimento del patriottismo con quello dell’egoismo.» Questo, credetemi signor Visconti, è un giudizio azzardatissimo; tanto più che a voi oggi si attribuisce sufficiente istruzione e fine discernimento.

Ditemi, Signor Visconti: leggeste voi bene la dichiarazione del Barone Nicotera del 3 luglio? Ne comprendeste il vero significato? Ed allora come mai possono concordar fra loro le vostre deduzioni con gli apprezzamenti emessi sul conto del medesimo Barone da uomini certo non meno insigni di voi?

Consentitemi per un momento che io ceda la parola al signor Pacifico Pacifico Procurator Generale presso il Tribunale speciale di Salerno, il quale, conclude la sua requisitoria a carico di Giovanni Nicotera, con le seguenti testuali parole:

«La vita politica di undici anni di quest’uomo, che può dirsi l’intera sua vita, poiché gli anni precedenti erano troppo giovanili per preoccuparlo di questi affari, è tale che mi dispensa dall’intrattenermi a dimostrarvelo cospiratore, e capace di qualsiasi temeraria ed ardimentosa impresa e poi egli stesso non ha taciuto la parte che si ebbe nei disordini del 48 in Calabria, ed in quelli di Roma, e son certo che se anche oggi gli chiedeste, se il disinganno che gli è toccato lo abbia reso pentito, e lo farebbe esser cauto in avvenire, vi risponderebbe di no e che sarebbe pronto a far lo stesso. Vedeste pure con quanta premura per discolpare gli altri e segnatamente il capitano Daneri, attribuì a sé molti dei fatti compiuti a Ponza. Sebbene abbia detto poi di non aver cospirato, d’ignorare i nomi dei componenti il Comitato di Napoli, e le corrispondenze che si avevano, non son queste cose da credersi, e quindi bisogna ritenerlo reo di cospirazioni, promotore dell’attentato, ed uno dei capi della banda insurrezionale».

E la requisitoria si chiudeva col domandare la pena di morte per Giovanni Nicotera.

Ed invero, quel poco fortunato Procurator Generale venne a tali conclusioni perchè affidato alla pura verità dei fatti. Inquantochè ad una sua insinuazione diretta a ferire ugualmente l’onore di tutti i superstiti di quella spedizione, il Barone Nicotera indignato, protestava in pubblica udienza nei termini seguenti:

«L’accusa vorrebbe far credere che Pisacane, Falcone, io e pochi altri, fra i quali quasi tutti gli esteri, dopo il conflitto della Padula, abbandonando i nostri compagni, ci fossimo dati a precipitosa fuga per salvarci. Signori, è questa una gratuita assertiva foggiata non per mostrare al cospetto della legge la nostra reità, ma solo per affibbiarci la taccia di vili. Quando si giudicò da Pisacane impossibile protrarre la resistenza a Padula, perchè, assaliti da circa 2000 uomini tra cacciatori, gendarmi e guardie urbane, si deliberò eseguire una ritirata sopra i monti di rincontro, per salvare così quanti più se ne poteva dal massacro di Padula, ove dalle autorità militari, senza veruna formalità di legge, si fucilarono circa 35 di quei primi che ebbero la sventura di cadere in loro potere. Se avessimo avuto in mente la nostra sola salvezza, non avremmo portato con noi da circa 140 uomini, né saremmo stati assassinati a Sanza, non da pochi urbani, come asserisce l'accusa, ma da più di trecento, provvisti di ogni sorta di armi. Noi volemmo dividere fino all’ultimo la sorte dei nostri compagni, e più di essi ne rimanemmo vittime.

«L’accusa si studia far credere che oltre all’aver io riconosciuto vari documenti del Pisacane e del Comitato, ne abbia spiegato il senso e svelate le trame cospiratrici ed i precedenti progetti per eseguire la ribellione.

«Signori, io potrei rispondere a questa maligna diffamazione facendo il confronto de’ miei interrogatori con le rivelazioni vantate dall’accusa: quello di cui si parla, piacemi ricordarvi di nuovo, essere stato foggiato senza il mio intervento su quanto avea detto il signor intendente Ajossa, e quindi dettato confusamente dal procuratore generale e senza far precedere le mie risposte di analoghe interrogazioni, talché potrebbe dirsi che egli stesso avesse fatto parte della cospirazione. Ma trattandosi di cose che attaccano direttamente il mio onore ed in pari tempo riuscir potrebbero di danno ad altri, mi credo in debito di protestare solennemente contro l'arbitrario metodo usato, dall’accusa per dare una spiegazione alle cifre numeriche scritte nei documenti rinvenuti sul cadavere di Pisacane, ed istantemente sostengo, come sempre, che i veri nomi dei componenti il Comitato di Napoli erano sconosciuti non solo a me, ma anco a Pisacane, e che gli sforzi consumati dall’istruttore del processo in tradurre le cifre, non possono dare che conseguenze false ed improduttive di prove. A fronte di un scritto di Pisacane, da me riconosciuto, ora si veggono delle cifre; queste sono senza dubbio apocrife, poiché non esistenti quando per la prima volta vennemi mostrato; ed io espressamente le impugno, e qualunque uso ne avesse fatto l'accusa per corroborare la sua vagheggiata cospirazione, è del tutto arbitrario ed illegale.

«In ultimo non posso astenermi dal dare un lamento sulle accuse di furti e di rapine. Ognuno sa che, lungi dall'appropriarci l'altrui, pagammo generosamente i viveri in ogni paese per dove passammo, che Eusebio Bucci fu sottoposto a giudizio per ordine del nostro capo Pisacane e fucilato per aver rubato pochi carlini ad una povera donna, dei quali per altro ne fu rivaluta al doppio da me stesso, che in ninna delle casse pubbliche si rinvenne danaro, e mi lusingo che voi stessi saprete farmi giustizia su di ciò, lavandomi di una macchia che mi sarebbe sommamente di peso.

