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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

CARLO PISACANE

ORDINAMENTO E COSTITUZIONE DELLE MILIZIE ITALIANE

OSSIA

Come ordinare la Nazione Armata

con Prefazione di

GIUSEPPE RENSI

COEDITORI

REMO SANDRON  ------------ EL. EM. COLOMBI C.

PALERMO-MILANO ----------------- BELLINZONA

(Per l’Italia) ------------------------ (Per la Svizzera)

Giugno 1901

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

CARLO PISACANE

«John Brown

è più grande di Washington 

e Pisacane più grande di Garibaldi n.

V. Hugo.

I

Il breve sogno di libertà del 1848 era tramontato. Le speranze della democrazia erano sdrucciolate un'altra volta nel sangue e nel tradimento. Vinti, scacciati da tutta la penisola, perseguitati in tutti gli Stati, dispersi per l'Europa, i patrioti italiani, dopo un inevitabile breve periodo di abbattimento, avevano ripreso a riannodare le fila del moto e ritornavano a quell’opera santa che era diventata tanto più, dopo la consacrazione del patimento, la causa stessa della loro vita.

Quale era stata principalmente, la cagione dei disastri del 1848-49?

Il 48 era ormai diventato un passato, ma non lo era ancora di tanto che si potesse impunemente cercar di intorbidare agli occhi del popolo i fatti e le loro cause. Nel periodo immediatamente susseguente al 1850 gli uni e le altre erano patenti agli occhi di tutti. La voce invincibilmente accusatrice del 1821 s’era levata un’altra volta concorde: la causa dei disastri stava nella reggia torinese.

Milano e Venezia avevano, colle sole loro forze cacciato lo straniero. Se da solo il popolo delle delle due città era riuscito a sconfiggere un esercito agguerrito, quali risultati non si sarebbero dovuti e potuti ottenere allorché accanto al popolo insorto si fosse schierato un esercito regolare? Ma il re del Piemonte non si moveva già per sostenere l’insurrezione popolare: era questa anzi che gli ispirava la massima paura e la più viva ripugnanza. La Francia aveva proclamato la repubblica. Bisognava impedire ad ogni costo che la Lombardia, ordinandosi ugualmente a repubblica, venisse colla Francia e colla Svizzera a chiudere gli Stati Sardi in un cordone di popoli retti a democrazia. E il re si moveva quindi non contro l’Austria, ma contro la repubblica e contro la democrazia. suoi stessi ministri apertamente lo confessavano.

Pareto scrive a Lord Abercromby il 23 marzo 1848: «Non si può dissimulare che dopo gli avvenimenti di Francia, non possa essere imminente il pericolo di veder proclamata la repubblica in Lombardia. E nel fatto, dietro informazioni sicure sarebbe certo che un gran numero di Svizzeri avrebbe efficacemente contribuito colla loro presenza, alla sollevazione di Milano». Ora se la repubblica fosse ivi proclamata «un simile movimento scoppierebbe nelli Stati di S. M. il re di Sardegna». Per questa ragione: «S. M. il re di Sardegna si crede obbligato a previdenze, le quali coll’impedire che l’attuale commozione lombarda conduca alla repubblica, risparmieranno al Piemonte ed al rimanente dell’Italia le catastrofi che potrebbero accadere se una tal forma di reggimento fosse proclamata».

Conformemente a ciò l'ambasciatore inglese informava il suo governo che «S. M. non invade la Lombardia colf intenzione di incominciare le ostilità contro una potenza vicina, ma unicamente dietro dimanda di coloro i quali, senza aiuti erano riusciti a conquistare la libertà, e nell'intendimento di aiutarli a mantenere il buon ordine in un paese forzatamente abbandonato da quelli che prima l'avevano governato».

Non si potrebbe essere più chiari di così. Mantenere il buon ordine voleva dire impedire il sorgere della repubblica e l’affermarsi della democrazia: e a tale scopo dichiarato il re prendeva le armi.

E quindi: guerra fiacca e lenta, quando con rapide mosse gli austriaci già sgominati dalle rivoluzioni sarebbero stati facilmente schiacciati; perchè bisognava, prima di vincere gli austriaci, assicurarsi che si sarebbe potuto vincere i sentimenti popolari e repubblicani della Lombardia e aggiogarla alla monarchia piemontese. E quindi: grandi sforzi, mediante gli emissari piemontesi, in Milano, prima per far tacere ogni voce di parte con la scusa che si doveva anzi tutto combattere straniero; poi per far proclamare l’annessione — tranello in cui restò preso anche Giuseppe Mazzini. E quindi, dopo le prime sconfitte, consegna della città da parte di re Carlo Alberto agli Austriaci, contro la promessa fatta poche ore prima di essere disposto a morire sotto le macerie: perchè era d’uopo sopratutto impedire che il popolo, lasciato a far da sé, trascorresse alla democrazia e alla repubblica. Il «buon ordine» annunciato da Lord Abercromy, doveva essere mantenuto innanzi tutto. E se non poteva mantenervelo Carlo Alberto, dovevano almeno mantenervelo gli austriaci.

«Triste sviluppo della politica piemontese che si svolge dal quarantotto in poi! (scriveva nel 1861 Enrico Cernuschi nella sua Risposta al ministro Cavour) Essa nomavasi allora politica della fusione. Col parlar di nazione, d’indipendenza, essa mirava ad uno scopo solo: pigliarsi territori il più possibile, il più in fretta possibile, con tutti i mezzi possibili; giocar l'Italia e, checché avvenga, farsene gioco, e salvar la messa: il Piemonte.

«Fu questa politica, quella che spinta dalle riforme di Pio IX, rimorchiata dalla costituzione già proclamata a Napoli (11 gennaio 1848), si rassegnò alla fine a pubblicare le basi dello Statuto (8 Marzo 1848) non senza pigliare la precauzione di render più solidi e stretti, i suoi vincoli d'amicizia coll'Austria (parole d’un dispaccio del Gabinetto Sardo all’Austria, del 15 marzo 1848).

«Fu questa politica quella che posta cosi la mano del Piemonte nella mano dell'Austria, rifiutò spietatamente di soccorrer Milano fin che durò l’insurrezione, ma che tosto compiute le cinque giornate, e tosto udito che noi Milanesi avevamo cacciati gli austriaci (notte del 22 marzo 1848) fece allora varcare il Ticino alle armi sarde (26 Marzo 1848), onde prevenire, era scritto da Torino alle Potenze (Dispaccio circolare del Gabinetto sardo. V. Correspondence respecting the affaires of Italy, presented to Parliament; 1849, 2(a) parte, 155), onde prevenire una catastrofe che metterebbe in pericolo il trono di S. M. Sarda, e per mantenere l’ordine in paesi che non avevano più governo (ibid. 163). Il granduca di Toscana, egli stesso, non s’era diportato cosi, ma aveva precorso il Piemonte e fatte partire sue truppe contro Austria, al primo nunzio della insurrezione lombarda (Proclama granducale del 21 Marzo 1848. V. Correspondence 2° parte, 165).

«Fu questa politica, quella che col sollecitare il possesso immediato di tutta ¡’Alta Italia, ove il nemico era ancora accampato; coll’ambire la Sicilia; col rifiutarsi ostinatamente a soscrivere i dieci articoli del patto federale redatto da Rosmini, accettato e già firmato da tutti i governi d’Italia, offriva plausibili motivi a Roma, a Napoli, a Firenze, onde rinnegare e richiamare la milizia e la flotta ch’esse non avevano potuto rifiutare alla causa nazionale.

«Fu questa politica quella che diceva a Venezia assediata: Fa la fusione, ti proteggerò; che diceva in pari tempo all’Austria: Ti darò Venezia presa, se tu mi riconosci la Lombardia (Lettera di tutto pugno del re di Sardegna, in data di Roccabella, 7 Luglio 1848. V. Correspondence, ecc., 3(ft) parte, 58).

«Fu questa politica, quella che, più tardi, premurosa di rendere inefficaci le domande di soccorso inviate a Parigi dal governo provvisorio lombardo, spediva a Milano reali commissari investiti di tutta l’autorità officiale (2 Agosto 1848. V. Ultimi avvenimenti di Milano, esposti dal Comitato di pubblica salvezza, Paris, Dumaine 1849), e vi inaugurava la fusione in faccia agli Austriaci che si avvicinavano; fu lei che il doman l’altro di questa cerimonia, fingeva un principio di difesa, incendiando i sobborghi di Milano; fu lei, che ventiquattr'ore dopo consegnava i Milanesi alla discrezione di Radetzski, nell’istante istesso in cui Carlo Alberto giurava pubblicamente di seppellirsi sotto le rovine della città anzi che abbandonarla (5 Agosto 1848). Giorno sempre mai nefasto in cui l’eroica città, soffocata tra i regii e gli imperiali, si vide ghermito perfino il diritto supremo, in cui essa fidava, il diritto di difendersi contro gli stranieri che quattro mesi innanzi ella aveva espulsi!

«Fu questa politica, quella cui Rossi osteggiava acccanitamente a Roma, quella che, lui morto (15 Nov. 1848) trionfava; quella che, partito il papa (24 Nov. 1848),. stipulava per mano del governo provvisorio successo a Rossi, l’ingresso nello Stato Romano delle truppe piemontesi (18 Gennaio 1849. Convenzioni segrete tra il governo Romano, e il commissario straordinario di S. M. Carlo Alberto, re dell*Alta Italia,} stipulazione che sollevò a sdegno l’assemblea romana, e affrettò se non determinò la proclamazione della repubblica (8 Febbraio 1849).

«Fu questa politica infine, quella che ridotta allo stremo, pigliatasi ombra del moto democratico raggiante da Roma, precipitò, inconsulta l’Italia, e colle uniche forze della Sardegna, quell’attacco, il cui esito da tutti preveduto, fu la giornata di Novara (23 Marzo 1849), mercé la quale il Piemonte rimase vinto, ma intatto, mentre Venezia era sbaragliata».

Queste verità, questa concatenazione di fatti, offuscate di poi dagli storici dinastici erano negli anni che seguirono il 1849 evidenti a tutte le menti. E quelli, adunque, che dedicavano, con sincerità d’intenti, l’opera loro al risorgimento d’Italia, scorgevano chiaramente che l’azione del re di Piemonte aveva fatto naufragare il mirabile sforzo del 1848, e vedevano in questa azione un perenne ostacolo al tentativo di rinnovare con probabilità di successo un simile sforzo. Infatti come nel 1848, il Governo piemontese si sarebbe trovato sempre nella situazione di dover opporsi ai moti popolari per paura della repubblica o anche solo della democrazia, e quindi, non volendo calcolare sul popolo, nell’impossibilità di muovere guerra senza di esso agli altri governi, dominanti l’Italia, e di fondere la penisola in un unico Stato. Il Governo piemontese sarebbe stato sempre impotente a cooperare come che sia al risorgimento d’Italia, per la contraddizione in cui si trovava tra la necessità di compiere l’atto rivoluzionario dell’abbattimento degli altri regimi e della fusione, e la necessità di ostare ad ogni movimento rivoluzionario popolare. Il Governo piemontese avrebbe sempre ostacolato la Confederazione italiana, per la sua cupidigia d’impadronirsi delle spoglie degli altri governi, ma d’impadronirsene senza lasciar libero corso alle forze della democrazia popolare. A meno che (come in realtà accade) avvenimenti affatto impreveduti, del tutto indipendenti dalla volontà del governo piemontese, e voltisi impensatamente in suo favore, non fossero venuti a cavarlo, senza suo merito, da questa contraddizione: -avvenimenti sui quali non era serio fantasticare e calcolare preventivamente.

Data tale posizione del Piemonte, confermata dai fatti del 1848-49; dato che dal Lombardo-Veneto, ritornato sotto il gioco austriaco, e stremato ormai di forza e di speranze, non si poteva per il momento aspettarsi nuovi efficaci eroismi, sguardo degli esuli patrioti doveva rivolgersi al Sud.

Là imperava l’assolutismo più rigido e crudele; e quindi gli animi, non disorientati dalle fallaci parvenze di una larva di costituzionalismo, non potevano essere distornati dalla via maestra della rivoluzione. L’ambiente propizio esisteva, si trattava di lavorarlo, e, al momento buono, accendere la miccia.

Un’altra considerazione poi spingeva i democratici italiani a rivolgere al Sud la loro azione.

Il governo di Piemonte il quale era allora, come fu sempre anche dopo, lontano le mille miglia dal pensiero dell'unità d’Italia, aveva in animo di favorire un moto nel Napoletano inteso a portare sul trono Luciano Murat, Aglio di Gioachino: — e ciò allo scopo di ingraziarsi Napoleone III il quale avrebbe voluto assicurarsi la preponderanza sull'Italia coll’installarvi un principe francese da lui dipendente. Cavour inoltre sperava (scrive Nicomede Bianchi (1) che con Murat sul trono meridionale, Napoli e Piemonte si sarebbero accostati, e avrebbero cosi uniti dettata legge all* Italia intera.

Questi concetti, di dare qualche Stato italiano a un principe francese e di alleare il re di Napoli a quello di Torino — concetti assolutamente contrari all’unità italiana — furono costantemente nutriti da Cavour, cui pure gli storici moderatisi sforzarono di dipingere come il grande antesignano dell’unità. Egli accarezzò l’idea di fare re dell’Italia centrale un cugino di Napoleone (2) e di unire le due Corti di Torino e di Napoli in alleanza, Ano al 1859 (3), Ano a che cioè gli eventi di quell'anno e del successivo, resero tali due idee assolutamente impossibili.

La tendenza di Cavour di favorire le aspirazioni di Luciano Murat al trono di Napoli incontrarono una vivissima ripugnanza ne’ patrioti democratici. I prigionieri politici del Borbone, Poerio, Spaventa, Mauro, Bianchi fecero sapere di «preferir morire in carcere che stendere le loro mani pure a quell’avventuriero straniero.» Mazzini pubblicò numerosissimi scritti antimuratiani che Fabrizi diramò all’esercito napoletano e ai siciliani, e l’emigrazione meridionale sottoscrisse unanimemente (meno i due fratelli Mezzacapo) una protesta contro «qualsiasi forma di governo che potesse costituirsi col figlio di Gioachino Murat, e tanto maggiormente che in tal caso quel regno diverrebbe indirettamente una provincia francese.» Specialmente tra l’emigrazione italiana a Genova andava rinforzandosi l’opinione che fosse necessario precipitare le cose nel Sud.

«Alberto Mario (narra la signora J. W. Mario (4) in un’adunanza ove intervennero molti romani e veneti e lombardi, opponendosi alle proposte di Medici e Bixio di irrompere in Lombardia, propugnava l’idea di gettarsi al sud per creare alla rivoluzione una base tale da bilanciare l’influenza sabauda allora insignificante».

In questo complesso di circostanze, di sentimenti e di timori nacque quell’impresa che rese immortale il nome di Carlo Pisacane.

II

Nacque (scrivevano i primi editori dei Saggi nel 1858) Carlo Pisacane in Napoli, il 22 Agosto 1818 di Gennaro duca di S. Giovanni e di Nicoletta Basile De Luca. Fortuna parve volerlo dalla più tenera età educato al dolore e, mentre appena toccava i sei anni, gli tolse il padre. Non fu peraltro dalla madre risparmiata sollecitudine alcuna perchè ricevesse «quell’educazione che ai suoi natali ed al nobile ingegno si convenivano. E Carlo degnamente rispose a quelle cure, mostrandosi oltre l’età degli studi amantissimo.

Alle cose di guerra specialmente inclinava il suo animo fervido; e tanto forte parve quell’inclinazione ai suoi, che lo poserò nel 1831 nel collegio della Nunziatella, ove i nobilissimi giovani e i figli dei militari si educavano al mestiere delle armi. Carlo in quelle discipline che ivi s’insegnano sempre singolarmente primeggiò; e specialmente nelle matematiche avanzò quasi ogni altro e fu lodatissimo. Fu anche allora per quattro anni paggio nella corte reale: ed è questo non lieve indizio di sua nobile indole, che, in quell’età giovanissima, cosi facile agli allettamenti ed agli inganni, si serbasse incorrotto e non bevesse il veleno dei consorzi cortigianeschi.

«Ardentemente desiderava, uscendo di collegio nel 1839, militare nella cavalleria, della quale lo faceva vago il suo gusto per gli esercizii equestri: ma non potè ottenerlo e, dopo aver per sei mesi fatto i primi stipendii a Nocera, come soldato gregario, fu ammesso col grado di sottotenente nel corpo del Genio. In breve la bella fama che correva di lui come abilissimo nell’arte dell’ingegnere indusse il capitano Fonseca a chiederlo come aiuto a condurre la strada ferrata dà Napoli a Caserta. E quell'ufficio con laude somma adempiè; ma stanco poi dei modi aspri e superbi del Fonseea, chiese d’esserne scusato e l’ottenne. Ma, quasi in pena lo mandarono negli Abruzzi; e vi stiè per quindici mesi; finché restituito a Napoli fu promosso al grado di primo tenente. Poco poi fu richiesto dal capitano Gonzales, per dirigere una strada all’Antignano e là si recava.

«In quel tempo ch’era in Napoli, gli accorse fiero caso e degno al tutto di memoria. Una sera mentre ad ora assai tarda riducevasia casa, ecco d’improvviso un ladro scagliarsegli addosso e minacciarlo della vita, se non gli dia quanto ha di denari). Non era Carlo tal uomo da sostenere paziente ingiurie e violenze. Sebbene inerme a fronte d’uomo armato, non dubita: si getta risoluto sul malandrino e tenta opprimerlo. Forte, robusto ed agile com’era, vi sarebbe riuscito; se non che lo scellerato, vistosi a mal partito» tali gli trasse due colpi di trincetto nel ventre e nel petto, che di uno fu ferita l’ala destra del fegato, e il povero Carlo, invano chiesto soccorso a poco pietose persone, a stento per forza d’animo condottosi sulla porta di casa, immerso nel proprio sangue ivi come morto cadeva. Dissero i medici che quella era molto crudele e mortale ferita, né v’era luogo a speranza. Ma, pel vigore singolare ch’aveva d’animo e di corpo, vinse la forza del male, si riebbe e sanò: di che il Coluzzo, chirurgo dei buoni, non rifinì di stupirsi, dicendo esser certo il Pisacane serbato a cose grandi dal cielo, poiché tale pericolo, a nessun uomo superabile, avesse cosi felicemente contro ogni giusta aspettazione superato.

«Recatosi pertanto, come sopra dicemmo, col capitano Gonzales all’Antignano, ivi rimase finché l'8 Febbraio del 1847 non partivasi da Napoli. E di questa partenza brevemente è mestieri espor le ragioni.

«Aveva Carlo già. nel 1830 conosciuto una fanciulla dell’età sua, della quale fin d’allora si prese. Né fu dimenticato quel puerile affetto per crescer d’età, per lunga assenza e per studii; chè anzi vieppiù sempre crebbe, si fece amore e più violento riarse Carlo, uscito dal collegio, trovando la sua diletta, sposa d’altro uomo. Fu lungo il contrasto fra la passione e il dovere: pur vinse l’amore, e dopo molti casi, che qui non accade narrare, finalmente il Pisacane, in quel giorno 8 di Febbraio del 1847, partivasi da Napoli alla volta di Londra. Rimasto ivi alcun tempo, poi si recava a Parigi, e, cercato invano colà di procacciarsi la vita, veniva a Marsiglia, e indi il 5 Dicembre partiva per l’Africa, dove aveva ottenuto il grado di sottotenente nel primo reggimento della Legione straniera che militava per la Francia contro gli Arabi dell’Algeria.

«Ma intanto i moti d’Italia già prima cominciati andavano crescendo. Già le dimostrazioni e le feste mutavansi in fatti più degni, già correvasi alle armi, già alle parole ed ai canti succedevano stragi e battaglie. Messina e Palermo cacciavano le soldatesche borboniche, Milano inerme fugava 80.000 Austriaci, capitanati dal, vantatore Radetzky. E tutta Italia ormai levata in armi correva a combattere gli stranieri e da ogni parte i suoi figli esuli e vagabondi si affrettavano ad ingrossare le falangi dei combattenti. Sebbene fino allora il Pisacane, mancate le occasioni, si fosse sempre stato lontano da ogni briga politica, non fu sordo alla voce della patria che chiamava alla battaglia tutti i suoi prodi. Egli accorse pronto e volonteroso, come chi riceve finalmente un invito da lunga pezza atteso e desiderato; e da quel giorno la sua grande anima si consacrò spontanea alla sventura e alla morte per l’Italia e per la libertà. Lasciato il grado in Africa, viene a Marsiglia; ivi ritrova quella donna che gli fu sempre compagna in ogni gioia e conforto in ogni distretta e corre a Milano.

«Lo Zucchi, a cui il Cattaneo lo presentava, voleva affidargli la cura di levare e ordinare un reggimento in Milano, dandone a lui, come a colonnello il comando. Ma il Pisacane non volle: «Non essere lui venuto, rispose, a bella posta dall’Africa, non corso sui campi ove si agitavano le sorti della patria diletta, per trascinare neghittoso la spada per le vie di Milano, ma per tingerla nel sangue dei nemici d’Italia; non ambir lui comandi, non grossi stipendi, non onori ma vita operosa, e pericoli e battaglie; lo mandassero però ov’e’ potesse, e tosto, affrontarsi coll’odioso straniero.» E lo Zucchi lo mandò come capitano nella legione Borra che allora campeggiava ai confini del Tirolo, sul monte Nata. Ivi il nostro prode in frequenti scontri che ebbe cogli inimici, riportò lode somme di coraggio e di virtù. Né cessò quella campagna che cominciata con si splendidi auspici fini con tanto lutto d’Italia, prima che il Pisacane desse alla patria col sangue pegno delle imprese future. Infatti il 29 Giugno, scontratosi coll’inimico, ebbe da una palla ferito il braccio destro e cosi miseramente che, se non era il dott. Leone che lo volle risparmiato, a giudizio comune de' medici era mestieri tagliarlo.

«Dopo trenta giorni che giaceva a Salò, assistito dalle cure della sua diletta compagna, per ravvicinarsi dei nemici fu tratto per sicurezza in Milano. Ed era appena convalescente che già si affrettava ad offrire l’opera sua al governo provvisorio per la difesa della città che già minacciavan gli Austriaci. Ma a coloro che allora reggevan la somma delle cose nella prode e sventurata città, più che il bene e l’amore della patria, stava a cuore fedelmente secondare i disegni di re Carlo Alberto. Però con ogni argomento si adoperavano prima a stancare e fiaccare l’impeto generoso delle genti che da ogni parte volevano con guerra popolare finire gli stranieri; poi gl’indussero ad una dedizione o nocevole o vana; e finalmente ora impedivano od almeno lentamente e di malanimo preparavano le difese dell’eroica città, confidando più nelle promesse del re vinto a Custoza, che nella forza e nel coraggio di quel popolo che aveva, in cinque giorni di stupende prove, cacciato l'oste straniera. Costoro a Carlo Pisacane risposero: non esser lui atto a battaglia, malconcio com’era; pensasse alla salute propria e raggiungesse i feriti che il precedevano. Di che il nostro Carlo fu assai triste e si dolse cogli amici, dicendo che da costoro credeva non s'avesse alcun fermo proposito di resistere al nemico pò di far opere degne di quel popolo che a loro obbediva. E fu vero.

«Sdegnoso allora recavasi in Isvizzera, ove, caduta Milano, si riducevano poi molti dei principali uomini d'Italia. E là ed allora per la prima volta conobbe il Mazzini, da cui allora e poi dissenti su varii punti di minore importanza, come anche in quest’opera in più luoghi traspare e specialmente nel terzo Saggio (5), ove assai lungamente è discorso del patriotta genovese e si discutono alcune sue teorie ed opinioni.

«Non poteva pertanto il Pisacane restarsi ozioso, mentre ancora in qualche angolo d’Italia si combatteva o si preparavano armi. Udito infatti i» Piemonte levarsi soldatesche per la riscossa e ordinarsi reggimenti lombardi, veniva ed otteneva il grado di capitano nel 22°. Ma a lui eran gravi gl’indugii, l'esitanze, le incertezze regali; a lui tardava operare; e fors’anche prevedeva gl'inganni e le imminenti vergogne. Però quando seppe della Repubblica proclamata a Roma il 29 Febbraio 1849, dimesso il suo grado in Piemonte, s’affrettò alla volta della città eterna, pensando che là, sotto una bandiera italiana e per opera del popolo, si compirebbero fatti degni dell'Italia e si combatterebbe davvero. Quando ei giunse il piccolo esercito della nuova repubblica era disordinato e disperso; egli, come uomo di tali cose peritissimo, espose, al Mazzini i suoi pensieri sul modo di raccoglierlo ed ordinarlo.

«Piacquero tanto al Mazzini que’ suoi disegni, che nella tornata dal 15 Marzo propose all’Assemblea si creasse una commissione sulle cose di guerra, la quale e le soldatesche che c’erano riformasse e nuove ne levasse per provvedere alla salute della repubblica. Fu creata la commissione e fra coloro che ne fecero parte, per voto unanime, fu il Pisacane. Sebbene egli modesto com’era, nel libro che scrisse: Guerra combattuta in Italia nel 1848-49, neppure registrasse il suo nome (esempio raro a’ dì nostri pieni d’uomini dappoco e vantatori), pure coloro che il videro in quel tempo e il conobbero, volentieri dichiarano che delle buone cose operate da quella commissione, la quale tanto conferì a difendere la città ed a mantenere la gloria delle armi italiane, parte principale di laude spetta al Pisacane. Ed a lui vogliono debitamente attribuito anche il vanto di avere ordinato il fatto d'arme del 30 Aprile, di tanto onore argomento al nome italiano (6).

«Caduta Roma (7) per le armi di Francia, che, pazzamente, combattendo l’altrui, recise i nervi della propria libertà, il Pisacane, che era restato incerto del partito da prendere, fu, nè mai se ne seppe la causa, imprigionato dai francesi e sostenuto in Castello otto giorni. E ne usciva per le molte istanze che fece la sua diletta amica che sempre lo aveva seguito; ma dovette partire di subito, chè i vincitori tanto temevan de' vinti, di quei vinti che e’ dileggiavano come codardi ed imbelli, che gli contesero per un istante di dimorare nella città.

«E Carlo partiva ed imprendeva di nuovo la via dolorosa dell’esule ed il pellegrinaggio in straniere contrade. E prima per tre mesi abitava la Svizzera, ove all’Italia del Popolo effemeride che allora, direttore il Mazzini, si stampava da esuli italiani in Losanna, dava importanti scritture che sono degne di esser più conosciute e più lette che non fosser finora. Indi recavasi a Londra, ove dando lezioni, campava la vita.

«Ma intanto a più importante lavoro intendeva e, a conforto delle presenti sventure e quasi a dolci rimembranze dei giorni degnamente spesi a pro della patria, scriveva quell’opera di che sopra parlammo, cioè: Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49.

«E la pubblicava poi a Genova, ove, stanco di vivere sotto cielo straniero, si era recato nel Giugno del 1850; e poiché il governo sardo negava concedergli vi rimanesse, egli lungamente vi stiè celato, e tanto vi restò, che alfine l’ottenne. Ed allora si recava ad ab tare fuor di città sull’ameno colle di Albaro, ove meditò e con molte buone letture preparò l’opera che qui si pubblica (8), nella quale, sebbene rimanesse incompiuta e in parte affatto disordinata (ed egli stesso nel suo Testamento politico lo ricorda) pure si veggono idee alte e profonde considerazioni che bastano a dare indizio dell’ingegno e delle opinioni politiche e religiose di quell’uomo singolare e della sua dottrina in cose di guerra».

III

Il bisogno di sventare le mene murattiane, favorite da Cavour; il desiderio di promuovere un largo ed efficace movimento politico, la cui direzione e il cui esito fosse nelle mani della democrazia popolare col quale bilanciare l’influenza monarchica, avversa ad ogni popolare libertà; e finalmente la convinzione che il popolo del regno di Napoli fosse pronto a insorgere; tutti questi motivi andavano, adunque, maturando del pensiero dell’emigrazione italiana in Genova Videa dell’opportunità d’un tentativo nell’Italia meridionale.

Che il popolo delle due Sicilie fosse sull’orlo della rivoluzione non sembrava dubbio, tanto frequenti e chiari ne erano i sintomi. Verso la metà di Novembre del 1856, Bentivegna promoveva una sommossa in Sicilia, e restava ucciso; l'8 Dicembre Agesilao Milano attentava alla vita di re Ferdinando. Il 17 scoppiava la polveriera d’un vascello da guerra, vicinissimo alla reggia, cagionando gravi disastri, spaventando tutta la città, e lasciando settantasette morti e moltissimi feriti. Il 4 Gennaio seguente saltava in aria la fregata Carlo III che stava per partire carica d’armi per la Sicilia, onde sedare la sommossa scoppiata a Cefalù e a Girgenti: cinquanta persone rimanevano uccise, molte ferite e il gas si spegneva in tutta la città. Bande armate formavansi nelle Calabrie; la polizia diventava sospettosa ed inquieta; il console degli Stati Uniti chiamava da Genova una nave per proteggere i suoi connazionali. Tutto, insomma, faceva ritenere imminente uno scoppio.

D’altre parte, il pensiero di Settembrini e compagni, carcerati a Ventotene, acutizzava nell’emigrazione il desiderio di tentare un colpo di mano contro il regno di Napoli, il cui primo risultato sarebbe stato la liberazione di quelli. Qualche tempo addietro, «Panizzi, amico di Settembrini (narra il Saffi), aveva raccolto in Londra una somma di circa 2000 sterline, per la compra di un battello a vapore da destinarsi all’impresa. Il ministro inglese a Torino, sir James Hudson, ne parlò a Bertani; questi a Garibaldi, allora in Genova e disposto a tentare il colpo. Giacomo Medici fu incaricato della compra del vapore, il quale essendo di poca portata e fluviale, al passaggio dello stretto di Calais andò a fondo. Bertani insistette invano per tentare la prova con mezzi maggiori, guardando alla liberazione dei prigionieri e del paese ad un tempo; ma non se ne fece altro.»

Come si vede, l’idea di un tentativo nel Sud aveva lontane radici nel pensiero della democrazia italiana. Essa era andata, sotto la pressione dei motivi cui abbiamo accennato, crescendo a poco a poco e prendendo corpo. All’infuori dei tentativi o dei disegni lasciati a mezzo, ne furono frutto dapprima la spedizione di Pisacane, poscia quella di Garibaldi; l’una e l’altra infelici: la prima, perchè, condotta da un uomo che oltre essere soldato era anche uomo politico, fu miseramente schiacciata; la seconda, perchè, condotta da un soldato valoroso ma inabilissimo politico, sorti effetto del tutto opposto a quello che la democrazia italiana si riprometteva, calcolando sopra un movimento nell’Italia meridionale. Mentre, cioè, la democrazia italiana voleva, come abbiamo visto, creare nel Sud un movimento che bilanciasse l’influenza monarchica del Piemonte, e recasse quindi nella compagine della nuova Italia una corrente sincera e profonda di libertà popolare; la spedizione di Garibaldi, in grazia dell'inabilità politica del suo capo, riuscì puramente e semplicemente a un grandissimo accrescimento e a un’immensa estensione dell’influenza monarchica, senza che la libertà popolare avanzasse di un passo od ottenesse una sola garanzia di più.

Ma torniamo a Pisacane.

L’idea d’una spedizione nel napoletano era, dunque, diffusa tra l’emigrazione italiana a Genova tra ’56 e il ’57. Pisacane che allora abitava, come abbiamo visto, questa città, si impadronì di quell’idea e cominciò nell’estate del '56 a concertare i mezzi e gli aiuti con Mazzini. Questi si recò a Londra e là insieme con Saffi, con Miss Jessie Meriton White, che fu poi moglie di Alberto Mario, e con altri, si diede ad agitare l’opinione pubblica inglese per raccogliere i fondi necessari all’impresa; giacché dall'Italia poco danaro veniva, e quel poco quasi esclusivamente da operai. In principio del maggio del 1857, Mazzini avendo raccolto quanto poteva bastare per avviare il moto, ritornò a Genova. E i preparativi della spedizione incominciarono.

I congiurati dovevano. una parte imbarcarsi insieme con Pisacane, il 10 giugno, come viaggiatori sul Cagliari; e una volta imbarcati, impadronirsi con un colpo di mano del battello, e dirigerlo su Ponza, e poi sulla costa; un’altra parte con una barca a vela andar ad attendere i primi a Portofino, recando seco 250 fucili e una provvista di munizioni. Una volta questo piano riuscito, dovevano seguirli altri mille uomini che in Genova erano pronti ad insorgere, onde impadronirsi di armi e munizioni negli arsenali, occupare la fregata ad elice Carlo Alberto e dirigersi con essa sulle due Sicilie dietro la prima spedizione.

«Il giorno 8 (narra Saffi) Pisacane, ricevuti in sua casa alcuni giovani di buona volontà, desiderosi di aggiungersi agli altri che avevan giurato di seguirlo, tenne loro questo semplice discorso che par d’eroe antico: «Noi dobbiamo portarci in una spiaggia del regno di Napoli, e, sbarcati colà, iniziare la rivoluzione. Le popolazioni ci aspettano. Alla notizia del nostro sbarco, le principali città d’Italia si solleveranno. La mina è apparecchiata dapertutto: occorrono solo i pochi che vi mettano il fuoco; e questi pochi saremo noi. Per arrivare più presto al luogo designato è necessario un vapore. Bisogna impadronirsene. Ma per tal fatto, non possiamo, qui in Genova, portare a bordo le armi, le munizioni, e gli uomini che sono pronti come voi. Una barca a vela, che dovrà trovarsi sulla via che percorre il vapore, ci fornirà l’occorrente. Noi c’imbarcheremo come passeggieri; saremo armati di pugnali e pistole; saranno con me parecchi bravi marinai, risoluti come voi a sacrificare la vita per la libertà. Essi s’imbarcheranno come uomini della loro professione che vadano in Sardegna per loro affari; e basteranno per condurre a buon «fine le operazioni da farsi sul vapore. Noi c’imbarelleremo con finti nomi. Gli altri ci segui«ranno sulla nave. Al momento opportuno, io «darò il segnale, ponendomi un berretto rosso «in testa; e voi farete tutti il medesimo, perché possiamo conoscerci. A questo segnale assali«remo gli ufficiali del battello, obbligandoli a cedere il comando, e lo dirigeremo dove dobbiamo andare. Sono persuaso che non faranno contrasto, sapendo da noi il motivo del fatto, perchè sono Italiani anch’essi. Se resisteranno, allora ci bisognerà vincere o morire.»

«La mattina del 10, gli uomini destinati all’imbarco sul Cagliari, prendevano separatamente, e come ignoti gli uni agli altri, il biglietto di viaggio. Il battello doveva partire alle sei pomeridiane. A un tratto si seppe che la barca uscita il di innanzi, essendo stata sbattuta la notte dalla burrasca, e costretta a gittare in mare armi e munizioni, era rientrata in porto. A questo colpo improvviso, Pisacane, temendo, per l'indugio di funeste impressioni e pericoli in Napoli, deliberò di recarvisi subito e solo, profittando di un vapore postale che partiva la sera stessa da Genova, onde spiegare in persona agli amici la ragione del ritardo, e prendere con essi nuovi e migliori accordi. Andò, vi si trattenne due o tre giorni, e tornò esultante di entusiasmo, convinto che colà tutto era pronto, lo spirito pubblico unanime, l’esito certo: non mancava che la prima scintilla a far che l’insurrezione divampasse da un capo all’altro del regno. — Non badiamo al numero, diceva egli a Mazzini, pochissimi, dieci animosi bastano.

«Frattanto a Genova nulla era trapelato del disegno. Il segreto fu custodito fedelmente da tutti; e stabilirono di rimettersi all’opera il 25 di giugno, al ripartire del Cagliari per l'usato viaggio.

«L’eroico drappello, capi Pisacane, Nicotera e Falcone — 26 uomini in tutto — sali a bordo» (9).

La barca a vela che doveva recar loro le armi, e sulla quale stava fra altri Rosalino Pilo, s'era mossa qualche tempo prima. Ma sia che avesse sbagliato strada, sia in causa della nebbia, malgrado i segnali convenuti, la barca e il battello non poterono incontrarsi. Stavano per rinunciare un’altra volta all'impresa, quando Nicotera scoprì a bordo del Cagliari armi e munizioni a sufficienza. I congiurati, quindi, visto che potevano dal battello stesso avere quelle armi che avrebbe dovuto portar loro la barca, senza più posero agli arresti il capitano Sitza e lo sostituirono col capitano Daneri, che era dei loro e s’era con loro imbarcato appositamente; costrinsero due macchinisti inglesi dell'equipaggio, aiutati da altri quattordici uomini a manovrare; rassicurarono i pochi passeggieri, e si diressero all’isola di Ponza.

IV

Frattanto, in Genova, gli altri partecipi della congiura, badavano all’attuazione della seconda parte del piano che era, come abbiamo detto, occupare l’arsena!e di marina e quello d’artiglieria, detto dello Spirito Santo, impadronirsi della fregata ad elice Carlo Alberto, ancorata nel porto, coi marinai della quale erano state prese intelligenze, caricarvi quante armi e munizioni fosse possibile trasportare dagli arsenali, e mettersi in mare dietro il manipolo partito con Pisacane.

Questo tentativo era fissato per la notte del 28 al 29 giugno, dice la Mario; del 29 al 30 scrive Saffi.

Quest’ultimo prosegue a narrare cosi:

«Ad attuare il disegno, spartite le forze in più gruppi, l’un d’essi, composto in gran parte di marinai e di operai della Darsena, doveva impossessarsi dell’arsenale della marina; un altro, pur di operai, dell’arsenale dello Spirito Santo; un terzo, di borghesi, del palazzo ducale, sede dei Governo; un quarto, del forte dello Sperone, presidiato appena da una cinquantina di soldati; e finalmente un sesto, composto d’emigrati residenti in Genova, servir di riserva in piazza dell’Annunziata, pronto ad accorrere dove fosse necessario. La giornata festiva, e il molto popolo sparso per la città, favorivano gli assembramenti, il moto, i convegni nei luoghi assegnati. Gli uomini vi si accoglievano, sull’imbrunire, alla spicciolata, quieti, senza destare attenzione o sospetto. Pochissimi furono gli assenti. La città era tranquilla ed allegra. Nessun provvedimento rivelava che le autorità avessero sentore di ciò che stava per accadere. La sorpresa doveva aver luogo dopo la mezzanotte. Presso gli arsenali, in apposite cantine, erano apparecchiati depositi d’armi, di attrezzi, di sacchi con polveri, p,er forzare porte ed ostacoli; prescritto con severi ordini agli operai di non usare violenza contro i soldati e i custodi dei posti da assalire, se non per necessaria difesa; ingiunto a tutti, comechè non occorresse, di rispettare le persone, gli averi e le case dei cittadini. Mazzini stesso scrisse di suo pugno le norme da osservarsi, perchè l’ordine pubblico non patisse danno e il moto popolare nota di tristi fatti: documento che fu sottratto agli atti del processo che poi seghi, per aggravare l’accusa.

«D’improvviso, verso le dieci di sera, si vide un insolito movimento negli uffici della polizia e della prefettura. Un battaglione di bersaglieri, chiamato in fretta dal palazzo ducale, si dispose a difesa, asserragliando le porte. Furono posti quattro soldati ad ogni finestra, spenti i lumi delle camere, i fanali delle vie contigue; nello stesso tempo, negli arsenali, e a bordo del Carlo Alberto. si facevano subiti provvedimenti per respingere un assalto» (10).

Che era accaduto?

All’ultim’ora, vuolsi, (ma i sospetti non sono suffragati da prove positive), per tradimento d’uno dei congiurati, un amico del generale Durando fu informato di quanto si tramava. Costui avverti il generale Durando e nello stesso tempo avvisò Mazzini che la sorpresa ormai non era possibile. Mazzini chiamò subito a consiglio i membri dei Comitati, e non ostante che i più accesi fossero del parere di compiere egualmente il tentativo, prevalse, sull’avviso anche di Mazzini, il partito di desistere, visto che sarebbe stata necessaria una lotta contro il governo piemontese, la quale avrebbe fatto cattiva impressione nel resto d’Italia, e considerato anche che se Pisacane fosse stato vittorioso l’entusiasmo popolare avrebbe costretto il governo sardo a cedere di buona grazia.

