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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

RIVISTA CONTEMPORANEA

FILOSOFIA — STORIA — SCIENZE — LETTERATURA POESIA — ROMANZI — VIAGGI CRITICA — ARCHEOLOGIA — BELLE ARTI

VOLUME DECIMOSESTO

ANNO SETTIMO

TORINO

TIPOGRAFIA ECONOMICA DIRETTA DA BARERA

Via della posta, n. 1, palazzo dell’Accademia Filodrammatica

1859

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

CARLO PISACANE E LE SUE OPERE POSTUME (1)

I

Presso lo sbocco del Val di Diano, nel regno di Napoli, addì 30 giugno 1857, compivasi una strage nefanda, e Carlo Pisacane perdeva miseramente la vita, morto per mano de' suoi stessi concittadini. Di onta eterna sarà quel sangue per coloro che l’ebbero versato, se pure, come ne corse la fama, più che da bestiale ferocia non fu il misfatto cagionato da lagrimevole ignoranza. E quel generoso intanto faceasi recatore di benefizi non chiesti, né desiderati!

Carlo Pisacane avea sortito da natura gran potenza d’ingegno, grandissima di cuore, ma tanto l’uno che l’altro egli educò più nella solitudine del pensiero che nel consorzio degli uomini; e però se riuscì vergine da ogni pregiudizio o corruzione, non così seppe spogliarsi da quella tirannia che le menti solitarie impongono a se stesse, con danno loro non meno che degli altri, sol che dal campo delle astrattezze passino a quello di una vita operativa.

Troppo assoluta fu in lui l’idea, prepotente la volontà; quindi un’azione non maturata dalla riflessione, ma fecondata solo dall’impeto del desiderio e dall’abnegazione dell’eroismo.

Qual fosse il germe della sua idea politica, egli spiegò ne’ suoi scritti, pubblicati dopo la morte per cura degli amici suoi più affettuosi. Italia una e libera era la sua maggiore aspirazione: miglior mezzo di ogni altro al conseguimento del fine credè che fosse la forma repubblicana. Informato a questi principi!, scrisse i primi Cenni storici;ma la storia, per vero dire, non fu da lui sottoposta a quel rigore di analisi che si addjmanda oggidì, né la società fu considerata in tutti i suoi contingenti. Il Pisacane, napoletano, è una derivazione di quella vecchia scuola, napoletana anch’essa, che dal Botta fu detta platonica(e non per dileggio), perché guidata più dal sentimento che dal ragionamento, più dalla virtù dell’idea che dalla forza de' fatti.

Di quel primo Saggio,pubblicato da un anno e più, non diremo altro, essendo nostro divisamento far parola del secondo Saggiovenuto testé a luce, il quale ha un’importanza maggiore pe’ tempi che corrono. Esso ritrae le vicende dell’arte della guerra in Italia, da moltissimi raccolte ne’ libri, ma da pochi estimate secondo il loro giusto valore. Lavoro è questo di picciola mole, ma di gran succo, e noi vorremmo che fosse per le mani de' bravi giovani, che oggi si fanno volontariamente a difendere le sorti della patria. Oltre all’ammaestramento che potrebbero trarne, sarebbero pure quelle pagine di sprone ad opere generose: così son esse vergate col fuoco i un’anima veramente libera e italiana. Virtù ed errori, glorie e vergogne, qui sono insieme raccolti. Or questo quadro noi ci facciamo ad esporre, notandone le linee principali. Ed ecco quanto può attendersi da noi, stranieri come siamo a siffatti studi, a' quali ci lega soltanto una semplice e naturale vaghezza.  Né ci si domandi perché prendemmo sopra di noi un così difficile assunto. È tal cosa cotesta che ognuno può di leggieri indovinare.
II