«Queste, o signori, sono le poche osservazioni che per onor del vero, e per debito di coscienza io dovea sottomettervi, ed ora tranquillo e con la serenità di martire, starò ad attendere l’esito finale del vostro giudizio.»

Dopo tutto ciò, ditemi, sig. Visconti, dubitereste ancora del carattere fiero e del coraggio inaudito di cui è dotato il Barone Nicotera? E se un dubbio preoccupasse ancora la vostra mente, non basterebbe a dileguarlo forse la trascrizione testuale del seguente dialogo?

Leggete; siamo al momento in cui il Presidente del Tribunale speciale annunzia a Giovanni Nicotera ed agli altri sei condannati a morte la commutazione della pena in quella dei lavori forzati a vita.

Credetemi, questo dialogo contiene tutto quello che si può dire di sublime, di eroico.

«Ho fiducia, signor Nicotera, disse il presidente, che ella sarà soddisfatto della decisione della Corte, della sua giustizia ed imparzialità; e che Ella sarà grato della clemenza sovrana che le fu impartita. Io me ne rallegro di tutto cuore.

«Voi non avete agito come giudici, ma come vili mercenari del governo. replicò Nicotera:» voi non avete fatto giustizia, ma solo firmato gli ordini venuti da Napoli; per assumere l'apparenza di clemenza.... vi ha ordinato di condannare sette alla morte, mentre io solo, secondo la più stretta interpretazione della legge, avrei dovuto essere condannato alla pena capitale.

«Il presidente lo interruppe, e disse:

«Ne abbiamo condannati sette per assicurare la salvezza di tutti.» — Sì, rispose Nicotera, le fu ordinato di condannarne sette, affinché si desse ai mondo lo spettacolo di una fittizia clemenza col risparmiare il sangue di tutti; ma ella ne risponderà dinanzi al tribunale del popolo, e ciò fra non molto tempo. In quanto a noi non ci spaventiamo del patibolo, né delle catene; abbiamo adempiuto ad un sacro dovere, ascoltando il grido dell’umanità e sopporteremo i nostri patimenti con intrepidità e rassegnazione, confortandoci colla ferma speranza del trionfo di quella libertà per la quale noi siamo ora sagrifìcati.

«Signor barone, replicò il presidente, «io sono vecchio, ho un piede nella tomba. Io non so che dire né voglio entrare in una discussione inutile per entrambi, ma il mio dovere come presidente mi spinge ad esortarla di essere grato per la clemenza ottenuta. Perciò l'ho fatto chiamare per chiederle che quando sarà letto nella Corte il decreto di commutazione, quand'anche egli non voglia gridare evviva il Re! almeno vorrà tentare d’indurre i suoi compagni a farlo.» Nicotera con molta agitazione rispose: «Parlerò con lei come se fosse Domenico Dalia, non come presidente, perchè come tale è schiavo e strumento del governo. Io dico a Domenico Dalia, che io non posso né debbo ascoltare le sue insinuazioni.

«Pei miei compagni non. vorrei commettere un simile atto di degradazione, domandando loro di soddisfare ai desidera di lei. Hanno affrontato cattivi trattamenti e torture; possono guardare al patibolo con indifferenza, e nello stesso modo sopporteranno le loro catene e l'ergastolo. Non possiamo fare quello che ella chiede, gridare Viva il re! sarebbe lo stesso che gridare: Morte alla libertà! Riservi per lei stesso una simile infamia, e ci abbandoni alla dignità del silenzio, dacché non ci vien data facoltà di parlare.»

Ma chi è quest’uomo così tanto ardimentoso che sfida impavido anche in momenti pericolosi e terribili le ire borboniche, ed oltraggia eziandio con vivo accento i magistrati del reame?

Egli è sempre Giovanni Nicotera, quel generoso che non dimentica neppur nella suprema ora, e quando l'animo suo dovrebbe essere inespicabilmente concitato, la gratitudine verso i patriotti che coraggiosamente e senza mai trepidare lo avevano difeso in quel memorabile procedimento penale.

Leggiamo insieme Signor Visconti: son due documenti questi che seguono che si dovrebbero leggere in un tempo solo.

Da una parte è il boia, che infastidito da lunga inerzia, prepara alfine con compiacenza i suoi arnesi, fregandosi le mani: sono sette i condannati, perciò la pecuniaria retribuzione a lui dovuta per tal fattura, rappresenta somma ragguardevole, mai guadagnata in una sol volta in vita sua.

Dall’altra parte ci è dato di scorgere Giovanni Nicotera nella sua cella, che adagiato su di una panca, scrive con animo tranquillissimo e con mano ferma, nobili parole al suo difensore.

È scena orrida, lugubre, spaventevole questa, ne convengo, ma non arrestiamoci per ciò; leggiamo:

Siamo al 20 luglio 1858.

«Durante quel giorno però si ebbe cura dal boia di spazzare la cappella, ripulire la mannaia ed aggiustare tutti gli attrezzi del patibolo; e nella notte come un uccello di rapina che sta in agguato per tendere le unghie alla sua preda, si fece trovare all’ingresso del carcere e chiese se vi era d’uopo dell’opera sua. Questa domanda mosse tale disdegno nell’animo di tutti i soldati, che mancò poco non si buscasse qualche colpo di baionetta; ma non fu salvo di maledizioni e di rampogne. In tutti regnava piena fiducia nella disposizione governativa della sospensione che quasi sempre è certezza di non esecuzione. Ad un tratto la fiducia si mutò in amaro dubbio. Uomini, donne, adulti, giovani e fino i ragazzi atterriti e palpitanti si chiedevano se vere fossero le voci che circolavano per la città.

«Il procuratore generale che, prima della pubblicazione della sentenza, aveva rassicurato tutti gli avvocati del non eseguimento della condanna, fece sentire la sera del 20 al difensore del Nicotera che egli malamente aveva interpretato l’ordine governativo, non inteso a sospendere la esecuzione, ma solo a rapportare l’esito del giudizio, e che se per tutto il mezzogiorno dei dimani non giungesse la grazia avrebbe fatto scendere nella cappella Nicotera, Valletta e Gagliani che precisamente son quelli pei quali non vi è sospensione legale.