Furon dunque dati i contrordini, dovunque eseguiti tranne che al forte Diamante. «Sventuratamente (scrive la Mario) il contrordine non giunse in tempo a quelli del lontano forte Diamante; i quali amicatasi la guarnigione giuocando da varie settimane alla palla e suonando l’organetto, quella notte entravano nel forte, invitati a festa già concertata, e di repente impadronitisi della guarnigione occuparono il forte e approntarono le artiglierie. Cadde il sergente Pastore, ucciso da un giovinetto, uno dei cospiratori, che tirò per paura e senza necessità (11)

Mazzini aveva avuto appena tempo di salvarsi prima in casa Profumo, di là in una casa di campagna affittata all’uopo da Carlotta Benettini, e d’indi in Inghilterra, che segui un processo per alto tradimento, in cui i magistrati della monarchia sabauda, non meno feroci di quel che furono in quel torno di tempo i magistrati borbonici contro i resti del drappello di Pisacane, pronunciarono sei condanne a morte (tra le quali Manzini) e moltissime ai lavori forzati.

Ma torniamo al Cagliari che abbiamo lasciato in rotta per Ponza.

Sbarcati in quest’isola i congiurati s’impadronirono del forte, intimarono al comandante la resa delle armi e ’a consegna delle chiavi delle prigioni. Liberarono e armarono trecento prigionieri, li unirono alla spedizione, e tutti tornarono a imbarcarsi a bordo del Cagliari, e mossero verso la costa.

Pisacane, come abbiamo visto, si riteneva sicuro che la popolazione delle due Sicilie avrebbe risposto. Ma sia in causa dello smarrimento di una lettera e del ritardo di un telegramma convenzionale scambiati tra Pisacane e il Comitato di Napoli; sia perchè uno dei prigionieri liberati a Ponza era riuscito ad evadere sopra una barca, e giunto a Napoli vi aveva portato la notizia del prossimo arrivo di «una masnada di galeotti fuggiti»: fatto sta, che arrivati sulla costa e sbarcati a Sapri, i congiurati invece di trovare gli amici e i cospiratori del napoletano, vi trovarono una folla sospettosa ed ostile.

Da Sapri giunsero a Torraca dove Pisacane fece leggere il seguente proclama:

«Cittadini, è tempo di porre un termine alla sfrenata tirannide di Ferdinando II. A voi basta volerlo. L’odio contro di lui è universalmente inteso. L’esercito è con noi. La capitale aspetta dalle provincie il segnale della ribellione per troncare in un colpo solo la questione. Per noi il governo di Ferdinando ha cessato di esistere. Ancora un passo ed avremo vinto. Facciamo massa e corriamo dove i fratelli ci aspettano. Su dunque, chiunque è atto a portare armi ci segua: chi non è abbastanza forte per seguirci ci consegni l’arme. Noi abbiamo lasciato famiglia ed agi di vita per gettarci in un’intrapresa che sarà il segnale della rivoluzione: e voi ci guardate freddamente, come la causa non fosse la vostra? Vergogna a chi potendo combattere non si unisce a noi! Infamia a quei vili che nascondono le armi piuttosto che consegnarle! Su dunque, cittadini: cercate le armi nel paese e seguiteci. La vittoria non sarà dubbia. Il nostro esempio sarà seguito dai paesi vicini, il nostro numero crescerà ogni giorno ed in breve tempo saremo un esercito. Viva l’Italia!»

Ma queste calde parole non ebbero virtù di scuotere la popolazione, e il manipolo abbandonò Torraca e passò il 30 giugno a Padula.

«Il 1° luglio (narra la signora Mario) tennero testa a 800 militi urbani uniti a 200 gendarmi e riuscirono a fugarli per un po’; ma questi rinforzati da otto compagnie del 7° reggimento cacciatori, comandati dal tenente colonnello Ghio, ritornarono, istigando la popolazione a secondare i loro sforzi per liberarla «dagli evasi galeotti, assassini e ladri». Finché ebbero munizioni, gli eroi tennero testa, poi fu ordinata la ritirata sui monti; ma la plebaglia inferocendo ne trucidò gran numero con forche, zappe, spiedi: 111 caddero, e il Ghio ne fucilava 35 fatti prigionieri. I capi con soli novantatré superstiti presero le montagne di Buonavitacolo nella Valle di Diano per tentare il Cilento, e all’alba del 2 luglio giunti a Lanza spiegarono la bandiera tricolore gridando: «Viva l’Italia, viva la libertà.» Ma gli abitanti guidati da preti si gettarono come belve sui generosi, e con scuri, coltelli e qualche fucile trucidarono al suono delle campane a stormo quanti poterono. I pochi superstiti di Ponza si diedero alla fuga, e Nicotera indarno li seguiva per indurli a tornare. Pisacane, Falcone e alcuni dei venuti da Genova, furono cacciati dal popolo entro un burrone all'ingresso della borgata. Qui vennero a morte: si disse che Pisacane e Falcone si tirarono un colpo di revolver alla testa; ma il fatto sta che dal furore di quelle iene in forma umana che stavano loro addosso furono resi irriconoscibili al punto da non distinguere la bionda testa di Pisacane da quella bruna di Falcone» (12).

Non occorre qui, per il nostro compito, narrare il processo che seguì e nel quale vennero condannati i pochi superstiti alla morte e all'ergastolo. Basterà ricordare che Cavour scrisse tosto al ministro Groppello:

«Il deplorando e criminoso fatto ha destato l’indignazione del Governo, indignazione divisa da ogni sensata ed onesta persona. La S. V. potrà esprimere a nome mio questo sentimento al ministro di S. M. Siciliana» (13) — e che il governo piemontese fece sequestrare a Genova e spedire a Salerno tutti i libri del Pisacane, richiesti dalla polizia napoletana per sostenere l’accusa (14).

V

I limiti assegnati a questa Prefazione hon ci permettono di dilungarci molto nell’esame del pensiero politico-sociale di Carlo Pisacane, il quale del resto, sarà reso pienamente chiaro ai lettori di questa Biblioteca dal Saggio sulla Rivoluzione che in' avvenire ripubblicheremo.

Basterà qui dire che Carlo Pisacane fu il primo socialista italiano; e fu non già un precursore del socialismo, ma un socialista completo, nel senso moderno del vocabolo, perchè del socialismo, quale noi lo vediamo oggidì, comprese e sviluppò le idee fondamentali. Egli fu poi. naturalmente, un repubblicano-socialista, giacché, cinquantanni fa lo smembramento dei due concetti e dei due partiti non era né pensato né pensabile.

Pisacane sviluppò tutti i punti cardinali del socialismo moderno. Il suo pensiero è sostanziato di materialismo storico. Primo tra gli scrittori italiani, egli pone alla base delle sue teorie politico-sociali un tentativo d’interpretazione economica della storia d’Italia. Primo egli mostra di avere impregnata la mente di questo concetto che le libertà politiche non possono sinceramente sussistere, finché sussiste il predominio economico dei pochi sui molti; e che, tolto questo predominio e assisa la libertà economica sull’ordinamento socialista, come le libertà politiche diventeranno attive, cosi si faranno vive ed operanti le virtù pubbliche, perchè, allora, l’interesse privato e quello pubblico agiranno nella medesima direzione (15).

Per quanto riguarda, in modo particolare i concetti militari del,Pisacane noi dobbiamo richiamare l’attenzione del lettore su due circostanze importanti.

Quando si leggeranno in questo volume delle idee le quali, sebbene sostenute da dimostrazioni rigorose e da fatti palpabili, pure sono in contraddizione con le idee comunemente accettate — e vogliamo alludere specialmente  allá grande superiorità accordata alle milizie cittadine sugli eserciti permanenti, e al sistema del suffragio universale per la nomina dei capi e per l’avanzamento — quando si leggeranno queste idee, non si sorrida come di facile utopia fiorita nel cervello d’un sovversivo spoglio di cognizioni precise e speciali. Si rifletta invece che queste idee, oltre che imporsi all’attenzione per il rigore del ragionamento e l’evidenza dei fatti con cui sono sostenute, derivano anche un’importanza particolare dal fatto che colui che le enunciava e le riteneva attuabili e buone, era precisamente un tecnico, usciva da un collegio militare, ed era ufficiale di un’arma dotta, del genio. E si noti che dello spirito tecnico dell’ufficiale dotto, che esce da un corso regolare di istruzione militare, Carlo Pisacane non si spogliò mai, cosi vero che delle censure da lui mosse a Garibaldi, e da noi riferite più sopra, alcuni attribuirono la cagione alla diffidenza di un militare di professione, educato in un collegio militare, stato ufficiale in eserciti regolari, verso chi questa educazione militare e questa regolarità di carriera non possedeva.

Si osservi in secondo luogo, come fatti recentissimi siano venuti a confermare splendidamente il pensiero di Pisacane per quanto' riguarda le milizie cittadine e la loro immensa superiorità sopra gli eserciti permanenti.

I lettori intendono che noi alludiamo alle due guerre del Transvaal e delle Filippine, nelle quali gli eserciti permanenti di due formidabili potenze non riescono ad aver ragione della resistenza di un pugno di contadini. Nelle quali da una parte, dopo anni di guerra i Filippini tengono ancora il campo a pochi chilometri da Manila; e dall’altra lo stesso sir Alfred Milner, governatore della Colonia del Capo, è costretto a confessare nella relazione presentata nell'aprile di quest’anno al governo di Londra, che non si vede ancora quando possa giungere il punto che separi definitivamente lo stato di guerra da quello di pace. Cosi poche milizie cittadine sono riuscite a costringere uno dei più grandi imperi del mondo, a immobilizzare per anni le sue forze in un punto del globo — e, finora, senze risultato concreto —; e, per di più, lo hanno precipitato in uno sbilancio di un miliardo e mezzo di franchi.

Queste recenti conferme rendono più interessanti é notevoli i concetti militari di Pisacane, i quali riteniamo anche rivedano la luce in momento opportuno, essendo appunto ora la questione militare quella che, in sensi opposti, occupa maggiormente gli animi e tiene il maggior posto nelle discussioni dei partiti politici italiani (16).

VI

Abbiamo premesso a queste linee la sentenza di Victor Hugo: «Pisacane è più grande di Garibaldi».

Non è una semplice frase rettorica. Pisacane concepì la stessa impresa di Garibaldi, e recò in atto il suo concepimento, con valore non inferiore, e con mezzi assai più esigui. Solo chi si lascia abbagliare dal successo può considerare moralmente più grande colui cui l’impresa riusci fortunata di colui che prima la iniziò con la medesima virtù e che per essa diede la vita.

Ma v’è di più. Se Pisacane non fu inferiore a Garibaldi per valore, per intrepidità, per sagacia militare, egli lo superò grandemente per il pensiero politico.

Abbiamo veduto più sopra che lo scopo col quale la democrazia italiana mirava a portar la rivoluzione nel Sud, era quello di controbilanciare l’ascendente che le tendenze monarchiche andavano acquistando nell’Alta Italia. Il partito d’azione era unitario e repubblicano. Ma prima di tutto, e di gran lunga, unitario. Mazzini stesso aveva più volte dichiarato di subordinare il concetto della repubblica a quello dell’unità — il che equivaleva a dire che il partito d’azione non avrebbe combattuta la monarchia che si fosse proposta di attuare l’unità. E queste dichiarazioni furono sempre confermate dai fatti.

Ciò posto, l’idea di controbilanciare mediante un movimento nel Sud l’influenza monarchica del Nord, non mirava affatto alla creazione d’una repubblica nel l’Italia meridionale — il che sarebbe venuto a distruggere la suprema aspirazione del partito d’azione: l’unità -; ma mirava a creare una viva corrente di democrazia popolare, e farla penetrare irresistibilmente nello Stato, e a trasformare la compagine politica che si andava formando in uno Stato veramente democratico. Per ciò fare bisognava obbligare il pallido costituzionalismo del regno piemontese ad accettare quei postulati più avanzati, ad ammettere quelle garanzie più esplicite e sicure, che il partito d’azione voleva; e combinarlo e fonderlo insieme colle tendenze della democrazia popolare italiana.

A raggiungere questo fine, il partito d’azione mirava a promuovere un movimento nel Sud. Imperocché, una volta che mezza Italia fosse stata liberata per opera del partito d’azione, una volta che questo avesse potuto predominare indiscutibilmente sopra metà della penisola, era evidentemente possibile ed agevole imporre patti al governo piemontese e trascinarlo, volente o nolente, ad aprire le porte ad un sincero riconoscimento della democrazia, codificando (per scendere ad esempi) fin da allora la libertà di stampa che già Cavour manometteva in modo indecente contro l’Italia del Popolo di Genova; il diritto di riunione e di associazione, violati di continuo e spudoratamente dal grande ministro; il suffragio universale, il Senato elettivo, ecc.

Come si vede, l’opera cui stanno attendendo ora i partiti popolari italiani, tra difficoltà immense e con lontanissima speranza di riuscita, doveva, nel pensiero del partito d’azione, compiersi d’un subito cinquant’anni fa, mediante il moto del Sud. E avrebbe potuto compiersi se l’eseciutore di questo fosse stato politicamente più accorto.

Che fece invece Garibaldi? egli fu un eroico esecutore materiale del piano. Ma quando si trattò di trarre dalla buona effettuazione dell’impresa quei fratti per i quali appunto la democrazia italiana l’aveva vagheggiata e promossa, Garibaldi si lasciò miseramente raggirare dai mestatori cavourriani, e dopo aver prima mostrato di volere la nomina dell’assemblea costituente la quale avrebbe potuto seriamente discutere e stabilire i patti per l’annessione al Piemonte, dopo aver decretato l’annessione di sua esclusiva volontà, finalmente, come volevano gli emissari piemontesi, finì per promuovere il plebiscito sulla questione pura e semplice dell'annessione o meno. Cosi dopo una serie di tentennamenti e di voltafaccia di Garibaldi, l’annessione avvenne senza nessun patto, senza nessuna conquista liberale introdotta per compenso nel magro Statuto Albertino, come un mero trionfo dell'esile costituzionalismo piemontese sulla democrazia popolare.

Per opera, dunque, di Giuseppe Garibaldi lo scopo che il partito d’azione si prefiggeva nel suscitare un moto nel Sud, andò completamente fallito. E la potente leva con cui quel partito poteva agire per democratizzare il nuovo Stato la rivoluzione dell’Italia meridionale — fu spezzata per sempre.

Quale differenza tra Garibaldi il quale, pure eseguendo il piano in modo, dal punto di vista guerresco, mirabile, si smarrisce poi nei meati della politica, e lascia che altri sfruttino tutto il vantaggio che il suo partito — vale a dire la democrazia e la libertà italiane —-si ripromettevano dal moto; e Carlo Pisacane, il cui braccio si muove guidato da un pensiero politico chiaro, nitido, fisso, preciso; pensiero che egli condensa prima di partire nel suo testamento politico e nei manoscritti dei suoi Saggi! Fra i se della storia possiamo mettere sicuramente anche questo: che se al valore di Carlo Pisacane avesse corrisposto la fortuna di Garibaldi i destini della libertà e della democrazia in Italia sarebbero stati ben altri.

E intanto mentre il nome di Garibaldi è circonfuso dalla venerazione della turba, mentre mille scalpelli d’artisti ritraggano su mille piazze l’effige del Dittatore, mentre a lui si leva il canto dei nostri più grandi poeti, il nome di Carlo Pisacane è quasi obbliato. Eppure in mezzo al gran romore di gloria che circonda Garibaldi, dovrebbe poter esservi posto, nell’animo di quelli che non subordinano le loro ammirazioni alle impressioni altrui, ma le determinano a se stessi mediante l’esercizio critico del proprio pensiero, per questo eroe, grande per la grandezza della mente, del valore, della sventura, che fu Carlo Pisacane.

O Verità — cinta di quercia, quando

canterai tu per i tigli d'Italia,

quanto per tutti gli uomini canterai

tu questo canto?

GIUSEPPE RENSI

Ordinamento e Costituzione

DELLE MILIZIE ITALIANE

SAGGIO DI

Carlo Pisacane

CAPITOLO PRIMO

I. Quali sono le verità, quali le conseguenze che in argomento possiamo dalla storia ricavare?
Vicende storiche dell’arte della guerra.
I. Riassunto delle vicende dell’arte bellica. — li. I suoi periodi. — III. L'antico e il moderno generale. — IV. Le antiche e le moderne milizie.
I . Quali sono le verità, quali le conseguenze che in argomento possiamo dalla storia ricavare?

1.° E’ fatto costantemente confermato che: fra un popolo libero l’arte della guerra progredisce rapidamente, sotto la monarchia procede incerta e lenta o decade, trasformandosi i generali in cortigiani, e l'arte riducendosi a gretto meccanismo. In Roma libera l’arte bellica progredì sempre sino a Scipione; quindi comincia a decadere con la libertà, e perdesi nella barbarie. Nel medio evo, si sviluppa in Italia fra le libere genti, resta interdetta oltremonte fra gente schiava. Questi stranieri imparano l’arte surta fra i liberi Italiani, ma per tre secoli avanza lentamente, qualche volta indietreggia, finché il popolo francese divenuto libero la sospinge rapidamente al suo apogeo. Da questa legge immutabile risulta che le monarchie non fondano nazioni, ma imperi; le loro opere sono brevi quanto la vita di grandi guerrieri che assai raramente sortono dalle aule della reggia; Cesare e Napoleone sono figli della rivoluzione, e guerreggiano con l’arte surta fra liberi popoli; Alessandro nacque re, ma si giovò di quella tattica, surta con Epaminonda fra i liberi Greci. Per contro le conquiste, le opere di un popolo sono eterne, perché traggono origine dall'ingegno universale e costante di un’intera nazione e non già d’un uomo.

2.° Se l’arte la vediamo sviluppata o interdetta insieme alla libertà, questa riceve vita o morte dalla costituzione militare. Quando la corruttela ed il lusso disawezzano i cittadini dalle armi, e della guerra si fa un mestiere, la libertà è distrutta; ed in ragion diretta del distacco fra cittadino e guerriero la tirannide diventa più dura. La Roma del popolo, libera e gloriosa, in un giorno raccoglieva i militi, inalberava le insegne ed usciva a guerra; divenne schiava quando i pretoriani successero all’esercito cittadino.

I liberi italiani dell’undecimo e duodecimo secolo erano tutti guerrieri, e quando affidarono le armi ai mercenarii, i capi delle fazioni si fecero tiranni.

Fintantoché dalle adunanze giacobine correvasi alle bandiere, la Francia fu libera; Dumourier dovette cercar salvezza tra le file nemiche; l’esercito non secondò i suoi voleri; l’amore alla patria prevaleva; ma quando i volontari divennero veterani affezionati ad un capo, un drappello di granatieri cacciò di seggio i rappresentanti della nazione. Conchiudiamo: con guerrieri assoldati e perpetui è

impossibile la libertà, e senza la libertà l’arte bellica Ersta interdetta. Apologisti degli eserciti permanenti, negate, se potete, trentadue secoli di storia (17).

II. I Romani, il medio evo, i moderni, sono le tre grandi epoche in cui può dividersi la storia dell’arte della guerra; ognuna di queste epoche ha un carattere suo proprio, che noi porremo in evidenza. Le armi, la tattica, la strategia, sono i tre principali rami dell’arte; noi ricercheremo, riassumendo il detto (18), la parte che ebbero gli italiani al loro progresso.

Le armi dei moderni sono di molto superiori alle antiche, e più popolari. L’uso di quelle richiedeva maggior prodezza, virtù individuale, mentre l’uso nelle armi moderne richiede ordine, virtù collettiva. L’epoca del medio evo fu epoca di transizione tra quelle e queste, e vi troviamo perciò le antiche degenerate in quelle pesanti armature che toglievano in gran parte la facoltà d’offendere, e le moderne imperfettissime e poco comuni.

Gl’Italiani non ebbero picciola parte nell’introdurre l’uso delle armi da scoppio e perfezionarle: eglino i primi usarono la polvere in guerra; è invenzione italiana la piastra a pietra focaia sostituita alla serpe con la miccia; è invenzione italiana la pistola, arma utile alla cavalleria; il perfezionamento del tiro delle artiglierie è dovuto al Tartaglia; finalmente pare che al Delanne da Napoli debbasi il perfezionamento, non ancora universalmente conosciuto, del moschetto da guerra; egli, conservando solidità e semplicità nell’ordigno, ha ottenuto, con l’innescamento continuo, la massima sollecitudine nel caricare; vantaggio, secondo me, di tale importanza, che darà a quest’arma, ben presto, una superiorità su quelle che li oltramontani chiamano di precisione.

Gli ordini sono una conseguenza immediata delle armi; quelli dei Romani ed i moderni possono entrambi dirsi perfettissimi; il manipolo fu per la spada e lo scudo l'ordine più adatto, come il battaglione lo è pel moschetto; nel medio evo gli ordini furono transitorii ed oscillanti come le armi. Gl’Italiani non hanno avuto parte veruna al perfezionamento degli ordini moderni, i quali successivamente vennero migliorati da oltramontani. Federico II li perfezionò, Guilbert ragionò diffusamente e ridusse a teorica quello che fu da Federico praticato.

Fin qui delle armi: passiamo alla tattica. Le colonne che prontamente spiegano sulla testa o schierano sui fianchi; la ripartizione dell’esercito in varie schiere, disposto in modo che l’una protegga la ritirata dell’elitra, o ad essa si sostituisca o prontamente la rin fianchi; la continuità nella linea di battaglia; il correre con le migliori schiere sul punto debole del nemico, o spuntarne le ali, o minacciarlo di costa, od alle spalle; l’operare sul punto attaccato uno sforzo continuato e crescente, sono evoluzioni, son mosse di guerra, sono precetti, i quali stabiliscono i principi!, e costituiscono la teorica di tutta la tattica moderna; e queste evoluzioni, queste mosse, questi precetti vennero adottati successivamente dai moderni ad imitazione dei Romani, distaccandosene solamente nei particolari, negli elementi, che naturalmente dipendevano dall’ordinamento diverso delle schiere; e quindi altro non hanno fatto, che usare le loro armi, adattare le loro ordinanze in quell'ordito tracciato dagli Italiani.

L’alternare poi con somma prontezza l’ordine continuo e l’ordine ad intervalli, il sottile ed il profondo, è una delle superiorità che la tattica moderna ha su quella degli antichi, ed un tale progresso, un tal miglioramento è dovuto ai Francesi.

Fin qui delle armi e della tattica. La strategia fu dai Romani adoperata su vaste regioni, attesa la natura delle guerre da essi guerreggiate; inoltre in quell’epoca v’erano poche strade, e però pochi i punti strategici; gli eserciti non molto numerosi e trasportando seco loro le vettovaglie, i loro trincerati alloggiamenti, che servivano ovunque di base o sede momentanea della guerra, diedero ai loro concetti strategici un carattere grandioso, ma semplice. Durante il medio evo osservammo (19) in Italia pari maestria nel valersi di quest'arte, ma in ristrette regioni, imperocché picciolissimi gli Stati in cui il feudalismo avea spezzata l’Italia. Presso i moderni moltissime strade, città, piazze forti che attraversano, difendono, popolano il teatro della guerra, quindi resa complicatissima l'arte ed accresciute le difficoltà di valersene. Inoltre la vastità del paese necessario al sostentamento de' numerosi eserciti, ha reso necessarie quelle marce, su di un’estesa fronte di operazione, e quindi diè origine ad evoluzioni strategiche sconosciute agli antichi. Tutta l'arte strategica praticata in questi tre periodi, può teoricamente ridursi a due principii fondamentali, il primo è italiano: condurre il grosso delle schiere in quei punti, che signoreggiano il teatro della guerra. L'altro è d’origine francese: correre su codesto punto, con tali evoluzioni, che nascondano il proprio disegno, e chiudano al nemico la ritirata.

Finalmente l’adattamento della tattica al terreno, la gettata delle armi, il numero dei combattenti, hanno reso l’arte del vincere le battaglie più difficile, più sublime, più vasta; scemata l’importanza del valore individuale, accresciuta quella del numero delle schiere e richiesto nel generale un ingegno più vasto, un vedere più pronto. Su tale soggetto ci faremo a ragionare nei due seguenti paragrafi.

III. A discernere la differenza che passa fra un generale moderno, e quello degli antichi, bisogna paragonare le loro incumbenze prima della battaglia, durante la battaglia, e dopo la battaglia.

Il Console romano destinato a condurre l’esercito, sino ad un certo punto, non doveva seguire che regole prestabilite; i militi si ripartivano ne’ loro ordini in un modo costante; ideato il disegno strategico, l’esercito, tutto raccolto, muoveva verso il suo obbietto. Stabiliva il Console il sito, tracciavano i tribuni l’invariabile accampamento, ove l’esercito eziandio a fronte del nemico riposava sicuro. Per converso, un generale moderno, adottato il disegno strategico, secondo questo deve stabilire i magazzini e le vie per condurre le vettovaglie, quindi dividere l’esercito in varii corpi, la cui forza, e le proporzioni che in ciascuno di essi serbar debbono le diverse armi non sono da nessuna regola stabilite, ma dipendono dalla natura del disegno di guerra, e del terreno sul quale deve effettuarsi. La marcia è una continua evoluzione, e quindi per ogni colonna bisogna stabilire un itinerario, regolato secondo l’asprezza, la lunghezza della strada che deve percorrere onde compiere la sua speciale incombenza. Se accampa, il generale deve essere sempre apparecchiato a ricevere battaglia, e pronto, nel caso d’impreveduto attacco, a rintuzzare il primo impeto nemico, per poi indovinare il disegno e regolare le proprie mosse.

Il giorno della battaglia senza correre rischio veruno, il generale, presso gli antichi, esaminava il campo nemico, numerava le sue schiere, e quindi adattava al terreno ed alle circostanze l’invariabile schieramento del proprio esercito. Presso i moderni, invece, egli deve approssimarsi alla gittata del moschetto, e quasi combattendo, esaminare la postura; sovente l’occhio non abbraccia l’estensione del campo; i boschi, i poggi, i burroni, i villaggi nascondono le schiere, ed i suoi disegni non possono che indovinarsi. Esaminalo il preparamento dell’avversario e la chiave delle sue difese, se il disegno è di assalire, bisogna apparecchiarsi in modo da dirigere su quel punto i maggiori sforzi, distogliere e richiamare altrove l’attenzione del nemico, e non trascurare la tutela del proprio campo. Se vogliasi invece rimaner sulle difese, fa d’uopo prevedere gli attacchi, essere pronto a rintuzzarli, arrestandoli di fronte, minacciandoli di fianco, o pigliar la volta ad assalire. In ogni caso, dovrà essere mira precipua del generale quella di minacciare la linea delle operazioni del nemico, garantire la propria e proporzionare i sacrifizii a farsi coi vantaggi che si sperano; tutto ciò non è che il primo ordito del progetto di una battaglia. Stabilite queste norme, bisogna discendere ai particolari: disporre l’attacco, o i vari attacchi, indirizzarli al medesimo scopo, legarli insieme, determinare in ognuno la natura delle armi e la proporzione fra esse, l’ordine da serbarsi nel combattimento, come governarsi se vincitori, come se vinti. Per risolvere cotesti diversi problemi, la dottrina ed i lunghi studi non bastano, ma vuoisi eziandio quell'attitudine naturale, quel pronto e perspicace vedere, che in un attimo compendia il sapere, l’adatta alle circostanze, e manda fuori il concetto senza percorrere una serie di ragionamenti, nella guisa stessa che si pronuncia una parola senza il bisogno di sillabare.

Presso gli antichi il capo dell'esercito aveva sotto i suoi occhi l’intera linea di battaglia, e con facilità giudicava dello stato del combattimento, ed ordinava le mosse; ma oggi la cosa è ben diversa: sovente il generale, dal fumo, dal lampo delle armi, dal fragore deve giudicare dei buoni o cattivi risultamenti. Durante la battaglia di Wagram un ufficiale spedito dal generale Massena a Napoleone, che dal centro del vastissimo campo dirigeva le mosse, dicevagli: Sire, alla nostra sinistra il nemico vince. Ma Napoleone senza rispondere fissava lo sguardo sulla carta. Esso fra poco, continuava l’ufficiale, sarà padrone dei nostri ponti. — Napoleone continuava a tacere. — Quel cannone che tuona alle spalle di V. M. è austriaco. — Napoleone tace sempre, rivolgendo il suo cannocchiale ora a sinistra ove formavasi la famosa colonna e tuonava la formidabile batteria, ora a destra verso le alture di Neusiedel; quivi il fumo, il luccicar delle armi indicano i vantaggi dei francesi; allora, rivolgendosi all’ufficiale che attonito pendeva dalle sue labbra, rispose: Dite a Massena che la battaglia è vinta ed attacchi a sua volta; questi di galoppo partiva, e Napoleone ordinava alla famosa colonna di muovere; — dopo poche ore il nemico era in ritirata.

Gli antichi, se vittoriosi, inseguivano il nemico macellandolo; se vinti, quelli campati dal ferro si ponevano in salvo negli alloggiamenti; animare i suoi alla strage o raccogliere dentro i ripari i fuggenti, erano le cure del generale, mentre fra i moderni il generale vincitore o vinto, dopo la battaglia, continua le sue operazioni. Le notizie sullo stato del nemico in ritirata sono incerte, incerte le vie da esso scelte, quindi l’energia nell’inseguire, onde profittare della vittoria, non deve scompagnarsi da somma cautela, e non bisogna mai, fra tanti dubbii, perder di mira il principio, di fare l’impeto maggiore, ove maggiori sono i vantaggi strategici. Se vinto, deve con parte delle sue forze arrestare la foga del vittorioso nemico, o almeno squadronando ritardare la sua marcia, e cosi proteggendo i fuggiaschi, raccoglierli alle bandiere, e ricomporre gli ordini. Il cammino prescelto per ritirarsi non solo dovrà essere il più adattato a ritardare la marcia del nemico, ma quello eziandio che meglio contrasta al disegno strategico dell'avversario. Giunto al sito prescelto arrestasi, raccoglie le soldatesche, né trova sicurezza, che negli ordini ricomposti e nella dispositura che darà alle schiere; gli ostacoli naturali, de' quali potrà giovarsi, non assicurano mai i moderni come il chiuso vallo gli antichi. Nondimeno questa grandissima differenza, che scorgesi tra le difficoltà che deve superare, ed i problemi che deve risolvere un generale dei moderni, e le incombenze di un generale degli antichi durante i vari periodi di una campagna, non sono argomento per conchiudere che il genio di questi fosse stato inferiore al genio di quelli, che Napoleone superasse Cesare e Scipione per vastità dell’ingegno; avvegnacché per quei pochissimi privilegiati in cui la natura volle manifestare tutta la potenza della sua forza creatrice, le difficoltà maggiori non sono ostacoli, ma mezzi, onde viemmaggiormente estollersi sul volgo; potrà dubitarsi perciò, che Napoleone in quell'epoca avesse pareggiata la fama di Scipione e di Cesare, ma non mai, che questi ai tempi nostri non sarebbero stati famosi come lo furono.

IV. Dal paragone fra le armi, gli ordini ed il combattere degli antichi e de' moderni, passiamo a quello della natura ed istituzione delle milizie. Il marciar diritto, il volgersi su di un fianco o dietro, l’avanzare l’una o l’altra spalla, il prender norma da destra o da sinistra nella marcia, in una parola lo stare negli ordini, sono cose che debbono apprendersi dai moderni, come dagli antichi. Le moderne evoluzioni sono più complicate e difficili pe’ generali, non già pei militi, e però sino qui abbiamo parità. Il maneggio delle antiche armi, richiedeva una lunga e continuata esercitazione, un grande sviluppo di forze muscolari; mentre in tre o quattro giorni ogni cittadino può apprendere a maneggiare il moschetto, e trarne la medesima utilità che un veterano; di qui un importantissima verità: E assai più facile ai moderni di trasformare i cittadini in guerrieri.

Ventimila spade romane non temevano sei cotanti orientali, o barbari stretti negli ordini; il loro valore individuale, la loro tattica, le loro armi rintuzzavano gli inutili sforzi di quelli, alzavano monti di cadaveri, volgevano a sbaraglio quelle turbe di guerrieri. Ma come potrebbe un piccolo esercito moderno sostenere una massa preponderante di fuochi che lo circondano e l’opprimono? Facendo studio fra le vittorie riportate da piccoli eserciti moderni su di eserciti maggiori, potrà scorgersi di leggieri che esse furono l’effetto di mosse di guerra che raccolsero delle forze superiori a quelle del nemico, contro la chiave delle sue difese. Oggi, scrive Napoleone, vale più un esercito di cervi comandati da un leone, che un esercito di leoni comandati da un cervo: anticamente era il contrario. Presso gli antichi la prima cosa che richiedevasi in un esercito era il valore de guerrieri, poi l’ingegno del generale, in ultimo il numero; oggi la cosa più interessante è l’ingegno del generale, quindi il numero delle schiere, poi l’ardore nei soldati. L’arte della guerra sublimandosi con accrescersi il numero di combattenti ed allargarsi il campo, richiede, è vero, più vaste cognizioni nei capi, ma la prevalenza del disegno e del numero sul valore l’ha resa popolare per eccellenza. Essendo cosa molta diffìcile trovare fra i moderni un gran generale, è naturale che sarà più facile ritrova' lo cercandolo fra l’universalità de' cittadini e la libera concorrenza di tutti gli ingegni, che nel ristretto cerchio di una aristocrazia o di una corte; gli uomini avvezzi all’adulazione ed all’ubbidienza, e costumati a sottomettere la propria ragione all’altrui autorità, non potranno reggere al paragone d’un ingegno libero ed indipendente, non impacciato da stupidi riguardi e dalle goffe formalità del cortigiano. Una nazione libera ed armata a propria difesa fornirà ardenti e numerosi guerrieri, ai quali non terranno testa i mercenari assoldati da una dinastia (20). Il bastone e la pedantesca disciplina non formano gli eroi; le evoluzioni da scena, quella esagerata precisione, svaniscono al tuonar del cannone; è l’ardore dei soldati, il desiderio, il bisogno di vincere, che costituisce la solidità d’un esercito; quindi possiamo conchiudere che: l’esercito della democrazia dovrà, certamente, vincere quello delle dinastie e delle caste.

Concludiamo: la polvere da sparo ha diroccato gl'inespugnabili castelli feudali; ha sfondata la corazza dei feudatarii; ha uguagliato il forte al debole, il povero al ricco; ha reso meno micidiali le battaglie, perché un esercito spesso è vinto ma non già distrutto. La polvere, dando la prevalenza al numero sul valore, ha deciso la causa dei popoli, e li sospinge a costituirsi in grande nazione.

L'arte della guerra da quarant'anni, ha raggiunto il sommo della perfezione. Ma la costituzione militare non ha progredito; essa attende, per adattarsi ai nuovi ordini civili, il risorgimento dei popoli; allora, scorgendo con quanta facilità' possano addestrarsi i guerrieri e comporsi gli eserciti, si conosceranno i pregi della moderna arte del guerreggiare.

CAPITOLO SECONDO

Gli eserciti permanenti.
V. Il comando dell’esercito deve essere uno ed assoluto. — VI. Origine degli eserciti permanenti. — VII. Le loro esercitazioni. — VIII. La disciplina. — IX. Il valore. — X. Conclusione.

V. Una moltitudine di armati raccolti per combattere comune un nemico costituisce un esercito. Ognuno sa che per conseguire la vittoria è indispensabile che essi, in tutte le loro operazioni ed i loro sforzi ricevano norma da un disegno prestabilito: onde è indispensabile che tutte le volontà si uniformino ciecamente a quel disegno, altrimenti la discordia fra le opinioni, come forze contrarie, disgregherebbero l’esercito. Innanzi tutto fa d’uopo che i guerrieri vengano ripartiti fra gli ordini, per ogni nazione, già stabiliti, e però una tale operazione non offre alcuna difficoltà. Restaci ora ad esaminare, se da molti o da un solo debba idearsi il disegno della campagna, se a molti o pure ad uno solo convenga affidarne l’esecuzione.

Le più estese e le più profonde cognizioni dell'arte della guerra, non bastano per concepire un buon disegno; per la ragione medesima che colui il quale conosce perfettamente tutti i teoremi della geometria, non è sicuro, perciò, di risolvere qualunque problema gli venga presentato; e Napoleone disse: non s’impara dalla grammatica a comporre una famosa tragedia. La natura nell'arte della guerra, come in tutte le specialità, ha la più gran parte; l’uomo trovandosi in uno stato affatto eccezionale, e non essendovi in. tale problema nulla d’assoluto, le ispirazioni, i concetti, le determinazioni variano secondo la temperie, prontezza e vastità d’ingegno d’ognuno: alcuni dottissimi, dopo profonde meditazioni, progettano un madornale sproposito; altri non tenendo conto dell’operosità e vigilanza del nemico, fidano tutto nella sorpresa; mentre i più volgari dediti solo a difendersi, attribuendo al nemico potere e vigilanza maggiore di quella che effettivamente non ha, rapp. cci oliscono la loro sfera d’azione, e, per tutto guardare, si presentano vulnerabili in ogni punto. Egli è dunque cosa impossibile che molti si accordino riguardo ad un medesimo disegno; e se, in un’adunanza in cui varii discutono riguardo a tale materia, l’opinione d’un solo non prevale, le risoluzioni collettive non saranno che ritrovati, o rimedii mezzani, in guerra rovinosissimi; e sarebbe vano pretendere da simili adunanze que’ grandi ed arditi con etti tanto ammirati nella storia, che, prima del buon successo, sarebbero stati certamente riprovati da uomini volgari; una scoperta scientifica, un capolavoro, non sarà mai il frutto di una discussione di un’adunanza, ma sforzo di un solitario ingegno; la responsabilità e la gloria, accumulata tutta su di un solo, possono creare quei forti moventi, suscitare quelle passioni, che eccitando la fibra sublimano le idee; moventi fiacchi e di veruna efficacia per un’adunanza in cui nessuno è direttamente responsabile e nessuno ne raccoglie allori; qui nasce invece, per l’inevitabile varietà delle sentenze,

il desiderio di alcun danno, per poi menar vanto del proprio ingegno e biasimare i contraddittorii. Gli antichi, la cui natura era meno che la nostra depravata dal costume, non usarono chiedere ravviso di molti pei loro disegni da guerra, ma il concetto e l’esecuzione di esso erano pienamente affidati al generale; fra i moderni si riscontrano due esempii, il Comitato di salute pubblica, ed il Consiglio aulico; nel primo era militare il solo Carnot, e sùoi furono i progetti, sovente riprovevoli; le prove, poi, fatte dal secondo bastano a screditare un tal metodo, e danno a conchiudere che uno solo debba assumere la responsabilità d’ideare un disegno di guerra.

L’attuazione di un concetto costituisce l’azione, tanto più utile e sicura, quanto più rapida. La guerra può definirsi l’azione nell’azione, e quindi richiede la massima energia e la massima rapidità, e questa e quella non possono conseguirsi che ‘dairautorità d’un solo. Incertezza, e perdita di tempo sono conseguenze inevitabili della discussione; mentre si discute, nessun parere è adottato, e di tutti li stati, questo è il peggiore. Egli sarebbe cosa veramente strana, mentre il nemico assale, in un punto si vince, in altro dura la zuffa, che un consiglio si riunisse per deliberare su quello che abbiasi a fare. In simili casi concepire una mossa e mandarla ad effetto dovrà essere un momento solo; bisogna rimuovere tutto ciò che indugia; tutto deve cedere e prontamente al comando d’un solo, né potrà esservi autorità che pareggi quella del generale: le ordinanze del nemico, contuse, che un urto di cavalli sbaraglia, si ricompongono durante l’indugio; le proprie schiere anelanti, che un pronto soccorso o altro provvedimento rincora, fuggono se ritardasi; un difficile passo in cui le colonne nemiche sarebbero arrestate da ben diretta artiglieria, viene superato se sfugge il momento opportuno. Coteste verità sono della massima evidenza, sicché sembra inutile discuterle, ed il pensare diversamente mostra difetto nel senso pratico; ma esempi recentissimi hanno mostrato, che la mente umana, da mire personali traviata, può facilmente incorrere in tali errori; mi hanno indotto a discorrere di ciò l'esempio della Costituente romana, che in un momento difficilissimo, accordava uguale autorità ai generali Garibaldi e Roselli, l’altro esempio di Kossuth, che destinava a capitanare l'esercito Mareneros e Dembinsìti; — e finalmente, quanti disastri, all’epoca che scrivo, non hanno sofferto i collegati in Crimea, perché mancava accordo ed unità nel comando?

Presso i Romani, sovente l’esercito era comandato da due Consoli con uguale autorità, ma l’errore non era cosi grave, come lo sarebbe presso i moderni. I Romani, chiusi nel loro campo, potevano senza correre rischio veruno, ragionare sull’opportunità di una battaglia, e questo noi possono i moderni; se il nemico avanza è d’uopo, senza por tempo in mezzo, retrocedere o combattere. Il modo di schierarsi a battaglia di un esercito romano era quasi invariabile, mentre oggi «su due leghe quadrate di terreno, dice «Federico II, si possono prendere qualche volta «diciotto posture. Un buon generale al primo «sguardo saprà scegliere la più vantaggiosa». Quale campo, non sarebbe questo, d’interminabile discussione? E poi, quanta differenza non passa fra le svariate vicende d’una moderna battaglia, e l’uniforme cozzare delle antiche schiere? E pure i Romani conoscendo il male che risultava da un tale provvedimento, raramente riunivano in un solo gli eserciti dei due Consoli, e quando ciò avveniva, essi si succedevano alternativamente nel comando; nei momenti difficili poi creavano il Dittatore. Nondimeno, per questo errore della loro costituzione, patirono memorabili disastri: i consoli Sergio e Virginio erano a campo incontro a Veio; il primo, assalito, soffri la sconfitta piuttosto che chiedere soccorso al collega, e questi lo vide impassibilmente in rotta, non volendo muovere a sua difesa senza prima esserne richiesto. Alla Trebbia ed a Canne non valse la saggia opinione di uno de' consoli, l'altro volle fare a suo modo, e ne segui la disfatta.

«I tre tribuni militari con podestà consolare, che ave vano condotto l'esercito contro i Fidenati ed i Veienti, provarono, scrive Livio, quanto fosse dannoso in guerra il comando di molti; attenendosi ciascuno al proprio avviso, mentre diversamente opinavano, presentavano al nemico l'occasione d’un buon successo». — «E’ meglio, dice il Machiavelli, mandare in una spedizione «un uomo solo di comunale prudenza, che due valentissimi uomini insieme con la medesima autorità».

Parmi ora non esservi più luogo a dubitare, se uno solo o più dovranno comandare un esercito, e possiamo conchiudere, dopo ragioni illuminate da fatti e rincalzate con l’autorità di famosi scrittori, che un uomo solo deve concepire il disegno della guerra, un uomo solo menarlo ad effetto, rimanendo ora a decidere soltanto, se queste due alte incombenze dovrà assumerle la stessa persona.

La vastità del teatro della guerra presso i moderni, i loro eserciti numerosissimi, l’importanza che hanno le linee di provvigioni, la necessità di adattare la tattica al terreno, sono circostanze per le quali il primo concetto di un disegno di guerra altro non può essere che un semplice schizzo; sovente erra il nemico, e mostrandosi vulnerabile in qualche punto porge un'occasione propizia, che, per ghermirla, bisognerà allontanarsi da ciò che trovavasi prescritto nel disegno; le splendide operazioni di Bonaparte contro Wurmser e Kaunitz, fra il Mincio e l’Adige, furono le ispirazioni del momento, che presero norma dagli errori del nemico. L’esecutore di un disegno di guerra, oltre le rare qualità che si richieggono per comandare un esercito campeggiante, ha d’uopo d’ingegno vasto e fecondo quanto colui che avrà concepito il disegno, e d’animo così saldo per assumersi la responsabilità di un’operazione concepita ed eseguita nel momento stesso, né prescritta né preveduta nel disegno prestabilito; dunque se l'indole, la perspicacia, l’oculatezza di colui che esegue dovranno essere di molto superiori a quelle di colui che progetta fra le pacifiche pareti di una stanza, perché la volontà e l’ingegno dell’uno dovranno sottoporsi ed imbrigliarsi le idee dell’altro? e se colui che progetta è fornito di tali qualità, perché non affidargli il comando dell’esercito? non sarà egli stesso il migliore ed il più energico esecutore de' proprii concetti? Separare queste due incombenze che si confondono in pratica, è quasi impossibile se il comandante dell’esercito chiede ordini e norme, è cattivo presagio per le sorti del paese; egli non potrà essere che un uomo di niun valore: ma se la scelta cade su di un uomo degno di tale incombenza, egli o non accetterà il comando, o non ubbidirà.

Bonaparte non diede mai esecuzione in Italia ai disegni che gl’inviavano di Francia; l’arciduca Carlo, durante la campagna del 1796, non volle mai conformarsi alle prescrizioni del Consiglio aulico. Moreau e Jourdan nel 1796, generali eccellenti con due fiorenti eserciti, commisero l’errore di uniformarsi al disegno inviato da Parigi, furono debellati dall’Arciduca. Moreau, nella sua famosa campagna del 1800, ricusò di eseguire il disegno del primo console (21).

Con chiudiamo: sul medesimo teatro di guerra non debbe esservi che un solo comandante, con illimitate potestà per tutto quello che riguarda alle mosse di guerra dell’esercito; egli deve ideare il disegno, egli eseguirlo, egli solo rispondere del risultato, ed egli deve averne tutto il biasimo o la gloria.

I Romani, credendo necessario che la mente del loro generale fosse sgombera da qualunque preoccupazione, non punivano i suoi errori, credendo pena sufficiente la disfatta: tutto l'ordine senatorio mosse ad incontrare Varrone, per incapacità e presunzione battuto a Canne, e, non potendo ringraziarlo per l’esito della zuffa, lo ringraziarono perché la sua venuta dimostrava che non disperasse delle sorti della patria.

«Questo modo di procedere, scrive su tal proposito il Machiavelli, era ben considerato; perché giudicavano che fosse di tanta importanza a quelli che governavano l’esercito loro lo avere l’animo libero e spedito e senza altri estrinsechi rispetti nel pigliare i partiti, che non volevano aggiungere ad una cosa, per sé stessa difficile e pericolosa, nuove difficoltà e pericoli, pensando che, aggiungendovene, nessuno vi potesse essere, che operasse mai virtuosamente».

Ma comecché giusto il procedere dei Romani, tra noi, nuovi alla libertà, ed anche alla guerra, fa d’uopo garantirsi dall’ignoranza, dall’impostura e dall’errore: non bisogna inceppare l’ingegno del generale, ma allontanare dalla concorrenza ed atterire con severo castigo i deboli e gl’incapaci. Tale minaccia che infiacchisce le fibre dell’uomo inabile, eccita vieppiù quello del forte.

VI. Tutta la podestà del comando raccolta in uno solo, non avrebbe nessun’efficacia se mancasse nell’esercito l’unità morale, l’ubbidienza celere ed illimitata, che giovasi della forza collettiva di molti con l’energia e l’unità d’azione d’un solo uomo. I moderni, per ottenere questo risultamento, credono indispensabile di tenere perpetuamente raccolto alle bandiere un numero considerevole di armati. Verremo ragionando sulla origine di un tal ripiego e sulla sua utilità.

«Né la Grecia, scrive Filangieri, che urtò e vinse tutte le forze dell’Asia; né Roma finché fu libera, né Filippo, né Alessandro che portarono la vittoria dietro le loro falangi, né i Barbari che disfecero l’impero di Roma; né i Germani che vinsero e trionfarono di Varo, né Timur-Beg, né Gengis-Kan, che soggiogarono quasi tutta l’Asia; né Carlo Magno.... sognarono di conservare in tempo di pace quell'esercito col quale avevano guerreggiato».

Quando fra i Romani furono inegualmente ripartite le dovizie del soggiogato mondo, ed ogni virtù adsorbita dal fasto; quando disperso nella vastità dell’impero l’amor patrio si estinse; quando il popolo fece mercato dei suoi favori e si comperò il consolato; quando i cittadini, senza un pronto lucro, più non vollero difendere la patria dai Barbari che la minacciavano, mentre facilmente per vantaggiare sé stessi si facevano i suoi carnefici, allora sorsero per la prima volta le milizie perpetue. Sortite dal grembo della corruttela, crebbero e svilupparono quei caratteri inerenti all'indole loro: contrassero della vita civile i soli vizii, snervati dalla lussuria, immersi nell’ozio della pace, tremavano all'ostile approssimarsi dei Barbari, mentre erano il terrore dei cittadini in mezzo ai quali vivevano.

Quando i cittadini del medioevo, degradati ed infiacchiti dalle ricchezze sdegnarono affrontare i perigli della guerra per difendere la patria, allora sursero i guerrieri mercenarii, e tutti i liberi reggimenti de' comuni italiani immediatamente divennero tirannici. Còsi avvenne nelle repubbliche; e nei regni i baroni, infiacchiti ad arte dalle fastose corti, furono disarmati, ed alle armi feudali, volontarie e nazionali, vennero sostituiti gli eserciti mercenarii de' re, che tennero il campo quasi per tre secoli.

I caratteri de' mercenarii del XV, XVI, XVII secolo sono i medesimi delle legioni assoldate a difesa del cadente impero romano; indifferenti alla cagione della guerra, vendono il loro braccio al maggiore offerente, pronti ai tumulti, molesti agli amici, poco terribili ai nemici, e valorosi solamente allorché dalla vittoria speravano un ricco bottino.

Quindi nelle diverse epoche, da che la storia comincia, vediamo le milizie perpetue sorgere al tramonto della libertà; fra un popolo libero non ha mai esistito un esercito permanente, mai la libertà è durata ove è surto l’esercito; questi due elementi non hanno mai potuto accordarsi per lo passato, né mai si accorderanno per l’avvenire; ove l’esercito esiste, la libertà sarà sempre una derisione, sarà impossibile.

Divenute le guerre più rare, e però poco lucroso il mestiere di guerriero, il, numero de' mercenarii scemò; durante la guerra dei sette anni, Federico II cominciò a sostituire ai mercenarii i soldati nazionali, e fu questa l’ultima mutazione subita dagli eserciti. I re, oltre il tributo in danaro, che, per sostenere il loro fasto, chiedevano alla nazione, vollero eziandio imporre un tributo di sangue; cosi parte de cittadini fatti loro schiavi armati, son diventati lo stromento di cui si servono per opprimere i loro sudditi, e soddisfare ogni loro capriccio, ogni loro particolare vendetta; e queste milizie, dette nazionali, crebbero a dismisura appena la rivoluzione minacciò i troni. In tutta l’Europa, eccettuata la sola Russia, all’epoca presente la rivoluzione morale è fatta, e gli eserciti permanenti sono la sola cagione, che essa non si traduca in atto. Credo non siavi nessuno il quale possa negare che, se gli eserciti sparissero, l’Europa ad onta del Cosacco, il giorno dopo sarebbe tutta repubblicana. Nondimeno, vi sono alcuni, che si dicono liberali, e propugnano la necessità delle milizie perpetue, tanto è prepotente la forza della tradizione se viene appoggiata dall'ignoranza, o almeno non rischiarata da un profondo studio della storia.

Le moderne popolazioni dicono i propugnatori degli eserciti permanenti, sono di cose militari ignorantissimi. La politica europea, volta solo a conservare la pace, ha reso rarissime le guerre e depresso lo spirito di conquista; sempre o quasi sempre si guerreggia per impedire qualche mutamento, per conquistare la pace. I governi d’Europa, meno alcune lievi differenze per le moltitudini di ninna importanza, sono tutti fondati sui medesimi principii e si somigliano tutti; gl’interessi dei popoli sono intrecciatissimi, le comunicazioni rapide e numerose, e quindi ogni rivalità fra le diverse nazioni è quasi spenta. Da tutte queste ragioni risulta che le invasioni sono poco temute; gli abitanti, se debbono ricevere soldatesche nelle loro città, fanno poca differenza fra gli amici ed i nemici; spesso per essi sono più molesti quelli che questi. Tutti poi, essendo sicurissimi che, terminata la guerra, le cose ritornano nel medesimo stato di prima, non si commovono: i danni maggiori si soffrono durante la guerra, danni che cessano al cessare di essa, qualunque ne sia il risultato; quindi i danni essendo maggiori per ottenere la pace, subirebbero volentieri la conquista. Se tale è il sentimento universale non è l’individuale più bellicoso: fanno pompa i moderni di pusillanimità e d’ignoranza ogni qual volta si discorre di guerra o di politica; ognuno mena vanto di curare le proprie faccende e non ingerirsi d'altro, cosa naturale quando 1 utile privato non ha alcuno vincolo con l’utile pubblico. La parola Patria, è vuota di senso; suona tal volta fra ristrette brigate, ma con voce incerta e sommessa, quasi temendosi la derisione da coloro, i quali, comeché sentissero amore per essa, pure non sono capaci di vincere il costume, seconda natura, e non concedono a questa parola che il senso d'un voto, d’una speranza e non mai d’una realtà. Il commercio e l’industria prevalendo, sono in contraddizione con l’umore guerresco: l’amore della pace, la sottigliezza, la frode, virtù da mercante, sono le qualità opposte alla semplicità, alla franchezza, all’irrequietezza del guerriero. Con tali popolazioni un nemico, senza impugnar la spada, conquisterebbe il paese; si rimedia a tale inconveniente educando alle armi parte del popolo, la quale servirà a difendere l’altra dedita solamente al guadagno.

Tutte queste ragioni che adducono i propugnatori degli eserciti permanenti non sono che speciose; per distruggerle basta una semplice domanda: con quali modi pretendete di trasformare in valorose soldatesche de' cittadini timidi ed infingardi? Come inspirerete loro il coraggio che non hanno, l’amor di patria che non sentono? Strapperete dal seno delle loro famiglie i contadini, dalle arti gli operai, e questi distribuiti alle bandiere, perché vestiti della divisa li credete già divenuti guerrieri? Come sperate che si sviluppi in essi il valore, non già l’individuale, dono di natura, ma il collettivo? Un contadino il quale sarebbe capace di difendere ferocemente la porta del suo tugurio, la moglie, i figli, fugge innanzi al nemico in guerra, perché ivi non vede una cagione per cui debba arrischiare la propria vita. I mercenarii erano accostumati ai rischi ed alle fatiche della guerra; guerra era l’unico loro guadagno; ma oggi non vi è nessuna ragione, per la quale il soldato possa amare il mestiere delle armi; dopo aver vissuto vita oziosa nei presidi delle città è nuovo ai perigli quanto l’ultimo de' cittadini. A queste domande rispondono, che l’istruzione, l’amor di corpo, o spirito militare, e la disciplina, suppliscono a tutto; — noi esamineremo quanto sia vera cotesta asserzione.

VII. — Le difficoltà nell’ammaestrare i fanti, non si riscontrano da' moderni nell'addestrarli al maneggio delle armi, o al muovere in ordinanza; sono cose coteste, che in qualche mese d’esercitazioni s’imparano; l’educazione del milite è con la tattica moderna facilissima, ma non cosi quella dei capi. Quando una profonda colonna, nelle grandi mosse di guerra, spiega incontro al nemico ad un dato segnale, il milite non deve fare più di quello che farebbe trattandosi di un sol battaglione; ma non è lo stesso pel comandante di una divisione, di una brigata, di un reggimento; egli deve condurre le sue schiere al punto indicato, ivi adattarne le ordinanze al terreno, prendendo norma dal resto della linea. Se muove all’attacco, bisogna che sappia scorgere il punto in cui dovrà fare l'impeto maggiore, e disponga le proprie soldatesche secondo la giacitura del terreno, le difese del nemico ed il fine che si. propone. Nelle marcie sono i capi che deb' bono indicare i siti, che più accuratamente meritano di essere esplorati, quelli che debbono guardarsi, ed anche trincerarsi durante una ritirata; questi studii, che non possono scompagnarsi dalla pratica, sono forse facilitati dall’istituzione degli eserciti permanenti? No. In terreni perfettamente piani e sgomberi, in picciole frazioni muovono le schiere ad esercizio, e ripetono continuamente quelle evoluzioni che servono solamente ad addestrare i militi; spendesi così tempo e fatica in queste, trascurando la parte più interessante della tattica. Di qui idee falsissime sul modo di combattere, credendosi dai soldati e dalla maggior parte degli ufficiali che l’esito di una battaglia dipenda assolutamente dal modo di tenere il moschetto, o dal muovere in perfetta ordinanza; ed appena gli ingombri, il trambusto, le fibre scosse dagli imminenti pericoli, rendono impossibile tale precisione; capi e subalterni, imbevuti delle pedantesche discipline degli eserciti permanenti, cominciano a disperare del buon successo, e disperando accelerano la catastrofe, la quale, quasi sempre credesi cagionata dalla mancanza di quéste elementari esercitazioni, mentre, fra le molte cagioni che la producono, non è ultima forse la soverchia importanza che i capi attribuiscono a questi particolari, trascurando cose più rilevanti, che eglino non comprendono.

L’armeggiare, le ginnastiche sono cose tutte utilissime, non già, come alcuni credono, per acquistare abilità di uccidere un maggior numero di nemici, o prevalere nella corsa ed al fare alle braccia, ma perché la destrezza nel trattare le armi, ed il tono che tali esercitazioni danno alle fibre, generano confidenza nelle proprie forze, e rilevano il morale del milite. Ma questi studi, per produrre un tale utile effetto, dovrebbero far parte dell'educazione nazionale, e cominciare dall'infanzia; ed è vano il pretendere che, a forza di tormenti, un tanghero senta i vantaggi di tali esercitazioni; negli eserciti ne profittano solo que’ pochissimi che sono dalla natura a ciò predisposti.

Se contraria all’obbietto che proponesi è l’istruzione dei fanti, molto più viziosa è quella de cavalli. Durante la pace, non si veggono mai muovere ad esercizio colonne di venti o trenta squadroni; raramente si raccolgono otto o dieci squadroni, e muovono in terreni a bella posta apparecchiati. L’istante in cui la cavalleria soffre l’ultima scarica de fanti è il decisivo; o prende all’attacco e vince, o arrestasi ed allora è vinta; in questo momento negli attacchi simulati, si ordina ai cavalli di volger la briglia e fuggire, cosi uomini e cavalli si accostumano ad essere vinti. Se muovono cavalli contro cavalli, eccetto i casi di soldatesche veterane (di battaglie e non già di quartiere), le due linee quasi mai si urtano; le schiere meno salde, all’avvicinarsi del nemico trepidano, s’arrestano e fuggono prima dello scontro, precisamente quello che insegnasi nelle esercitazioni; giunte le due linee a breve distanza, immediatamente volgono indietro.

Non offre alcuna difficoltà il servizio di un pezzo d’artiglieria, o il passaggio dall’ordine di colonna a quello di batteria o di battaglia; il diffìcile per questo corpo speciale è quel veder pronto necessario non solo al comandante dell’artiglieria, ma eziandio a quello di una sola batteria, che dovrà scegliere il sito per collocare i suoi pezzi, non solo secondo la giacitura del terreno, ma eziandio secondo la dispositura delle forze nemiche, ed il fine, le mosse che si propone eseguire l’esercito; e tale pratica non si acquista nei lunghi servizii che si prestano negli eserciti stanziali. Inoltre, l’artiglieria frazionata nei presidii, i suoi ufficiali non sono accostumati ad evolvere in grandi masse, e le altre soldatesche acquistano un’idea falsissima degli aiuti che possano sperare da tale corpo; ogni brigata, ogni battaglione pretende di avere i cannoni accanto a sè, né comprendono come essi di pochissimo effetto disuniti, raccolti invece in formidabili batterie decidono sovente la giornata.

Gl’ingegneri militari, espertissimi in ogni sorta di lavoro, non hanno nessuna pratica di quelli che si richiedono negli assedii e nelle battaglie.

Quali sono le qualità che si richiedono in un ufficiale di stato maggiore? Profonda conoscenza della natura delle varie armi, e del modo come adoperarle ed adattarle al terreno; capacità per discernere se un sito sia più favorevole all’attacco o alla difesa, e se in esso vi siano ostacoli che possono dichiararsi insuperabili; pratica delle grandi evoluzioni, onde prevedere, da una mossa del nemico, il suo disegno; sagacia d’ingegno per discernere, se non la chiave delle difese di tutto il campo nemico, almeno quella di un posto staccato, di un’ala, del centro, e saperne ideare l’attacco; non impeto, ma, cosa più rara, calma imperturbabile fra le offese nemiche, le quali non debbono né commuoverlo, né distrarlo dall'oggetto su cui tutto deve tendersi l’arco dell’intelletto; e finalmente, semplicità, esattezza e chiarezza nell’esprimere le proprie idee. La calma, l’ingegno, il facile porgere son doni naturali; la conoscenza del terreno, delle varie armi, delle grandi evoluzioni possono acquistarsi, studiando ed applicando gli studii in quelle grandi evoluzioni che mai si praticano, o assai raramente ed imperfettamente dagli eserciti permanenti. In questi gli uffìziali di stato maggiore non sono che topografi, e molti dottissimi fra loro mancano affatto della pratica delle loro incombenze, la maggior parte poi, sono oziosi, scelti per favore, lavorano meno che ogni altro ufficiale dell’esercito e più che ogni altro retribuiti, avvezzi a parteggiare coi generali non già le occupazioni, ma il lusso, o l’ozio, quindi in uggia a tutto l'esercito, e quindi l’idea falsa e dannosa, che essi siano in guerra inutili affatto.

Dalle cose di cui abbiamo ragionato risulta che le esercitazioni delle milizie perpetue, di cui menasi gran vanto, altro non sono che inutili ripetizioni, che rappiccioliscono l’animo del milite, suscitando idee false e facendogli contrarre nocive abitudini, molto più dannose dei lievissimi vantaggi che si ottengono dalla precisione e dall’accordo dei movimenti. Gli antichi non tormentavano i loro guerrieri, ma lasciavano che si esercitassero con gli altri cittadini come meglio credevano, e pure il maneggio della spada e dello scudo, il lanciare il pilo, il tendere l’arco, il rotare la fromba, richiedevano assai maggiore destrezza che il facile maneggio del fucile; gli ondeggiamenti, le aperture, le sporgenze, nella linea di battaglia, che stava scudo contro scudo col nemico, producevano disastri molto maggiori di quelli che ora possono produrre alle grandi distanze in cui si combattono le moderne battaglie. Nondimeno i moderni quantunque le armi da essi adoperate abbiano grandemente semplificato e reso facile l’addestrare le milizie nella tattica elementare, hanno fissata su di essa con impareggiabile pertinacia la loro attenzione, trascurando quasi del tutto la parte sublime e difficile dell'arte della guerra, la quale consiste nella strategia e Jxell’adattamento della tattica al terreno; errore gravissimo cagionato dalla natura degli eserciti permanenti. Le milizie distribuite in picciole frazioni ne presidii debbono o rimanersene oziose, o ripetere continuamente la scuola del soldato, del pelotone, del battaglione, e cosi pervertire le loro idee ed il loro raziocinio. La spesa per conservare sempre in essere queste milizie essendo rilevantissima, non può accrescersi di quella che sarebbe necessaria per eseguire sovente i grandi simulacri di guerra (22), di cui parleremo a suo luogo, e che sono i soli utili ammaestramenti per l’esercito. Quindi, invece di fare eco ai tanti scrittori militari, che tutti di chiarandosi riformatori non fanno che ripetersi, possiamo asserire che gli eserciti permanenti non sono, né possono essere scuola di guerra ma sorgente di errori, che pregiudicano l’arte mentre servono a ribadire le nostre catene. Gli eserciti permanenti sono meglio istrutti che le milizie cittadine in quelli esercizii meccanici, nel servizio del quartiere, cose, in guerra, di veruna utilità. Le milizie cittadine non hanno un' idea della guerra, gli eserciti stanziali l’hanno, ma l’hanno falsa, il che è ancor peggio.

VIII. Fin qui per l’istruzione; ora ragioneremo della disciplina. Non è la severità e la durezza della pena, che rende salda la disciplina, ma ragioni più lontane, le quali dalla costituzione della società direttamente dipendono. Quando alle compagnie di ventura ed alle milizie feudali successero gli eserciti mercenarii, le pene erano gravissime ed arbitrarie, mentre la disciplina quasi non esisteva. I capi, scrive il Ricotti, punivano a loro arbitrio, e, senza forma legale, facevano collare, impiccare, mozzar nasi ed orecchie. Era loro costume che le lancie spezzate dirupassero o ammazzassero le guardie se le trovavano addormentate. Se durante la guardia un soldato ingiuriava con le armi un altro, il sergente l'ammazzava. Sovente un capitano entrava in una schiera e ne ammazzava quattro o sei forse innocenti. — Egli è impossibile concepire maggiore severità, anzi maggiore barbarie, e pure in tale epoca i soldati spesso non volevano combattere; tumultuavano se ritardavasi la paga del loro salario; e sovente ai loro ufficiali facevano il medesimo gioco di diruparli o ammazzarli. La disciplina presso i moderni è maggiore, mentre le pene son meno severe e più legali; ma pure questa legalità, questa mitezza di pene è ben lungi da quella che costumavasi presso i Romani. Questi, nei casi rarissimi in cui la mancanza comprometteva la sicurezza dell’esercito, o pure la disciplina di esso, punivano con la morte, ed il reo era sempre convinto al cospetto di tutti i militi. Comunemente il Tribuno, delegato a ciò, convinceva il reo alla presenza dei militi, quindi toccavalo con una bacchetta, ed allora tutti si davano a tempestare su di lui e lo ponevano in brani; se qualcuno meritevole della pena di morte per caso la scampava, era messo al bando da tutti, e cosi la disciplina militare era presso i Romani garantita non solo dall’esercito ma dall’intera nazione. Invece presso i moderni, il condannato spesso trova favore presso i commilitoni e protezione certa fra i cittadini (23).

Hanno i moderni così poca fiducia nelle loro istituzioni, che il buon successo non lo sperano da esse, ma dal caso. Severi e pedanti durante la pace, rallentano poi la disciplina in guerra; pronti nell’avversità di fortuna a dimandar consigli ai minori, avviene, come dice il Colletta, che attenuasi la persuasione e l’ubbidienza, quando si vorrebbero e maggiori e più cieche. Una disubbidienza che produca, non dico la vincita di una battaglia, ma un dubbio vantaggio nella più meschina delle scaramuccie, viene commendata universalmente e ne corre fama come di un gran fatto, tanto la disciplina è poco pregiata (24).

La vantata disciplina degli eserciti permanenti volge tutta sull'osservanza d'alcune norme, che riguardano la vita conventuale a cui si condannano i militi, ed eziandio a certi atti esterni, a goffe contorsioni che il militare è obbligato a praticare innanzi al superiore in tutti gli istanti di sua vita. Egli è perennemente schiavo, nella piazza, nei pubblici ritrovi; finanche fra le pareti domestiche è costretto a quella cieca ubbidienza indispensabile solamente sotto le armi. E pure quale frutto si ottiene da questa perenne schiavitù, da questo sepolcro in cui ‘chiudesi l'umana ragione e l’umana dignità? Mi si conceda rammentare ciò che ho scritto altrove:

«Una divisione Napoletana giunge a Bologna, il Borbone intriga, corrompe e mette in moto tutte le suste di quella macchina da gran tempo preparata; la disciplina è rotta in un baleno; gli ufficiali non sono più ubbiditi; i soldati ritornano in Napoli convinti, che fosse più onorevole per essi trucidare Napoletani e Siciliani che combattere gli Austriaci. La camarilla torinese teme la fusione, usa il metodo stesso del Borbone; immediatamente l’ardore di cui fu invaso l’esercito all’esordire della campagna è spento, si scovrono le traccie dell’antico sistema, l’esercito diventa propugnatore della pace — a Novara guarda con indifferenza il suo re che si sacrifica, e dopo la disfatta, inveisce contro i proprii concittadini».

A Parigi, vediamo de' generali arrestati da soldati, i quali ciecamente ubbidivano al comando di altri generali nemici di quelli, violando le leggi dello Stato. La disciplina degli antichi era il rispetto alle leggi del paese, la disciplina dei moderni è la cieca ubbidienza agli individui. Gli antichi sentivano la necessità di ubbidire alle loro leggi, e manifestavano in tutti i loro atti un tal sentimento; i moderni invece sonosi tutti dati a prescrivere l'esterne manifestazioni, sperando cosi suscitare il sentimento (25).

Né questo avviene perché siasi cangiata fumana natura, ma perché l’utile privato non accordasi con l'utile pubblico. La disciplina, ovvero quel sentimento per cui serbasi un religioso rispetto per le leggi e gli ordini che regolano l’esercito, e dall’esatta osservanza di esse spesasi la vittoria, non può esistere in un un esercito se non esiste nell’intera nazione; non può durare senza la più severa giustizia ed imparzialità; non può scompagnarsi dal convincimento universale, che le cariche vengano distribuite secondo il merito di ciascuno. I Romani non impararono solo in campo ad apprezzare la militare disciplina, ma fra le pareti domestiche, nel foro, fra l’universalità dei cittadini veniva loro inspirato il rispetto alle leggi. Ma come sperare che ciò avvenga fra i moderni?

Ove esiste una corte o una potestà suprema che cerca partigiani, e distribuisce le cariche; o caste predominanti, ed havvi nel popolo indifferenza per le cose del pubblico, ivi i gradi non verranno concessi al merito ma ai favoriti; ivi è impossibile imparzialità e giustizia, perché le leggi sociali sono parziali ed ingiuste; ivi è impossibile la disciplina. Se poi il popolo moderno, con una felice rivoluzione diventasse legislatore, distributore delle magistrature, sovrano di fatto e non di nome; se non esistesse diversità di classi ma di funzioni; se i poteri non fossero governativi ma dirigenti; se l’utile privato fosse d’accordo con l’utile pubblico; allora presso i moderni esisterebbe, difatto, la disciplina che esisteva presso gli antichi, ed in tal caso l'esercito permanente sarebbe cosa impossibile.

Conchiudiamo: come la vera istruzione utile in guerra è impraticabile con le milizie perpetue, nella guisa stessa la vera disciplina non potrà mai accordarsi con la loro costituzione.

IX. Finalmente gli scrittori militari dichiarano asseveratamele che l'utilità degli eserciti permanenti consiste nello sviluppare fra i soldati lo spirito di corpo, che più italianamente e più esattamente deve dirsi, come opina il D.(r)Agata, amor proprio di reggimento, o di corpo, che produce quell’unità morale, dicono essi, che ne costituisce la bravura. Marmon definisce nobilmente questo sentimento:

«La comunione dei perigli, dice egli, della gloria, degli interessi genera i  legami più vivi e sinceri; e siccome tutto si tocca e lega nei grandi misteri della società, avviene precisamente nello stato di guerra ed in mezzo ai pericoli, overo là, ove la società n’esperimenta maggiore il bisogno, che si manifesta comunemente l’amicizia, e quell’abito compagnevole, o amor proprio di corpo, a cui l’opinione dà tanta forza».

Lo stesso, ma con servile linguaggio, scrive Jacquinot: «L’esercito, dice, è una famiglia di cui il re è capo».

Si accetti il primo o il secondo modo di esprimersi la conseguenza è la medesima: l’amor proprio di corpo è quel sentimento che lega strettamente gli interessi del soldato con quelli del corpo, che suscita una volontà, un modo di pensare comune a tutto il corpo. Lo stesso Jacquinot vorrebbe, che tutti gli uffiziali fossero null'abbienti, onde dal grado derivasse la loro esistenza, ed in esso si restringessero le speranze pel loro avvenire; altrimenti, dice l’autore nominato, non può ottenersi la cieca ubbidienza che richiedesi, gli uffiziali lasceranno il servizio al minimo dissapore; vuole, in altri termini, che siano anima e corpo venduti al governo.

Che cosa è adunque questo amor proprio di corpo, questo sentimento, in virtù del quale ogni militare, sortendo dall’ampia sfera del vivere di un cittadino, si restringe in un picciol giro? Altro non è che spirito di parte; esso fa dell’esercito una setta più che altro perniciosa, perché armata e strettamente unita. Infatti, o il milite nutre per la patria e pe’ cittadini l’amore medesimo che sente pel corpo e pei suoi commilitoni, ed allora l’amore di corpo non esisterà; o sentirà per questi un affetto maggiore, e si terrà legato ad essi da vincoli più forti, ed in tal caso l’esercito sarà una setta.

Una setta non può avere il medesimo interesse collettivo, i medesimi concetti dell’intera nazione, altrimenti cesserebbe di esser tale. Una setta per sua natura tende a prevalere sull’universalità dei cittadini: quindi l'esercito cerca sempre conservare un predominio. E questa setta di quali costumi e con quali leggi si costituisce? Con le più dispotiche, una cieca ubbidienza al capo; quindi l’amor proprio del corpo è il più saldo sostegno della tirannide. Questo sentimento fece abilità a Mario e Siila, a Cesare e Pompeo di lacerare lo stato da civili guerre; in virtù di questo sentimento poche legioni imponevano il padrone al vasto mondo Romano; esso soffocò la libertà nel medio evo; fece strada al trono a Napoleone; porse il destro a Luigi Bonaparte di crearsi imperatore; sostiene, finalmente, lo spergiuro dei principi. E mentre l’amor proprio di corpo è la fonte onde scaturiscono tutti i mali delle moderne nazioni, esso non genera, come ora dimostreremo, il tanto desiderato effetto, il valore.

«Le guardie nazionali, scrive Marmont, supponendole composte di quanto vi ha di più valoroso in terra, non varranno mai niente in principio, perocché il valore e la capacità di ciascuno non può valutarsi dagli altri che dopo averne fatto esperimento». Ma la comunanza di perigli che genera le amicizie e la confidenza nelle proprie forze non ha luogo negli eserciti permanenti. In quali perigli esperimentano essi le loro forze durante le lunghissime paci? Allorché gli eserciti muovono in guerra, sono nuovi a quei rischi come lo sarebbero le milizie cittadine. Questa confidenza nelle proprie forze, non potrebbe che svilupparsi dopo una campagna, almeno, il che avverrebbe eziandio per le milizie cittadine. Odio fra militi e cittadini; rivalità fra i diversi corpi, pota confidenza nelle proprie forze, che la gretta e codarda politica dei governi, e particolarmente dei piccoli Stati, loro inspira; il gioco, la crapula, l’ignavia figlia dell’odio in cui si giace ne’ presidii, ecco in che consiste l’amor proprio di corpo degli eserciti permanenti.

Se questa comunanza di perigli che vanta Marmont non esiste pei moderni eserciti, esaminiamo le altre cagioni che possono in essi sviluppare il valore che sarebbe difettivo fra le milizie cittadine. I premii, le pene,l’emulazione forse? «L’uomo per sua natura, dice lo stesso autore, cerca ed «ama le emozioni: l'idea del pericolo gli piace, quantunque nel momento più minaccevole vi siano pochi uomini i quali non ne restino scossi. «Ma sentesi il bisogno di paragonarsi agli altri, «l'emulazione ci è naturale». Or quanti sono capaci d’un tal sentimento fra i soldati di una compagnia? Salve alcune rarissime eccezioni, tutti i pensieri dei soldati sono alla famiglia, al paese nativo; essi anelano al termine dell’ingaggio e non altro. Non è che il timore della pena che li sospinge contro il periglio: e la paura non fu mai madre di eroi. Poniamo pure che premii, pene, emulazione inspirassero ai soldati il valore, non perciò le milizie stanziali dovrebbero dichiararsi più valorose delle milizie cittadine. Le cause stesse produrrebbero in queste il medesimo effetto. Ma il valore collettivo delle milizie risulta da cause più lontane, da sentimenti più nobili.

Allorché mancano i vincoli che legano il soldato alla causa che difende, e l’ardore è difettivo, il valore collettivo non è sperabile; esso può ottenersi, o dopo una lunga guerra la quale accostuma il soldato al periglio, o dalla disperazione. I Greci ed i Romani, i cui guerrieri, prima di uscire in campo, avevano egli medesimi decisa la guerra e però non desideravano il termine di essa senza la vittoria, guerreggiarono guerre corte e grosse. I mercenarii del medio evo, guerrieri per professione, accostumati ai perigli, erano valorosi, ma pugnavano non già per la vittoria, ma per salario; eglino non desideravano vittorie decisive, che avrebbero messo fine alla guerra, e però in quell’epoca tutte le guerre furono feroci e lunghissime. Nei moderni eserciti stanziali manca l’interesse alla causa che difendono, sono nuovi ai perigli; il salario meschino ed invariabile, quindi solo dal saccheggio, quasi in disuso (26), può essere allettata l’avarizia del soldato; e se le moderne istituzioni sociali rendono i cittadini infingardi e vigliacchi, gli eserciti permanenti non sono un rimedio a questi mali. L’amore per la patria, l’utile della vittoria son le cagioni, che fra milizie nuove alla guerra suscitano il valore, né questi sentimenti possono destarsi, se il soldato credesi affatto estraneo alla causa che difende. Tutti gli scrittori militari di qualche levatura hanno sentito queste verità, ma non hanno voluto accettarne le ultime conseguenze.

Jomini, autore certamente non sospetto ai troni, scrive cosi:

«Le cause generali che hanno tanta influenza sui destini delle nazioni, esercitano lo stesso impero sul loro stato militare. Le vittorie derivano in parte da queste cause, e sviluppano l’ingegno dei generali come il coraggio de' soldati». — L’anonimo e pregevolissimo autore del libro, che ha per titolo: Tableau des guerres de la révolutìon françaìse, sente in tutta la sua forza una tale verità. «Il disastro di Baylen (dice scrivendo della guerra di Spagna) racchiudeva un grande insegnamento di cui Napoleone era profondamente preoccupato. Le soldatesche di Dupont recentemente coscritte, eransi prontamente agguerrite, ma esse non recarono al campo che le loro attitudini militari. Il giorno in cui l’abilità del capo erasi mostrata difettiva, l’energia, l'ardore erano sparite. La sorgente delle forze che la rivoluzione aveva creato nelle moltitudini «cominciava ad esaurirsi» ed infatti si esaurì, e vinti furono il più formidabile esercito ed il più famoso capitano dei moderni, quando il bollore delle passioni che aveale generate si ammorzò sotto lo scettro imperiale.

Nel 1793 Condè, Maganza, Valenciana cadevano nelle mani del nemico; tre grandi provincie parteggiavano per la gironda, i sollevati della Vandea riportavano una grande vittoria; diecimila realisti si raccoglievano nella Lozéra; i formidabili eserciti collegati vittoriosi muovevano sopra Parigi; mancava il capitale, il lavoro, ma le passioni erano ardenti, la rivoluzione esisteva, la Francia supera tutti gli ostacoli, vince, e dopo tante lotte è più forte di prima. Paragoniamo queste condizioni della Francia a quelle in cui trovavasi nel 1814; uomini, tesoro, soldatesche agguerrite, famosi generali, materiale immenso, tradizioni militari, vastità di territorio, unità di comando, oltre le piazze forti di Francia, erano sue quelle di quasi tutta la Germania, sua l'Italia.... ma non eravi rivoluzione, bensì dispotismo; combatteva l’esercito, non già la Francia, e l’esercito fu vinto, la Francia conquisa. Quante risorse militari quanti soldati non aveva l’Austria! nondimeno dopo ogni disastro era costretta ad implorare la pace al Tagliamento, ad Austerliz, a Wagram. La Prussia, con un esercito tanto famoso, non perdette che una sola battaglia, a Jena; e l'esercito sparì e la nazione fu conquistata. La Spagna, per contro, ove la guerra fu sostenuta da cittadini volontari, tante volte disfatta, non subì mai l’intera conquista.