«Il valoroso Taiani protestò per questo inganno, disse che se ne sarebbe appellato a tutta l'Europa, la quale già era avvertita della sospensione, e mille e mille altri rimbrotti che per altro a nulla valsero; ed immediatamente montò in carrozza in compagnia di due altri suoi colleghi' e corsero alla residenza del re a Quisisana presso Castellammare. Se tristi furono le ore che passarono nell’incertezza i cittadini tutti, non rimasero infruttuose pei nostri amici, sul capo dei quali stava sospesa la mannaia....»

Ed il 16 luglio, quando cioè di grazia sovrana non se ne parlava neppure, queste parole che seguono scriveva il Barone Nicotera:

«Egregio sig. avv. Taiani,

«Quando noi, qui sottoscritti, ci affidavamo al vostro patrocinio, sperammo non solo nella elevatezza dei vostri talenti, e nella conoscenza profonda delle cose legali, ma più di tutto nel vostro coraggio civile. Noi avvezzi a riguardar la vita come un dono ricevuto dalla natura coll’obbligo di spenderla tutta al servizio di questa per quanto bella, altrettanto disgraziata Italia, non curavamo, come non curiamo, la condanna del capo, dei ferri, che i nemici della libertà, del progresso, dell’umanità e della civiltà ci daranno. Pesavaci invece la calunnia che con la più scaltra malvagità ci si scagliava in diversi modi. Voi, nobile difensore, ci avete ammirabilmente compresi; e senza atterrirvi dei pericoli che un’ onesta e coraggiosa difesa poteva attirarvi, ci foste largo di giustificazioni e di lodi, e come valente vi mostraste nello svolgere le più astruse quistioni dì diritto penale, non meno sublime vi appalesaste nel sostenere il nostro carattere morale. Forse quattro di noi fra pochi giorni pagheremo il nostro tributo alla patria; ma se cosi sarà, vi sia compenso il sapere che soddisfatti appieno sapremo incontrar la morte, e colassù nel cielo imploreremo per voi, e pel solo pegno che l’illustre fu vostra consorte vi lasciava.

«Quelli fra noi, poi, che certo dovranno chi sa per quanto, trascinar la catena, serberanno di voi grata e riconoscente memoria; e se un giorno ci sarà dato di vederci restituiti alla Società, vi mostreranno coi fatti il loro affetto, e si studieranno a sdebitarsene come meglio potranno.

«Accogliete, ottimo avvocato ed amico, i nostri più distinti ossequi, ed un tenero bacio che parte dal fondo del cuore, e credeteci per sempre.

«16 luglio 1858.

«Vostri obblìg. ed affez. amici «Giovanni Nicotera — Giovanni Gagliani — Achille Perucci — Gaetano Poggi — Giovanni Camillucci — Domenico Mazzoni — Amilcare Bonomi — Giuseppe Santandrea — Pietro Rusconi — Domenico Poro — Carlo Rota — Cesare Cori — Felice Poggi — Giuseppe Faeli — Francesco Meduscè — Giuseppe Mercuri — Cesare Faridone.»

E volete sapere, Signore Visconti, come scriveva ai giornali di Torino Domenico Mauro, un distinto patriotta ed onoratissimo cittadino, narrando della strage di Sapri?

Leggete qui appresso.

Ma intendiamoci bene però: l’elogio del Mauro dedicato a Pisacane ed a Nicotera, è un elogio funebre, è un solenne addio agli estinti, giacche a lui constava qualmente entrambi fossero caduti nella pugna. Io fo appello alla vostra imparzialità, Signor Visconti, onde sia fatta la debita distinzione fra un elogio inteso a glorificare un vivo (cosa familiarissima per voi) ed un elogio destinato a ricordare un morto.

Dopo di che ascoltiamo ciò chè dice Domenico Mauro.

«Pensando alla falange sacra dei napoletani morti non ha guari presso la Certosa di Padula, io non fo differenza di nomi; perchè tutti quelli che la componevano sono eroi, avendo combattuto come si combattè solo nelle Termopoli, si che non salvossene un solo, se è da credere alle voci che corrono. Di un fatto così mirabile solo una colonna con questa iscrizione: I quattrocento caduti per la patria, può tramandare la-grandezza ai futuri. Ma è pur vero che un solo concepì da prima quell’impresa arditissima ed aprì la via, nella quale tanti generosi lo seguirono. Ed è giusto e santo ufficio della storia sceverar dagli altri il nome di Carlo Pisacane e locarlo in luogo più cospicuo e sublime. Se non che come gli antichi poeti davano a ciascuno dei loro eroi un compagno indivisibile, così io m’ardisco porre ai fianco del Pisacane un altro, che è Giovanni Nicotera.

«Giovanni, del ramo cadetto dei baroni Nicotera, nacque in Nicastro della seconda Calabria, e giovinetto fu educato nel collegio di Catanzaro, ove, conobbe Settembrini che ivi insegnava belle lettere e da quello apprese dapprima ad amare l’Italia. Ma a lui non mancavano anche domestici esempi; poiché Benedetto Musolino, suo zio, che ora trovasi emigrato in Parigi, in quel torno erasi fatto capo della giovine Italia nel reame di Napoli, e in poco tempo si ebbe parecchie migliaia di seguaci in tutte le provincie. In quest’opera ebbe compagno lo stesso Settembrini, onde non andò molto che furono posti in prigione ambedue; e così il giovinetto Nicotera nel maestro e nello zio vide il primo esempio di quel martirio, incontro a cui doveva poi correre per tutta la sua breve vita.

«Né i semi della virtù e del sagrificio potevano cadere in anima che più della sua fosse atta a riceverli; poiché il giovinetto Giovanni avea sortito dalia natura una di quelle indoli nobilissime ed operose che sogliono prodursi nella sua terra natale, ai quali l’amare, il desiare senza il fare è nulla. Quell’anima ardentissima concepiva con la rapidità del lampo ed eseguiva coll’impeto della folgore; ed io che scrivo queste linee fui spesso maravigliato nel vedere come la subitanea apparizione di una idea in lui prendesse fattezze vive e divenisse persona.