Dal 1792 al 1800 gli eserciti francesi sono eserciti cittadini, ed i loro nemici milizie regie: la vittoria non abbandona mai i Francesi. Dal 1800 al 1813 le legioni di Francia sonosi trasformate in milizie stanziali: ma i generali, gli ordini, le tradizioni, quell'unità, quella precisione nelle grandi mosse di guerra, il genio stesso di Napoleone, tutto traeva origine dal bollore della rivoluzione; l’arte della guerra che servì alle conquiste di Napoleone, era quella della scuola repubblicana, come quella di Epaminonda, d'Atene, di Sparta servi all’ambizione d’Alessandro. Gli eserciti che doveva combattere Napoleone erano eserciti di scuola regia e furono vinti. Finalmente la Francia china il capo sotto il giogo di un despota, i suoi eserciti non combattono più per l’onore della Francia, ma per sostenere l’ambizione del tiranno; la Francia sente il peso della guerra, senza raccogliere nessun frutto dalla vittoria; allora i re oppressi mandano il grido di libertà e nazionalità, l’ardore invade gli animi, e rapidamente trasforma i loro eserciti mercenari in eserciti cittadini, tutti VOGLIONO vincere... cosi, mutate le condizioni mutano le sorti, la Francia è conquisa.

Se da' moderni rimontiamo agli antichi, vedremo Roma, difesa dai suoi cittadini, rifarsi dopo i memorabili disastri della Trebbia, del Trasimeno, di Canne, e più potente ritornare in campo. Cartagine, invece, che guerreggiava con eserciti mercenarii, cade appena a Zama vengono sconfitti i veterani condotti da Annibaie. Di tutte le imprese guerriere che registra la storia, non sono forse quelle delle milizie cittadine le più famose? La falange macedone, l’ordine manipolare e tutti i principii su cui si basa il dotto guerreggiare dei moderni, non sono forse risultati dalle imprese delle milizie cittadine? Facciamoci a riscontrare la storia, dal principio del mondo, ed esaminiamo accuratamente il sentimento nazionale, i vincoli sociali, l’utile, l'indole di quei popoli, i quali vantano una serie non interrotta di trionfi, e troveremo, oltre l’abilità del capitano ed il valore delle schiere, un convincimento, un sentimento universale che li sospinge alla guerra, causa latente di cui tutto ciò che apparisce è l’effetto. Con milizie stanziali, sospinte dalla sola disciplina, si potrà conseguire la vittoria in qualche campagna, si potranno vincere delle battaglie; ma al termine di una lunga lotta il trionfo delle milizie cittadine è immancabile. Gli eserciti {jermanenti sono una forza, che la stessa vittoria ogora e distrugge; mentre la disfatta, minacciando le milizie cittadine dell'immediata perdita di quei beni che esse difendono, accresce in esse l’ardore e con l'ardore la forza (27).

X. Conchiudiamo: gli eserciti permanenti, che assorbono la più gran parte delle ricchezze sociali, che tolgono al lavoro un numero rilevante di braccia, non sono che scuole di pregiudizii e d’errori, consorterie in cui rinnegasi la ragione, la dignità di cittadino, di uomo, rinnegasi la patria; sostegno della tirannide, ostacolo ad ogni grandezza. Bugiardamente si dicono nazionali, mentre ad ogni militare vien severamente proibito di mischiarsi nelle discussioni politiche che si agitano nel paese, per imporgli poi quell’opinione che meglio conviene a chi governa. Ma come potrà essere animato da spirito nazionale colui che si fa straniero a tutto quello che pensa, che scrive, che discute la nazione, colui che vive una vita diversa da quella dei cittadini?

Gli eserciti permanenti non sentono altra nazionalità che quella della spada e della sciarpa, e per essi la verità e la giustizia è la volontà del loro capo. I miglioramenti dell'apparecchio, e degli ordini di questi eserciti, non sono sottoposti al vasto concetto collettivo di tutto il popolo, al lavoro continuo di milioni d’ingegni, ma all’angusto discernimento di qualche satrapo: guai a colui, eziandio militare, che tentasse di proporre riforme o innovazioni! verrebbe considerato come un ribelle che crede saperne più dei suoi superiori. In tal guisa l’ubbidienza, indispensabile solo in campo, vien trasformata in ubbidienza perpetua, per cui muore ogni slancio, ed il paese è privato della cooperazione dei suoi più sublimi ingegni.

Giunto il momento di muovere a guerra, le sorti della patria non si affidano a colui ch'è più atto a capitanare l’esercito, ed al quale natura disse il segreto dell’arte bellica; ma ad un generale invecchiato nelle anticamere delle corti, o nelle caserme, per la sola ragione che questi è il più anziano, o pure è il favorito del principe.

Ogni cittadino, gravato da enormi tasse per mantenere in essere l’esercito, e vedendo un continuo correre d’armati per la città, è indotto a credere che il paese sia pronto ad ogni evento e capace di respingere ogni ascendente straniero; vana speranza, nessuno degli Stati europei del medio evo, nessuno dei piccioli Stati italiani di quell'epoca, si è mai mostrato così codardo in politica, cosi poco apparecchiato alla guerra come le moderne nazioni. Quelli non avevano eserciti, o almeno la maggior parte delle loro milizie si assoldavano durante la guerra, questi sono largamente muniti di armi e di armati. In oggi, decisa la guerra, dopo interminabili apparecchi e spese come se le milizie non esistessero, l’esercito muove pur sempre mancante di qualche cosa (28).

Giunti i due eserciti l’uno incontro dell’altro, si fronteggiano, incerti, per mesi interi, finché il caso produce qualche combattimento, sovente indeciso, sempre senza risultamenti, e spesso i due avversarii si attribuiscono entrambi il vantaggio. Simulano i capi una grande ammirazione per Hnesperimentato valore nemico, larghi di lode gli uni verso gli altri, di modo che la guerra riducesi ad uno scambio di cortesie. Ogni uno dichiara di avere un Annibaie per nemico, onde farsi ad imitare Fab (!)  o, e cosi mascherare con la prudenza l’incapacità. Intanto, i disagi del campo, l’inerzia snervano i soldati, dissolvono l’esercito, conchiudesi la pace, ed al più timido, senza che sia vinto, viene imposta forte taglia di guerra, che pagano i cittadini, dopo aver pagato e dover pagare in seguito somme considerevolissime pel mantenimento di quell’esercito che non ha saputo proteggerli. Cotesti eserciti, cosi dannosi in pace, cosi inutili in guerra, verranno dispersi al primo urto delle legioni cittadine surte da una rivoluzione (29).

Una spada in libera mano

E' saetta di Giove tuonante,

Ma nel pugno di servo tremante

Come canna vacilla Tacciar.

G. BOSSETTI

Pongo termine al ragionare di tale materia manifestando un mio convincimento. Se da mille bocche autorevoli si ripetessero le ragioni da me esposte, ed altri argomenti più chiari e potenti si aggiungessero, non perciò gli eserciti stanziali verrebbero disciolti; lascio questa lusinga alla pacifica ed inoffensiva schiera dei dottrinanti. Scrivo contro gli eserciti, per dimostrare a' miei connazionali la loro inutilità, i danni che essi cagionano alla patria, ed evitare che sorgendo a libertà rompano contro questo scoglio.

Egli è vero, che ragionando si distruggono i pregiudizii, ma non mai nel volgo; solo fra un ristretto numero di pensatori, capaci di scrollare, ma non già di cangiare gli ordini sociali. Sono i dolori, i mali, la cagione dei rivolgimenti, i quali cangiando gli interessi materiali sbarbicano gli errori (30).

Dite al soldato: «tu, prima di vestir la divisa, fosti cittadino, tu desideri fortemente di ritornare in seno alla tua famiglia; perché dunque ti fai strumento d’oppressione contro un classe di persone a cui appartieni, in mezzo a cui ritornerai, e fra le quali sono tuoi parenti ed amici? Sciagurato! non ti accorgi che ribadisci le tue catene? Quella disciplina perpetua che sorveglia i tuoi passi, le tue azioni, che ti attribuisce a delitto il ragionare di patria coi tuoi concittadini, che ti abbandona in balia dei capricci di un tuo capo, sei tu stesso che la sostieni. Perché non la infrangi e ti franchi da te medesimo?» — Il soldato non comprenderà niente di tutto ciò; egli con la stessa brutalità che assassina i suoi concittadini combatterebbe unito a' suoi conterranei contro l’esercito, se non fosse soldato.

Dite agli uffiziali: «voi potete rivendicare i vostri diritti di scegliervi i capi, di decretare premii, pene, onori; perché abbandonaste questi diritti nelle mani di pochi usurpatori?» —Quasi tutti comprenderanno queste verità; ma il volgo preferisce, ad uno splendido avvenire da conquistarsi, il misero presente che gli assicura l’inerzia.

Quindi non altro frutto possiamo sperare dal fin qui detto, che suscitare intorno al sistema degli eserciti permanenti qualche dubbio,, qualche desiderio, da commovere gli animi degli uffiziali, la cui incertezza comunicandosi alle schiere, facile sarà, all’ora della battaglia, la vittoria del popolo. — Vittoria che sarà più profittevole all’esercito vinto, che ai cittadini vittoriosi, particolarmente in Italia.

CAPITOLO TERZO

Forza, ripartizione e proporzione fra le diverse armi.
XI. Forza dell’intero esercito, sua ripartizione in legioni, e proporzione fra le diverse armi. — XII. Gradi diversi che debbono stabilirsi. — XIII. Corpo degli ingegneri e pontonieri. — XIV. Cariaggio delle vettovaglie. — XV. Corpo sanitario. — XVI. Stato-Maggiore.

XI. Non già la ragione di guerra, ma le entrate dello Stato, il numero delle soldatesche necessario a presidiare le città, l’umore più o meno guerresco del principe, sono le ragioni, sono le norme da cui si parte per determinare il numero delle milizie, ed il rapporto che debbono serbare con la popolazione; quindi nel medesimo Stato ed in epoche vicinissime, vediamo l'esercito ora fiorente, ora caduto in dispregio; e quando le milizie sono destinate, non già a difesa della nazione, ma a sostegno del trono ed a sollazzo dei re, di venta penosissimo ai cittadini il militare servizio.

Non v’è idea più assurda di quella dei moderni dottrinanti, i quali negli eserciti stanziali scorgono un felice ritrovato della civiltà, che, senza distogliere i cittadini dalle arti della pace, ne destina una parte, addestrandoli alle armi, alla difesa dello Stato. Una nazione libera, a cui la guerra nell’interesse pubblico minaccia ogni interesse privato, non deve né può soccombere, senza adoperare in propria difesa tutte le forze di cui può disporre; impiegare per difendersi solamente una parte dei cittadini, ove esiste realmente eguaglianza e libertà, è un’idea contro natura: sarebbe un caso simile a quello di un uomo, che si lasciasse uccidere per aver fatto proponimento di combattere con un braccio solo e di abbandonare a questo membro la cura di difendere tutto il corpo.

Intanto la necessità di conservare negli eserciti l’unità morale, che va perdendosi se troppo numerosi; la necessità di conservare l’unità del comando che, dovendo proporzionarsi alle facoltà di un uomo, perde d’efficacia se estendesi a troppo numerose schiere; ed infine, le catene dei monti, il corso dei fiumi che limitano e stabiliscono i campi di battaglia, sono cagioni, che determinano il numero delle soldatesche, che nel tempo stesso, sotto un sol comando e su di un medesimo campo possano battagliare. L'esperienza di tante guerre ha dimostrato che 200 mila uomini formano un esercito che già sul medesimo campo di battaglia, comincia ad esser poco maneggevole, e risentesi di quel principio, di quella legge meccanica, per cui perdesi in tempo ciò che guadagnasi in forza. Limitato a 200 mila uomini, il numero delle schiere che possono combattere una battaglia, ne risulta che eziandio un picciolo Stato sia pure di due milioni di abitanti, può difendersi da un prepotente nemico: 200 mila guerrieri comandati da un buon generale, rimanendo sulle difese, ne sfidano tre cotanti; e come le armi moderne  stabiliscono il trionfo della democrazia, cosi i principii della guerra grossa, son guarentigia all'indipendenza dei piccoli Stati che si governano con libero reggimento.

Da quanto abbiamo detto risulta, che una grande nazione, non dovrebbe prestabilire la forza del suo esercito, ma, in caso di guerra, proporzionarla all'impresa che si vuol compiere; nondimeno le armi speciali, i cariaggi, gli attrezzi che bisogna apparecchiare durante la pace, è d’uopo determinarle, e però la necessità di prestabilire la forza dell’intero esercito ed a questa far corrispondere il materiale ed i corpi speciali, non che i cavalli, che non possono, come i fanti, in pochi giorni addestrarsi. Se si proporzionasse l’esercito alla popolazione, e si rispettasse, come sarebbe naturale, il principio che una nazione non debba mai considerarsi vinta, se prima non abbia consumate in propria difesa tutte le sue forze, un numeroso popolo dovrebbe porre in essere un esercito sterminato, e però noi crediamo più giusto, e riteniamo come una norma più esatta quella di stabilire la forza dell'esercito secondo le frontiere che bisogna difendere.

In ogni frontiera vanno considerate: 1.° le linee principali delle operazioni del nemico che dalla sua base menano nel cuore del paese; ogni una di queste linee, può comprendere, contenere varie linee di marcia e di evoluzione; 2.° le linee secondarie, le quali conducono con giro più lungo alle spalle di quei punti strategici che si trovano sulle linee principali. Volendo difendere il paese, attenendosi alle pratiche più volgari dell’arte bellica, fidando più nel numero delle soldatesche che nel disegno di guerra e nel moto, ogni linea principale, la quale comprende una fronte d’evoluzione, bisogna difenderla con un esercito, che, attenendosi al maggior numero, dovrà essere di 200 mila uomini; ed inoltre, ogni linea secondaria bisogna guardarla con un corpo d’esercito, capace non già di vincere, ma di indugiare solamente il nemico, e così dar tempo ad uno degli eserciti principali di correre a combatterlo. Nei paesi ove queste linee secondarie muovono attraverso d'alti monti, varcano profondi burroni, traversano gole, dieci migliaia d’armati ben arringati ne’ difficili passi, possono fermare un esercito; ma per sicurezza maggiore raddoppieremo questo numero, e stabiliremo 20 mila uomini per la difesa delle linee secondarie. Premessi questi principii, scendiamo all’applicazione.

Un nemico, per internarsi nella penisola italiana, bisogna che, innanzi tutto, si renda padrone della valle del Po. Carlo VIII, comeché non combattuto ma applaudito dai degeneri italiani, videsi giunte a mal partito, appena essi si rinvennero dallo stupore e furono per un istante tocchi dal sentimento nazionale. Il disastro dei Francesi alla Trebbia, in tempi a noi vicinissimi, nel 99, ha confermato questa verità. Pirro invase l’Italia da meriggio, ma confidò nell’appoggio promesso ed ottenuto dai popoli della MagnaGrecia. Annibaie girando intorno a Roma, si mise, per mare, in diretta comunicazione con la sua patria, e da austro osteggiò i Romani, ma Annibaie, come Pirro, sperava trarre profitto dall’odio che i popoli dell’Italia meridionale nutrivano contro i dominatori. Senza il concorso dei popoli, un esercito sbarcato su di una costa non può mai spingersi alla conquista di una nazione; esso deve limitare le sue operazioni in ristretto spazio, ed una sola disfatta basta per annientarlo: dunque possiamo conchiudere, che le sorti dell’Italia dipendono dal possesso della valle del Po, ed è perciò l’Italia settentrionale il terreno che bisogna disputare ad un invasore.

Nel precedente Saggio (31), facendo paragone fra l’Italia e la Francia, discorremmo come gl’Italiani possano giovarsi della forma delle loro frontiere, e dicemmo brevemente come 250 mila uomini, facendo massa sotto un solo comando nella valle del Po, possono difenderla dall'Europa intera: ma ora trattandosi di determinare la forza dell'intero esercito, non ci atterremo al possibile, ma al certo, e verremo applicando i principii testé stabiliti.

Due sono le principali linee d’invasione, una orientale, l’altra occidentale: questa, compresa fra le fonti della Stura e della Dora Baltea, e quella fra l’Adriatico e la cresta che separa le acque che versano in questo mare, da quelle che versano nel Danubio; quindi due eserciti, l’uno orientale e l'altro occidentale, di 200 mila uomini ogni uno, difenderebbero con vantaggio queste due linee; inoltre, il Tirolo, il Sempione, il Gottardo, la valle della Bormida, sono le linee secondarie da guardarsi ogni una da 20 mila uomini, ed aggiungendo a queste forze un esercito di riscossa di 50 a 60 mila uomini, pronto eziandio a reprimere qualunque tentativo che potrebbe farsi sulle coste italiane, ne risulta che la forza dell’esercito capace a difendere l’Italia dal mondo intero è tra i 500 mila ai 600 mila uomini.

Determinata la mossa generale delle forze, facciamoci ora a ripartirla onde abilitarla al movimento.

Il battaglione, troppo esteso di fronte per muovere tutto in un pezzo, diviso in pelotoni evolve facilmente al comando d’un capo, la massa ripiegasi, e fa sua fronte delle spalle e dei fianchi. Come il pelotone facilita i movimenti di un battaglione, cosi il battaglione fa abilità ad una brigata o divisione di serrarsi in colonna, schierarsi per masse, muovere in tutti i sensi, cangiar fronte, combattere. Prima delle guerre della rivoluzione francese gli eserciti muovevano interi: durante queste guerre cominciarono ad evolvere strategicamente, e quell'ufficio che fa il pelotone nel battaglione, il battaglione nella brigata, lo fecero le divisioni nell’intero esercito, e queste divisioni costituite più regolarmente e fatte più numerose divennero corpi d’esercito, a cui noi italianamente daremo il nome di LEGIONI.

La forza di queste legioni deve essere assolutamente variabile, e non già costante come quella del pelotone nel battaglione, del battaglione nella brigata; imperocché, le evoluzioni di battaglione e di brigata si eseguono sul medesimo terreno, né hawi a temere che un pelotone o un battaglione, per condursi sulla nuova linea di colonna o di battaglia, debba combattere solo a solo il nemico, che potrebbe attraversargli il sentiero; ma nelle evoluzioni strategiche avviene altrimenti. Per schierare strategicamente un esercito, su di una linea, o far conversione, o cangiar fronte, avviene che una legione traverserà un terreno piano, un’altra ineguale, un’altra dovrà traversare una valle, o superare dei monti....; quella muoverà con la sicurezza di non incontrare il nemico, questa con la certezza di essere obbligata a combattere per aprirsi il passo; quindi la natura del teatro della guerra, il disegno del generale, le mosse del nemico sono le circostanze da cui bisogna prender norma onde stabilire la forza delle legioni, e la proporzione che debbono serbare in esse i diversi corpi, e però non potremo fare altro, che assegnare dei limiti al numero delle soldatesche che debbono comporle.

Una delle condizioni, alle quali una legione debba soddisfare, è quella che tutte le sue mosse siano sotto la diretta sorveglianza di un capo, il quale, senza attendere il comando del generale supremo, che, per l’estensione del campo potrebbe giungere tardi od inopportuno, operi a suo talento in quei limiti che gli saranno stati prescritti; or dunque, se la legione fosse troppo numerosa, l’ascendente del capo non sarebbe cosi diretto, e non si otterrebbe, ripartendo l’esercito in corpi troppo grossi, il vantaggio desiderato; 30 mila uomini è un numero di soldatesche, che non dovrebbe mai oltrepassarsi nel comporre una legione; schierati su due linee oltre la riscossa, occuperanno una fronte di meglio che 2000 metri, già. troppo per la diretta sorveglianza di un sol generale. Un’altra condizione alla quale bisogna che soddisfaccia una legione è quella di bastare a se medesima, di esser capace non già di vincere, ma di indugiare e difendersi da qualunque nemico, e però se il limite massimo non varia al variar del terreno, il minimo dipende affatto dalla natura del teatro della guerra; e riflettendo che l’Italia ha un suolo montuoso, in cui il nemico spesso deve combattere con le sole teste delle sue colonne, ne risulta che potranno esservi circostanze in cui una legione potrà comporsi di soli 10 mila uomini. Laonde l’esercito italiano sarà dai 500 ai 600 mila uomini, e per abilitarlo a muovere verrà ripartito in sedici legioni di varia forza, da 10 mila a 30 mila uomini, e due corpi di riscossa, l’uno di cavalli, l’altro di artiglieria (32).

Determinata l’unità tattica ed amministrativa di ciascun corpo, la forza totale dell’esercito, il numero delle legioni in cui dovrà suddividersi, dobbiamo ora stabilire la proporzione fra le diverse armi, la quale risulta dall'esperienza, e varia secondo il terreno in cui bisogna campeggiarla; ma nel caso nostro trattandosi di un esercito cittadino che può accrescersi a dismisura di fanti, e di una formidabile e ricca potenza quale sarà l’Italia, chiamata forse a combatter la causa della rigenerazione europea sul Danubio, crediamo giusto nello stabilire il numero dei cavalli ed il materiale dell’esercito, di allargarci a' quanto e non già restringerci a quello che rigorosamente richiedesi pel suolo italiano. Con tali norme, e rispettando eziandio le unità tattiche che abbiamo stabilito pei diversi corpi, l’esercito italiano potrà comporsi come segue:




Fanti

Uomini

Cavalli

Macchine

500

Battaglioni, ripartiti in 125 brigate

360,000

125

Squadroni di esploratori, uno per brigata, di 100 uomini ogni uno, più cinque uffiziali, come diremo

13,125



Cavalleria




104

Squadroni di cavalleggieri ripartiti in 26 brigate

23,920

19,760

-

88

Squadroni di Dragoni, 22 brigate

20,240

16,720


48

Squadroni di Corazzieri, 12 Brigate

11,040

9,120

——


Totale della Cavalleria




240

Squadroni, ripartiti in 60 brigate

55,200

45,600


34

Squadroni di esploratori per le 34 brigate di Corazzieri e Dragoni

3,570

3,740





Artiglieria

Uomini

Cavalli

Macchine

70

Batterie di cannoni da 6 che formano 14 brigate, e 560 pezzi di artiglieria

14,420

12,880

1820

30

Batterie di cannoni da 12 che formano 6 brigate e 240 pezzi d’ artiglieria

7,680

8,640

1140

30

Batterie d’obizzi ripartite in 6 brigate, 240 pezzi d'artiglieria

6,780

6,360

900

20

Batterie a cavallo, che formano 4 brigate e 160 pezzi d'artiglieria

4,620

520

520

150

Totale dell’Artiglieria

Batterie ripartite in 30 brigate

33,500

32,560

4380


Carriaggio di attrezzi e munizione da guerra

Seguendo le norme stabilite dalle più moderne opere bisogna calcolare: tre cassoni da munizione per ogni cannone da 12, e per ogni obbizzo; e due per ogni cannone da 6. Le casse di ricambio del numero dei pezzi. Un carro di batteria per ogni cento animali. Il numero delle fucine deve essere tale da potersene assegnare 4 per ogni legione, ed otto col cariaggio dell’esercito. I carri d’artiglieria, di attrezzi, debbono esservi 8 per ogni legione, e 16 col carriaggio dell’esercito. Si avrà un totale di 3966 macchine.

La fanteria bisogna provvederla di 200 spari ad uomo, di cui 140 vanno sulle carrette 0 cassoni. Ogni cavaliere va provvisto di 80 spari, dei quali 20 li porta con sè. Ogni carretta a cassoni trasporta 12 mila cartucce, quindi per finterò esercito bisognano 4832 ditali carri. I cassoni di munizione, e le casse di ricambio richiedono il tiro a sei: per tutte le altre macchine basta il tiro a quattro ; le carrette a cassoni per la fanteria sono tirate da due soli animali, quindi pel carriaggio delle munizioni da guerra di tutto l’esercito bisogna un traino di 30 mila cavalli o muli, che ripartiti in squadroni : 150 Squadroni di 200 bestie ogni uno, e 130 uomini, comprese le cariche, gli smontati, i trombettieri, i maniscalchi






19,500

30,oa

) 8798



XII. Dimostrata la necessità di un comando unico ed assoluto, ne risulta come conseguenza immediata un ordine di gradi, per comunicare alle varie parti dell’esercito la volontà del capo, onde farle muovere ai suoi cenni.

In questa gerarchia richiedesi, come condizione principale, semplicità: ed in essa ogni grado deve essere assolutamente necessario, e rappresentare una diversità di funzioni; i gradi inutili ritardano la trasmissione degli ordini, e scemano la velocità nell’operare. Nondimeno l'istituzione dello milizie perpetue con la loro complicata amministrazione, le ambizioncelle della turba dei favoriti a cui i despoti debbono trovar pascolo, ha sopraccaricato l’esercito, con sommo danno e dispendio, di gradi inutili. Noi rileveremo i diversi gradi necessarii in un esercito, dal modo come si trasmettono ed eseguiscono gli ordini del capo nelle mosse di guerra.

Il capitano concepisce il disegno ed indica ad ogni legione la via a percorrere, l’obbietto su cui dirigesi, il posto che deve occupare sulla linea di battaglia. Segue il comandante la legione, che la conduce per quella via, la dirige su quell’obbietto, la schiera in quella postura che dal capitano gli è stata indicata.

La legione per eseguire questo comando bisogna che faccia evolvere le sue schiere secondo i bisogni, secondo il terreno. Stabilita la sua forza dai 10 mila ai 30 mila uomini, ovvero da 8 sino a 32 battaglioni di fanti, bisogna suddividere questa massa in varie parti onde agevolare il movimento. Otto, o al più dodici battaglioni muovono facilmente al comando di un uomo: al di là di questo numero si hanno movimenti lenti ed incerti; del pari non possono muovere alla voce di un sol capo più di diciotto squadroni di cavalli; dunque i fanti ed i cavalli dell’esercito, oltre all’essere distribuiti secondo i bsogni fra le varie legioni, è uopo, per facilmente squadronare, assegnare un comandante ad ogni otto o dodici battaglioni di fanti e ad ogni otto o diciotto squadroni di cavalli: un tal grado, che sarebbe quello del comandante la divisione, viene terzo nell’ordine gerarchico. Questo grado in artiglieria è quello che riunisce sotto il suo comando varie brigate d'artiglieria di calibro diverso; ma siccome queste non devono evolvere come i fanti ed i cavalli, cosi il numero di brigate o di batterie che formeranno la divisione sarà determinato dallo scopo che si prefigge il comandante in capo dell’esercito. Gli altri gradi sono conseguenza dell'ordinamento stabilito, e quindi verrà: 4.° Comandante la brigata. 5.° Comandante un battaglione, uno squadrone, una batteria. 6.° Comandante una compagnia, un mezzo squadrone, una mezza batteria. 7.° Comandante un pelotone, una sezione d’artiglieria. 8.° Le guide. Questi sono i soli otto gradi indispensabili all’evolvere delle schiere.

Determinato il numero dei gradi, stabiliremo i loro nomi, e sceglieremo quelli più adattati a noi italiani, comeché non moderni, non curando né usi né pregiudizii. Il nome di Generale non conviene che al solo comandante supremo di un esercito: limitare il significato di esso, con le aggiunte di Generale di brigata, di divisione, d'artiglieria e simili è un certo controsenso, è una contraddizione manifesta. Segue il grado stabilito al comando di una legione, che, presso i Romani, alternativamente esercitavano i Tribuni: nome per gli italiani ricco di gloriose e libere rimembranze, nome adattato all'ufficio a cui saranno destinati, come in seguito diremo, i comandanti delle legioni, per cui crediamo dovrebbe adottarsi dagl’italiani, e preferirsi alle denominazioni d’oltremonte, che traggono la loro origine dal fasto e dal dispotismo delle monarchie. Segue il comandante una divisione di fanti, di cavalli, di macchine da guerra: questi ordina e dirige i movimenti particolari, deve essere maestro nell’arte di muovere le schiere, quindi con nome italianissimo lo chiameremo, maestro di campo. Alle divisioni seguono le brigate, il cui comandante naturalmente va detto Brigadiere. Poscia, le unità tattiche, non che amministrative, dei varii corpi: battaglione, squadrone, batteria....; i di cui comandanti debbono evidentemente pareggiarsi in grado; e siccome il battaglione, lo squadrone, la batteria, sono le parti, o le colonne in cui le schiere si dividono per evolvere, così a coloro che comandano a queste colonne, unità di evoluzioni, è adattissimo il nome di Colonnello. Alcuni sotto l’influenza dei pregiudizi! troveranno troppo elevato questo grado, ma domanderemo loro, elevato relativamente a che? sono le attribuzioni, l’estensione del comando, che accresce al grado l’importanza, e non già il nome. Quindi l’ordine pei gradi nell’esercito sarà il seguente:

1° Generale — Comanda un esercito.

2.° Tribuno militare — Comanda una legione.

3.° Maestro di campo — Comanda una divisione di fanti, o di cavalli, o di artiglieria.

4.° Brigadiere — Comanda una brigata.

5.°  Colonnello — Comanda un battaglione, uno squadrone, una batteria.

6.°  Capitano  — Comanda una compagnia, un mezzo-squadrone, una mezza-batteria.

7.° Tenente — Comanda un pelotone, una sezione d’artiglieria.

8.° Sergente — Comanda una squadra, fa l’ufficio di guida

Non annoveriamo i caporali come graduati, ma crediamo miglior consiglio riguardarli come i migliori fra i soldati, ai quali si accorda una distinzione, e può accordarsi in casi speciali il comando di picciol posto, o destinarli ad altre missioni che richiedono una dose d’intelligenza. Il numero di questi soldati distinti potrebbe rimanere indeterminato.

Nei fanti, ogni compagnia avrebbe un capitano, tre tenenti, quattro sergenti.

Uno squadrone di cavalli sarebbe comandato da un colonnello, ed avrebbe due capitani e sei tenenti.

Una batteria: un colonnello, due capitani e quattro tenenti.

In ogni battaglione, squadrone, batteria, vi sarebbe un sergente, un tenente, un capitano, incaricato delle funzioni di aiutante ed aiutante maggiore; come eziandio sergenti, tenenti, capitani, sempre oltre il numero di quelli che si richieggono per ogni compagnia, verrebbero incaricati della parte amministrativa: incombenze tutte per le quali non essendovi diversità di comando, non dovranno esservi, come ora si pratica, nuovi gradi creati a posta, come quello di forieri, tenenti colonnelli, ecc.

XIII. Fanti, cavalli, artiglieria, sono, lo vedemmo, i corpi principali che compongono un esercito. Passeremo ora ai corpi accessorii. Sovente l'esercito ha bisogno di accrescere con l’arte le naturali difese del terreno. L’impeto dei cavalli, l’assalto dei fanti, i colpi dell’artiglieria riescono talora impotenti contro una piazza, mentre una sua opera vi oppone di fronte un ostacolo materiale, o le opere vostre co’ suoi tiri vi distrugge. Per iscrollare i suoi solidi rivestimenti è forza avvicinarvisi serpeggiando e facendosi della terra smossa parapetto: e soventi si è costretti a profondarsi in essa, onde crollare dalle fondamenta quelle muraglie che l’artiglieria non giunge a diroccare; per questi lavori è indispensabile il corpo degli ingegneri militari.

È un grossolanissimo errore il supporre che un ingegnere civile possa dirigere simili lavori. Per eseguirli richiedesi non solo uria esatta conoscenza degli effetti dell’artiglieria, ma eziandio bisogna conoscere pienamente il modo con cui assalgono i fanti ed i cavalli, e come sogliono evolvere a fronte del nemico, onde costruire in loro difesa delle opere, le quali, mentre li garantiscono, non iscemano la loro facoltà d’offendere. Nel rilevare la pianta del terreno, quantunque l’ingegnere militare ed il civile si governino nel modo stesso, pure quest’ultimo potrà trascurare cose, per la guerra, di grande importanza, e disegnare accuratamente altre, che saranno di verun conto. Inoltre gli ingegneri civili, non sapendo guari delle invenzioni e delle esperienze fatte dai militari e conoscendo pochissimo le cose che riguardano l’arte bellica, si lasciano trasportare dalla foga del loro ingegno, e vengono fuori con progetti ed invenzioni o inammissibili o almeno inutili secondo l’esperienza.

Il numero degli ingegneri che debbono accompagnare un esercito varia secondo le imprese che esso dovrà compiere. L’unità tattica di questo corpo è la compagnia composta di 150 a 200 operai, essendo questo un numero sufficiente per eseguire, con l’aiuto dei fanti, i lavori di terra che occorrono per una legione; quindi pel nostro esercito bisognano 16 compagnie di Zappatori, di 200 uomini ogni una, perché sedici sono le legioni in cui è diviso l’esercito: ed oltre a queste per gli assedii, seguiranno il carriaggio generale di tutto l’esercito 30 compagnie di zappatori, e quattro di minatori. Con ogni legione vi sarà un carro e due bestie da soma, per trasportare i varii arnesi necessarii ai lavori; ed un carriaggio generale per tutto l’esercito, che trasporterà arnesi ed attrezzi bastanti a tre assedii.

Oltre questo numero di soldatesche e degli ufficiali corrispondenti, al comando generale dell’esercito ed al comando di ogni legione è uopo vi siano addetti alcuni ufficiali degli ingegneri per dirigere tutti i lavori che possono occorrere; il loro grado è bene che sia elevato, affinché ottengano rispetto ed ubbidienza. Al comando generale dell’esercito, vi sarà il comandante tutto il corpo degli ingegneri ed il suo capo-di-Stato-Maggiore: il primo col grado di Tribuno, il secondo con quello di Maestro di Campo; tre brigadieri ai loro ordini, ai quali verrà affidata la direzione dei lavori delle due ali e del centro dell’esercito. Oltre queste, vi sarà la sezione dei topografi, per rilevare la pianta degli accampamenti e delle battaglie, composta da un brigadiere, due capitani ed otto tenenti. Ogni legione avrà con sé un brigadiere degli ingegneri e tre capitani. Conviene poi, aggiungervene altri nel caso di dovere assediar piazze.

Gli ingegneri essendo più idonei che gli artiglieri per gettare un ponte, noi uniremo al coo degli ingegneri i pontonieri, e col traino degl’ingegneri vi sarà quello dei ponti. Attese le condizioni topografiche dell’Italia, non potranno in sua difesa adoperarsi più di due eserciti; quindi vi saranno quattro traini di ponti, ogni uno di 74 carri, e trenta barche, oltre a sedici traini di 20 carri ogni uno per le sedici legioni in cui l’esercito potrebbe dividersi. Per gettare un ponte di 20 a 30 barche, è indispensabile una compagnia della forza di circa 130 uomini. Stabilite queste norme il corpo degl’ingegneri e pontonieri dell’esercito italiano sarà composto come segue:

4 Tribuni — 4 Maestri di campo — 20 Brigadieri — 60 Capitani — 30 Tenenti. — Totale 118.

Soldatesca coi corrispondenti Uffiziali

36

Compagnie di Zappatori di 200 uomini ogni una

7200

4

Compagnie Minatori

800

20

Compagnie di Pontonieri a 130 uomini

2600

15

Compagnie di Conduttori a 150 uomini

2250


Totale

12968

890 Carri, e 3850 Cavalli o Muli.

La divisa di questo corpo sarà simile a quella dei fanti; le loro armi saranno: una daga atta a servire come sega, ed il fucile, come quello dei cavalleggieri, onde portarlo con facilità ad armacollo; inoltre ogni soldato porterà uno strumento da lavoro, come zappa, accetta o piccone a corto manico.

XIV. Ci faremo ora a discorrere della cosa la meno apprezzata, comeché sia la più interessante per l'esercito, cioè l’apparecchio, la distribuzione e la condotta delle vettovaglie. Con somma accuratezza vi provvedevano di solito i Consoli romani in ogni impresa guerresca; è noto che per aver trascurata questa regola furono disfatti alla Trebbia. È opinione d’alcuni Generali scrive Federico II, che a voler bene costituire un esercito bisogna cominciare dal ventre; ed asserisce pure che dalla facile ed esatta distribuzione delle vettovaglie dipende la riuscita delle intraprese.

Nell'ultima guerra combattuta in Italia (33), varii disastri furono cagionati dal modo irregolare con cui tale servizio facevasi. Durante questa guerra alcuni inesperti i quali suppongono che l’esaltazione supplisca a tutto, stimavano come cosa vergognosa curate i corpi prima di combattere; aberrazione da storditi, da uomini a cui la natura non concesse quella calma necessaria a compiere grandi cose. Un buon Generale lascerà le mille volte distruggere dal nemico qualche migliaio di uomini, più tosto che appiccar battaglia per difenderli a corpo digiuno. Cosi pensano i guerrieri moderni, cosi p. nsarono gli antichi, e cosi i guerrieri dei tempi eroici, del che fanno fede questi versi ’di Omero:

Che digiuno soldato un giorno intero

Fino al tramonto non sostien la pugna:

Sete, fame, fatica, a poco a poco

Dòman anche i più forti, e dispossato

Casca il giuochio. Ma guerrier, cui fresche

Tornò le forze il cibo, il giorno tutto

Intrepido combatte, e sua stanchezza

Sol col finirsi del conflitto ei sente.

Napoleone prescrive che un'armata porti seco le vettovaglie per un mese, così distribuite: per dieci giorni caricate parte sulle bestie da soma e parte al soldato, e 20 sulle carrette. Ma questo numero di carri non sembra sufficiente; noi calcoleremo il traino coi seguenti dati: il peso della porzione che spetta ad un uomo, compreso il beveraggio, può calcolarsi di 1 Chilogrammo: il carico di un cavallo o di un mulo può ascendere a 100 Chilogrammi ed a 600 quello di un carro. Due cavalli o muli potranno trasportare cinque giorni di vettovaglia per 100 uomini; tre carri porteranno venti giorni di vettovaglia per cento uomini. La porzione di avena per ogni cavallo pesa chilogrammi 3. 80, e però bisognerà una bestia da soma pel trasporto dell'avena necessaria a sei cavalli per cinque giorni, ed una carretta ogni 12 cavalli per venti giorni. Con tali dati il carriaggio delle vettovaglie per l’esercito italiano, il cui totale trovasi riassunto nello specchietto che segue, sarà in numeri rotondi il seguente:

400 Squadroni di cavalli o muli, di 200 animali ogni uno e 130 uomini, quindi:

52 mila uomini — 80 mila cavalli — 30 mila carri.

I mulini a braccia, come consiglia Federico II, e come poi più diffusamente ne discorre Marmont; sono un ritrovato di somma utilità, imperocché in campagna avviene spessissimo che il grano abbonda e il pane manca; ma non crediamo necessario sopraccaricare il soldato di questo lavoro; e con miglior consiglio, il personale del traino delle vettovaglie potrebbe incaricarsi di macinare il grano da fare il pane o il biscotto, e cuocerlo; in tal guisa codesta operazione verrebbe fatta in sito appartato dal combattimento, ed i guerrieri non dovrebbero, dopo la pugna, durare una ingrata fatica per apparecchiarsi il cibo.