«E tale qual io lo descrivo egli si mostrò ancora giovanissimo. Fu nella cospirazione e nella rivoluzione, in cui perdettero la vita Domenico Romeo, Pietro Mazzoni, Gaetano Ruffa ed altri molti, nel settembre del 1847. Dopo il 15 maggio, fu nella rivoluzione calabra, uno dei più ardimentosi ed intrepidi combattenti, e tentò cose, in compagnia di Pasquale Musolino, suo zio, ora emigrato in Piemonte, e di altri, che sarebbero degnissime di storia, se la storia volesse darsi alcun pensiero delie Calabrie, sempre prime al combattimento e sempre obliate.

«Caduta la rivoluzione nel reame, il Nicotera recossi in Roma, ove sotto la repubblica fu luogotenente e riportò una non leggiera ferita nel braccio, combattendo contro i francesi nella giornata del 30 aprile. In questa occasione, essendo curato nell’Ospedale militare, ivi vide morire accanto a lui Goffredo Mameli; e un dì che mi raccontava questo incontro io non mi tratteneva di dirgli: «Il Ligure poeta era l’immagine più schietta dell’idea italiana, e fu l’immagine più ardita dell’italiana azione, poste l'una accanto all’altra. Egli sorrise alle mie parole e divenne pensoso.»

«Caduta la repubblica romana e recatosi in Piemonte, nel lungo e tedioso ozio dell’esilio, sentì quella pena che mai non aveva provato fra i pericoli delle armi e gl’indugi per lunghi anni del cospirare. Onde iva spiando, se gli venisse fatto di scorgere alcuna anima ancor viva, che lo confortasse e levasse a nuove speranze.

E in questo ardentissimo desiderio conobbe Carlo Pisacane e si strinse con lui in nodo d’amicizia, che sol morte ha spezzato. Difficilmente si trovano due anime così fatte l'una per l'altra, come eran le loro. La fronte ampia e serena di Pisacane era 1* irradiazione perenne e copiosa del pensiero; l’anima profonda di Nicotera come una lente l'accoglieva e la condensava in un fuoco.

«E così compenetrate tra loro quelle due anime vigorose presero tale nuova fiducia a ben oprare, che forse ciascuna separata dall’altra non avrebbe avuto. Siffatto è il mistero della vita e dell’amore, che un’anima sol ben conosce sè stessa nell’eco che le risponde un’altr’anima, e il proprio pensiero nel riflesso che le rimanda un pensiero non suo.

«Non è la sola spedizione di Napoli in cui Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera vollero essere compagni; ma oggi è inutile parlare di tutte le belle gesta che meditassero insieme. In questa ultima poi, morirono l’un al fianco dell’altro. Chi più dei due meritò dell’Italia? Lascio questa dimanda ai sofisti che han cuore di farsela; io solo qui dico, che se la spedizione napolitana avesse avuto il suo svolgimento così felice come ebbe gli inizii, non piccola parte di essa sarebbe stato il giovane Calabrese.

«L’anima sua ricchissima di una forza, che i suoi più intimi non ponno aver tutta misurata, avrebbe preso un elaterio da far meravigliar di sè. Io sento ancora quelle vibrazioni metalliche che in me scendevano con la sua voce, quando parlava di alti propositi e svolgeva le profondità del suo pensiero. Il mio spirito ne rimaneva tutto penetrato e ripieno. Natura fusa come una palla di bronzo, chi ha troncato il fervido tuo corso?

«Egli era svelto e franco della persona, manifestando in essa pienamente l'anima interna; bruno del volto, di un guardo ineffabile quando era sereno e amorevole; terribile nell’ira: chiaro ed eloquente parlatore; in ogni atto sciolto e spontaneo.

«Aveva il cuore grande; e molti che forse oggi che ancora è incerta la sua morte lo hanno già obliato, né usarono ed abusarono. Era tutto amore, amore di patria, di parenti, di amici e dell’eletta che anelava far sua innanzi agli altari, ma sopra tutti l'amore di patria signoreggiava.

«Avevi non compiuto il trentesimo anno della tua vita, o mio diletto amico, e più non ti vedrò! Ricevi l'ultimo vale, o dolcissimo, e il mio pianto che scorrerà perenne finché duri la tua memoria, poiché questa è la volontà dell’Eterno.

«Domenico Mauro.»

Da tutto ciò che io ho potuto esporre nelle precedenti pagine, risulta adunque come un fatto indiscutibile, che Giovanni Nicotera a 29 anni di età era già un compromesso politico dei moti del 1848; che con pochi generosi suoi compagni fuggiva dagli Stati Napolitani non tanto per sottrarsi all’ira borbonica, quanto per poter da non lungi meditare ed operare con maggiore efficacia a vantaggio esclusivo dell’amata sua patria; che riparò quindi per breve momento in Grecia, di dove muoveva anelante verso Roma per militar nelle repubblicane legioni; che ivi da soldato ardito, qual egli fu sempre, prese parte attivissima in quella disperata lotta, tanto da riportarne grave ferita. E qui terminerebbe il primo periodo della gloriosa vita del fiero Calabrese.

Caduta nel 1849 la Romana Repubblica, egli fuggì in Piemonte dove andò a raggiungere una fitta schiera di suoi connazionali, profughi anch’essi. Fermò domicilio a Torino, ed ivi ben tosto seppe meritar la stima dei più illustri uomini del partito nazionale. Non sfruttò mai il tempo in vita oziosa, che anzi indefesso si dedicò agli studii di diritto costituzionale ed internazionale, di storia patria e di filosofia della storia, da cui trasse profitto immenso perchè ne potè studiare anche profondamente la pratica applicazione negli stessi Stati in cui esule viveva. Ricordò sempre con animo profondamente addolorato, la patria sua, i suoi cari, l’eroica resistenza, delle Calabrie nel 1848, la Sicilia emancipata per breve tempo, e quindi messa a sacco ed a fuoco da un formidabile esercito, le sanguinose giornate di Napoli del 14, lo e 16 maggio 1848, gli eccidi, la vendetta efferata, il capestro, la ghigliottina, tutto egli ricordò fremendo, senza però disperare. Percorse a lungo gli Stati Sardi onde trovar, ove uomini di tempra gagliarda, ove una ispirazione. Strinse relazione intima, affettuosa, con Pisacane, e ben tosto s’ avvide che egli pure anelava disperatamente di sottrarre la patria sua dalla infame signoria.

In breve volgere di tempo, stretta più fra loro la intimità, formulano insieme il piano di un audacissimo colpo di mano. L’opera dei due arditi cospiratori diviene sempre più attiva, costante, febbrile. Essi non si sgomentano della mancanza di mezzi, né tampoco della deficienza d’uomini.

Entrambi vanno a Genova dove sono attesi da pochi compagni, pronti anch’essi a sacrificar la loro vita per la patria. Colà, in numero di 22!!! s’imbarcano come passaggieri sul piroscafo Il Cagliari, e non appena han guadagnato il largo, riescono felicemente nell’ardito tentativo di poter disporre e dirigere pella nuova via il bastimento stesso. Giunti che sono in vicinanza dei regi Stati delle Sicilie, perviene a Napoli avviso che una vaporiera vagante nei golfi vicini muove per sospetta destinazione: trenta battaglioni di fanteria immediatamente circondano quel mare che dalla Calabria si estende sino a Napoli, e parimenti le navi della regia marina muovono in tutti i sensi per fulminar la preda. Intanto quei del Cagliari, impavidi, seguono la loro via e realizzano i loro progetti, senza turbarsi per gl’imminenti pericoli. Approdano a Ponza ed ivi compiono un disarmo generale. Stabiliscono un apparente governo provvisorio e dichiarano liberi tutti coloro che per un fatto qualunque su quell’isola scontavano la pena dell’esilio. Con quel personale riscattato giungono a poter costituire due piccole legioni della forza in complesso di circa 350 uomini, e con essi muovono intrepidi per la grande, la coraggiosa impresa. Inseguiti a Vista dalle navi nemiche, ed attesi a terra da tutto un esercito mobilizzato, la fortuna loro arride ancora, ma ahimè! per poco. Son già vicini alla spiaggia, ed i due audaci capitani comprendono che il momento è supremo; la lotta accanita, sanguinosa, terribile è lì per cominciare. Chiamano perciò a raccolta gli armati, e fra loro si scambiano parole inspirate dai più generosi propositi. Un solenne giuramento ripetuto con frenetico entusiasmo sigilla il patto unanime di salvar la patria o morire.

La notte del 28 ai 29 giugno 1857 quella schiera di forti sbarca senza ostacoli a Sapri, e per sapiente consiglio dei due capi, Nicotera-Pisacane, prende immediatamente la via per guadagnar terreno migliore. Padula è indicato come centro di operazioni; colà son che attendono altri e più numerosi compagni d’armi; colà la intrepida brigata può trovare ancora di che satollar la sua fame.

Si giunge al convenuto sito, ansanti, con animo palpitante dalla gioia; si fanno ricerche premurose, si dimandano insistentemente notizie, ma...., ahi!.... il disinganno è completo: delle indicate masse che avrebbero dovuto operare di conserva con le legioni Pisacane-Nicotera, non si ha sentore. Anzi, le rozze popolazioni del contado fanno intendere che esse son pronte a dichiararsi nemiche.

L’urto adunque sarà più terribile, la strage più sanguinosa: Ciò si prevede da quelli audaci, ma non si dispera per tanto.

Sorge l'alba del 1° luglio e Padula è già circondata da mille irregolari armati, i quali raccolti e guidati dai gendarmi di presidio in tutti i paeselli vicini, aprono il fuoco ma non osano assaltare. Le legioni insorgenti messe in distesa rispondono alla fucilata e mantengono per più ore il nemico a rispettosa distanza. Ma..... è per giungere la truppa… Un tal Maggior Ghio che comanda lunghissima schiera di Cacciatori del regio esercito, divide le forze e corre all’assalto. Questo movimento ardito quanto inatteso incoraggia gl’irregolari: cacciatori, gendarmi, urbani, contadini, in più migliaia, tutti sono uniti, e la catena è cosi forte, che i legionari disperano anche della ritirata. Strage, esterminio, vendetta atroce, in-. fame, mai più fu vista uguale. Pisacane e molti dei suoi cadono fulminati dalle palle nemiche.

Giunge intanto avviso che un forte nerbo di. truppa già riunito a Vallo (città vicina) è sulle mosse per impedir loro ogni ulteriore tentativo. Giovanni Nicotera che ha fatto prodigi di valore, che è ferito al braccio da palla di moschetto, e che in una fiera lotta corpo a corpo coi suoi nemici riporta altre gravi ferite ai capo, comprende che la situazione è disperata, il momento terribile: Cerca intanto di riparar co’ suoi verso Sanza e guadagnar quelle alture, ed apprende per via che Pisacane non è più, e con esso altri e molti mancano all’appello. Un dolore acuto invade il suo animo generoso; egli piange, é piange soltanto per la patria invendicata, per Pisacane e per gli altri forti caduti nella pugna; non cura sè stesso, né le sue ferite.

Le regie truppe son li che inseguono a vista, rafforzate: voglion farla finita una buona volta con questi rivoltosi. I legionari non possono umanamente resistere più oltre.

Un consiglio di amici propone la resa.

E voi, signor Visconti, chiedete a Giovanni Nicotera una pergamena!! E quella che io ho narrata non è forse una storia tratta da pergamena in lettere d’oro, in caratteri incancellabili?