Nel supposto che tutto 1 esercito italiano, staccandosi dalla sua base, corresse a campeggiare in lontane regioni senza poter contare sui proventi del paese, il numeroso traino che abbiamo proposto è al disotto del necessario: ma questo caso è raro, anzi quasi impossibile a verificarsi. In Europa gli eserciti facilmente si provvedono: il più delle volte le vettovaglie non mancano a tutto l’esercito, ma ad una parte di esso, mentre altre parti ne sovrabbondano; e spesso mancano perché cadono nelle mani del nemico: ma a questi inconvenienti non è possibile rimediare col numeroso traino, e col rigore verso gl’impiegati dell’annona: le cagioni di tali disordini si trovano più in alto, esse si riscontrano nel disegno della guerra, nel carattere del generale. Un uomo volgare, un uomo piccola levatura sarà capacissimo di scegliere i luoghi principali ove far deposito di vettovaglia ed apparecchiale i veicoli, ma è da questo punto che le difficoltà incominciano: come dal cuore e dal fegato parte il sangue, e con innumerevoli fiumicelli, rivoli, canaletti, trasudamenti riempie tutto il corpo, cosi dalla base bisogna dirigere le vettovaglie sui varii punti della fronte d'operazione, e poi distribuirle alle legioni, ai corpi, alle compagnie, agli uomini. Ma per far ciò, è necessario che il disegno di guerra, non solo fìssi precedentemente la sua fronte d’operazione, ma ripartisca ed assortisca su di essa le schiere, onde proporzionare al loro numero le vettovaglie che si spediscono nei diversi punti: quindi è necessario che il generale preveda tutto il seguito della campagna. Ecco la necessità di un disegno di guerra reciso, le cui operazioni, che solo al vincere sembrano dirette, nel loro insieme nascondono, eziandio, efficacissima difesa; e se la guerra è guerra di difesa, non debbono perciò le operazioni essere incerte e sempre assoggettate e dipendenti dalle operazioni del nemico, ma fa d’uopo legarle in un solo concetto, il quale tronca all’avversario ogni possibilità di nuocere; fra la guerra, di difesa e quella di offesa altra differenza non v’è che questa muove ardita ed indipendente e sceglie a suo piacere il momento, mentre l’altra attende che il nemico gli presenti opportunità; ma una volta mosse le schiere, governasi come se si assalisse.. Con tali disegni, ove tutto è provveduto, il disordine nel distribuire le vettovaglie non avviene, ma se il generale ad ogni mossa del nemico cangia consiglio, e vuol difendersi opponendo ad ogni partita nemica una sua partita, non vi sarà nel suo disegno di guerra niente di prefisso e di certo; ove credeva inviare 10 mila uomini, ne invierà 30 mila, e di qui la contraddizione negli ordini, l’eccessiva fatica nelle soldatesche per le inutili marcie e contromarcie, e quindi il disordine inevitabile nella condotta e distribuzione delle vettovaglie.

Dichiarata la guerra, o quando la guerra è probabile, il governo deve far riposta di vettovaglia in tutti i punti strategici di primo ordine: prescegliere quelli ove il mare, i fiumi, o le grandi strade facilitano il trasporto di esse: deve eziandio fortificarli, non già per difendere il paese, ma solo per garentirli da una sorpresa del nemico.

Il generale che assume il comando dell’esercito deve trovare questa prima operazione già fatta: allora egli stabilisce la base delle sue operazioni, e sui vari punti di essa fa trasportare e ripartire le vettovaglie apparecchiate. Fin qui una tale operazione non offre nessuna difficoltà: i convogli si dirigono sovra punti fissi, e sono fuori la sfera d'azione del nemico. Ma appena l’esercito lascia la base, e cominciano le sue mosse di guerra, le difficoltà crescono d’assai.

Il generale decidesi per un’impresa, immagina il disegno, dà le poste alle schiere, calcola il tempo necessario a raggiungere il nemico, a combattere, a vincere, a ritornare; tiene conto dei ritardi che possono avvenire, degli aiuti che può trarre dal paese ove combatte; stabilisce i punti ove radunarsi se rotto, la nuova base d’onde procedere se vittorioso, e però dall’esattezza di questi calcoli, dalla prontezza con cui sono eseguite tali mosse, dipende la giusta ed esatta distribuzione delle vettovaglie. Ecco perché, appena il generale ondeggia fra i partiti a cui può appigliarsi, il disordine è inevitabile.

Conchiudiamo che il numeroso ed ordinato traino, le abbondanti provviste di tutto ciò che può bisognare all’esercito, non bastano a garantirlo dalla penuria di vettovaglie, la cui giusta distribuzione dipende dalla capacità del generale, e dall’esattezza con cui vengono eseguiti i suoi ordini.

XV. L’ordinamento del corpo sanitario è cosa semplicissima per un esercito cittadino. Il milite appena giunto all’ospedale è affidato al Municipio, ai cittadini, e cessa la sua dipendenza dalle podestà militari; la salute di coloro che hanno versato il sangue a difesa della patria deve essere l’oggetto delle cure e della sollecitudine di tutti i cittadini; quindi la podestà civile installerà gli ospedali in quei punti, che verranno indicati dal comando dell’esercito. Se la guerra si guerreggia in paese straniero, allora il corpo sanitario dovrà essere proporzionato alle schiere, alla distanza dal proprio paese, al clima, insomma al numero degli ospedali che bisogna istallare, e però non può nulla precisarsi a tale riguardo. Noi discorreremo di quella parte di esso indispensabile all’esercito sul campo di battaglia, che raccoglie i feriti, presta loro le prime cure, li fa trasportare sulle barelle alle ambulanze temporanee, e quindi su comodi veicoli agli ospedali. Per supplire a questi bisogni, ogni battaglione, ogni squadrone, ogni batteria saranno seguiti da due chirurghi, un medico ed un farmacista. Al comando di ogni legione ed al comando generale dell’esercito vi saranno due chirurghi, un medico e due farmacisti, un carro d’ambulanza, dieci carri espressamente costruiti pel trasporto dei feriti, e due compagnie d’infermieri, di 100 uomini ogni una, destinate a raccogliere i feriti dal campo. Quindi il personale del corpo sanitario sarà:

4 mila uomini — 5 mila cavalli o muli — 350 carri.

XVI. Composta la vasta e complicata macchina che deve muovere al comando d’un solo uomo, il generale, ci faremo ad accennare di quali aiuti questo capo dovrà giovarsi, per raccogliere tutte le notizie indispensabili, e trasmettere i suoi ordini per condurre ad effetto il suo disegno.

Egli, mente dell’esercito, immagina il disegno di guerra; i Tribuni dirigono le legioni verso gli obbietti dal generale indicati; i Maestri di campo comandano, ad ogni frazione dell’esercito, le evoluzioni che bisogna eseguire per menare ad effetto gli ordini dei Tribuni; i brigadieri, i colonnelli, i capitani, i tenenti trasmettono sino al milite il comando del maestro di campo; i militi, infine, arringati fra le guide, eseguono.

Ma al generale, perché possa colorire ed effettuare il suo disegno, fa mestieri:

1.° Sapere di quali forze, di quali mezzi egli dispone, le mutazioni che giornalmente avvengono in esse, i movimenti che queste forze eseguono e l'indicazione esatta dei siti ove si trovano; quindi alcuni ufficiali debbono tener conto e raccogliere tutte queste notizie e presentarle ad ogni richiesta del generale.

2.° Avere esatta conoscenza della topografia del terreno, delle strade, delle difese naturali che offre il paese, dei sussidii che possono trarsi da esso; dei movimenti del nemico, delle sue forze, e di quelle altre notizie che possono far presumere i suoi progetti; notizie che tutte si ricavano dalle esplorazioni di ogni genere che si eseguono dall’esercito. Quindi alcuni ufficiali debbono essere incaricati di raccogliere queste notizie, compendiarle, rettificarle, e presentarle al generale.

3.° Conoscere, al bisogno, quali riposte di vettovaglie si trovino nei magazzini; quindi degli ufficiali che tengano registrato il consumo, le nuove provviste che si eseguono, e si incarichino di dirigere i munimenti sui punti dal generale indicati.

4.° Altri ufficiali incaricati specialmente della giustizia militare.

5.° Il ripartimento dei topografi.

In ultimo, alcuni ufficiali di grado elevato ed alcune soldatesche a' suoi comandi.

Cosi dalle funzioni che bisogna disimpegnare, dalle varie incombenze, risultano i ripartimenti del Quartier Generale, e più italianamente del COMANDO DELL'ESERCITO; ed oltre a questi riparti menti bisogna comprendervi i comandi dell'artiglieria e degli ingegneri, con un ufficiale incaricato di trasmettere gli ordini fra i componenti il comando; ed un capo, dai moderni detto Capo dello Stato Maggiore generale, che raccolga tutte le notizie, le presenti al generale, e solo depositario dei suoi concetti, s’incarichi di comunicare ad ogni ripartimento gli ordini che ad esso riguardano per l’esecuzione del disegno di guerra.

Se il generale ha bisogno di esser seguito da tutti questi uffiziali che compongono il comando dell’esercito, del pari ogni Tribuno, comandante una legione, bisogna che abbia lingua sul nemico onde prender norma per gli ordini che deve eseguire; ed inoltre, tutte le notizie da lui raccolte, bisogna che le trasmetta al comando dell’esercito: quindi anche il Tribuno deve avere il suo seguito o Stato Maggiore. Finalmente, i maestri di campo, i tribuni, il generale, spesso, sul campo di battaglia, han bisogno di spiccare un ufficiale il quale trasmetta a bocca un ordine ai suoi dipendenti; ecco la necessità degli aiutanti di campo, il cui numero bisogna calcolarlo secondo il comando che si esercita, e l'esperienza ha dimostrato che sono sufficienti tre aiutanti di campo al generale; ed il comandante delle legioni, ovvero ogni tribuno, qualunque sia il suo ufficio, avrà tre aiutanti di campo, e due ogni maestro di campo.

Per soddisfare a tutti questi importantissimi e diversi servizii, i moderni hanno creato un corpo di ufficiali speciale, detto Corpo dello Stato Maggiore, e noi nei precedenti capitoli abbiamo brevemente rammentato le qualità che essi debbono avere. Si suole eziandio conceder loro gradi elevati, imperocché il generale, spesso, incarica uno di questi ufficiali della difesa di un sito, o di condurre una colonna; e quindi è necessario che siano rispettati ed ubbiditi dalle soldatesche. Ma noi crediamo miglior avviso, che un certo numero di tribuni e di maestri di campo, sia addetto al comando dell'esercito, rimanendo a disposizione del generale, che potrà ad essi, quando lo creda, affidare tali incombenze: per tutti gli altri servizii, che debbono disimpegnare gli ufficiali di Stato-Maggiore, bastano i gradi di capitano e di tenente.

Nondimeno il vero inconveniente, che bisogna rimuovere, è la rivalità, l’invidia, la poca fiducia che gli ufficiali degli altri corpi hanno con quelli dello Stato-Maggiore. Una squadra di cavalli, per esempio, comandati dal proprio ufficiale, scorre la campagna per una ricognizione, seguendo r comandi di un ufficiale di Stato-Maggiore che deve eseguirla. Si mostra il nemico: l'ufficiale di cavalleria vuol combattere, quello di Stato Maggiore non lo trova opportuno; sogghigna l’uno, piccasi l’altro, si termina per combattere, con danno significante dell’incombenza a disimpegnarsi. Questo danno è completamente rimosso, incaricando di questo servizio gli esploratori, i cui ufficiali sarebbero incaricati di tutti i servizii che ora disimpegnano gli ufficiali di Stato-Maggiore, e perciò verrebbero addottrinati in tutte quelle discipline e cognizioni necessarie a tale servizio. Ogni sqùa (1 ) drone di esploratori avrà due capitani e tre tenenti, ed in tal guisa il corpo di Stato-Maggiore si ridurrà ai soli tribuni e maestri di campo, i quali corrispondono ai moderni ufficiali generali.

Un tribuno, in caso di guerra, verrà eletto generale, e comanderà l’esercito.

Un tribuno sarà capo dello Stato-Maggiore generale, che noi chiameremo con voce più breve, più italiana, più adattata, Maestro generale del campo.

Le funzioni di capo di Stato-Maggiore di ogni legione saranno disimpegnate da un maestro di campo.

Verremo ora in varii specchietti enumerando gli ufficiali necessarii al comando dell’esercito e delle sue ripartizioni:

COMANDO DELL’ ESERCITO

Uom.

Cav.

Generale e suoi aiutanti

4

10

Maestro generale del campo e suoi aiutanti

4

10

Comando dell’Artiglieria



Tribuno e suoi aiutanti

4

8

Maestro di campo e suoi aiutanti

3

6

Due capitani di Esploratori

2

4

Comando degl’ Ingegneri



Tribuno e suoi aiutanti

4

8

Maestro di campo e suoi aiutanti

3

6

Tre Brigadieri degl’Ingegneri

3

6

1° Ripartimento



Movimenti e forza dell'esercito



Un Maestro di campo e suoi aiutanti

3

fi

Due capitani di Esploratori

2

4

2° Ripartimento



Esplorazione di ogni genere



Un Maestro di campo e suoi aiutanti

3

6

Quattro capitani degli Esploratori

4

8

3° Ripartimento



Amministrazione, vettovaglie, ospedali


Questore e suoi aiutanti ((34)

)

3

6

Due capitani di Esploratori

2

4


4° Ripartimento

Uom.

Cav.

Giustizia militare e ordinamento

del servizio del comando dell’esercito



Un Maestro di campo e suoi aiutanti

3

6

5° Ripartimento



Topografi



Un Brigadiere degli Ingegneri

1

2

Due capitani idem

2

4

Otto tenenti idem

8

8

Disponibili ai cenni del Generale



Un tribuno e due maestri di campo coi loro



aiutanti

10

20

Soldatesche



Due squadroni di Esploratori

210

220

Totale

278

352


Saranno inoltre a disposizione del Generale, quel numero di battaglioni, di squadroni, di pezzi d’artiglieria, che egli, secondo le occorrenze, crederà necessario

COVANDO DI UNA LEGIONE

Tribuno comandante la legione e suoi aiutanti

Uom.

4

Cav.

10

Maestro di campo e suoi aiutanti

3

7

Maestro di campo comandante la cavalleria ed aiutanti

3

7

Maestro di campo comandante rartiglieria ed aiutanti

3

6

Un Commissario capo amministrativo ((35)

1

2

Un Brigadiere degli Ingegneri

1

2

Tre Capitani idem

3

3




Disponibili ai cenni del Comandante

Uom.

Cav.

Un Maestro di campo e suoi aiutanti

3

6

Tre Capitani di Esploratori

3

6

Soldatesche



Mezzo squadrone di Esploratori

53

56

Totale

77

105

Stabilito il modo come comporre il comando dell’esercito, ed il comando di ogni Legione, possiamo determinare il numero dei tribuni e dei maestri di campo che si richieggono per l’esercito intero, e formano, con voce moderna, il suo Stato


Uom.

Cav.

Un tribuno al comando di ogni Legione, quindi

16


Un tribuno pel comando dell’esercito

1

Un Tribuno come Maestro Generale del campo

1

Pel corpo d’artiglieria

4

Pel corpo degl’ingegneri

4

Pel comando delle colonne d'evoluzioni di cavalli

2

Disponibili

2

Totale

30

Maestri di campo

Uom.

Cav.

Quelli addetti al comando dell'esercito, meno quelli degli ingegneri

6

4 addetti al comando di ogni Legione

64

Pel corpo degl'ingegneri

4

Pei fanti calcoleremo due Maestri di campo per ogni legione, e ne avremo sempre disponibili

32

Per le colonne d'evoluzioni di cavalleria, e le divisioni d'artiglieria riserbate alla riscossa ne aggiungeremo

14

Totale

120


Quindi lo Stato-Maggiore dell’esercito sarà composto da 30 Tribuni, e 120 Maestri di campo, in tutto (con voce moderna) 150 ufficiali generali, mentre la Francia per soli 400 mila uomini numera 412 generali, ed il Piemonte molto più in proporzione del suo piccolo esercito.

Specchio di tutto l'esercito


Uomini

Cavalli

Macchine

Stato Maggiore

150

330

Esploratori

17,735

18,580

Fanteria

360,000

2,000

Cavalleria

55,260

45,780

Artiglieria

33,500

32,560

4,380

Traino delle munizioni ed attrezzi da guerra

19,000

30,000

8,798

Ingegneri e pontonieri

12,968

3,850

890

Corpo sanitario

4,000

5,000

350

Tramo delle vettovaglie

52,000

80,000

30,000

Totale

555,103

218,100

44,418

D'onde possiamo ricavare, che supponendo i Fanti dell’esercito = 1, avremo presso a poco: Cavalleria = 1/7; Artigl, = 1/7 ; Stato Maggiore (compresi gli Esploratori) = 1/80; Ingegneri e Pontonieri = 1/28; Corpo Sanitario = 1/80; Carriaggio delle vettovaglie=1/7 ;

Legione di 20 mila nomini (36)

CORPI

Brigate

Battaglioni

Squadroni

Batterie

Pezzi d’artiglieria

Uomini

Cavalli

Macchine

Comando






24

49


Esploratori


683

716

Fanti

5

20


14,400

80

Cavalleggeri

2

8

1,840

1,520

Dragoni

1

4

920

760

Cannoni da 12

1

8

256

268

38

Cannoni da 6

2

16

412

368

52

Obici

1

8

226

212

30

Artiglieria a cavallo

1

8

231

264

26

Ingegneri pontonieri e loro carriaggio

374

96

22

Traino di munizioni ed attrezzi da guerra

325

460

109

Corpo Sanitario

220

30

11

Traino delle vettovaglie per 10 giorni

390

1,162

Totale

20,304

5,985288



Colonna d’evoluzione di Cavalleria





Brigate

Squadroni

Uomini

Cavalli

Comando

della colona

Tribuno e suoi aiutanti

4

10

Tre Maestri di Campo

9

21

Due capitani d'Esploratori

2

4

Esploratori

6

630

680

1° Divisione

su due linee

Corazzieri

2

8

1840

1520

Dragoni

2

8

1840

1520

Cavalleggieri

1

4

920

760

2° Div

riscossa

Corazzieri

2

8

1840

1520

Cavalleggieri

2

8

1840

1520



Due batterie d'artiglieria a cavallo

462

528



Totale

9

42

9577

8043

CAPITOLO QUARTO

L’educazione militare nell’ordinamento sociale democratico.
XVII. Come determinare la volontà dell’esercito ed eccitarne le passioni. — XVIII. Come scegliere i graduati, ed eseguire gli avanzamenti. — XIX. Amministrazione. — XX. Educazione militare delle schiere. XXI. Deletto.

XVII. (37). L’educazione, le leggi con cui si reggono le milizie fra i moderni son volte a distruggere in esse ogni germe di volontà. L’ubbidienza cieca in tutte le circostanze, l’indifferenza alle quistioni politiche che si agitano nel paese, sono i mezzi, le regole volte a spegnere la ragione e fare del soldato l’essere il più stupido ed il più vile che possa immaginarsi. La volontà dell'esercito deve essere quella del Re, ecco il dogma di tutta la lord morale. Allorché spendesi la vita in un’impresa di cui non comprendesi né la necessità né l’utile, e credesi gloriosa, solo perché tale la dichiara un capo, la dignità dell’uomo è rinnegata affatto, egli si rende simile al mastino che, aizzato dal padrone, rabuffa il dorso ed azzanna la preda: e pure il mastino deve ai padrone il suo giornaliero alimento, mentre il soldato, scagliandosi contro i propri concittadini, compra col suo sangue una vittoria al principe, che rende più salde le proprie catene, più misera la propria esistenza,più squallido il proprio avvenire.

«I buoni soldati, indipendentemente dalla causa per cui combattono, si ottengono con buone istituzioni militari, con buoni quadri, con una disciplina conveniente».

I Greci che seguirono Ciro, i. Galli che servirono i Cartaginesi contro i Romani, gli Svizzeri, i Lanzi, le soldatesche di Federico II, sono gli esempi che i militari adducono a conferma di una tale massima affermata da Napoleone, ripetuta da Jacquinot, ed accettata ciecamente dal volgo degli scrittori militari; questa massima noi ci faremo a confutarla

Primieramente osserveremo, che gli esempii citati a conferma d’un tale asserto dimostrano il contrario. Nei tempi in cui le guerre non solo erano frequentissime ma continue, fare il guerriero era un lucroso mestiere, a cui moltissimi si dedicavano; spesso era questa l’industria d’una intera nazione. I Greci di Ciro erano di questi mercenarii; egualmente i Galli assoldati da Annibale; i Campani correvano nella civile Sicilia ad esercitare un tal mestiere; di simili venturieri si composero tutti gli eserciti del medio evo, quando al potere feudale ed al popolesco prevalse il regio potere. Questi mercenarii erano indifferenti alla causa per la quale combattevano, ma il movente che determinava la loro volontà esisteva, ed era lo stesso per tutti, il salario, le ricompense, e più che tutto il bottino dopo la vittoria; erano valorosi perché dall’uso accostumati ai perigli ed ai disagi della guerra.

Oltreché, i Greci di Ciro, i Galli d’Annibale, gli Svizzeri ed i Lanzi del medio evo appartenevano a nazioni, a comuni bellicosissime, che consideravano la guerra come sorgente dei loro guadagni, ed in cui la pubblica educazione, era affatto guerriera, e le virtù guerresche le più stimate. Diremo quindi che dal sentimento nazionale, dalla loro educazione, dall’abito, dell’amor del guadagno risultava il loro valore, e non già dalla disciplina e dai quadri dell’esercito in cui militavano; eglino conservano sempre, sotto qualunque bandiera militassero, i loro ordini nazionali, i loro ufficiali, la loro militare costituzione; e quantunque pregievoli come guerrieri, pure l’indifferenza per la causa che propugnavano cagionò talora gravi inconvenienti, perché i generali non potevano riporre in loro fiducia alcuna. Cartagine dovette implorare il soccorso della stessa Roma per difendersi dai mercenarii di cui erasi servita; i Lanzi, gli Svizzeri sovente ricusarono ubbidire i loro generali, e questo avvenne ai più famosi capitani dell’epoca, a Turenna, a Condè; sovente il generale temeva più le proprie schiere, che quelle dell’avversario; que’ mercenarii, se speravano maggior guadagno, non dubitavano di vendere al nemico il proprio capo, e vittima di simile tradimento fu Lodovico il Moro duca di Milano. Gli Spagnuoli stessi, militando per la Spagna, perché solamente guerrieri e non già cittadini, spesso si ribellavano se mancava loro il salario, se la guerra andava in lungo, se avevano poca speranza di bottino; il meno male che poteva succedere era lo sbandarsi dell’esercito. I Fiorentini non avevano soldatesche, ma erano ricchi, e quando Ladislao re di Napoli, che veniva ad osteggiarli con un esercito, dimandava loro quali schiere gli avrebbero opposte, risposero: «le tue», perché sicuri di guadagnarle con maggiori offerte. Federico II raccolse nelle file del suo esercito i migliori fra questi raunaticci, ma non ammise arrotamenti o capitolazione di corpi interi, ma solo individui che venivano ad ingrossare l’esercito nazionale. In tale epoca, divenute le guerre meno frequenti, il vagabondare di questi mercenarii andava cessando, essi cercavano stabilirsi al servizio di qualche principe, e i principi cercavano ritenerli in perpetuo sotto le loro bandiere; cosi l’esercito di Federico era composto di gente, che considerava come causa propria quella del principe; e pure le lagnanze e le precauzioni di Federico contro il tradimento dei disertori sono moltissime.

Solo dopo lunga guerra, indipendentemente dalla causa per la quale combattesi, possono formarsi valorose milizie; i continui perigli, la vita del campo, ]' inebbriante piacere della vittoria ponno trasformare pacifici ed indifferenti cittadini in guerrieri di professione; ma pretendere che si sviluppi il coraggio ritenendo le milizie, in seno di profonda pace, raccolte alle bandiere, tormentandole con una degradante disciplina, accostumandole a vivere da frati più che da guerrieri, e facendone il trastullo di qualche capo, è stupida ed assurda pretesa, è un disconoscere la storia e l’arte militare.

Con la teorica di Napoleone e di Jacquinot e di tutti i moderni scrittori militari, tutti i moventi, tutte le passioni del soldato debbono ridursi al guadagno ed alla paura. Se mossi dal guadagno, avverrà, come dice il Macchiavelli, che «colui che ti difende mercanteggiando la sua vita e la sua libertà per dieci denari, ti tradirà per quindici». Se poi sono sospinti dal solo sentimento del timor della pena, e scendono di mal animo alla guerra, egli è certo, che se vedranno la possibilità di sottrarsi al periglio, lo faranno; e però vediamo, sovente, le stesse milizie mostrarsi valorose in lontane regioni, e codarde alle proprie frontiere; nel primo caso la disperazione, l’impossibilità di sottrarsi ai perigli, la speranza che vincendo si ponga termine alla guerra, sono altrettante cause che inspirano ad esse il valore. Il timor della pena, se può, durante la pace, infrenare nel milite la volontà, non è bastante a produrre in guerra il medesimo effetto, ché sotto gli eccitamenti del pericolo la volontà si manifesta. Questa verità non è confessata, ma istintivamente sentita da quei capi medesimi che l’impugnano; non v’è generale il quale, prima di muovere le armi, prima di comandare un assalto, non s’adoperi, eziandio col discendere al sofisma, a dimostrare ai soldati la giustizia e necessità, l’utile dell’impresa; egli in quel momento pretende che il soldato giudichi e ragioni, mentre il dogma ch’egli medesimo ha loro insegnato, proibisce il ragionare... strana contraddizione!

Finalmente, rimandiamo il lettore al Capitolo secondo di questo Saggio, in cui diffusamente trattammo di un tale argomento, e speriamo che tutti coloro ai quali i pregiudizii non adombrano la ragione, rimarranno convinti che quei tratti di eroismo nei guerrieri, que’ disegni arditi, que’ voli d’ingegno ne’ capi, gesta di cui si onora la storia delle milizie cittadine, non possono risultare che dalle grandi passioni, né queste possono scompagnarsi da una determinata volontà; e la volontà si determina, le passioni si suscitano, non già con la disciplina, né con vane declamazioni, ma esse sono l’effetto’ delle relazioni, dell’utile che legano il guerriero alla sua patria, ed alla causa che difende; sono l’effetto, insomma, di tutto l’ordine sociale, come in ciascun uomo sono la conseguenza del proprio organismo.

Il milite, convinto che la causa per cui combatte è giusta ed utile per tutti, e per sé particolarmente, e che egli medesimo ha riconosciuto la necessità d’intraprendere la guerra, convinto che gli ordini e le istituzioni militari sono state discusse ed adottate da tutta la nazione e che! tutti gl’ingegni prestarono l’opera loro in tale bisogno; che i capi sono quelli, che l’esercito stesso ha giudicato i miglio»; che nelle loro decisioni prevale l’utile pubblico e non già il favore; che la sua disubbidienza verrebbe universalmente disapprovata: questo milite, noi riteniamo, sarà forte, ubbidiente e valoroso. Allora l’esercito sarà considerato come la parte più cara e più nobile della nazione ed onorato del pubblico rispetto; ma come pretender ciò quando, predatore de' cittadini, si lascia vincere e diventa preda nei nemici esterni?

L’ordinamento sociale da noi stabilito nel secondo Saggio (38) non lascia dubitare che possa esservi guerra, i cui danni, o i cui vantaggi riguardino solamente una parte, e non già l’universalità dei cittadini; quelle istituzioni sono tali che se l’utile pubblico è danneggiato, lo è egualmente l’utile privato. Quindi la guerra non potrà farsi, che per tutelare gl’interessi di ognuno, e però guerra non vi sarà senza ardore, senza passioni, senza determinata volontà. Esistendo le passioni, le istituzioni militari debbono reggerle, ed all’impeto cieco e disordinato sostituire le virtù guerriere.

L’ubbidienza, in guerra, pronta ed illimitata, l’amore e l’energia solerti ad eseguire tutte le incombenze, di modo che l’importanza cheuna sentinella attribuisce alla propria vigilanza, non differisca da quella che il generale dà ai suoi disegni di guerra, il desiderio di vincere, ogni qual volta devesi combattere, senza considerare o discutere Futile di quel combattimento; l’ordine, la precisione, la calma nel campo, come in tutte le operazioni della vita, costituiscono le virtù guerriere, le quali sono la conseguenza della fiducia nella capacità ed imparzialità dei capi, e dell’educazione militare. Discorreremo del modo come nominare i graduati, onde generare questa fiducia; e del modo come addestrare l’esercito, abituarlo a fatica, e fare che le virtù guerriere divengano a tutti comuni ed apprezzate.

XVIII. L’ubbidienza, in guerra, pronta, illimitata, spontanea, non può ottenersi senza il convincimento che il più sublime in grado sia eziandio il più meritevole; né l’educazione militare può far sorgere un tale convincimento, senza del quale l’ubbidienza non sarà spontanea, la fiducia mancherà affatto; quindi uno dei problemi più essenziali è quello di distribuire i gradi secondo il merito.

Presso i governi della moderna Europa sono favoriti coloro che più umilmente servono; la virtù, il vero merito sono sempre odiati; farsi strada senza ipocrisia ed umiliazione è impossibile; nondimeno questi stessi governi, conoscendo che tale loro metodo potrebbe sommamente pregiudicare all’esercito, hanno limitato il proprio potere accordando la preferenza all’anzianità. Un tal ripiego ammorza le grandi passioni, distrugge affatto l’emulazione: il tempo solo può soddisfare alle nobili ambizioni, ogni altro sforzo diventa inutile: due ufficiali, l’uno dotato delle più eminenti qualità, l’altro capace di adempiere i suoi doveri si trovano nelle medesime condizioni; il primo spererà invano di percorrere una carriera più splendida del secondo; i gradi maggiori, che richieggono un veder pronto ed acuto, si raggiungono in un’età in cui il lento scorrere del sangue rende deboli le passioni e tardi i concetti. In un esercito impegnato in continua guerra, i più anziani avrebbero il merito di aver corsi maggiori perigli, acquistata pratica, durata fatica; ma durante la lunga pace, quale merito hanno gli anziani, se non quello di lunghissimo ozio e di abitudini affatto contrarie alla guerra? Gli esami, non già di concorso, ma solo in prova di essere idoneo, che dagli anziani si richieggono, non correggono Terrore, né favoriscono il merito: per riuscire in siffatti esami, basta uno sforzo momentaneo di memoria, onde acquistare una superficiale conoscenza delle cose, che sfuma dopo breve tempo.

Uno dei rimedi proposti per evitare tale inconveniente sono gli esami di concorso; ma in essi, comeché primeggino i migliori ingegni, il premio non lo conseguirà il più meritevole, bensì un favorito; e supponiamo una perfetta imparzialità in coloro che debbono giudicare, supponiamo rimosso ogni intrigo, ancora non si otterrà l’intento imperocché questi esami non garantiscono quella dottrina, la sola veramente utile, che per continuato studio e riflessione si è incarnata nell'individuo, ma solamente una superficiale erudidizione. Inoltre, la dottrina è parte, ma non riassunto delle virtù militari; la conoscenza teorica delle discipline non garantisce la pratica di esse; ed il carattere, il coraggio, l’attitudine al comando, cose importantissime, non possono rionoscersi con l’esame.

Nelle monarchie temperate, dette costituzionali, in cui fa d’uopo comprare l’ubbidienza che l’assolutismo impone, si è introdotto la regola di conferire a scelta del governo il terzo degli impieghi, ed in tal guisa il merito e l’anzianità soccombono all’intrigo e i servili prevalgono. I Ministri collocano ai più importanti comandi gli uomini ad essi venduti, e se negli eserciti dei governi dispotici sono i capi ignoranti e decrepiti, nei governi temperati sono immorali e corrotti; diciotto anni di un tal reggimento hanno reso possibile in Francia il due Dicembre. E se poniamo il caso impossibile, che un ministro volesse davvero dare la preferenza al merito, come lo riconoscerà, particolarmente in un vasto Stato? Gli sarà forza uniformarsi alle relazioni dei capi dei corpi, quindi prevalenza di simpatie ed antipatie personali; i favoriti de' colonnelli e non già quelli dei ministri saranno i prescelti, ma i meritevoli mai.

Jacquinot ha creduto risolvere il problema nel modo seguente: «Chiunque conosce gli uomini (scrive quest’autore, certamente non sospetto d’idee democratiche) e sa i moventi che li fanno operare, le basse mene di cui sono capaci, non vedrà che un solo modo acconcio a dispensare con giustizia quella parte di avanzamento dovuta al merito in tempo di pace, cioè, i pubblici concorsi per tutti i gradi sino a quello d’ufficiale superiore. Ma l’energia del comando, senza di cui non si è militari, quella condotta morale senza della quale non si è degni di co«mandare, ed il valore possono valutarsi per via di concorso? Si, sino ad un certo punto: gli uomini dotati di siffatte qualità non possono rimanere ignoti ai loro compagni d’armi; sarà sufficiente consultar questi per riconoscerli.» Valendoci di una tale opinione, ed allargandone l’applicazione a tutte le promozioni dell’esercito, escludendo affatto i diritti concessi all’anzianità, parrebbe che gli esami di concorso e poi l’elezione, bastino per assicurare il trionfo del merito; ma pur tale metodo, seducente in apparenza, riesce quasi impossibile nella pratica.

Se in un reggimento debba promuoversi un tenente o un capitano, subiranno l’esame parte dei tenenti o tutti? Nel primo caso si ricade nell’errore che si cerca evitare; fra i non chiamati potranno trovarsi i più meritevoli; — nel secondo la cosa sarà imbarazzante. Si ripeteranno questi esami per ogni carica da rimpiazzarsi, o basterà un solo esperimento? Nel primo caso sarebbesi continuamente occupati di ciò; nel secondo l’ascendente che l’esperimento deve produrre sugli elettori svanirà. In guerra poi, questa regola sarebbe impraticabile, e ciò basta per riprovarla: in un esercito ben ordinato, la ragione di guerra deve prevalere a tutte le altre: i regolamenti non debbono variare al muovere delle armi; fra lo stato di guerra e quello di pace non dovrà esservi alcuna differenza. Abbiamo eziandio osservato, ed è questa una cosa notissima, che gli esami non provano che una momentanea erudizione; or aggiungeremo che essi distolgono gli ottimi dai loro continui e veramente utili studi. La dottrina incarnata, profonda, riluce nella pratica, si mostra nelle opinioni, negli atti, nelle familiari dispute, nei più indifferenti discorsi; i ragionamenti giornalieri, il modo come si adempiono i propri doveri sono una prova continua che ogni uffiziale subisce innanzi ai suoi compagni d’armi; é se questi sono i giudici competenti dell’energia, del coraggio, della morale, lo sono eziandio del sapere; quindi la sola elezione, che non offre alcuna difficoltà ed è un modo praticabile in tutte le circostanze e sempre speditissimo, è quella che rende giustizia al vero merito.

Ma questa verità viene universalmente disconosciuta, perché contrasta al principio da cui i governi, qualsiasi il loro nome, prendono norma, il principio d’autorità, la regola che tutto debba procedere dall’alto al basso e non già dal basso all’alto, come è di diritto. Chiunque, che dal caso o dal voto universale è eletto al governo d’una nazione, credesi immediatamente rivestito di quel potere e di quella somma sapienza inspirata da Dio, che per superbia, o per adonestare le loro usurpazioni in faccia al volgo si attribuiscono i re, ed avviene che più accaniti nemici de' principi appena ad essi sostituiti, si adoperano a tutt’uomo ad imitarli (39). Nessuno di quei governi popolari, che nel 48 sono surti in Europa, disse al popolo: tu hai il diritto di sceglierti dal tuo seno i tuoi magistrati, i tuoi amministratori; niuno disse all’esercito: voi siete una schiera di cittadini, ai quali la patria affida il più nobile, il più importante carico, disperdere i suoi nemici, ed avete perciò il diritto inalienabile, di scegliervi i capi che dovranno condurvi alla pugna, ed ai quali affidate le vostre vite. Tutti, per contro, conservarono gelosamente il potere di distribuire tutte le cariche dello Stato. Nuovi al paese, al governo, alle cure ad essi affidate, non seppero ove rivolgersi, ove porre le mani, e commisero errori più madornali degli stessi governi dispotici. Circondati da pochi amici, questi furono (né poteva altrimenti accadere), i distributori delle cariche eminenti. Sovente prevaleva la simpatia personale, un bell’aspetto, un vestire pomposo; né l’impostura e l'intrigo ebbero poca parte.

All'obbiezione che il suffragio universale erra, il popolo spesso s’inganna, risponderemo: che l'errore potrà eziandio avvenire nella scelta de' reggitori supremi, ed il danno sarà gravissimo se questi avranno il diritto di distribuire a loro capriccio tutte le cariche dello Stato, mentre sarà meno grave, sarà in parte corretto, se verranno eletti dal popolo tutti gli altri magistrati. Ma noi restringeremo questa discussione al solo esercito.

In una nazione, nuova alla guerra e da lungo tempo oppressa, facilmente una scaramuccia di niun conto è considerata quale grandiosa battaglia, una disfatta cangiata in vittoria: onde alcune riputazioni non sono dovute al merito di chi le usufruisce, ma all’ignoranza della nazione; e lasciando ai militi la facoltà di eleggersi i capi, sarebbe cosa certa, che uno di questi fortunati, senza merito reale e con danno positivo del paese, verrebbe eletto al comando supremo dell’esercito. Un tale inconveniente è grave, ma spesso inevitabile, e sarà miglior consiglio sottoporvisi che contrastarlo. Questi idoli popolari non sorgono mai in una nazione ordinata a guerra, ma sempre durante il bollore di un rivolgimento, in cui ciascuno non crede sicuro il trionfo, né acchetasi, se non trova un uomo, nel quale il popolo personifica le sue speranze immaginandolo adorno di tutte le qualità, di tutti i meriti necessarii alle circostanze; e nel caso che l’universale volontà corra su questa falsa strada, né siasi riuscito a richiamare l’attenzione sui fatti per distoglierla dagli uomini, è forza secondarla; imperocché se le verrà imposto un capo, siano quali si vogliono i suoi meriti, esso incontrerà nella fama del desiderato competitore degli ostacoli insormontabili, e la sfiducia ammorzerà gran parte dell’ardore. La disfatta sarebbe probabilmente conseguenza del generale malcontento, e però si soffrirà il danno medesimo, al quale sarebbesi andato incontro, lasciando che il popolo si fosse fatto capitanare dal suo incapace favorito. Ma, in questo secondo caso, il disastro, i fatti, atterrerebbero l’idolo pernicioso, il comando ridurrebbesi nelle mani di chi lo merita, mentre nel primo il popolo confermerebbesi nella sua falsa opinione, il suo favorito otterrebbe, naturalmente, il comando, ed un secondo disastro sarebbe inevitabile.

Da quanto abbiamo osservato, risulta, che imporre il generale ad un esercito giovane e popolesco è un ripiego che non ha guari di pericoli più di quello di lasciare libera affatto l’elezione: e se poi tale elezione viene regolata da una legge dal popolo approvata, ogni rischio svanisce.

È contumace il popolo quando vedesi contrariato senza una ragione per esso evidente, mentre approva e rispetta facilmente le leggi, che servono a garantirlo da errori ad esso fatali. Se il modo d’eleggere gli ufficiali dell’esercito ed il generale è stabilito, è noto, frenasi l’impazienza, e ciascuno, pieno di speranza, non va cercando un capo, ma l'aspetta dal risultamento delle elezioni; ecco il mezzo di richiamare l’attenzione del popolo sui fatti e sulle leggi, e di distoglierla dagli uomini; quando esso potrà occuparsi della legge che riguarda l’elezione del generale non si brigherà più di cercarlo. In tal guisa, verranno costretti al silenzio que’ gruppi di vilissima gente, che si aggruppano al piedestallo d’un idolo, e per elevarsi con esso si adoperano a sospingerlo in alto.