Voi aggiungete ancora «che la spedizione di Sapri poco o nulla giovasse alla fortuna d’Italia» Come! non è più una pagina gloriosissima del nostro martirologio? E non vi ripugnò l’animo, la vostra coscienza non si ribellò al pensiero di recar offesa indegna e codarda non tanto ai superstiti di Padula, quanto ai generosi che vi lasciarono la vita, a cui gl’inumani vincitori per crudo animo contrastarono finanche la sepoltura? E la stampa estera non si occupò forse con serietà di quei moti? E la diplomazia accreditata presso i Borboni non fu sempre vigilante, premurosa, nello assistere a quel gran processo politico? E l’Italia tutta non sperò, non palpitò forse, per quella spedizione e per la sorte dei superstiti? No, no, Signor Visconti, voi avete commentato da fellone. Giovanni Nicotera è l'Eroe di Sapri, come Carlo Pisacane e tanti altri ne sono i martiri.

Ma è meglio saltar pari su ciò, e proseguire invece nello esame di tutti gli altri vostri apprezzamenti.

Dalle deposizioni del Barone Nicotera, e specialmente da quella del 9 luglio 1857 innanzi il Procurator Generale Pacifico Pacifico in Salerno, voi signor Visconti, con mille insinuantissimi raggiri, vorreste dedurre che il Barone stesso fu facile nello svelar segreti preziosi, nel riferir nomi e circostanze di fatti, di luoghi e di tempi, non tanto per ottemperare a indeclinabile necessità, quanto per scagionar sé stesso.

Chi vel disse ciò? E come potreste voi far reggere la bugiarda e ignominiosa vostra sentenza al confronto della storia gloriosa della vita di Giovanni Nicotera? E che! accennò forse mai egli a pentimento il contegno del gran patriotta? Dopo la resa di Sanza non sfidò forse intrepido, impavido, da forte, da generoso, il Borbone ed i Borbonici, i Giudici e l’Accusa, il boia e gli aguzzini? Via, sig. Visconti, non c’illudiamo più: voi segnaste l’indegno scritto per avidità di guadagno: pensaste almeno a farvi pagar bene? Pensaste a tempo ai danni che potevano derivarvi? Ciò ho voluto notare perchè della onestà dei vostri padroni si fa gran quistione.

Ma proseguiamo:

Giovanni Nicotera ebbe in mira una sol cosa nei varii interrogatori: quella cioè di distogliere l'alta polizia borbonica dallo investigare le mosse ed i tentativi del gran partito nazionale in Piemonte e nei regi stati, per indurlo invece a sorvegliare il partito murattista all’interno ed all’estero.

Infatti, egli cambia, o meglio, distribuisce le parti con sottilissima finezza di vedute, e mette innanzi all’inquisitore due associazioni che si contendono ugualmente la facoltà e l’iniziativa di sottrarre le Sicilie da quel governo che si disse negazione di Dio.

Egli dice perciò a un dipresso: in Piemonte vi è un partito chiamato nazionale, ma è impotente, scarso di numero, non ha comitati qui nel napolitano, o ne ha pochi: non è perciò a temersi. Mentre in Francia, e qui nel reame, il partito murattista è formidabile; Luciano Murat (nell’animo suo intese di dire invece Giuseppe Garibaldi) verrà tosto con forze imponenti a promuovere la rivoluzione.

E qui, Signor Visconti, Checché vi piaccia o vi sia piaciuto di argomentare, credetemi, e ritenetelo come un articolo di fede: Giovanni Nicotera rispondendo in siffatto modo innanzi al magistrato inquirente, fu sublime, fu grande, fu uomo politico astutissimo, predisse, in una parola, le sorti future d’Italia.»

Ed ora consentitemi di potervi dichiarare con animo non troppo soddisfatto, qualmente un sentimento di delicatezza verso gl’illustri avvocati che rappresentano (intendetemi bene) la difesa delle due parti in giudizio, ed un alto e profondo rispetto dovuto alla magistratura chiamata a giudicare nella causa in cui voi siete parte, mi obbligano queste circostanze imprevedute (vedi mia dichiarazione in ultima pagina) a dover sottrarre dal mio manoscritto una serie lunghissima di inconfutabili considerazioni destinate anch’esse alla pubblicità, se.... (vedi mia dichiarazione in ultima pagina).

Proseguirò invece in maniera da non invadere il campo destinato specialmente alla difesa.

Voi dite: «stupendo quel dispregievole lanciato al partito piemontese capitanato da Vittorio Emanuele e da Cavour.» Stupendissimo vi rispondo io; anzi, calza a meraviglia. Non dissi diggià che le deposizioni di Giovanni Nicotera costituiscono un programma?

Più innanzi, alludendo ad una frase pronunziata dal Barone Nicotera all’indirizzo dei cacciatori del regio esercito delle due Sicilie voi dite; «questa istessa frase il Nicotera, ministro dell'interno del regno d'Italia, applicava ai soldati dell’esercito italiano nella tornata della Camera dei deputati del 13 giugno 1876.» Insulto bassissimo è il vostro, rispondo io, non tanto diretto a quelle truppe napolitane, quanto destinato a ferire una regione nobilissima che pe’ patriottici sentimenti e per sacrifìzii di sangue non ha altre regioni rivali. Quei soldati, quei medesimi soldati del 1857, divennero più tardi, soldati italiani; colpevoli solamente di troppa generosità nel 1860; percui alla patria loro fu indetto di poter dettare i patti dell’annessione, quei patti e quelle convenzioni che alla Toscana così tanto giovarono. Ma è meglio lasciar questo tasto.

«Voi vi meravigliate eziandio del come e del perchè l'Ajossa, Intendente di Salerno, strumento infame ec. ec. abbia potuto, nella abituale sua austerità, mostrarsi verso il Barone Nicotera mite ed umano; e ne deducete per conseguenza (che brutte deduzioni!) che ciò non poteva essere altrimenti se non il guiderdone perle fatte rivelazioni.» Come sottraete male, signor Visconti! Sembra proprio innata in voi l’abitudine di sottrarre sempre alla rovescio.

Leggete, e convenite meco che siete poverissimo nelle argomentazioni.