Il suffragio universale, allorché trattasi di eleggere un amministratore comunale, un rappresentante del popolo (supponendo la società riformata, sparita la miseria) (40) è giusto; ma per eleggere un uomo destinato ad una carica per cui si richieggano speciali cognizioni, il suffragio universale è assurdo. I Romani, per nominare alle alte cariche dello Stato, costumavano i comizi col suffragio universale: ma alcuni uscieri, detti distributori, davano ad ogni cittadino la lista de' candidati, e cosi veniva ristretta la scelta fra un picciol numero di persone, che il senato stesso indicava, e però sempre ai patrizii erano conferite le principali cariche della repubblica. Il suffragio universale manca di quelle condizioni, che, per le cariche speciali, indispensabilmente si richieggono per dirsi giusta la votazione: L° il candidato debbe essere noto ai votanti; imperocché se pochi lo conoscono, questi pochi saranno gli arbitri della votazione; 2.° è indispensabile che gli elettori siano giudici competenti del merito che richiedesi nell’eletto per adempiere i doveri che gli saranno imposti, altrimenti l’opinione di pochi arditi, o pochi intriganti prevarrà; 3.° non dovrà essere possibile la venalità del voto, quindi uguaglianza fra gli elettori e gli eleggibili; un uomo che aspettasse dai suoi dipendenti il voto per ascendere a più sublime grado, cercherebbe almeno guadagnarne le simpatie, rallentando la necessaria severità verso di loro, con manifesto danno del servizio. Or dunque in un esercito numeroso i militi non conoscono personalmente i candidati a Generale, non sono giudici competenti del merito che richiedesi nel capo supremo, e se non sarà l’oro che compra il loro voto, non potranno sottrarsi all’ascendente che eserciteranno su dì loro il credito de' candidati, le esagerazioni o le menzogne dei giornalisti: e però le richieste condizioni nel suffragio universale si trovano tutte in difetto. Per contro, se gli ufficiali del grado medesimo nella compagnia, nel battaglione, o nella brigata scegliessero quelli che debbono. occupare un grado ad essi immediatamente superiore, si avrebbero elettori giudici competentissimi del merito richiesto, direttamente interessati nella buona scelta; né corruzione di sorta alcuna potrebbe aver luogo, attesa l’uguaglianza degli elettori e degli eleggibili, e non solo tutte le condizioni sarebbero soddisfatte, ma con tal metodo otterrebbesi un altro vantaggio; più elevata sarà la carica che dovrà occupare l’eletto, minore sarà il numero degli elettori, perché giudici di maggior merito. Nondimeno se il restringersi il numero degli elettori all’elevarsi del grado dovrà considerarsi come vantaggio grandissimo, e ri te nersi come principio su cui debba fondarsi il modo d’elezione, è cosa evidente che per riuscire reiezione sempre più giusta, fa d’uopo che nel tempo medesimo il numero degli eleggibili divenga sempre più grande, e sia vasto il campo della scelta. Stabilite queste regole, per meglio spiegare il nostro metodo, ci faremo ad esporne i particolari.

Il suolo dello Stato verrà diviso in undici circondari militari, ogni uno capace di reclutare, secondo le leggi stabilite, 50 mila uomini. Ho fissato un tal numero, perché simile forza può considerarsi come un esercito, e perché, se di minor popolo, si moltiplicherebbero troppo gli stabilimenti di cui terremo parola. Nell’eseguire la ripartizione si avrà cura che gli ostacoli naturali non siano mai d’impedimento al pronto raccogliersi delle soldatesche di un circondario, e che in esso siano facili le comunicazioni. Un’isola, la Sicilia per esempio, formerà da sé un circondario militare d’Italia. La proporzione fra i diversi corpi di cui dovranno comporsi le schiere di ogni circondario, sarà conseguenza dell’ordinamento generale dell’esercito italiano e della natura del suolo di ogni circondario. Al capoluogo, ovvero al punto centrale di ogni circondario, che sarà dichiarato tale, verranno ragunati i coscritti, e, come diremo, ripartiti fra i varii corpi, ed in ogni corpo, in compagnie, battaglioni, squadroni, batterie.... quindi comincierà l’elezione. Toglieremo ad esempio un battaglione di fanti.

I militi di ogni compagnia sceglieranno. dal loro seno dieci individui, questi saranno elettori, eleggibili tutti gl’individui componenti. il battaglione; questi dieci nomineranno i quattro sergenti e i tre tenenti di ogni compagnia.

Quindi tutti i tenenti del battaglione, scegliendo nell’intero battaglione, nomineranno i capitani.

I capitani del battaglione come elettori, ed essendo eleggibili tutti i 50 mila uomini del circondario, nomineranno il colonnello capo del corpo. Con questo mezzo, di allargare sempre il campo della scelta, s’andranno sempre correggendo gli errori, e sarà ben difficile che un cittadino veramente degno di un grado elevato sfugga alla penetrazione, o sia in odio a tutti i collegi elettorali che si succedono.

Radunata la brigata, i colonnelli sceglieranno fra i detti 50 mila il brigadiere.

Fatte così le nomine per ogni corpo, dovrà seguire reiezione dei maestri di campo, la cui podestà estendendosi su tutti i corpi, tutti debbono partecipare alle elezioni di essi; e però in ogni circondario gli elettori saranno i colonnelli ed i brigadieri di esso circondario, eleggibili saranno tutti gli italiani, e cosi verranno nominati 12 maestri di Campo; perché, come dicemmo, 120 sono quelli di tutto l’esercito.

Finalmente tutti i brigadieri, i maestri di campo di tutto l’esercito italiano, ragunati in una città d’Italia, secondo un turno perenne stabilito fra le principali città, essendo eleggibili tutti gli italiani, nomineranno 30 tribuni dell’esercito.

Tutti i vuoti che le nomine successive avranno prodotto nei varii gradi dell’esercito, verranno rimpiazzati col metodo che bisogna osservare per gli avanzamenti, di cui terremo parola, e che non sarà molto differente da quello ora stabilito. La precedenza nella nomina costituirebbe l’anzianità, ovvero il diritto al comando, in caso di temporaneo assenza del titolare.

La ragione di guerra, ne’ piccioli Stati, come Napoli ed il Piemonte, è poco pregiata, ed in essi costumasi eseguire gli avanzamenti per arma, ed avviene perciò, che in un reggimento decimato dalle offese nemiche, o dagli stenti della guerra, non godono delle promozioni coloro che sono stati esposti ai medesimi perigli; ma spesso ai morti vengono surrogati ufficiali ignoti al corpo, i quali usufruiscono di que’ vantaggi, o perché i più anziani, o perché favoriti di un ministro; epperò lentezza ed ingiustizia sono i due caratteri principali di un tal modo di promuovere. Le promozioni dovendo. essere immediate, per surrogare alle cariche degli estinti coloro che hanno perigliato con essi, bisogna che secondo il grado da provvedersi, si proceda per compagnia, per battaglione, per brigata.

Stabilito un tale principio, il metodo sarà il seguente.

Per un sergente. Elettori ed eleggibili saranno i militi della compagnia.

Per un tenente. Elettori i sergenti della compagnia, eleggibili tutti gli individui del battaglione.

Per un capitano. Elettori i tenenti del battaglione; eleggibili, come pe’ tenenti.

Per un colonnello. Elettori i capitani del battaglione; eleggibili, in campo, tutti gli individui della legione, in pace tutti quelli del circondario. militare.

Per un brigadiere. Elettori i colonnelli di una brigata; eleggibili, come pei colonnelli.

Il numero dei maestri di campo e de tribuni, essendo superiore a quelli che saranno assunti in una guerra, imperocché difficilmente vi sarà un’impresa per cui tutto l’esercito italiano debba muovere, verranno rimpiazzati i mancanti, quando si avrà l’agio dì riunire il congresso degli elettori più sopra accennato.

XIX. L’amministrazione militare provvede agli stipendi, alle armi, alle munizioni, alle vesti menta, ai cavalli, agli attrezzi da campo, ai carriaggi, al pane, ai viveri, allo strame. E però, la prima quistione che bisogna risolvere è quella di stabilire lo stipendio pei diversi gradi della milizia.

Il far corrispondere lo stipendio al grado ha incarnato la venalità fra gli eserciti stanziali, talché non è la podestà, non sono gli onori, le attribuzioni, che misurano l’importanza di una carica, ma il soldo. Tutti, o quasi tutti gli ufficiali de' moderni eserciti militano per bisogno, militano per vivere con lo stipendio che percepiscono, ogni altra passione non ha per essi eccitamento. Il dispotismo giovasi assai di questa loro condizione; Jacquinot la richiede come indispensabile alla cieca ubbidienza: e da ciò risulta, che un esercito cosi costituito dovrà riescire assolutamente contrario e pernicioso alla libertà.

L’esistenza di tutti coloro che la patria arma a propria difesa deve indissolubilmente legarsi con le sorti della patria stessa e non già con quelle dell’esercito; altrimenti ogni guerriero griderà: viva l’esercito e muoia la patria. Terminata la guerra, non deve il milite rimpiangere il cessato lucro, ma rallegrarsi per aver compito un dovere e terminato un travaglio; giulivo riprenderà il suo mestiere, la professione, godrà della gloriosa pace acquistata col proprio valore, e la sua vita sarà abbellita dalle rimembranze delle durate fatiche, ed onorata dalla stima di tutti i i cittadini del suo circondario militare, di cui molti gli furono compagni in guerra.

Inoltre, secondo la costituzione sociale da noi stabilita (41), i null’abbienti non esistono nello Stato: quindi le gravezze imposte per pagare gli stipendi all’esercito colpirebbero, in parte, anche i guerrieri, e la cosa sarebbe, sotto questo aspetto, assurda. Nondimeno, se colui che difende il paese, e però i propri interessi, non merita stipendio, non sarebbe giusto, che que’ cittadini i quali volontari o per sorte espongono la vita a difesa degli altri, oltre dei perigli a cui vanno incontro, soffrissero eziandio, per l’interruzione del lavoro, un danno significante alla loro borsa. A questo è facile provvedere: ogni uno deve, nell’ordine sociale, necessariamente far parte di un’associazione, od esercitare una professione singolare; quindi ad essi, al termine della guerra, verrà corrisposto quel tanto, che la propria professione avrebbe loro fruttato, sottraendone il costo di tutta la vettovaglia somministrata. Ogni Comune farebbe questo computo, e pagherebbe le dette somme ai proprii cittadini; la faccenda non offrirebbe alcuna difficoltà; ogni cittadino non vedrebbe mai il proprio utile staccato dal l’utile universale, ed i comuni verrebbero ben poco gravati, riducendosi il problema a raddoppiare, durante la guerra, ogni cittadino la sua operosità, onde il prodotto generale non iscemasse per la mancanza di coloro che sieno destinati a combattere. Stabilita questa regola, facciamoci a conoscere se i varii gradi dell’esercito meritano tale distinzione fra loro da farci derogare a questa legge.

La diversità del grado non fa altro che proporzionare il carico alle facoltà ed alla forza dell’ingegno di ciascun individuo: e l’onore d’essere prescelto, la podestà che gli viene conferita, lo scemare, a misura che il grado è più elevato, dei travagli materiali, sono premii adeguati al merito, né havvi bisogno di aggiungervi uno stipendio maggiore

Ora ci faremo a considerare lo stipendio, sotto l’aspetto di accrescere la dignità al grado e circondarlo d’un certo prestigio. Una tale idea è falsa: l’uguaglianza non iscema ma accresce, in campo, la dignità del grado; basta aver vissuto breve tempo in campagna per essere convinto di ciò; l’agiatezza degli ufficiali, fra gli stenti dei soldati, fomenta il malcontento e la disubbidienza: se l’ufficiale dura le medesime fatiche che il soldato, esso può con altera fronte rimproverarlo se muove lamento; inoltre, quando l’ufficiale soffre come il soldato, questi s’incoraggia e cresce la fiducia scambievole; quindi non solo la differenza degli stipendi! è inutile, ma riesce nociva; ed è cosa giusta che, se havvi fra i cittadini differenza di condizione, essa svanisca affatto quando trovansi raccolti sotto il vessillo nazionale alla difesa della patria.

La natura degli obblighi, che ciascuno deve adempiere è la sola cagione per cui questa perfetta uguaglianza sia soggetta ad eccezioni, e sembri qualche volta turbata. L’ufficiale non porta sulle spalle il peso del soldato, perché, nel combattimento gli è forza percorrere una fronte più o meno estesa, mentre il soldato non curasi che di se stesso. Se una tal fronte sarà quella di un. battaglione, ne viene la necessità di percorreva a cavallo, tanto per essere più spedito, come per dominarla col guardo, o meglio propagare il comando. Cessata la pugna, compita la marcia, il soldato pone in assetto le sue armi, e dorme placidamente: ma quante cure non ha il colonnello, e quanto maggiori non sono quelle di un tribuno, del generale, che scarso hanno il tempo a riposo, e quasi sempre interrotto da gravi preoccupazioni. Questi pensieri, queste cure, i lavori da tavolino, lo studio che bisogna fare sulle carte, non permettono, dal grado di colonnello in su, di parteggiare col soldato il fuoco del bivacco: questi ufficiali denno avere una tenda, non per garantire le loro persone, ma per poter compiere que’ lavori da cui dipende la salute dell’intero esercito.

Dallo stipendio passiamo al vestimento, ramo complicatissimo dell’amministrazione e sorgente di gravissimi abusi.

Il milite per essere vestito subisce un balzello ed è malamente servito; quindi il miglior consiglio è che ogni milite si provveda da sé.

Nondimeno per quelli oggetti di cui non tutti sono egualmente gravati, e pei quali richiedesi uniformità, prontezza nel provvedervi e solidità, lo Stato bisogna che ne assuma la responsabilità, e ripartisca egualmente la spesa su tutti; quindi alle armi, agli elmi, alle corazze, alle calzature, ai cavalli, agli attrezzi da campo, ai carriaggi, al pane, ai viveri, allo strame provvede rà lo Stato.

Fra i moderni l’utile privato, essendo in opposizione diretta con l'utile pubblico, per ogni operazione amministrativa richiedesi una stretta sorveglianza, e questa riesce di pochissimo o niuno effetto. Il commissariato di guerra, o le intendenze militari hanno il sindacato sull’amministrazione dell’esercito; ma esso, poco sollecito de' risultamenti, riducesi ad una semplice guardia delle forme, e queste, fatte complicatissime, sono intralciamento in pace, ed impraticabili in guerra, e, salvo la verifica della presenza dei militi alle bandiere, a cui tale istituzione provvede, nel resto l’amministrazione fu impastoiata, senza rendere compenso. Ma in una società in cui la solidarietà non è predicata nei libri e nelle declamazioni, ma è un fatto che risulta dai legami stabiliti fra l’utile pubblico ed il privato, ogni amministrazione riesce semplice, e semplicissima quella dell’esercito.

In ogni circondario militare, i cittadini eleggerebbero col suffragio universale un consiglio d’amministrazione; questo consiglio nominerebbe m ogni compagnia, battaglione, squadrone» batteria... un suo delegato, a cui verrebbe affidata l'amministrazione di quella frazione di soldatesca; questi delegati del consiglio avrebbero gli incarichi oggi affidati ai maggiori, quartier-mastri, ufficiali di magazzino; nominerebbe eziandio tutti gl’impiegati necessari! ai varii stabilimenti militari e magazzini che dovrebbero sempre essere provvisti di armi, munizioni, attrezzi da campo e calzature per 50 mila uomini. L’intero corpo del carriaggio delle vettovaglie del circondario dipenderebbe da questo consiglio. Quello che oggi fanno per l’amministrazione militare il ministro della guerra e tutto lo sciame de' provveditori, sarebbe fatto da questo consiglio in ogni circondario; i suoi impiegati sarebbero sparsi fino nelle compagnie, e su di esso la popolazione del circondario riserverebbesi sempre il sindacato ed il diritto di revocarlo.

Inoltre in ogni battaglione, squadrone, o batteria, i militi col suffragio universale eleggeranno dal loro seno un consiglio di sorveglianza, la cui incombenza sarebbe quella di esaminare minutamente se i generi forniti dagli amministratori abbiano le qualità richieste, col diritto di rifiutarli.

Gli stabilimenti militari e tutto l’insieme dell'amministrazione, per ciò che riguarda la parte tecnica, sarà sotto l’immediata sorveglianza del Tribunato militare, come in seguito diremo.

Al muovere delle armi, l’amministrazione si accentra: gli undici consigli dei circondari nomineranno il

Questore,

capo dell’amministrazione di tutto l'esercito, che marcerà col comando generale di esso, e dipenderà direttamente dal generale e dal maestro generale del campo; ogni consiglio del circondario nominerà un commissario, al quale conferisce i suoi poteri; e questi Commissarj, impiegati nelle varie legioni, dipenderanno dal questore e dal comandante la legione, e dal maestro di campo che sostiene le veci di capo di Stato-Maggiore.

Tutti gli impiegati amministrativi de battaglioni, squadroni, batterie, avranno gli. onori di un grado militare, da capitano in giù; i commissarii avranno gli onori del grado di brigadiere, il Questore di maestro di campo; essi non hanno comando, e dagli inferiori è loro dovuta considerazione e non già obbedienza; e per contro debbono, nella parte che loro riguarda, obbedire prontamente agli ordini degli ufficiali da cui dipendono, cioè: capi di corpi, comandanti le legioni, Generale.

Molti vorrebbero rendere l’amministrazione dell’esercito indipendente del comando di esso: un tale errore troverebbe in guerra l’immediata punizione, imperocché le evoluzioni strategiche, da cui dipende l’esito della campagna, dipendono a lor volta dalla pronta esecuzione, con cui viene provvisto l’esercito, nei modi e nei luoghi dal generale prescritti. Durante la guerra americana, spesso Washington fu contrariato nelle sue operazioni, perché non aveva podestà diretta sùlTamministrazione delle schiere. In alcuni momenti il Congresso riconobbe l'inconvenienza di un tale distacco e concesse al generale pieni poteri onde munisse e provvedesse a suo piacere le soldatesche. Ciò basta per dedurre in massima un tale precetto: e tanto maggiormente in quantoché il servizio non deve mai variare secondo le circostanze, ma procedere sempre con quelle norme che si richiederebbero nei più difficili momenti, onde diventi un abito, e s’incarni nel costume de' militari.

XX. Per diventare eccellente in uno de' svariati rami dello scibile umano, richiedesi una naturale predisposizione che inclinazione s’appella, come per quelli esercizii pei quali sono indispensabili qualità fisiche. Nondimeno, per ciò che concerne l’educazione fisica, con pochissima predisposizione, si possono ottenere grandi risultamenti ove si cominci dall'infanzia, imperocché gli organi essendo tenerissimi, si prestano facilmente ad ogni genere d'esercitazioni.

L'educazione militare va distinta in due parti, morale e fisica: la prima serve per addottrinare i guerrieri in tutto ciò che riguarda l’arte della guerra e accostumarli all’ubbidienza; la seconda addestra il corpo al maneggio delle armi, l’abitua a fatica, produce quella calma in tutte le operazioni della vita che è conseguenza dello sviluppo della forza muscolare. La gravità e la calma dei Romani, molto diversa dall’irrequietezza dei moderni italiani, dipendeva dalla loro forza fisica, sviluppata sino dall’infanzia in continue esercitazioni.

A diciotto anni i muscoli sono già soverchiamente duri, gli abiti cattivi già contratti, quindi difficilissima l’educazione fisica (non che la morale) del soldato, ed eccettuati i predisposti ad alcuni esercizii, per gli altri tali esercitazioni saranno una specie di tortura, che modificherà solamente la loro apparenza; quindi, tenendo conto di tale verità, l’educazione militare comincerà dai sette anni.

Nei ginnasii di ogni comune, ove comincia l’educazione de' cittadini dai sette anni, ciascuno verrà addestrato al maneggio delle varie armi, ed eziandio a servire le artiglierie; i muscoli resi flessibili, coteste diverse esercitazioni si rendono facilissime, perché l'una facilita l’altra.

Tutte le settimane, gli allievi si ripartiranno in battaglioni e compagnie, si faranno eleggere gli ufficiali con le regole medesime stabilite per l'esercito, e verranno addestrati nella scuola di pelotone, di compagnia, di battaglione, di brigata. I migliori cavalieri squadroneranno a cavallo, ed altri si addestreranno al maneggio delle artiglierie. Di tempo in tempo faranno delle lunghe passeggiate militari, ed assisteranno alle grandi evoluzioni che si eseguiranno nei circondarli militari, delle quali ora parleremo.

Nei ginnasii comunali, oltre le ginnastiche e la scherma delle varie armi a cui debbono per obbligo addestrarsi i giovani dai 7 ai 15 anni, vi sarà eziandio il tiro al bersaglio (42).

Questa prima educazione farà d'ogni italiano un milite provetto almeno nel maneggio delle armi e nella scuola da soldato; ed ogni uno con maggior profitto avrà imparato tutti quegli interessanti particolari che disgraziatamente annoiano gli uomini di qualche levatura. È cosa umiliante per un giovane di spirito bellicoso, che pieno d'ardore corre ad offrire i suoi servizi alla patria, vedersi costretto ad imparare i giri sull’asse ed i movimenti della testa; o le sue illusioni svaniscono e l’ardore del suo animo s’ammorza, o pure concepisce un disprezzo per coloro che insegnano tali cose.

Inoltre, in questi otto anni, ciascheduno addestrato al maneggio delle varie armi ed alle evoluzioni a piedi o a cavallo, avrà potuto sviluppare chiaramente la propria inclinazione, e le sue speciali attitudini.

Ora passeremo a discorrere del modo come addestrare ed addottrinare l’esercito.

In ogni circondario militare vi sarà una scuola per lo Stato-Maggiore, ovvero, col nostro ordinamento, per gli esploratori; una scuola per l’artiglieria; un'altra per la cavalleria, e due per gli ingegneri militari per tutta l’Italia.

Reclutato l’esercito coi modi di cui parleremo, i fanti rimarranno alle bandiere, per esercitarsi, otto giorni; quindici gli artiglieri; un mese i zappatori e pontonieri, che andranno ad essere ammaestrati ne' varii lavori alla scuola degl'ingegneri; e quelli che debbono servire a cavallo, compresi i conduttori dei vari traini, saranno rimandati a misura che verranno giudicati abbastanza destri nell’equitazione e nel maneggio delle loro armi.

Gli ufficiali degli esploratori, quelli dell’artiglieria e quelli degl’ingegneri verranno inviati alle rispettive scuole ove rimarranno ad istruirsi per due anni; gli ufficiali di cavalleria saranno obbligati di assistere alla loro scuola per soli tre mesi.

Sarebbe superfluo e non adatto al nostro proposito il venire particolareggiando il metodo d'insegnamento da tenersi in queste scuole; nondimeno, saranno utili alcune osservazioni per quella solamente dello Stato-Maggiore.

Siccome ad un ufficiale di Stato-Maggiore è necessaria la conoscenza del modo di muovere e combattere delle diverse armi, si pratica, per tal ragione, farli servire per qualche tempo nella fanteria o nella cavalleria: ma un tale ripiego non raggiunge il fine a cui mira; essi non fanno che acquistare la pratica del servizio che bisogna prestare nei quartieri, e delle varie esercitazioni della soldatesca, cose indispensabili per un ufficiale di fanti o di cavalli, inutili o almeno di niun conto per un ufficiale di Stato-Maggiore.

Giudicare della forza del nemico per alcuni indizii, come dalla polvere che si solleva nelle marce, dal fumo del bivacco, dall’antiguardia, dall’estensione della sua fronte, riconoscere un campo da un’altura o percorrendo la linea de' bersaglieri, o dall’alto di un campanile; dall'ordine di marcia del nemico giudicare dell'importanza d’una posizione, rispetto alle schiere che dovranno difenderla, o attaccarla, sono cose le quali non si apprendono curando di esaminare se le armi e la calzatura de' soldati sieno in buono stato, o esercitando il comando di un pelotone. La pratica di simili cose non s’impara che in guerra o nei simulacri di cui parleremo, e però alla scuola da noi stabilita, gli ufficiali degli esploratori faranno un corso completo di strategia, di tattica e storia militale; impareranno come rilevare il terreno ed apprezzarlo militarmente, e militarmente occuparlo, e fare il progetto d’attacco e di difesa; quindi praticheranno tutti i varii servizi che si comprendono nella piccola guerra, pel quale oggetto saranno addetti a questa scuola alcuni squadroni di esploratori.

Ogni sei mesi, i fanti ed i cavalli riuniti per brigate, l’artiglieria per batterie, senza allontanarsi dal luogo ove dimorano, verranno acquartierati per dieci giorni, durante i quali si eserciteranno nella tattica elementare.

Ogni anno si raduneranno i 50 mila uomini in ciascun de' circondarii, e nei proprii confini campeggieranno ad esercizio, durante un mese. I fanti raccolti in grosse schiere di otto a venti battaglioni, verrebbero esercitati a correre all’assalto in colonna, in battaglia o in ordine misto, non già in terreni a bella posta spianati, ma in quelli intercisi e difficili; e per evitare di far loro contrarre il costume di retrocedere nel momento decisivo dell'assalto, incontro ad essi non bisognerebbe schierare altri fanti, ma solamente alcuni indicatori disegnerebbero la linea nemica; in tal guisa s’avvezzano gli assalitori ad irrompere, e quindi disfacendo le righe simulerebbesi l’inseguimento, mentre a sostegno loro, ed in perfetta ordinanza seguirebbe la seconda linea.

Nella guisa medesima verrebbero esercitati i cavalli alle cariche, anzi potrebbero caricare contro dei fanti, avendo l’avvertenza di non farli retrocedere, ma oltrepassare la linea nemica attraverso gl’intervalli a bella posta lasciati fra le colonne, o fra gli uomini, se la carica si desse alla spicciolata. Cavalli contro cavalli potrebbero esercitarsi, senza spada, armati di flessibili bacchette che ne facessero le veci, ad investirsi, ad incastrare le linee, come in guerra, e non già accostumarsi ad evitare lo scontro; qualche lieve accidente, che potrebbe aver luogo, riuscirebbe utili per avvezzarli alquanto ai perigli della guerra.

Inoltre i 50,000 uomini di ogni circondario, tutti riuniti, verrebbero esercitati nelle marce d’evoluzione: disposti, ed esplorandosi come in guerra, eseguirebbero delle marciate di otto a dieci miglia, pronti sempre ad un convenuto segnale a schierarsi in battaglia, tanto per testa come pei fianchi o per le spalle. Durante la marcia verrebbero esercitati a cangiare dispositura facendo testa dei fianchi o delle spalle.

Ogni tre anni tutti i militi verranno chiamati alle bandiere, se ne formeranno due eserciti, i quali per tre mesi, osteggiandosi campeggeranno, e questi grandi simulacri completeranno l’istruzione delle milizie. Solo io tal guisa l’esercito acquista quell’unità d’azione, certa guarentigia della vittoria; questa non è l’unità, l’insieme, che il volgo cerca nel maneggio delle armi, nella misura del passo, ma quell’unità per cui le varie suddivisioni di un esercito, i varii corpi in esse, la disciplina, l’amministrazione.... tutto insomma cospiri al medesimo fine, e proceda secondo gli ordini del generale; quell'unità che risulta dall’universale opinione che l’esecuzione precisa degli ordini ricevuti è il miglior modo di adoperarsi al comune vantaggio, e che, per soverchio zelo, far più del prescritto può nuocere quanto il farne meno.

In queste esercitazioni, dovendosi abituare i militi alle discipline della guerra, bisogna governarsi come se realmente si combattesse, e punire con la medesima severità le colpe; ed i capi non tralascierano di richiamare l’attenzione dei giovani, mostrando loro le tristi conseguenze che avrebbero potuto risultarne; e come alcuni ordini in apparenza o troppo arrischiati, o troppo timidi, si riconoscano giustissimi, giudicandoli come parte del disegno del generale; e però ignorandosi in guerra i progetti de' capi, chiunque dovrà astenersi dal sindacare e da intempestive osservazioni, e prontamente ubbidirà; in tal guisa, questa cieca ubbidienza, dura pei novizii, diviene costume, e sarà l'effetto non già del timore, o della servilità dell'animo, ma di un profondo convincimento.

Oltreché, questi grandi simulacri triennali, non solo saranno scuola pei generali, ma daranno campo di giudicare se posseggano le qualità indispensabili ad esercitare il comando.

Con un disegno strategico ben concepito e rapidamente eseguito, corresi inaspettati addosso al nemico, e si ottengono tali vantaggi da considerare quasi come vinta la battaglia che ne segue; quasi sempre la vittoria strategica è stata coronata dalla vittoria tattica. Ma per concepire ed effettuare un disegno strategico è indispensabile la più difficile di tutte le qualità, il carattere: altrimenti riesce impossibile, se questo è difettivo, padroneggiare nell’attacco, come nella difesa, gli eventi. Comunemente nessun generale è capace di seguire un disegno prestabilito; i due avversarli si fronteggiano prendendo norma l’uno dall’altro; quindi l’ondeggiave, e quelle mosse di guerra che senza scopo e utilità stancano le soldatesche; finalmente avviene che non possono più schivare la battaglia; allora quando sieno uomini di poca levatura, deliberando stretti da necessità di consiglio, commetteranno gravi errori nel disporre le schiere, che verranno ad urtarsi, ed il caso, o il valore delle soldatesche deciderà la contesa, che sarà momentanea; imperocché, dopo la battaglia, le cose, per mancanza di disegno, rimarrano nello stato medesimo di prima.

La strategia non può apprendersi in un trattato, ma studiando la storia militare di tutte le epoche; e ne scovrirà il segreto solamente colui a cui la natura il disse, a cui la natura concesse una tale predisposizione, la quale se trovasi isolata in un uomo, basterà a costituire lo storico militare, se poi sarà eziandio uomo di propositi, se avrà vastità di pensieri, ordine nelle idee, operosità, energia, valore.... si avrà il generale. Di tutte queste qualità, la maggior parte possono manifestarsi nelle esercitazioni triennali che proponiamo.

I due generali, raccolti gli eserciti in provincie l’una dell’altra lontana, muove ranno alle armi prefiggendosi uno scopo uno saprà del disegno dell'altro; essi dovranno a loro talento stabilire la base delle loro operazioni, dirigere 1? vettovaglie secondo le mosse dell’esercito, e questo secondo il disegno. I due avversari! avvicinatisi al punto di venire a battaglia, colui il quale conservando le proprie comunicazioni abbia tagliate le vettovaglie al nemico e trovisi incontro ad esso quivi con pari forze, avrà gran vantaggi» e sarà il vincitore; però la parte strategica conserva quasi tutti i caratteri della realtà. Il concetto, l’ordine nelle idee e nel dare i necessari provvedimenti per l’esecuzione si manifesteranno in queste esercitazioni come in guerra. La forza dell’indole, in parte, sarà pure manifesta; imperocché quantunque non pesi su di loro la grande responsabilità che porta con sé la guerra, pur nondimeno, se da tali evoluzioni dipenderà, durante la pace, la fama del generale, e se dovranno secondo la loro volontà muovere per lungo tratto di paese numerosa soldatesca, si conoscerà subito l’uomo di niun proposito, che muta pensiero secondo le circostanze e che dura la maggior fatica per decidersi, né mai si decide: e cosi dopo tali esperimenti, il solo valore, di tutte le qualità la più comune e la più facile a riscontrarsi negli uomini, potrebbe rimanere dubbia.

Fin qui non esponemmo che la sola parte strategica, ora ci faremo a discorrere della tattica. Il momento della battaglia giunto, incominciasi a trarre: tutti gli assalti si arresteranno a dieci passi dal nemico, rimanendo le soldatesche in quel luogo, finché i due capi non abbiano manifestato i loro disegni, e tutte le schiere siano entrate in azione; allora, in grande scala, verrà rilevato il piano della battaglia, ed un congresso di tribuni, portandosi sul luogo, considerando le condizioni strategiche in cui si trovano i due eserciti, l’importanza dei punti su cui ciascuno capo diresse i suoi principali sforzi, la gagliardia delle forze che avrebbero dovuto urtarsi, ed il modo come sono state dirette, deciderà, supponendo parità di valore fra le schiere, chi sarebbe stato il vincitore.

Di quanto ammaestramento non sarebbero cotesti simulacri, in cui, meno il trar delle armi, nel resto ogni uno condurebbesi come in guerra!

Tutte le incombenze degli ufficiali degli esploratori, di spiare il nemico, indovinarne i disegni, contarne il numero, e tutti i servizii che si comprendono sotto il nome di piccola guerra meno il sangue, dovranno eseguirsi nel modo stesso che operando davvero.

I moderni usano pure coteste grandi esercitazioni. ma in qual modo eseguite?

La parte strategica, quella che maggiormente potrebbe in simili ludi praticarsi come se nemico davvero fosse il competitore, viene esclusa: non rimane che la tattica, in cui spesso il medesimo generale (stupida e ridicola pretesa!) si fa a comandare ambe le parti: quindi la cosa è assurda come sarebbe una partita a scacchi giocata da un solo. Coteste esercitazioni non possono considerarsi come l’assalto che due schermitori, per addestrarsi, eseguono con armi cortesi; ma bensì come que’ duelli da scena, ove si stabiliscono i colpi, le parate, i passi e finanche il cadere del vinto; epperò quei ludi non sono scuola di guerra.

XXI. Siam venuti determinando le armi, il vestito, gli ordini, la ripartizione, la forza dell’esercito; abbiamo ragionato del modo come suscitarne le passioni, conferire i gradi, ammaestrare i capi, addestrare le schiere; ora bisogna stabilire come scegliere fra i cittadini coloro che dovranno comporre l’esercito, ovvero come fare il deletto.

I moderni, considerando come una necessità di conservare sempre in essere un forte nerbo di milizie, sogliono dividere i cittadini in varie classi destinate successivamente, e secondo gli eventi, a sottentrare alle armi. Questo metodo non è ammissibile in uno Stato liberamente costituito: in esso l’esercito dev’essere uno, e proporzionato, come dicemmo, alla natura del paese che bisogna difendere; il resto dei cittadini verrà a far parte di esso per reintegrarlo, ma secondo la legge stabilita dal deletto, e non già come classe o come corpi già impiantati.

Ogni cittadino, per obbligo e per proprio utile deve essere pronto a prendere le armi a difesa della patria finché dall’età non gli venga tolto il necessario vigore, il che, secondo le leggi fisiologiche avviene ai 55 anni; ma le temperie cosi robuste sono rare, ed ordinariamente a 50 anni un uomo comincia ad essere incapace a sopportare le fatiche della guerra: quindi il servizio militare sarà obbligatorio per 32 anni: dai 18 ai 50 anni si potrà, in caso di bisogno, essere chiamati, ma richiedendosi il massimo vigore, gli ascritti saranno i giovani dai 18 ai 25, fra cui bisognerà eseguire il deletto.

I Romani non costumavano ricorrere alla sorte; i tribuni sceglievano nel popolo i più adatti alle armi; quindi il peso della guerra lo sopportavano solamente i più robusti fra i cittadini. Ma le armi ed il modo di combattere dei moderni non richiedendo la forza e la destrezza ch’era indispensabile a quelli, con maggior giustizia e senza tema di verun danno può affidarsene alla sorte la scelta.

Inoltre devesi considerare che, sotto un governo assoluto, i vagabondi, i mendichi, coloro i quali cercano impunità ai loro delitti, sono i soli che volontariamente corrono ad arruolarsi negli eserciti stanziali, tenuti a vile dal resto dei cittadini, e quindi in tali eserciti i volontarii sono gente molesta in pace e codarda in guerra, ed a ragione poco pregiata; mentre invece in una nazione ove non possono trovarsi, in forza delle istituzioni, né vagabondi, né mendichi; in cui il milite non abbandona mai il carattere di cittadino, né fa parte di consorteria, quale è l'esercito permanente, né percepisce stipendio, i volontarii saranno quelli naturalmente inclinati alla milizia, e però i migliori guerrieri possibili. Perciò un esercito di volontarii, in tali condizioni, senza più, sarebbe il miglior degli eserciti; quindi nel fare il deletto, la preferenza l'avranno i volontarii: esauriti questi, il resto de militi necessario a completare il numero stabilito si chiederà alla sorte.

Dovendo comporsi l'esercito, in ogni circondario militare, al suffragio universale, verrà eletto un consiglio, che dovrà regolare la tratta secondo le leggi e gli ordini già approvati dall’intera nazione; e sarà detto Consiglio del Deletto. Questo consiglio nominerà i chirurghi, i maestri di scherma e di ginnastica, destinati a giudicare di quelle fisiche imperfezioni che rendono l’uomo inabile alla guerra. Quindi si procederà al sorteggio fra i giovani dei 18 ai 25 anni, dopo avere accettati come volontarii tutti coloro che si saranno presentati. Ciascuno, sia volontario o chiamato dalla sorte, avrà il diritto, finché vi sarà sapienza, di scegliere il corpo in cui vorrà servire: solamente non potranno far parte né dei Corazzieri, né dell'artiglieria coloro che tengano una statura minore di cinque piedi: in questi due corpi tale condizione è indispensabile, negli altri r inclinazione è la migliore di tutte le qualità. Il Consiglio distribuirà i militi in battaglioni, compagnie, squadroni, batterie, secondo le leggi e gli ordini stabiliti, e quindi farà loro eleggere coi metodi indicati, gli ufficiali. Compita l'elezione, consegnati i cavalli a coloro che dovranno averli, formata la matricola degli uomini e degli animali, di cui una copia sarà spedita all'archivio del Tribunato militare, verranno consegnate alle schiere, dal medesimo consiglio, le armi, gli attrezzi da guerra, le bandiere. I militi rimarranno negli ordini il tempo stabilito per la loro istruzione; gli ufficiali andranno alle rispettive scuole.

Ora verremo a discutere della durata che dovranno avere i gradi conferiti. L’irrevocabilità degli ufficiali è un’ingiustizia verso i giovani che successivamente entrano a far parte dell’esercito, i quali per condotta, dottrina e valore sarebbero meritevoli di rapidi avanzamenti; essi non potranno occupare il posto che meritano per essere nati troppo tardi fra quelli già eletti: molti, senza colpa positiva, si renderanno indegni del grado che occupano, ma bisognerà subirli perché una volta furono eletti. Ad ogni piè sospinto, urtiamo contro i pregiudizi!, che risultano dal sistema feudale e dal dispotismo, pregiudizi!, i quali intralciano, falsano le istituzioni più liberali; per cagione loro le cariche una volta conferite sono a vita, sono eterne; gli errori una volta commessi sono irremediabili. Se i militi hanno il diritto di eleggersi gli ufficiali, perché non avranno quello di annullare ciò che essi medesimi hanno fatto? L'elettore ha sempre il diritto di ritirare il suo mandato, di annullare la sua elezione; questo principio è il solo che garantisce la sovranità del popolo; quindi i militi potranno, volendolo, sostituire altri agli ufficiali da essi creati. Ma quantunque in una società costituita come noi supponiamo ogni ascendente particolare sia tolto, perché Vutile maggiore si riscontra nell’utile pubblico, e però l’annullamento delle elezioni non avverrebbe mai per mire o vendette particolari, nondimeno, noi regoleremo cotesto diritto, senza ledere la sovranità degli elettori. Imperocché la milizia non è la società, ma una condizione eccezionale, temporanea, alla quale per utile pubblico si sottomette una parte de' cittadini, e quindi non havvi ingiustizia, né inconvenienza se eglino medesimi stabiliscono, per maggior ordine, un limite alla sovranità.

Il tempo, che un ufficiale dovrà rimanere nel grado che gli è stato conferito, debb’essere tale da compiere la sua educazione militare e mostrare la sua abilità, e però non potrà esser meno del tempo stabilito per addestrare ed ammaestrare l'esercito, ossia tre anni; come del pari non è possibile in meno di tre anni che i nuovi ammessi nell’esercito possano guadagnare la stima de' militi e mostrarsi meritevoli di qualche grado.

Stabilita cotesta regola, ogni triennio, al termine delle grandi evoluzioni, la metà dell’esercito verrà licenziata e rimpiazzata dai nuovi volontarii e dalla nuova tratta: i gradi annullati tutti, e le elezioni rifatte: ed ogni uno nella conferma della sua carica, nell’avanzamento, o nell’essere privato di un tale onore, troverà i] premio e la pena della sua condotta.

In caso di guerra, quantunque trascorso il triennio, non si farà nuova leva, ma per contro le elezioni degli ufficiali saranno annullate e rifatte eziandio se non fosse trascorso il tempo stabilito per la durata delle loro cariche; imperocché rileva sommamente correggere gli errori commessi, ed entrare in guerra con ufficiali i quali godono l’intera fiducia dei militi.

Ogni militare durante il tempo che trovasi ascritto alle bandiere non avrà altro obbligo se non quello di presentarsi alle epoche delle esercitazioni: i contumaci verranno puniti da forte multa. Colui che in caso di guerra manchi alla chiamata, sarà bandito infame e codardo, privato dei diritti civili, e messo fuori della legge.