Il Barone Ajossa, che io conobbi personalmente a Salerno, nelle sue funzioni d’Intendente in quella provincia, fu mitissimo. Egli passò il tempo dedicandosi piuttosto alla vita galante, alla vita dei piaceri; talché ebbe più volte aspre rimostranze dai ministri e dal Re, rimostranze promosse dal locale Arcivescovo e da un certo Parroco di nome Sparno.

Della famiglia Nicotera, se non erro, il prefato Barone è concittadino; ed egli è anche gentiluomo coltissimo e di animo ben fatto. Quale sorpresa, quale meraviglia adunque, se in tanta sventura si risovvenne dell’amico e del compaesano?

Dirò di più: Chi conosce Giovanni Nicotera sa che egli è incapace per natura di nascondere lo sdegno o la riconoscenza, il rancore o la gratitudine; meridionale, egli ha la franca, la schietta abitudine, comune ai suoi connazionali, di aver sulle labbra quello che ha in core. Disse perciò del Barone Ajossa quel tanto che in coscienza sentiva di dover dire.

Se poi al signor Valletta non garbò la franca parola del Barone Nicotera, ciò a noi non può né deve interessar gran fatto.

Mi è d’uopo però di dovervi far notare, signor Visconti, qualmente lo stesso Valletta nella sua replica a Giovanni Nicotera non addusse argomento serio, né valida ragione. La disposizione dei locali, la disciplina e l'amministrazione interna delle carceri giudiziarie, come ora, così pure allora dipendeva dai magistrati della regia Procura. Il Barone Ajossa, Intendente, non era certamente indicato dalle leggi come quello che avrebbe dovuto provvedere ai lamentati bisogni di cui il sig. Valletta fa menzione.

Ed è tempo ormai, signor Visconti, che io venga ad una conclusione, onde la mia prolissità non vi stanchi né vi sgomenti maggiormente.

Ho detto del Barone Nicotera solamente quel tanto che ha riferenza ai fatti di sua gloriosa vita, e che voi insidiosamente comentaste. Tralascio di pubblicare tutte le altre virtù che adornano l'intemerato cittadino, e chiuderò narrando ciò che ancora è leggibile in un mio taccuino.

Giovanni Nicotera rispose sempre audacemente alle dimandò del Presidente. Il suo contegno provocante, dovette certamente influir molto nell’animo dei giudici, del governo e del re.

Il Taiani, il La Francesca e molti altri che rappresentavano il collegio della difesa, sono uomini che allora il governo borbonico faceva guardare a vista. La loro facile, arguta ed eloquente parola fu sempre, costantemente interrotta da alte grida della presidenza. Terminato il processo, il governo borbonico pensò bene di mandare in esilio immediatamente un buon numero di quei difensori

Questa che segue, e che la ricordo e la ricorderò finché avrò vita, ha un interesse specialissimo.

Come ho già notato nelle precedenti pagine, a Salerno rimase di guarnigione fra le altre truppe, anche quel battaglione che a Padula ebbe parte principale nello scontro con le legioni Pisacane-Nicotera. Improvvido non men che ingeneroso il governo borbonico, distribuì, a titolo di ricompensa per i moti repressi, una considerevole quantità di decorazioni a quei militari, appunto nel momento in cui il processo per i fatti di Sapri era nel suo pieno svolgimento. Notisi che nell’esercito delle due Sicilie i decorati erano rarissimi, per una ragione facile a comprendersi; per cui la larga distribuzione di siffatte medaglie che chiamavansi di San Giorgio, in oro ed in argento, fu cosa notata da tutti e che immensamente dispiacque ai più.

Un giorno, quel cordone di militari destinato a prestar servizio nella pubblica sala di udienza e che doveva circondare in tutta la sua grandezza la sala stessa, si presenta composto di altrettanti soldati decorati; e decorati sono, anche gli uffiziali, molti sottuffiziali ed il Signor Ghio, loro comandante, che assistono da semplici spettatori all’udienza.

Cominciano intanto a giungere a drappelli gl’imputati, ed a tal vista, restano sorpresi e fan mostra d’indignazione. Giunge in ultimo il drappello in cui vi è Nicotera e tutti i suoi amici che con lui mossero da Genova. Immediatamente cominciano le grida, le imprecazioni; e Giovanni Nicotera con voce vibrata, forte, minaccia, impreca anch’esso, protesta con tutta la forza dell’anima sua, e manda al diavolo governo e re, magistrati e truppa. L’ordine si ristabilisce, non senza difficoltà però. Il Presidente adotta dei palliativi.

Che ve ne pare, signor Visconti? E così che si aspira all'impunità?

Giovanni Nicotera fu per di più freddo ed indifferente anche verso quegli Ufficiali e sottufficiali che di soppiatto cercavano di rendergli qualche gradito favore. Egli si mostrò compiacente e soddisfatto soltanto quando ad alcuni suoi amici e compagni di sventura noi potevamo permettere di conferire con alcune signore, loro parenti, che eran venute a Salerno da lontani paesi.

Queste sono le mie impressioni, Signor Visconti. Io vedo perciò molto male spesa la insidiosa opera vostra. Che Dio vi accompagni nella perigliosa via in cui siete.

FINE.

DICHIARAZIONE

Sul mio onore dichiaro che la pubblicazione del presente opuscolo doveva aver luogo soltanto dopo esaurita la causa in corso, promossa dal Barone Nicotera al gerente della Gazzetta d’Italia.

Giudicai però opportuno di recedere da un tal proponimento, non appena mi venne fatto di scorgere nelle pubblicazioni della gazzetta stessa e propriamente in quei periodi intitolati: «lettere aperte a Giovanni Nicotera» una manifesta infrazione alle leggi di civiltà, di convenienze e di rispetto; inquantochè dalle lettere stesse non si riassume altro se non un sibillino discorso all’indirizzo della magistratura chiamata a giudicare nella causa in parola.

F. Palleschi.




vai su





Pisacane e la spedizione di Sapri (1857) - Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito
1851 Carlo Pisacane Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49
HTML ODT PDF
1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. I HTML ODT PDF
1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. II HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. III HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. IV HTML ODT PDF

1849

CARLO PISACANE Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma

1855

La quistione napolitana Ferdinando di Borbone e Luciano Murat

1855

ITALIA E POPOLO giornale politico Pisacane murattisti

1856

Italia e Popolo - Giornale Politico N. 223 Murat e i Borboni

1856

L'Unita italiana e Luciano Murat re di Napoli

1856

ITALIA E POPOLO - I 10 mila fucili

1856

Situation politique de angleterre et sa conduite machiavelique

1857

La Ragione - foglio ebdomadario - diretto da Ausonio Franchi

1857

GIUSEPPE MAZZINI La situazione Carlo Pisacane

1857

ATTO DI ACCUSA proposta procuratore corte criminale 2023

1857

INTENDENZA GENERALE Real Marina contro compagnia RUBATTINI

1858

Documenti diplomatici relativi alla cattura del Cagliari - Camera dei Deputati - Sessione 1857-58

1858

Difesa del Cagliari presso la Commissione delle Prede e de' Naufragi

1858

Domenico Ventimiglia - La quistione del Cagliari e la stampa piemontese

1858

ANNUAIRE DES DEUX MONDES – Histoire générale des divers états

1858

GAZZETTA LETTERARIA - L’impresa di Sapri

1858

LA BILANCIA - Napoli e Piemonte

1858

Documenti ufficiali della corrispondenza di S. M. Siciliana con S. M. Britannica

1858

Esame ed esposizione de' pareri de' Consiglieri della corona inglese sullaquestione del Cagliari

1858

Ferdinando Starace - Esame critico della difesa del Cagliari

1858

Sulla legalità della cattura del Cagliari - Risposta dell'avvocato FerdinandoStarace al signor Roberto Phillimore

1858

The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

1858

Ricordi su Carlo Pisacane per Giuseppe Mazzini

1858

CARLO PISACANE - Saggi storici politici militari sull'Italia

1859

RIVISTA CONTEMPORANEA - Carlo Pisacane e le sue opere postume

1860

POLITECNICO PISACANE esercito lombardo

1861

LOMBROSO 03 Storia di dodici anni narrata al popolo (Vol. 3)

1862

Raccolta dei trattati e delle convenzioni commerciali in vigore tra l'Italia egli stati stranieri

1863

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1863

Giacomo Racioppi - La spedizione di Carlo Pisacane a Sapri con documenti inediti

1864

NICOLA FABRIZJ - La spedizione di Sapri e il comitato di Napoli (relazione a Garibaldi)

1866

Giuseppe Castiglione - Martirio e Libert࠭ Racconti storici di un parroco dicampagna (XXXVIII-XL)

1868

Vincenzo De Leo - Un episodio sullo sbarco di Carlo Pisacane in Ponza

1869

Leopoldo Perez De Vera - La Repubblica - Venti dialoghi politico-popolari

1872

BELVIGLIERI - Storia d'Italia dal 1814 al 1866 - CAP. XXVII

1873

Atti del ParlamentoItaliano - Sessionedel 1871-72

1876

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1876

Gazzetta d'Italia n.307 - Autobiografia di Giovanni Nicotera

1876

F. Palleschi - Giovanni Nicotera e i fatti Sapri - Risposta alla Gazzettad'Italia

1876

L. D. Foschini - Processo Nicotera-Gazzetta d'Italia

1877

Gaetano Fischetti - Cenno storico della invasione dei liberali in Sapri del 1857

1877

Luigi de Monte - Cronaca del comitato segreto di Napoli su la spedizione di Sapri

1877

AURELIO SAFFI Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini (Vol. 9)

1878

PISACANE vita discorsi parlamentari di Giovanni Nicotera

1880

Telesforo Sarti - Rappresentanti del Piemonte e d'Italia - Giovanni Nicotera

1883

Giovanni Faldella - Salita a Montecitorio - Dai fratelli Bandiera alladissidenza - Cronaca di Cinbro

1885

Antonio Pizzolorusso - I martiri per la libertࠩtaliana della provincia diSalerno dall'anno 1820 al 1857

1886

JESSIE WHITE MARIO Della vita di Giuseppe Mazzini

1886

MATTEO MAURO Biografia di Giovanni Nicotera

1888

LA REVUE SOCIALISTE - Charles Pisacane conjuré italien

1889

FRANCESCO BERTOLINI - Storia del Risorgimento – L’eccidio di Pisacane

1889

BERTOLINI MATANNA Storia risorgimento italiano PISACANE

1891

Decio Albini - La spedizione di Sapri e la provincia di Basilicata

1893

L'ILLUSTRAZIONE POPOLARE - Le memorie di Rosolino Pilo

1893

 MICHELE LACAVA nuova luce sullo sbarco di Sapri

1894

Napoleone Colajanni - Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane

1905

RIVISTA POPOLARE - Spedizione di Carlo Pisacane e i moti di Genova

1895

Carlo Tivaroni - Storia critica del risorgimento italiano (cap-VI)

1899

PAOLUCCI ROSOLINO PILO memorie e documenti archivio storico siciliano

1901

GIUSEPPE RENSI Introduzione PISACANE Ordinamento costituzione milizie italiane

1901

Rivista di Roma lettere inedite Pisacane Mazzini spedizione Sapri

1904

LUIGI FABBRI Carlo Pisacane vita opere azione rivoluzionaria

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Giudizi d’un esule su figure e fatti del Risorgimento

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Lettera di Carlo Cattaneo a Carlo Pisacane

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - I tentativi per far evadere Luigi Settembrini

1911

RISORGIMENTO ITALIANO - La spedizione di Sapri narrata dal capitano Daneri

1912

 MATTEO MAZZIOTTI reazione borbonica regno di Napoli

1914

RISORGIMENTO ITALIANO - Nuovi Documenti sulla spedizione di Sapri

1919

ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

1923

MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

1927

NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano


























Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










vai su





Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità  del materiale e del Webm@ster.