Ad ogni cavaliere verrà fornito il cavallo dallo Stato ed avrà i foraggi, in natura, pel mantenimento di esso. Dei cavalli necessari all’artiglieria,. un terzo saranno proprietà dello Stato e nutriti a sue spese, gli altri due terzi, come ancora quelli dei traini, delle munizioni, attrezzi, vettovaglie, saranno matricolati, ma di proprietà particolare, da consegnarsi solo in caso di guerra o di esercitazioni.

Ogni qualvolta un militare verrà accusato di adoperare per tiro il suo cavallo da sella, il Tribunato, di cui parleremo, lo priverà del cavallo e lo condannerà ad una multa, per la metà o terza parte del costo di esso.

Un tale esercito, non costerà allo Stato che la prima spesa di armi, attrezzi, macchine da guerra, carriaggi, e continuamente il nutrimento di 60 mila cavalli.

Come risulta dall’esposto, la durata del servizio è di sei anni (43), scorsi i quali, ogni cittadino sino ai 50 anni potrà sempre essere richiamato alle bandiere; ma ciò non avverrà certamente in una nazione la quale può. sempre sortire in guerra con un esercito di 550 mila uomini.

Nondimeno, il resto dei cittadini saranno tutti militi; in ogni comune verranno ripartiti in battaglioni, e saranno armati, vestiti, ordinati nel modo stesso che i fanti dell esercito: i gradi eletti, ed ogni tre anni, rifatta la ripartizione e rieletti i gradi.

In queste milizie non vi saranno gradi superiori a quelli di colonello, ovvero comandante di battaglione, i quali saranno indipendenti gli uni dagli altri, indipendenti dal comando dell’esercito, ma essi non avranno altra incombenza che l’ordine interno del proprio comune, e dipenderanno perciò dai magistrati del comune stesso.

Queste milizie non saranno né le classi dei moderni, né la guardia nazionale, ma le tribù in cui dividevasi l’antica Roma: e ripartiti in tali ordini si presenterebbero i cittadini in tutte le pubbliche adunanze.

Ogni uno che termina il suo servizio nell’esercito, sarà milite nel suo comune' qualunque sia stato il suo grado, finché al tempo stabilito non gli venga da' suoi conterranei conferita la carica di cui lo credono meritevole; lo stesso avverrà di coloro, che da queste milizie passeranno a far parte dell’esercito.

In caso di guerra queste milizie forniranno i presidii alle piazze se tutto l’esercito dovesse campeggiare, e solo in tal caso, ed in tale condizione dipenderanno dal comando militare.

Ma di già siamo discesi in particolari che ci traggono dal nostro proposito, e perciò passeremo al capitolo seguente col quale finirà questo Saggio e l’opera tutta.

CAPITOLO QUINTO

Della Giustizia militare e Conclusione.
XXII. Giustizia militare. — XXIII. Tribunato militare. — XXIV. Conclusione — XXV. Come tale ordina mento adattasi ad un'insurrezione.

XXII. Se l’ordinamento dell’esercito e le leggi che lo reggono debbono strettamente legarsi con le istituzioni sociali, ne segue che la giustizia militare dovrà seguire le stesse norme. In una nazione in cui la libertà è un fatto, l’arbitrio è bandito, la vita dei cittadini, che combattono a difesa della patria, bisogna che venga gelosamente garantita dall’arbitrio de' capi militari. Nondimeno le pene non possono essere le medesime adottate nell’ordine civile.

Le ragioni adotte dell’immortale Beccaria contro la pena di morte perdono, allorché si applicano all’esercito, la loro importanza.

L’esercito rappresenta una parte di cittadini, che si sottopongono a certe leggi e ad uno speciale reggimento, onde difendere la società da una imminente ruina. Colui che trasgredisce queste leggi, questo statuto, da lui medesimo riconosciuto necessario, non solo offende la società, ma la minaccia di morte, e però la sua colpa, in campo, supera per le sue tristi conseguenze qualunque orribile misfatto civile, che non potrà mai, per quanto terribile fosse, cagionare la ruina dell’intera società.

Inoltre, se un reo di morte, per un misfatto militare, venisse consegnato alla podestà civile per subire la pena alla morte sostituita, egli toglierebbesi in tal guisa ai perigli della guerra, e siccome, per natura temesi sempre il pericolo imminente molto più che il lontano, e tanto maggiormente quando l’uno minaccia di morte e l’altro assicura la vita, che comunque trista mai è scompagnata da speranza, le file dell esercito sarebbero ben presto diradate; il misfatto diverrebbe mezzo pei codardi onde sfuggire alle offese nemiche.

La ragione più potente, addotta contro la pena di morte è futile maggiore che otterrebbesi dal pubblico e continuato esempio della trista e misera vita del malfattore, in confronto al passeggierò spettacolo della morte. Ma la riunione dell’esercito, essendo temporanea, il luogo della sua dimora è mutabile, questo vantaggio svanisce; quindi l’utilità, il bisogno di una pena che possa facilmente e prontamente infliggersi, che colpisca l’immaginazione degli spettatori, che mostri come colui il quale compromette la salute dell’esercito e della nazione, per sottrarsi al ferro nemico, non fa che evitare una morte, probabile ma gloriosa, ed incontrarne un’altra certa ed infame.

Finalmente, se le pene si propongono come fine ai minorare gli effetti che risultano dall’urto degli opposti interessi privati, bisogna proporzionarle al sacrificio che ognuno per vivere in tale società è obbligato di fare al bene pubblico: e siccome nell’esercito si rinunzia, non già alla minima parte possibile di sua libertà, ma alla libertà tutta intera, cosi per impedire che tale società si dissolva prima di conseguire il fine bramato, è forza che le pene siano molto più severe che quelle necessarie al vivere civile. Quindi la pena di morte ha, per l’esercito, tutte le qualità che si richieggono per far si che una pena sia giusta, imperocché essa è pronta, necessaria, efficace per l’esempio, proporzionata ai delitti.

Posto ciò, annullando quella lunga ed imbarazzante distinzione di delitti, e di pene, li divideremo in due classi: quelli i ' quali compromettono la salute dell’esercito, o la riuscita di qualunque operazione di guerra, è quelli che non la compromettono: gli uni e gli altri vanno poi distinti come segue:

1.° Negligenza nell’adempimento de' proprii doveri, in un’incombenza ricevuta, che potrebbe compromettere la riuscita di una operazione.

2.° Disobbedienza, o mancanza di rispetto, che potrebbe compromettere la riuscita di un’operazione di guerra.

3.° Negligenza che non potrebbe aver conseguenze di tal sorte.

4.° Disobbedienza come sopra.

Ogni altro delitto va considerato come di ragion civile; il militare che ne sarebbe colpevole, a guerra finita, verrebbe giudicato secondo le leggi della nazione.

La prigionia in campo è una pena che imbarazza, ed è di pochissima efficacia; quindi, pei delitti delle ultime due specie, le pene consisteranno in multe ad essi proporzionate. Per quelli delle due prime specie, la morte dovrà essere inesorabilmente applicata.

I delitti classificati, siccome offendono direttamente la sovranità dell’esercito, chi scorge in altri negligenza, o non è prontamente ubbidito deve immediatamente denunziare il reo. I giudici debbono fare il sillogismo semplicissimo indicato da Beccaria: la maggiore debbe essere la legge generale; la minore, l’azione conforme o pur no alla legge; la conseguenza, la libertà o la pena.

Qualunque interpretazione dovrà essere bandita dalla giustizia militare.

Il giudice deve essere competente, imparziale e severo: le due prime condizioni si richieggono per securtà dell’accusato, l’ultima per vendicare la lesa maestà dell’esercito.

Le moltitudini son quelle che soddisfanno a queste condizioni: sono competenti perché in loro risiede la sovranità; la diversità ed il numero delle persone che le compongono ne garantiscono l’imparzialità; la loro stessa natura, ne assicura il rigore, ed in tal guisa la pena sarà essenzialmente pubblica.

Ne’ governi assoluti o temperati dei moderni, in cui tutto procede dall’alto al basso, non si può né vuoisi lasciare alcun diritto alle moltitudini di cui s’usurpa la sovranità, e però si è introdotto nei consigli di guerra il costume di fare che i giudici siano di grado uguale o superiore all’imputato, e ciò con danno della giustizia e speditezza nel procedere. Per qual ragione coloro i quali sono chiamati a decidere se un fatto è avvenuto o pur no, dovranno essere rivestiti di un grado più tosto che d’un altro? E’ forse atto autorevole il pronunciare la sentenza? Mai no: essa trovasi distintamente scritta nel codice, ed esprime la volontà della nazione, e non già di chi la bandisce.

La procedura di guerra bisogna che sia speditissima e semplice; noi l’esporremo sommariamente avendo a norma le due seguenti condizioni. Chiunque vede una colpa, o soffre una disubbidienza, si porterà. immediatamente dal comandante della compagnia, del battaglione, della brigata, secondo la sfera del servizio a cui si riferisce la colpa, o al comandante di distaccamento, se mai fosse una frazione di soldatesca spiccata dal corpo, ed esporrà la colpa commessa, la disubbidienza; il comandante, allora, se la colpa è grave, dovrà immediatamente radunare i militi da esso dipendenti, se è lieve attenderà la prima riunione che dovrà aver luogo nelle ventiquattro ore. L’accusatore al cospetto dei militi espone il fatto, adduce le prove: l’incolpato, da sè, si difende come può; due terzi di voti lo dichiararono convinto; allora il comandante di quella frazione apre il codice e legge la pena. Seguirà immediatamente l'esecuzione della sentenza. Se il comandante è l’accusatore, la pena sarà letta da chi immediatamente lo segue in grado.

Se la colpa commessa si riferisce al servizio dell’intera legione, il ricorso sarà portato al comandante di essa. L’imputato potrà scegliere il corpo, dal quale vorrà essere giudicato, fra quelli accampati i più vicini, che non potrà essere quello a cui esso appartiene.

Questa procedura dovendo applicarsi eziandio alle più leggere negligenze, rimane tronca ogni via all’arbitrio, ed ogni pena sarà dettata dalla legge.

L’accusatore, nella monarchia, dalla società è dichiarato infame denunziante, giudicando per istinto, perché l’utile del monarca è in opposizione con quello dei popoli; ma in un esercito cittadino colui che svela le colpe che si commettono, mostrarsi sollecito del pubblico bene, e merita l’universale commendazione.

In ultimo se in guerra richiedesì somma severità nel punire, non è meno interessante lo stabilire il modo di premiare. Le azioni che meritano premio sono le prove non comuni di astuzia guerresca o di valore personale, che acquistano maggiore importanza se hanno contribuito alla riuscita di una qualunque operazione militare, ed entrano poi in una sfera più elevata, se hanno facilitato le operazioni dell’esercito intero.

I compagni d’armi, testimoni di tali fatti, sono quelli che giudicano, che stabiliscono il premio, il quale sarà un’arma d’onore, o una nledaglia su cui verrà scolpito l’avvenimento; e queste armi, queste medaglie verranno fatte a spese di quella parte medesima dell'esercito che ha giudicato il fatto degno di premio.

Ma il disegno del generale non essendo noto ai militi, questi non potranno giudicare se il fatto da essi dichiarato degno di premio abbia o no contribuito al felice risultamento della campagna; una tale decisione verrà pronunciata dal Tribunato militare di cui or ora terremo parola. Questo congresso di generali stabilirà il premio che merita l’eroe, premio che gli verrà conferito dalla legione a cui appartiene o dal circondario militare di cui fa parte, se la sua azione avrà contribuito al felice risultamento d’operazione eseguita dalla legione; e gli verrà conferito dall’esercito intero o da tutta la nazione, se ha giovato alla riuscita delle operazioni dell’intero esercito. Quale differenza fra un premio così ottenuto, così solennemente conferito, ed i ciondoli che si distribuiscono da ignoranti principi, o da qualche ministro lontano dagli avvenimenti e giudice incompetente del fatto!

Da ultimo, la gendarmeria, in alcuni Stati detta corpo dei carabinieri dediti a spiare la vita privata dei cittadini, viene incaricata della polizia del campo. Questo corpo, per le sue funzioni, è in uggia ai cittadini in città ed ai militi in campo; esso non può esistere in una ove la sovranità del popolo e la libertà xxxxxxx un fatto; e però come i cittadini stessi xxxxxxxxxxxx città alla pubblica sicurezza, del pari in campo, i varii corpi, alternandosi con continua vicenda, veglieranno a tutela dell’ordine.

Siamo orinai al termine del lavoro; non restaci a ragionare che del Tribunato militare varie volte nominato, e riassumerne r azione e l’autorità.

XXIII. Questa suprema podestà militare sarà un congresso composto di tutti i tribuni ed i maestri di campo dell’esercito. Tutti gli anni ad un’epoca stabilita si radunerà e sceglierà dal proprio seno alcuni delegati, destinati a percorrere i varii circondarii militari per assicurarsi dell’esatto adempimento delle leggi che regolano l’ordinamento, l’istruzione, la disciplina dell’eserI cito; essi si assicureranno dello stato in cui trovasi il materiale di guerra in ogni circondario militare, del modo come procedono i lavori negli stabilimenti, quali sono l'ufficio topografico, le fabbriche d’armi, gli arsenali, le fonderie, i cui impiegati e direttori verranno tutti nominati dal tribunato, che dovrà sceglierli fra gli offi iati dell’esercito. Passeranno a rassegna i cavalieri che si trovano in ciascun circondario ed esamineranno accuratamente il modo come tengono il loro cavallo, ma non potranno né farli allontanare dal luogo di loro dimora, né distorglieli, più che una volta la settimana, dal loro lavoro. Dovranno eziandio sopraintendere alle varie scuole che vi sono per l’esercito, ed alle evoluzioni di battaglione, di squadrone ecc., che dovranno aver luogo all’epoca stabilita.

Quando dovranno radunarsi tutte le schiere di ogni circondario, il Tribunato sceglierà dal suo seno gli undici comandanti; i quali al termine dell’esercitazione presenteranno una particolareggiata relazione di quanto si è praticato da essi. Giunta Tepoca delle esercitazione triennali, il Tribunato nominerà i comandanti dei due eserciti, che dovranno simulare una campagna, determinerà il teatro della guerra, e lo scopo a cui essa mira. I comandanti, a lor volta, destineranno gli altri membri del congresso ai comandi delle legioni e divisioni dell’esercito, meno cinque di essi, nominati. dal Tribunato, che non prenderanno parte a tali esercitazioni, ma formeranno la commissione destinata a decidere come abbiamo detto, dell’esito delle battaglie.

Terminate le esercitazioni, il Tribunato si riunirà di nuovo, meno i due che hanno esercitato la carica di comandanti di eserciti, e giudicherà del merito di questi; decreterà una medaglia d’argento a colui che avrà dato prova di molta capacità militare, e dichiarerà incapace di capitanare eserciti quello che avrà commessi errori troppo gravi. Quindi pubblicando in un volume la relazione di quanto esso ha operato e le considerazioni da esso fatte, durante la sua gestione, dichiarerà annullati tutti i gradi dell’esercito, e si scioglierà.

Immediatamente in ogni circondario verranno eletti i consigli del deletto, si raduneranno i militi; verranno licenziati la metà di essi, e si procederà alla ricomposizione dell’esercito.

Fin qui le funzioni che il Tribunato militare dovrà esercitare, durante la pace. Ora discorreremo delle sue attribuzioni in caso di guerra.

La nazione intera ha il diritto di bandire la guerra. In tal caso il Tribunato militare radunasi, indica colui che crederebbe capace di capitanare l’esercito, nomina coloro che da esso consesso sono ritenuti come incapaci; dichiara annullati i gradi dell'esercito, di se stesso, e sciogliesi.

Nominati i consigli di deletto, essi in ogni circondario raduneranno tutte le milizie, e si procederà al reiezione dei graduati, e del nuovo Tribunato; le milizie si terranno tutte apparecchiate a muovere.

Il Congresso, o la Convenzione nazionale, farà noto al nuovo tribunato il nemico, ed il fine che si propone la guerra dichiarata. Il tribunato eleggerà dal suo seno il generale, e questi sceglierà fra i tribuni il maestro generale del campo e determinerà le forze che egli crede necessario per menare a compimento l'impresa. Il Tribunato stabilirà la porzione contingente che dovrà somministrare ogni circondario, e comunicherà alla Convenzione nazionale il nome del generale, l’esercito da lui richiesto, la quota che ogni circondario dovrà somministrare. Il Congresso bandisce il nome del generale, e gli conferisce pieni poteri per quanto concerne a raccogliere le forze e i sussidii necessarii alla guerra; da quel momento cessa da qualunque relazione col nemico, incontro al quale la nazione è rappresentata dal capo del suo esercito, la cui incombenza non è di ragionare, ma operare. Fatto ciò il Tribunato militare si dichiara sciolto. I consigli di amministrazione militare eleggono il Questore ed i Commissari.

Il generale nomina i comandanti delle legioni e delle divisioni, scegliendoli dal tribunato.

Ripartisce l’esercito.

Stabilisce la base.

Entra in guerra.

Ora ci faremo a dire perché lasciammo al generale la scelta del maestro generale del campo; e quindi parleremo del tempo che dovrà durare il suo comando.

Il maestro generale del campo, dai moderni detto capo dello Stato Maggiore Generale, deve essere un uomo in cui il generale riponga piena fiducia; non deve esistere fra loro alcuna rivalità; gli ordini e le provvidenze con cui debbono regolarsi le mosse delle varie colonne, e che debbano emanarsi dal maestro generale del campo, variano secondo le operazioni che ognuna di esse deve compiere e secondo il fine a cui tende il disegno di guerra. E però il generale non può niente occultargli; bisogna che gli sveli i suoi disegni, le sue mire, le sue speranze; ed ogni circostanza che minorasse la fiducia fra questi due capi dell’esercito, che debbono formare una sola volontà, sarebbe sommamente nociva.

Le qualità che si richieggono per una tal carica sono le medesime che deve avere il generale, meno una; le più vaste cognizioni dell’arte bellica; perfetta conoscenza della natura, delle proprietà delle varie armi, del terreno, dell’adattamento alla giacitura di esso, degli ordini e delle evoluzioni; capacità di esprimere, in modo piano e distinto le più complicate mosse, che servono a conseguire uno scopo; quindi ordine perfetto nelle idee, forse in un grado più eminente che non richiedesi nel generale stesso; abilità nel conoscere gli uomini e nel valersene; giustizia, non che una certa scaltrezza; valore. Ma la qualità la più rara, l’indole, la fermezza dei suoi propositi non deve essere la stessa che richiedesi nel generale; ad esso non è necessaria quella calma, quel pronto discernimento per cui, fra i più gravi perigli, un generale vede tutto e senza esitanza risolve ed opera; il maestro generale del campo non fa che eseguire gli ordini che riceve; egli non è neppure responsabile dei suoi progetti; la responsabilità del pari che la gloria appartengono al generale, il maestro generale del campo resta nell’ombra. Egli, adunque, dovrà pareggiare il il generale nella dottrina, nell’ingegno, nel valore, ma non già nel carattere, anzi fa d’uopo che esso si pieghi all’ascendente del generale, e t però questo è il solo capace di scegliere l’uomo

l più adatto per esso, e tanto maggiormente, che secondo le proprie qualità possono avere più o meno importanza le qualità dell’altro, ed il generale saprà cercare quelle che ad esso convengono.

(Nella costituzione elvetica, il Congresso nomina il generale, ed il Capo dello Stato-Maggiore, ed adducasi come ragione, per un tal procedere, che un buon Capo di Stato-Maggiore può minorare i danni che risultano dalla cattiva scelta del generale. Vano argomento, vana speranza: è questo un costume tolto di netto ai governi assoluti, di cui è stile concedere delle cariche pubbliche il lustro e il benefìzio ai favoriti, il peso ai meritevoli. Il generale bisogna che veda co’ propri occhi, ed operi per sua volontà, altrimenti non potrà comandare; se è uomo che piegasi ai consigli del suo capo di Stato-Maggiore, piegherà eziandio a quelli di tutti coloro che lo circondano; l’ascendente di quello sarà contrappesato dall'ascendente che eziandio gli altri esercitano su di esso. L’ultimo a parlare avrà ragione; ogni possibilità di menare a fine un proposito svanisce, e sempre ondeggiando fra le risoluzioni contraddittorie, in luogo di padroneggiare gli eventi, il generale sarà sempre trascinato da essi.

Parmi aver cosi dimostrato abbastanza i vantaggi, anzi la necessità di lasciare al generale la scelta di un tale ufficiale.

Il comando deve durare per una sola campagna; al termine di essa il generale rassegnerà la sua podestà e darà conto al tribunato militare di quanto ha operato; e il tribunato militare, o lo confermerà nel comando, o ne eleggerà un altro in sua vece; e questo sarebbe il miglior consiglio. Cosi determinato il tempo, si avranno due vantaggi, Unno di creare varie celebrità militari, a cui la patria possa affidare le proprie sorti, l’altro di evitare il temporeggiare; un generale per acquistare gloria e fama, non rimanderà alla campagna seguente quelle operazioni che potrà menare ad effetto, perché facilmente potrà succedergli un altro, che farà quello che egli non ha fatto.

Rassegnato il comando, il generale rimarrà col suo semplice grado di Tribuno, e militerà sotto gli ordini del nuovo eletto. Né di ciò, come alcuni asseriscono, soffrirà la disciplina; costoro fanno argomento di un pregiudizio e ragionano senza mai svincolarsi dal potere che esercitano suiranimo loro i principii sui quali si fondano i governi assoluti, in cui tutto è immobile, tutto è quasi ereditario; mentre è natura dei governi a popolo di considerare come temporanee tutte le cariche, ed accordare rispetto al grado, e non già a colui che ne è rivestito; e le incombenze, a cui la pubblica opinione destina ogni cittadino cangiar debbono secondo i bisogni e le condizioni del paese.

È strano lo scorgere che tutti gli scrittori, senza ragionare, ma facendosi eco uno dell’altro, cercano sempre imitare le istituzioni delle codarde e corruttrici monarchie moderne, e non già quelle degli antichi popoli che furono liberi e guerrieri; e per tutta ragione essi ripetono continuamente: i nostri costumi sono da quelli troppo differenti.

Come la materia di cui si compongono gli oggetti ha la proprietà di ri percuotere quel tal raggio di luce che risveglia in noi la sensazione del calore, nella guisa medesima le istituzioni, la correlazione degli interessi sociali, dell'utile privato col pubblico, sono tanti raggi, tanti effetti, che modificano il nostro animo, e ripercossi suscitano i sentimenti che formano le virtù cittadine. Fintanto che ogni forma elevasi sulle ruine altrui, e il privato arricchisce e vantaggia nella pubblica calamità, la schiavitù o la libertà della patria non cangia la condizione materiale dei cittadini: Famor di patria, la fratellanza, sono una chimera, una derisione, sono illusioni di pochi che, senza comprendere queste virtù, se ne fanno gli apostoli. Cangiate il nome al reggimento, riformate come credete le politiche istituzioni, le cose con poca differenza andranno nel modo stesso. Riformate invece le istituzioni sociali, cangiate la direzione degli utili privati, sole forze motrici d’ogni sistema sociale, da contrarie come sono, fatele cospirare nella medesima direzione al medesimo scopo, la grandezza dello Stato, ed allora le nostre tendenze cangiegieranno, senza aver bisogno né di libri, né di ammaestramenti; l’amor di patria il sacrificio per essa diverranno in un istante sentimenti cosi naturali, quanto quello della propria conservazione. Chi non ammette tale principio, che in quest’opera abbiamo dimostrato ad evidenza ed è la base di tutto il nostro sistema, non discenda alla critica de' particolari; il libro intero deve essere, per esso, un assurdo, né abbiamo scritto per coloro i quali credono che le virtù cittadine, per le moltitudini siano un sentimento che possa esistere indipendente dalle istituzioni sociali e non già un effetto immediato di esse.

Oltre le dette incombenze il tribunato militare, al termine della guerra, ne avrà un’altra più solenne, giudicherà la condotta, le operazioni di coloro che avranno capitanato l’esercito, decreterà per la lode o pel biasimo. Qual tribunale sarà di questo più competente? I medesimi individui che elessero questi capi: i maestri dell’arte; i testimonii dei fatti; gli esecutori dei suoi concetti. Qual tribunale più solenne di questo a cui convengono le sommità dell’esorcito, uomini apprezzati e stimati dai guerrieri quanto il generale stesso? La decisione di qualunque altro tribunale non potrà mai adeguare l’autorità ed il credito, che questo avrà presso i militi e presso il paese.

Le vittorie dovute al caso, o ottenute a prezzo di sacrifìzii non proporzionati ai vantaggi da esse prodotti, non usurperanno più le lodi che si debbono al vero merito; né il premio sarà lo stesso per colui che vince in virtù dei proprii concetti, e per quello che deve la vittoria al valore delle schiere. Verranno distinte le vittorie del generale da quelle dell’esercito; le prime verranno onorate con la statua equestre eretta nella città ove il generale ebbe i natali, ed il suo ritratto adornerà le pareti delle scuole militari; le seconde da una semplice medaglia d’oro, o da una arma d’onore.

Colui il quale commetterà errori tali da meritare una disfatta, ancorché vinca poi per caso o per straordinario valore delle schiere, sarà considerato meritevole di biasimo quanto colui che sarà vinto per incapacità; un bando del tribunato lo dichiarerà indegno di occupare i gradi sublimi della milizia; e nelle nuove elezioni non gli potrà essere conferito un grado superiore a quello di brigadiere.

Il generale che abbia sempre mostrato le sue alte qualità, tanto nei disegni come nel modo di condurre le operazioni, e per imprevedibili avvenimenti, o per colpa delle soldatesche, sarà vinto, e nel disastro abbia mostrato sempre la debita calma e fermezza di proposito,. sarà premiato, come colui che pei proprii concetti avrà riportata la vittoria.

Finalmente quei genii, che non solamente vincono, ma in una sola campagna riducono il nemico agli estremi, distruggono il suo esercito e pongon fine alla guerra con imprese come quelle di Marengo, di Jena, d’Austerlitz, saranno premiati col trionfo, celebrato nella città ove essi ebbero i natali. Cerimonia solenne e popolare ad un tempo, come quella per cui confondesi, dopo poche ore, fra i cittadini colui che ne ha riscosso la pubblica ammirazione.

In ogni circondario militare, dopo ogni guerra, sarà eretta una colonna, che ne rammenterà gli eventi; e su di essa saranno scolpiti i nomi ài tutti coloro che vi presero parte, e distinti fra tutti i premiati.

È inutile aggiungere che il tribunato militare potrà opporsi ad ogni intrapresa contro la libertà. Né ciò, come stoltamente asserisce il volgo, può infiacchire la disciplina dell’esercito: l’ubbidienza dovuta al capo per debellare il nemico non ha che fare con quella prestata per passare il Rubicone al comando del generale.

XXIV. Siamo alla conclusione, e possiamo affermare che il nostro principale scopo è conseguito, cioè garantire la patria dalla prepotenza militare senza disarmarla. Gli utopisti, i dottrinanti esauriscono tutte forze del loro ingegno per risolvere questo problema, per difendere la suprema podestà dalla prepotenza della forza e degli uomini d’azione: ma i loro sforzi sono riusciti e riusciranno sempre vani, imperocché eglino non vogliono spogliarsi da ogni podestà, ma vogliono conservarla, senza aver né la forza né la virtù per sostenerla.

In pace come in guerra, finché esisterà una potestà incaricata di reggere, se non trovasi nelle mani di una dinastia, sostenuta dal prestigio, dalle tradizioni, dagl'interessi di cui s’è fatta centro, cadrà inevitabilmente nelle mani de' più forti, nelle mani di coloro che disporranno della parte armata della Nazione.

Un esercito sarà sempre setta, e tanto più perniciosa quanto più libero sarà il reggimento: imperocché nei governi assoluti, in cui non si discutono né si hanno opinioni, l’esercito è passivo come il resto della nazione; ei non pensa, ma se pensa è possibile che pensi giusto; invece nei governi detti costituzionali l’esercito ha un’opinione, e questa opinione dovrà essere la tirannia del paese, quella che dovrà assolutamente prevalere perché propugnata da gente armata e unita da vincoli saldissimi.

Un reggimento d’uomini non militari con estesi poteri è il peggiore dei reggimenti. Sempre codardo, non perché tema il nemico, ma perché teme la fama che i guerrieri acquistano in campo. Se costretto alla guerra, vedrebbe vinta la contesa e debellato il proprio esercito; spesso tremasi più d’una vittoria che d’una disfatta. Si scelgono a capitanare le schiere uomini di poca levatura sperando padroneggiarli. In tal guisa chi governa disonora il paese anteponendo ad esso la sua personale sicurezza, sotto pretesto di garantire la libertà che si strozza col raggiro e con la corruzione.

Molti, privi di senso pratico, immaginano supreme podestà militari da essi create, da essi di pendenti, che dovrebbero dirigere la guerra, giudicare i generali. Per costoro, i fatti non hanno valore: essi non giungono a comprendere che non havvi tribunale che possa giudicare un generale vittorioso, se non quello composto da persone quanto il generale stesso care alle milizie; qualunque altro tribunale, lontano dai perigli della guerra, comeché di militari, ma militari senza comando, sarà dall’esercito sprezzato e manomesso. Coloro che governarono la Francia durante la rivoluzione, che inviarono alla morte molti generali, vennero per un certo tempo guarentiti dai numerosi eserciti che la ragion di guerra e le frontiere richiedevano; si sostennero perché le riputazioni dei vari generali si facevano reciproco contrappeso; pur nondimeno finirono per soggiacere alla forza, ed un governo sostenuto dal terrore, nelle mani del più forte, per immancabile legge, si ridusse. La Francia moderna, ondeggiante fra le velleità repubblicane di pochi e gli istinti monarchici della nazione, creò un presidente con regio potere e poderoso esercito; ed a guarentigia della libertà, altro non eravi che un’assemblea d’imbelli parlatori, una suprema corte di giustizia, un giuramento (*). Il presidente comprò l’esercito e fecesi assoluto imperatore, ma l’impero non è stato creato da Bonaparte, esso già esisteva nella costituzione del paese. Bonaparte non ha dovuto che cangiar nome ed imporre silenzio all’importuno garrito dei dottrinanti.

Noi abbiamo risoluto il problema seguendo una via diversa da quella frequentata dal volgo: non abbiamo concessa podestà e poi cercato d’imbrigliarla con mille ripieghi e ritrovati strani; non abbiamo armato il nemico e poi cercato difenderci contro le armi da noi stessi affidategli; noi non abbiamo concesso ad alcuno la facoltà di nuocerci: librati gl’interessi sociali su giuste lance, la società, senza sottoporsi a supreme podestà, reggesi da sé medesima e risulta equilibrata di fatto. Abbiamo formato l’esercito, ma gli interessi particolari di ogni milite li tenemmo indissolubilmente legati al paese; il suo utile dipendente dalla sua condizione di cittadino, non già di soldato; quindi l’esercito ha cessato cosi di essere setta; all’amor proprio di corpo abbiamo sostituito il sentimento nazionale; e l’unità di comando e d’azione è risultato non già di un’esistenza staccata da quella della nazione, ma del modo di ammaestrare le schiere, che trasforma l’ignobile dogma dalla cieca ubbidienza in convinzione profonda.

Chi dubiterà che il migliore guerriero, con tale istituzione non capitani l’esercito? Egli assumerà il comando, né troverà al disopra di sé nessuna podestà che possa intralciare i suoi disegni; la nazione l’incarica di debellare i nemici, e lascia che egli medesimo determini il numero delle soldatesche, ed i sussidii necessarii all’impresa. Un tribunale terribile, i suoi compagni d’armi, esecutori dei suoi disegni, cari alle soldatesche quanto egli medesimo, dovrà giudicarlo e decretare la sua gloria o la sua infamia. Il tempo, per mostrare la forza del suo ingegno, la sua abilità, per guadagnarsi fama ed onore, brevissimo, una campagna: condizioni che tutte concorrono ad assicurare la gagliardia, la rapidità, la grandezza dell’impresa; d’altra parte gradi, onori, pene.... tutto sorge dalle viscere medesime dell’esercito; il generale non può nulla. Per secondare le sue mire ambiziose, i tribuni, da elettori e giudici, dovrebbero farsi volontariamente suoi sudditi; i militi sacrificare il loro utile, la loro libertà, e quella del paese; ma a chi? ad una misera schiavitù. È ciò possibile?

Coloro, poi, i quali, togliendo i pregiudizii militari quali principii dell’arte, pretendono dimostrare l’assurdità delle proposte istituzioni, noi medesimi li porremo in via, e senza perderci in sofismi, ci dichiareremo vinti, allorché avranno dimostrato quanto segue:

1.° Bisogna che dimostrino come il maneggio delle armi moderne e la tattica elementare siano tanto più difficoltose di quella degli antichi, che i soldati per addestrarsi debbano vivere continuamente sotto le bandiere.

2.° Che l’ozio e i vizii che sr contraggono nei presidii ed il servizio nei quartieri, ammaestri l’esercito e lo avvezzi a fatica, più che le esercitazioni da noi proposte.

3.° Che l’ubbidienza debba essere maggiore in un esercito in cui il favore o il caso concede gli avanzamenti, che in quello in cui i gradi sono conferiti da coloro stessi che debbono ubbidire.

4.° Che gli eserciti stanziali composti da soldati tratti a forza alla guerra, e d'ufficiali che fanno mercato dei loro servizii, siano più valorosi di un esercito di cittadini, convinti dalla necessità di combattere per garantire i loro più cari interessi.

5.° Che l’energia sia maggiore in un esercito i cui capi siano quasi decrepiti, od in un altro ove il continuo rinnovarsi degli ufficiali dà' opportunità di escludere gli inutili.

6.° Che un generale favorito di un principe, o creatura di un governo da cui dipende, debba risultare migliore e possa operare colla energia medesima del nostro generale, eletto dagli interessati direttamente alla scelta, con poteri illimitati, e giudicato da un tribunale terribile al termine di una campagna. Ecco i varii aspetti sotto i quali deve trattarsi un tale argomento onde far la critica delle proposte istituzioni, e propugnare la necessità degli eserciti permanenti.

Finalmente un’altra condizione è indispensabile per rendere valoroso un esercito, la fiducia in sé stesso; né questa può esistere senza gloria militare. Nel primo saggio (44) abbiamo messo in evidenza le gesta più famose dei nostri progenitori, e la nostra storia ci dà sicurtà al primato nelle armi: ma un tal fatto, dopo secoli di decadenza, vuole essere confermato da imprese moderne, e però i nemici sono a noi necessari!, e bisogna desiderare che il giorno del nostro risorgimento, gli stranieri, qualunque lingua essi parlano, addensino contro di noi le loro schiere, per darci campo a debellarli, e misurarci con tutti. La libertà non può esistere senza il convincimento di essere forti; la libertà non può esistere se crediamo possibile che altri possa rapircela; non può esistere senza una gloriosa storia delle fatiche durate per conquistarla; coloro che la invocano dai principi (**), dagli stranieri, dalla scienza, dal pacifico progresso non la comprendono.

XXV. — Siamo venuti esponendo la ripartizione e l'ossatura di questa macchina vasta e complicata, che appellasi esercito, ed abbiamo cercato comunicargli vita e passioni. L’ordinamento proposto accordasi con la costituzione civile della nazione, e quello e questa sorgono spontanei dalle sue viscere, e s’adagiano sulle leggi immutabili e magistrali della natura.

A meglio svolgere la nostra idea, è mestieri ragionare alquanto della guerra per bande, onde distruggere certi pregiudizii sparsi in Italia, per ignoranza accettati da alcuni, da altri per ambizione, e che hanno fatto credere il guerreggiare per bande un metodo di guerra da sostituirsi con vantaggio, con le milizie popolesche, alla guerra grossa.

Le bande assalgono gli sbrancati, e le code delle colonne; predano i convogli, e riescono, per gli eserciti, molestie sovente fatali. Le imprese più famose delle bande che la storia registra, sono quelle che i popoli del Regno di Napoli compirono alle spalle dell'invadente esercito capitanato da Championnet; gli attacchi alle spalle di Massena che inoltravasi nel Portogallo e quelli in Grecia, alle spalle dell’esercito Turco, che assediava Missolungi. Massena ed Omer-Broné non potendo superare gli ostacoli che avevano incontro, furono obbligati dai ripetuti assalti delle bande a torsi dall’impresa, e, con perdite considerevoli ed abbandonando i carriaggi, aprirsi la ritirata: Championnet, invece, favoreggiato da un partito che per amor di patria e libertà disarmava il popolo, superò gli ostacoli e, poco curandosi delle bande, compi la conquista. L’esito felice ottenuto dalle bande nelle Spagne ed in Grecia, letto senza studio, e da persone ignoranti di milizia, ha sparso le assurde e perniciosissime idee che ci faremo a combattere.

Una condizione indispensabile, che richiedesi alla riuscita delle intraprese delle bande, è un esercito, una piazza forte, che arresti il nemico, che gl’impedisca d’impadronirsi dell’obbietto, a cui accennano i suoi sforzi; altrimenti se giunge ad impadronirsene, non ha nulla a temere delle bande; sosta, rivolge in esse tutti i suoi veliti, le allontana, raccoglie vettovaglie sul nuovo punto, e procede.

Ammesso l’ostacolo, che indugia o arresta il nemico, le bande, per operare con efficacia sulla linea delle sue operazioni, è d’uopo siano perfettamente informate del sito ove si trovano i magazzini del nemico e tutte le sue riposte di vettovaglie, della marcia dei convogli e de' drappelli che debbono raggiungerlo; esse debbono eziandio sottrarsi rapidamente agli attacchi delle sue cavallerie che battono la campagna. Ma chi potrà operare questi miracoli se non se gli abitanti di quella regione, che la linea d'operazione del nemico traversa? L’esercito passa: i contadini curvi in sulla marra, i pastori accanto al loro gregge, guardano indifferenti lo sfilare delle schiere, rispondono alle interrogazioni, che loro vengono fatte: qualche volta, costretti dalla forza, sono loro di guida. L'esercito è passato: dop qualche giorno si ha notizia che passerà un convoglio; un contadino portasi incontro ad esso, mischiasi fra la scorta facendo il suo traffico di vivandiere, lo numera a suo agio, ed interroga i soldati; ritorna fra i suoi, che già animati dalla parola di qualche ardito, adescati dall’evidende guadagno, s’apprestano alle armi, e comunica loro ciò che ha visto ed inteso; progettasi l’imboscata, e il sito ove trasportare il bottino e spartirselo, e senza por tempo in mezzo, come s’e pensato si fa; il convoglio è assalito, la scorta manomessa, la preda spartita. Immediatamente il nemico lancia una squadra contro i predatori ma la banda improvvisata è già dispersa: il nemico, per averne lingua, forse interrogherà quegli stessi nemici di cui va in cerca; ora, ritornati al loro pacifico lavoro, come riconoscerll'Se farà fra loro lunga dimora, un’imboscata e un repentino assalto non mancherà.

Questa è la guerra per bande: decretarla o pretendere d’organarla e dirigerla vuol dire non comprenderla. Un centro dirigente, d’onde partono le numerose bande, che vanno a infestare il nemico, è il sogno prediletto d’alcuni, accettato volontieri da quelli i quali ambiscono essere capi indipendenti, e non già parte di un solo esercito. Queste parole bastano, speriamo, a dimostrare la fallacia di questi sogni. Ma, meglio studiando il concetto di costoro, scorgesi che tale chimera non ha preso le sue forme dalla guerra per bande, bensì da quella de' partigiani (milizie di ventura). (45)

Ravvi un’altra chimerica idea sparsa in Italia. Sognano alcuni che fra un gruppo di montagne, anche un pugno di giovani arditi, potrebbero difendersi contro un prepotente nemico. Ma in primo luogo, la guerra rivoluzionaria (46) essendo d’offesa e non già di difesa, così operando mancherebbesi al fine prefisso; inoltre, tal genere di guerra può combattersi solamente da coloro che abitano in questi monti; un esempio splendido lo troviamo nelle gesta de' Suliotti. Questi prodi fra i dirupi de loro monti, nelle caverne ad essi note, stabilirono le riposte di vettovaglie e di munizioni di guerra, in altre gli ospedali, che le loro donne sopraintendevano; alcuni segni convenzionali sulla scorza degli alberi e sulle rupi.... vi conducevano gli sbrancati, i feriti, indicavano gli spedali. Stabilita cosi la loro vasta base partivano i drappelli pel loro destino; de' fuochi sui monti, delle torce che s’alzavano ed abbassavano in qualche villaggio davano norma a questi diversi drappelli, e ne dirigevano le mosse secondo un comune disegno: vinti si ritraevano, e, prestabilito un sito ove far sosta, ivi facevano massa, ed ingrossati, trincerati, s’apparecchiavano a nuova difesa; ed era tale il sistema che se il nemico li avesse cacciati sino al culmine de' monti, ivi riscontrava le difese più gagliarde, dietro cui, tutti facendo una sola massa spiegavano l’ultimo disperato sforzo. Ma può combattere in tal modo gente a cui siano nuovi i luoghi, e che non possegga neppure una capanna, neppure le vettovaglie necessarie per un giorno?

La guerra di montagne, o deve essere guerreggiata dagli stessi montanari, i quali come i Sulioti, per istinto guerriero, non tradirono mai i principii dell’arte o pur è quella combattuta da regolari soldatesche ne’ paesi montani.

Concludiamo che un tal genere di guerre, o debbono spontaneamente combattersi dagli abitanti del luogo, né patiscono ordini, o organamento di sorta alcuna, o sono operazioni, non già di giovani soldatesche e d'inesperti ufficiali, ma sono i più ardui particolari della guerra grossa.

Di più è cosa assurda pretendere che la gioventù esordisca con le più difficile imprese; sarebbe poi strano sperare di vincere la guerra in tal modo, eziandio ammettendo che tutte. queste imprese avessero esito felice. Nelle guerre di | rivoluzione, non solo debbono strettamente, come in ogni guerra, osservarsi i principii dell'arte, ma sono le epoche in cui l’arte sviluppasi e progredisce. La guerra americana e la guerra combattuta da' barbari Greci, sono ricche di splendide operazioni, e le vittorie di que’ popoli sono dovute agli arditi disegni de' loro generali (47).

E’ vano citare la Spagna per dimostrare l’efficacia delle bande; furono gli eserciti e l'impallidirsi della stella napoleonica che salvarono quella nazione dalla conquista straniera, e non già le bande. Nelle Spagne eravi un esercito inglese ed otto eserciti Portoghesi e Spagnoli, eserciti i quali sostennero 22 battaglie, 40 combattimenti e 11 assedii. Gli abitanti quasi sempre pugnarono in massa; un corpo francese venne respinto dalla Catalogna da nuvoli di contadini accorsi allo stormeggiar delle campane. Madrid venne difesa contro Napoleone da 40 mila villici, ed 8 mila regolari. Il famoso Palafox, difensore di Saragozza, non era un capo banda, ma un generale, capo di 20 mila uomini. La Romana, organatore delle guerriglie, comandava un esercito di 50 mila uomini. In un tempo più vicino D. Carlos ha combattuto contro Cristina con le bande: il risultamento è abbastanza noto. Nella Vandea, finché combatterono in massa vinsero delle battaglie; appena degenerarono in bande, queste vennero ben presto distrutte. Nel regno di Napoli, finché in bande combatterono contro i Francesi ed i Repubblicani, non potettero ad onta di sommo valore ottenere alcun risultamento; non appena il cardinale Rufo fece massa di tutti gli armati, conseguì la vittoria; i repubblicani, invece, per non seguire il consiglio di Matera, che opinava di abbandonare la città alla contraria fazione, e facendo massa di tutti i combattenti correre addosso al nemico, furono vinti. Bisogna battersi in massa, gridava Barrére alla Tribuna di Francia; bisogna dare l’assalto in massa, era il concetto d’ogni soldato, ed il grido che usciva dalle congreghe dei Giacobini. Un generale,, comeché comandi gente disordinata e non accostumata a guerra, potrà, se numerosa, compiere importanti imprese; egli p. e. riconoscerà il campo nemico, la chiave delle sue difese, e potrà disporre in conseguenza le sue masse eziandio senz'ordine, e precipitarle sul punto da conquistarsi: se in quell’istante si giunge ad esaltarle, esse animate dal proprio fragore e dal numero, a guisa di marosi mugghianti, sbaraglieranno il nemico; potrà eziandio con abili marce, schivare la battaglia e portarsi sulla linea delle operazioni nemiche.

In una gran nazione che insorge i generali non mancano; ma cosa faranno essi, se capi di poche migliaia d’uomini, senza disciplina e senza ordini? Speriamo che gl’Italiani ammaestrati dagli avvenimenti, illuminati dalla ragione, non abbiano che un sol grido di rannodamento: facciamo massa; ogni città, ogni terra, ogni borgo, che scacci dalle sue mura il nemico, non frapponga indugio, non curi di apprestarsi a difesa e di innalzar barricate: tempo perduto, sangue inutilmente sprecato; ma la gioventù abbandoni le sue dimore, raccolga tutte le armi, tutte le vestimenta, le vettovaglie che può, e accordandosi co’ vicini, corran tutti a far massa.

Determinato il grido di rannodamento, che dia norma agl’insorti, discenderemo ora ai particolari d’un’insurrezione (48).

In una città insorta, altro de' grandi svantaggi del nemico, che cerca formarsi un disegno, è la mancanza d’un determinato obbietto alle sue operazioni. Se nel ’48 fosse esistito nel Broletto (palazzo municipale) il supposto Comitato dirigente, la sera del primo giorno Radetzkv avrebbe vinto. Conquiso un centro direttore, a cui in simili circostanze le immaginazioni esaltate danno un’importanza maggiore di quella che realmente ha, e da cui tutti sperano ordini e salvezza, l’insurrezione spegnesi.

Per contro, quando ogni uno fida in se medesimo, i vantaggi del nemico in un punto, non iscoraggiscono gli altri, che o noi sanno, o sapendolo noi curano, perché solo in se stessi confidano; e cotesta disgregazione è il più grande vantaggio che i cittadini hanno sulla soldatesca. Trionfò in luglio l’esercito a Parigi, trionfò in maggio a Napoli, perché l’insurrezione concentrossi ad un punto solo e non si sparse in tutta la città. I comandi, i centri dirigenti, dopo i primi momenti sorgono da sè, ed hanno il pregio grandissimo d’aver tanta autorità quanta loro ne concedono le circostanze; i fatti stessi limitano le loro attribuzioni; sono vantaggi cotesti, a cui ponno benissimo sacrificarsi alcuni inevitabili disordini; è l’ordine soverchio, che nelle città perde il nemico. Le vallate, i monti, che intercidono il teatro della guerra, ed intorno a cui gli eserciti fanno le volte strategiche, sono, nelle città, le strade e i caseggiati; quindi brevissime le distanze, fugacissime le propizie occasioni; in men che balena bisogna decidersi, eseguire; guai se ognuno attendesse ordini dall’alto, tutte le occasioni andrebbero perdute. Ogni cittadino il quale voglia prepararsi a tali avvenimenti, impari come difendesi una casa, una chiesa, un cimitero: come elevasi una barricata, giovandosi di quanto si trova in quei momenti sotto la mano; riconosca, tutti gli andirivieni ed il quartiere più difficile ed intricato della città, ed attenda. Cominciato lo sbaraglio, que’ giovani che veramente vogliono adoperarsi per la riuscita dell'avvenimento, bisogna che si spoglino da qualunque idea ambiziosa, da qualunque stupida pretesa di comando, né si perdano nel dimandare ordini, mandati... che riescono d’impaccio al libero operare del popolo; stretti in eletto drappello, seguendo le proprie ispirazioni, il meglio che possono fare è fortificarsi nel quartiere più sicuro della città, ed ivi raccogliere i combattenti: e se la sollevazione, che ferve spontanea da per tutto, s’ammorza con la loro ostinata resistenza rinnovare il grido della battaglia. Se la sollevazione procede, muovere e correre addosso al nemico nel puntò ove più stretta è la pugna, o dove ponno sperarsi maggiori risultamenti. In tal guisa il tumultuario combattere del popolo senza spegnerne l’ardore, viene piegato mirabilmente all’orditura di un disegno, che eziandio noto al nemico, non può in verun modo essere contrariato, ma invece deve subirsi. Dire ad una città:riconoscete il tal capo; prescrivere i limiti d’una sollevazione è tutto perdere; è prova di mancanza del senso pratico; ed egliè strano come coloro, i quali d’altro non parlano che di slancio ed esaltazione popolesca, pretendano poi che tutto pieghi alla loro suprema volontà; per essi sono popolo gli ubbidienti, e l’ardore popolare è un’arma di cui eglino soli conoscono la scherma... Stolti!

Scacciato il nemico, libera la città, i cittadini, fastosi della vittoria, si addormentano sugli allori; ergono barricate mostruose, novellano le loro gesta, decantano gli eroi del combattimento, ed elettosi un governo, lasciano a lui la cura di tutto provvedere, e, senza sospingere lo sguardo nel paese d’intorno, altro non curano che di apparecchiarsi a difesa. Ma le veci sono cangiate, il nemico torna rifatto, oculati», attaccante, non già come era, sprovvisto, sorpreso, attaccato; i cittadini non possono più opporgli il tumultuario combattere; essi sono organati in battaglioni, distribuiti sulle mura, alle barricate, credono cosi essere più forti; fatale errore, prima erano invincibili, ora sono già vinti. Prima era una città che spontanea combatteva contro un esercito disperso in essa; ora sono soldatesche che si battono al comando, dietro difese poco solide; contro nemico più numeroso, più destro, e meglio munito. Queste difese di città, comeché glorie cittadine, risolvonsi in sangue inutilmente versato, se esse non hanno lo scopo di secondare le operazioni d’un esercito campeggiante. Ed il governo, in questo mentre, s’adopera a cercare i generali, ad impiantare l’esercito, scegliendo i capi fra gli amici e consigliandosi seco loro; e così miseramente muoiono le rivoluzioni. Per ridonarle a vita, altro non è a farsi che mantenere il popolo in continuo moto, né abbandonare le sorti della patria nelle mani de' dittatori. Liberata la città dagli oppressori, immediatamente si elevi il grido facciamo massa, all'aperto; ognuno con le armi che ha, ognuno raccogliendo quelle vettovaglie che potrà, que’ vestimenti più opportuni al caso, corra in piazza; il potere surto dalle barricate li ripartisca in compagnie, in battaglioni, faccia loro eleggere gli ufficiali; l’ordinamento, il metodo d’eiezione sia quale si voglia: parendomi il mio migliore, propongo questo, altri ne proponga altro, se ne prescelga uno. Composti i battaglioni, si corra al punto ove deliberasi di far massa; sono le circostanze e gli uomini, che si trovano sul fatto, che determinano questo punto, che dovrà essere il più sicuro dagli attacchi nemici, ed ove maggior gente può raccogliersi di quella regione, che il caso ha dichiarato teatro della guerra. A misura che ingrossano, si formino in brigate, e quando saranno più brigate, tutti i comandanti di esse ed i comandanti di battaglione si eleggano un capo supremo, che li regga a suo modo; si conceda ad esso piena libertà d’azione e tutta la responsabilità.

E per dire qualche cosa sul modo di armarsi, osserveremo che in queste prime tumultuanti schiere non può esservi distinzione d’armi: quelli che hanno cavallo formeranno la cavalleria, utile a queste masse non già per combattere, ma per esplorare; appena guadagneranno un cannone cercheranno gli artiglieri fra i più abili e volonterosi a maneggiarlo; tutto deve procedere facendosi legge suprema la necessità. Il capo non dovrà pensare che alla necessità; non dovrà pensare a dar battaglia, bensì a schivarla, avendo in mira di farsi sempre più forte. Questo proce dere, una volta messo in via, è quasi istintivo: ins°guire il nemico, disporsi in drappelli, non è concetto popolesco, ma disegno di qualche giovinetto, che volendo crearsi colonnello o generale, volendo sentir ripetere il suo nome dai giornali, in epoche siffatte larghissimi di lode, quasi sperando che le immaginarie rotte da essi annunziate, divengano pel nemico disfatte reali, si fa ad assalire gli sbrancati ed a fare prigionieri, per poi menarli in trionfo. Se queste ambizioncelle cedono a fronte del supremo vantaggio del paese, riescirà facilissimo dare qualche norma all’istintivo ragunarsi delle popolazioni, essendo istintivo il correre ove gli altri sono.

Quando una gran regione dell'Italia sarà sgombera dal nemico, e sia tale il numero degli armati da rappresentare una parte notevole del futuro esercito italiano, immediatamente bisogna procedere alla elezione del Tribunato militare, il quale confermi reiezione del capo, o ne elegga un altro; ripartisca le schiere in corpi di esercito, adotti un progetto d’organamento per l’esercito italiano: e non potendo i tribuni distogliersi dalla guerra, approvato il progetto, nomineranno una commissione che verrà incaricata di organizzare gradatamente quelle masse secondo l’ordinamento approvato dal tribunato, senza che cessino dal combattere; di guisa che prima che la patria sia completamente libera, durante la guerra, l’esercito. si troverà costituito su quelle basi, che alla futura costituzione della nazione si convengono. Egli è cosa ingiustissima riformare un esercito al termine della guerra; se gli ordini che verranno adottati saranno migliori, perché non valersene durante la pugna? Se peggiori perché adottarli? Un esercito che ha vinto ha fiducia in sé stesso; riformandolo a guerra finita, questa fiducia tanto interessante, perdesi, o almeno scemasi grandemente. È costume questo delle monarchie, le quali, cessata la guerra, riformano le loro schiere, perché in tempo di pace la ragione economica bisogna che prevalga: ma nella costituzione militare d’un popolo libero il cui esercito è difesa, non già gravezza per la nazione, la ragion di guerra non solo debbe a tutte le altre prevalere, ma sola predominare.

È errore comune fra gl’italiani, e particolarmente fra pochi fuorusciti (i quali tengono per certo che l’Italia, insorgendo, affiderà loro la somma delle cose) di farsi a chiedere progetti d’ordinamenti militari, da porsi in atto alla prima occasione; questi disconoscono, in tal guisa, i principii di vera libertà, e pensano arrogarsi un’autorità, che oggi contrastano a' nostri oppressori. Due periodi bisogna distinguere nelle rivoluzioni; il tumultuoso combattere del popolo, e la trasformazione delle sue masse in esercito. Durante il primo, se un progetto d’ordinamento militare si diffonda soverchio ne’ particolari, non solamente potrà riuscire d’impaccio in que’ momenti, ma richiederebbesi, per porlo ad effetto, tempo, calma ed autorità; né parendomi che tali condizioni in quelli istanti si verifichino, ho indicato qualche semplice norma per ordinare i combattenti facendomi legge suprema le istintive» aspirazioni de' sollevati, cioè non arrestarli mai, né mai trarli di passo; ed ho preso di mira, facendo studio dei passati avvenimenti, quattro obbietti principali.

1.° Non far cessare mai dalle armi il popolo, ma sospingerlo per mezzo della sua stessa esalj fazione, dalle città alle campagne; impedendo così | ch'esso rimanga neghittoso, dopo una vittoria, I nella città.

2.° Assorbire tutti gli individui nell’argomento generale, onde evitare quelle bande, quelle legioni, che fannosi un idolo del capo, e che senza estendere i loro desiderii ed il loro sguardo all’intera nazione, mirano solo a qualche scaramuccia, da cui vincitori o vinti sperano sempre lode (49).

3.° Un popolo avvezzo a servitù, che tende sempre a crearsi nuovi padroni, conviene costumarlo ben presto a scegliersi i capi senza aver bisogno d’idoleggiare individui.

4.° Ne’ primi istanti che sorgesi a libertà gettare le basi della futura costituzione, che per dirsi libera bisogna che tutto vi proceda dal basso all’alto.

Il progetto poi che dovrà trasformare le masse in esercito deve soddisfare a tante altre condizioni. Tale trasformazione o sarà forza che avvenga combattendo, o durante qualche brevissimo intervallo di tregua; in ambi i casi cotesto progetto non dovrà avere nulla di provvisorio, ma invece somma stabilità, ed abbracciare l'intera Italia; altrimenti noi calcheremo la vi de' moderni reggimenti i quali non seguendo nelle loro riforme ed istituzioni un disegno generale e prestabilito, a cui tutto venga gradatamente adattandosi, vanno sempre rattoppando, e ne risulta quel disaccordo, quel difetto d'insieme che distingue tutti i loro atti. Se una regione qualunque d'Italia esordisce con ordinamenti militari circoscritti al solo suo territorio, commette errore gravissimo e pernicioso, poiché i suoi futuri destini sono inesorabilmente stabiliti; o verrà schiacciata, o l'Italia intera sarà libera, quindi l'esercito che sorgerà in essa non dovrà essere esercito Romano, Toscano, Napoletano... ma parte del futuro esercito italiano. Questo progetto d’ordinamento militare dovrà offrire tanta prontezza (per servirci delle parole dette da Mazzini alla Costituente Romana) come se il nemico stesse alla porta, e tanta stabilità come se dovesse durare eterno. Or dunque, ammesse tali condizioni, chi mai ha il diritto di attuare un ordinamento che dovrà adottarsi dalla nazione intera, senza che la nazione stessa manifesti la propria opinione?

Ecco la necessità che dagl'italiani in armi, raccolti a difesa della patria, eleggasi quest'assemblea di militari, che chiamo Tribunato, il quale esaminando i progetti stesi su tale argomento, che ad esso verranno presentati, ne adotti e compili uno, da porsi in atto da una commissione eletta dallo stesso Tribunato.

La schiavitù delle nazioni moderne, ricomparsa più terribile dopo sanguinose rivoluzioni, trae sua origine dalla costituzione militare poco armonizzante con la civile; quindi è un errore fatale trattar con troppa leggerezza l’ordinamento dell’esercito, per piegarsi a qualche esigenza momentanea, gettare delle basi falsi, su cui, in seguito tutto l'edifizio viene ad informarsi; poiché la costituzione civile, allontanandosene, genera quel disaccordo, quell’attrito, da cui la tirannide immediatamente prende forza.

Conchiudo, enumerando gl’inconvenienti gravissimi, da cui l’Italia può temere di esser contrariata ed impastoiata in un moto rivoluzionario: inconvenienti che spariscono affatto adottandosi il proposto ordinamento.

Una terra, un borgo che insorga, non ha bisogno d’attendere gli ordini e l’impulso della capitale; qualunque sarà il numero dei suoi armati, con un tal metodo potrà sempre comporre un battaglione, una compagnia, un pelotone, una squadra... eleggere i capi corrispondenti ed inviarli ove appuntasi di far massa. E senza attendere la sentenza de' dittatori, o consultare il volere dei tanti che in simili circostanze vogliono governare, l’ordinamento militare, come il civile, sorgeranno dalle viscere stesse della nazione. L’unità risulterà precisamente dall’assoluta libertà proclamata come legge sovrana.

Gli ufficiali devono essere eletti, non vi saranno generali senza esercito, colonnelli senza reggimento, capitani senza compagnie; non avverrà, come nel ’48 e ’49, che il numero dei graduati creati da' governi provvisorii de' varii Stati, mentre in tutta l’Italia non vi furono che un 60 o 70 mila soldati, corrispondesse ad un esercito di 800 mila uomini; non avverrà, che i favoriti degli uomini, che il caso spinge al potere, usurpino i gradi supremi dell’esercito; le pretese degli innumerevoli colonnelli e generali che sono in Italia vengono annullate di fatto: ciascuno come individuo dovrà offrirsi volontario al suo comune, o dove si trova, ed avventurarsi alle elezioni; infine, si avranno i capi, i quali godranno la fiducia dei militi.

Se avviene, durante il corso della rivoluzione, che due dei tanti Stati d’Italia, ciascuno avendo le proprie milizie, s’uniscano, ogni difficoltà nell’unire i due eserciti è rimossa; i loro ordinamenti, con tali principii risultano uniformi, i Tribuni militari si congregano ed eleggano a comandante supremo uno de' due, o un altro, come meglio essi giudicano. Per l’ordinamento civile, il dicemmo, essendo ogni comune italiano libero, l’atto d’unificazione compiesi con l’invio de' deputati alla Convenzione nazionale,

Poniamo il caso che uno degli eserciti stanziali d’Italia s’incorpori nella rivoluzione, che cosa avviene? I dittatori, uomini che quest’esercito avrà spregiati sino a quel momento, se ne faranno i supremi riformatori, ed eccovi di fatto nel governo personale; ad essi ed a' loro satelliti sono ignoti gl’individui, ignoti i loro meriti, quindi la scelta riducesi ad una questione di simpatia o antipatia personale; a' favoriti de' ministri succedono i favoriti de' dittatori. Partigiani del sistema dittatoriale, rispondete, può egli accadere altrimenti? Non sono forse più logici e sinceri i monarchici, i quali si dichiarano ispirati da Dio, che non voi altri sedicenti repubblicani? Ma direte, consulteremo l’opinione pubblica. Allora sarete ipocriti, perché emanate sentenze in vostro nome, e come se fossero vostri concetti, mentre le avete mendicate ne’ circoli, e nelle piazze; né per questo sarete imparziali, essendo ben difficile che la pubblica opinione giunga al vostro orecchio senza esser travisata; e poi se vi dichiarate esecutori della pubblica opinione, perché non consultarla solennemente ed ordinatamente? 11 mezzo è semplicissimo. Ogni corpo col suffragio universale scaccierà dal suo seno tutti quelli ufficiali, che verranno dalla maggioranza dichiarati immeritevoli, o di dubbia fede pel nuovo ordine di cose: e quindi col metodo elettivo proposto per le promozioni verranno riempiti i vuoti. L’esercito così riformato, unito alle milizie popolari, eleggerà il Tribunato militare ed il generale che assumerà il comando delle schiere riunite.

Con quali mezzi, con quali promesse, la rivoluzione può oggigiorno acquistarsi le simpatie d’un esercito? Parteggiate per la rivoluzione, voi dite, e quando noi saremo al potere, noi a cui è ignoto il merito d’ogni uno, vi riformeremo, vi daremo un capo di nostra scelta, e dopo che avrete disfatti i nemici, senza provvedere alla vostra esistenza, vi congederemo. Ecco il linguaggio dei moderni rivoluzionarii, che tutti si atteggiano come futuri governanti.

Rovesciate la tirannide, bisogna dir loro, e non saranno più vostri capi i favoriti di un principe, ma uomini di vostra scelta; voi medesimi scaccierete dal vostro seno coloro ne’ quali non avete fiducia; voi medesimi vi decreterete i premi e le pene. Terminata la guerra, coronati di gloria, e benedetti dalla nazione, l’obbligo della nazione verso di voi, che dovrà provvedere alla vostra agiata esistenza, è naturalmente sancito; queste promesse vengono a voi garantite da voi medesimi; voi siete armati, ordinati, compatti, valorosi, con capi di vostra scelta: se in premio il paese vi destina la miseria e l’oblio, voi stessi vi farete giustizia; ogni cittadino ha dritto a vivere, e, più che tutti, colui che del proprio petto fa scudo agli altri contro il nemico.

Qui pongo fine, dopo aver trattato tutte le principali quistioni del giorno (50), senza costringere la ragione a serpeggiare fra i pregiudizii e le opinioni dominanti, ma seguendone il lume sino alle ultime conseguenze a cui mi parve condurre la più severa dialettica. Desterò forse poche simpatie, molte ire ma ho seguito un sentimento per me superiore alla pubblica opinione, e questo chiamasi coscienza, e ciò mi basta.

Genova, 24 Giugno 1857.

Sottoscritto,

CARLO PISACANE.

NOTE

(1)Storia documentata della Diplomazia europea, VII pag. 624.

(2)c. Bianchi. Op. cit. pag. 7.

(3)Nic. Bianchi. Op. cit. pag. 129.

(4)Della vita di Giuseppe Mazzini.Cap. XXI.

(5)Cio il Saggio sulla Rivoluzione che ristamperemo in altro volume di questa Biblioteca.

(6)Il 30 Aprile 1849 ebbe luogo il primo assalto delle mura di Roma da parte dei Francesi che sotto il comando di Oudinot, movevano ad opprimere la Repubblica romana.

L’assalto fu dato a Porta Cavalleggieri e a Porta S. Marta, e fu brillantemente respinto. Fecero prodigi di valore attorno a Villa Pamphili e al Casino dei Quattro Venti, i volontari di Garibaldi, la Legione romana e il battaglione universitario.

Non troviamo però, nei più noti storici di questo periodo, confermato che Pisacane abbia ordinato il piano di difesa del 30 Aprile.

(7)Per completare i cenni surriportati circa opera di Pisacane in Roma, noteremo come nel conflitto scoppiato tra i generali Garibaldi e Rosselli, riguardo il comando e i piani di guerra conflitto che condusse poi il secondo ad accusare il primo di avere, in causa della sua disobbedienza, fatto abortire il piano di prender prigionieri in Velletri il re e esercito di Napoli che vi erano accampati Pisacane stette dalla parte di Rosselli. Egli scrisse di Garibaldi: non aveva che il genio del guerrigliero, il quale impegna gli uomini quasi individualmente, senza far uso delle masse, solo mezzo decisivo di guerra; credeva di poter condurre un esercito di 30.000 baionette nel modo stesso che si conducono 300 uomini

Quando le sorti della Repubblica apparvero disperate, tra le due idee affacciate di cessare la resistenza o di contendere Roma palmo a palmo ai francesi colle barricate e il pugnale, Pisacane fece la proposta intermedia di ritrarsi sulla sponda sinistra del Tevere. Egli stesso dice che questa proposta fu la meno gradita di tutte; e prevalse, come ognun sa, la prima.

(8)Queste parole e le seguenti si riferiscono a tutti uattro i aggi cui, nell'edizione del 1858-60, precede la iografia qui riportata.

(9)Saffi. Proemio al voi. IX degli Scritti di Giuseppe Mazzini, CXXXVIII.

(10)Saffi. Op. cit.

(11)J. W. Mario. In memoria di Giovanni Nicotera. Barbera 1894 pag. 11.

(12)J. W. MARIO In memoria di Giovanni Nicotera. Barbera. 1894. Cap. I.

(13)CANT. Cronistoria delIndipendenza italiana. (Unione Tipogr. Editrice Torinese). Voi. 3 pagina 198.

(14)J. W. MARIO. Op. cit. pag. 15.

(15)Vedi i nostri articoli sulla Critica Sociale del 1 e 16 aprile 1901.

(16) Oltre i brani, la cui omissione abbiamo avvertita in nota, abbiamo completamente soppresso i capitoli III, IV e V della pubblicazione originale del Pisacane, de(1 )quali diamo qui i sommari:

Armi e divise dei fanti — Loro ordini — Di quanti combattenti dovrà comporsi il battaglione, la brigata, la divisione — Esploratori.

Cavalleria, suoi ordini e sue specie — Armi e divisa di essa — Forza dello squadrone, della brigata, della divisione.

Dell’artiglieria e dei calibri che bisogna adottare — Come comporre la batteria, la brigata, la divisione — Poca utilità dell’artiglieria di montagna.

Come il lettore tosto comprende, è questa la parte morta del libro, quella è che stata completamente sorpassata dai tempi, sopratutto per il rapido, grande e continuo perfezionamento delle armi.

Questa parte non presenta, adunque, più per noi valore alcuno.

(17) Abbiamo visto, assai di recente, i maggiori pensatori del nostro tempo trarre dall’affare Dreyfus, o maglio dalla condizione di cose da esso svelata, la medesima giustissima conclusione: e cioè essere l’esercito permanente incompatibile colla democrazia.

(18) Cioè quello che l’autore aveva detto nel secondo dei suoi saggi, intitolato Cenni storici militari.

(19) V. nota precedente.

(20) Notino queste e le seguenti osservazioni d’un ufficiale. quale era Pisacane, gli ammiratori della coreografia militare di cui la Germania attaccò il contagio a tutti gli Stati; e veggano come quelle osservazioni siano confermate da esempi recenti, come le guerre del Transvaal e delle Filippine.

(21) A maggior ragione saranno sempre sfortunate le guerre decretate o incitate da ministri che vogliano, dalla capitale, dettare un piano di guerra il quale giovi ad aumentare la loro popolarità o a stornare l'attenzione del popolo dalle vicende interne. Si ricordi il famoso telegramma della «tisi militare» di Crispi a Baratieri e le catastrofi che esso provocò.

(22) Che oggi si chiamano «grandi manovre». Come è noto, anche in Italia, si fa più volentieri economia — quando la necessità di economie diventa estrema e improrogabile — mediante la sospensione delle grandi manovre, che non mediante la soppressione di alcuni corpi d'esercito e mediante l'introduzione del sistema territoriale di reclutamento, riforme le quali sono pure auspicate da conservatori, e perfino da generali.

(23) Qui si omettono, per brevità, alcuni periodi del testo in cui si narra di qualche celebre punizione militare presso gli antichi e presso i moderni; periodi che non hanno alcuna importanza per noi, e la cui omissione non nuoce punto al filo del ragionamento.

(24) Per citare un solo fatto a testimonianza della verità di quanto dice qui il Pisacane, ricorderemo che la celebrità militare dell’ex-borbonico generale Pianell (o «Pianelli», come voleva Imbriani) è dovuta ad una sua mossa indisciplinata compiuta alla battaglia di Custoza nel 1866. Egli, cioè, contro gli ordini, passò il Mincio e per suo conto respinse Rupprecht ed una colonna uscita da Peschiera «contribuendo, vien detto, (scrive il Tivaroni) a contenere la destra degli austriaci».

Questa mossa del Pianell è, se non erriamo, celebrata, anche nella descrizione e topografia della battaglia esistente nell’Ossario di Custoza.

(25) Richiamiamo l’attenzione sulla dimostrazione, a base di fatti, che dà il Pisacane della verità che la disciplina del milite dev'essere costituita dalla spontanea, ragionata e cosciente adesione della sua volontà al motivo per cui è istituito l’esercito e per cui viene fatta la guerra. Essendo altrimenti, essendo la disciplina semplicemente costituita dall’obbedienza cieca agli ordini dei superiori, sottratti ad ogni controllo ed esame della ragione di chi deve obbedire, quella disciplina apre la via ai colpi di Stato e ai pronunciamenti, cioè alla più pericolosa e nefasta delle indiscipline.

Ora, il cittadino-milite non può dare la spontanea adesione della sua volontà all'istituzione dell’esercito e ad una guerra, se non nel caso che egli senta essere l'ano e l’altra diretti alla difesa d'interessi che lo toccano immediatamente e profondamente: la protezione della sua vita e di quella dei suoi; la libertà politica e civile; il raggiungimento e il mantenimento dell'uguaglianza economica.

In questi casi, il cittadino-milite sarà, spontaneamente, disciplinato e valoroso.

Tutto il pensiero politico-sociale del Pisacane è improntato a questo concetto.

(26) Ai tempi di Pisacane. Ora ritorna in uso, come si veae nella guerra di Cina.

(27) Fé appena bisogno di ricordare ai lettori d'oggidì come tutto quanto dice qua sopra il Pisacane riceva (lo abbiamo già accennato nella prefazione) una splendida conferma dalle guerre del Transvaal e delle Filippine, dove gli eserciti di due tra le più potenti nazioni del mondo sono, da anni oramai, tenuti in iscacco da un pugno di milizie cittadine, nelle quali il desiderio di vincere, e quindi il valore, viene suscitato e mantenuto dall’interesse immediato e vivissimo che esse hanno di vincere, per ciò appunto che la disfatta le minaccia della «perdita di quei noni che esse difendono».

(28)La verità di questa osservazione del Pisacane trova pur essa riconferma, in avvenimenti recentissimi. Poco tempo fa il corrispondente da Pechino del Corriere della Sera narrò che non si era provvista la spedizione italiana in Cina dei vaporetti o dei rimorchiatori per Sortare?li uomini e il materiale fino all'imboccatura el Peino: si dovettero adoperare delle giunche, molte delle quali andarono a fondo, e si perdette così gran parte del materiale medico e altra roba per L. 300 000. Non si pensò ai trasporti e si dovettero racimolare muli, cavalli, asini e carri prendendoli ai cinesi. Si omise di fornire alla truppa carri e barelle d'ambulanza, e si dovettero trasportare feriti su carri comuni cinesi, cagionando la morte d’alcuni di essi. Non si pensò che rinverno nel Cili è glaciale e che era quindi necessario provvedere i soldati di indumenti pesanti: e si dovettero acquistare a Shangai delle piccole pelliccio per foderare i loro cappotti. {Corriere della Sera, 78 Marzo 1901.)

Il ministro della guerra interpellato su questi fatti dall'on. Gustavo Chiesi, dovette, sostanzialmente ammetterli per veri.

(29) La guerra d’Oriente, viene opportuna a confermare le esposte verità. Dopo un lungo ondeggiare, rii eserciti collegati senza un disegno ed un fine prestabilito sono inviati in Oriente. Ivi rimangono nell'inazione ed a Varna l'epidemia li decima e annichilisce. Da Varna sono gettati colla medesima negligenza sulle coste della Tauride. Tentano di sorprendere una piazza dal Iato ove essa è più forte, non riescono; girano intorno ad essa, scorgono un punto ove le fortificazioni sono meno solide, ed ivi si arrestano indecisi. Pongono l'assedio, e trascurano il solo punto che doveva decidere della presa della piazza e mentre si travagliano inutilmente altrove, lasciano che il nemico lo fortifichi a suo vantaggio, per poi, con perdite immense, prendere con un assalto quelle opere costrutte sotto i loro occhi. E quali errori più grossolani e più dannosi avrebbero potuto commettere milizie del tutto ignare dell'arte della guerra? Prendere una piazza, dopo undici mesi d'assedio, avendo speso quattro miliardi, e perduto 150. 000 nomini; davvero magnifico risultamento! 1 soldati hanno mostrato grandissimo valore è vero, ed appunto ciò conferma quello che noi abbiamo dimostrato. Non era Tamor proprio di corpo che facevali valorosi, ma la loro triste condizione a cui non potevano sfuggire; in quelle soldatesche, era universale convincimento, che, vittoriosi, la loro condizione sarebbe migliorata, la campagna finita; tutti lo attestarono, tutte le corrispondenze particolari anelavano il combattimento per finirla; il desiderio di vincere avea suscitato la disperazione.

(Nota dell'Autore.)

(30) Si noti qui, corno sempre, il rigoroso senso di materialismo storico del Pisacane. Il fondamento stesso del suo pensiero è quello che, tradotto in linguaggio marxista, si potrebbe esprimere colle parole: «non le forme della coscienza determinano Tessere dell'uomo, ma il modo d'essere appunto determina la coscienza».

(31) Saggio sulla Rivoluzione, già citato.

(32) Il lettore tenga presente che lo scritto del Pisacane risale a quasi 50 anni fa; e che non si tratta di esercito accasermato, nel suo piano di ordinamento, ma di milizie cittadine. E’ noto che, infatti, la Nazione Armata, darebbe, come nella Svizzera, il quadruplo almeno di forze armate disponibili, in confronto del nostro sistema attuale. Lasciamo ai tecnici di fare le proporzionali applicazioni alle odierne esigenze della guerra e ai dati dell’odierna popolazione dell’Italia.

(33) La guerra del 1848-49.

(34) Determineremo questa carica quando parleremo dell'amministrazione (Nota dell'Autore)

(35) Anche di questo diremo parlando dell’amministrazione (Nota dell'autore)

(36) Torniamo a ricordare che Pisacane delinea qui l’ordinamento dell’esercito su piede di guerra, imperocché scopo del suo libro era appunto quello di additare agli italiani i mezzi efficaci per combattere una guerra di popolo contro i tiranni indigeni e stranieri.

(37) Omettiamo qui un periodo dell’originale riferentesi ai capitoli soppressi in questa ristampa.

(38) Come accennammo replicatamente, questo sull’ordinamento dell'esercito è il quarto dei Saggi storici-politici-militari dell’autore.

(39) Cotesto spirito d'imitazione è così radicato e conforme accostumi dell’epoca, che si imitano i re, nella loro vanità da uomini che non meriterebbero la accusa di vanitosi. La parola del re è sacra: quantunque sfugga inconsiderata dalle sue labbra; dee diventare un fatto; il re non può errare. In questa stolta vanità, un governo repubblicano si credette in obbligo d’imitarli. «Il tale è Maggiore, facevasi osservare ad uno de' membri di un certo governo, e non Colonnello». — «Davvero? mi dispiace, ma ieri scrivendogli ho usato questo titolo, ed è forza che divenga tale;» e lo divenne; fortunatamente, lo meritava.

(Nota dell'Autore.)

(40) Questo inciso si riferisce al concetto di Pisacane, già rammentato nella Prefazione, che cioè il suffragio universale non sarà che un inganno «finché i mezzi necessari all’educazione e all'indipendenza assoluta del vivere non saranno guarentigia d'ognuno».

(41) La costituzione socialista, che Fautore tratteggia nel Saggio sulla Rivoluzione e che è il necessario presupposto di molti tra i particolari dell'ordinamento militare sostenuto dal Pisacane.

(42) Omettiamo qui alcuni periodi intorno al tiro a segno, a' quali il perfezionamento delle armi ha fatto perdere ogni valore.

(43) Per il lettore attento, non v’è bisogno di avvertire come debba intendersi non che il servizio militare duri sei anni continui; ma che durante sei anni i militi devono presentarsi a fare pochi giorni di servizio per ciascun anno, come fautore ha esposto.

* Pisacane comprendeva molto bene che le costituzioni a poco giovano, nella realtà delle cose, flncné la disposizione della forza armata spetta al sovrano. E’ evidente infatti che, così essendo, in ogni eventuale conflitto tra le due parti, il sovrano e il popolo, se una delle due stesse parti contendenti ha in mano la forza materiale (la quale ha sempre deciso del diritto) per far eseguire i suoi voleri, ogni equilibrio sarà rotto, e non varranno i giuramenti alla Costituzione, non foss’altro perché sarà sempre il sovrano arbitro, nel fatto, di dare a questa l'interpretazione che gli talenta. Perciò appunto gli inglesi, che i conservatori additano come esempio ai «sovversivi», non hanno mai concessa al re la disposizione della forza armata, g. r.

(44) Cenno storico d'Italia.

** Fu così che per essersi la guerra per l’indipendenza italiana trasformata da guerra popolare in guerra regia, il nuovo Stato sorse vassallo nato degli stranieri: prefettura dell'Impero francese, finché questo durò; poscia aggiogato al carro degli Imperi centrali, g. r.

(45) Tralasciamo qui alcuni periodi riferentesi a queste milizie di ventura.

(46) Si avverta che Pisacane proponendo l’ordinamento dell'esercito italiano aveva di mira di fornire lo strumento atto a compiere la rivoluzione, che doveva per sola forza di popolo, cacciare dall’Italia i tiranni indigeni ed esotici, e riunire la penisola «in unico Stato fondato sull'ordinamento socialista»

(47) L'autore fa qui un rapido riassunto delle principali operazioni della guerra d'indipendenza del Nord-America contro l’Inghilterra e della insurrezione Greca contro i Turchi: riassunto che ci parve superfluo all'intelligenza del capitolo.

(48) Veggasi nota (1) a pag. 143.

(49) Questo gretto spirito, non di corpo, ma di bande, era così radicato nel ’48, e nella Legione Garibaldi più che altrove, che si promuovevano le diserzioni dagli altri corpi, per ingrossare le file di quella.

(N. dell'Autore).

(50) Questo saggio è anche l’ultimo dell'opera di C. Pisacane; epperò queste linee sono a conclusione, non solamente di questo sull'ordinamento militare, ma eziandio degli altri sulla storia d'Italia e sulla Rivoluzione.




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GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

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GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano





Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)















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