Pigliando dall’alto le mosse, l’arte del combattere (domanda il Pisacane) ci venne di Grecia, o non fu piuttosto una pianta coltivata in Roma e da' Romani? Parecchi scrittori tengono per la prima di queste opinioni; per converso il Pisacane, con molto giudizio e dottrina, senza spinto di parte o preoccupazione di animo, viene in sostegno dell’arte romana. A tal uopo egli dimostra qualmente i Greci combattessero in falange, cioè in ordine compatto e profondo, e fossero inoltre armati di lunghe picche, doveché i Romani combattevano con spada corta, in drappelli separati gli uni dagli altri (manipoli)ed in tre linee, di sorta che, rotta la prima, questa ritiravasi negli intervalli della seconda, e rotta la seconda, questa restringevasi nella radità della terza. La vittoria della falange dipendeva per conseguente dal primo urto; quella dell’ordine manipolare dall’ostinazione del combattimento, che per ben tre volte riappiccavasi con maggior vigoria. Nella gran massa d’uomini, onde si componeva la falange, pochi riuscivano a combattere, quandoché, secondo gli ordini tenuti da' Romani, entravano tutti in azione. La falange non potevasi postare che ne’ terreni piani ed uniti: l’ordine manipolare, al contrario, poteasi serbare intatto dovunque, fosse anche ne’ terreni più frastagliati e montuosi.

Questa diversità di armeggiare dimostra chiaramente che nulla i Romani appreselo dai Greci, dovendosi a quelli esclusivamente il miglior sistema di combattere. Ed ebbe torto il Vegezio di riporre nella legione tutti i vantaggi della tattica romana, essendo la legione, anziché un elemento di evoluzione, un accentramento amministrativo. Infatti nelle battaglie la legione spariva, mentre restava salvo l’ordine manipolare, tramutato poi in quello per coorti. La qual cosa spiega assai bene il Pisacane, lodatore dell’ordine manipolare, ed io ho accennato appena quel ch’egli dimostra per disteso con forza di ragionamento,

Ma qui sorge un’altra questione: se furono veramente i Romani gli autori di questo ritrovato.

Il Pisacane non esita, e avvalorato dall’opinione di Cesare, il quale dice che i Romani gran parte della guerra rappresero dai Sanniti, concede appunto a costoro un tal vanto. E furono i Sanniti (non v'ha dubbio) uomini oltremodo forti, bellicosi, ma io osservo soltanto, che se l'ordine manipolare fu da que’ popoli trovato il più acconcio alla natura de' loro terreni, i Romani l’ebbero accettato come il più profittevole per ogni condizione di guerra: però tanto maggiore è il merito degli uni sugli altri, per quanto maggiore dell'arte è la scienza.

Tornando alle istituzioni militari de' Romani, il Pisacane descrive succintamente, ma con precisione, le battaglie dell’Aniene, del lago Regillo, contro i Volsci ed i Galli, notando quanto popolare fosse allora l’arte della guerra, quanto grande la disciplina de' soldati e la perizia dei capi, come la tattica progredisse sol essa, attese le angustie del terreno. E così, di tratto in tratto, pervenuto all’epoca di Pirro, ripiglia il suo tema favorito, dimostrando che i Romani nulla appresero né tampoco da lui; sì perché quegli perdè più che non vinse, e sì perché in quel torno di tempo 1 Romani avevano già perfezionati i loro ordini affatto diversi dalla falange di Pirro. Ei nega perfino ciò che lo stesso Livio afferma, che i Romani cioè in quella guerra apparassero l’arte di rinserrare tutto l’esercito in uno steccato; in prova di che adduce l’autorità di Polibio, non che due esempi di epoca anteriore, pe’ quali si fa manifesto che i Romani chiudevansi già in trinceramenti.

Eccoci pervenuti alla guerra gallica. Qui il Pisacane enumera le forze immense che i Romani posero in campo, e dimostra il progresso che la strategia fin da quel tempo cominciava a fare. Dopo di che viene a ragionare di Annibale, tribuendogli quelle lodi che tutti, scrittori antichi e moderni, gli diedero. Non pertanto sostiene che nulla importasse di nuovo nell’arte della guerra, essendosi invece delle armi avvaluto delle quali usavano i Romani. Oltre a ciò, maggiore del merito dice in Annibale essere stata la fortuna; e a quella fortuna contribuirono non poco gli errori de' nemici. Lo stesso Fabio, il tanto encomiato temporeggiatore, vien giudicato dal Pisacane con severità, in contraddizione di quanto ne scrisse il Machiavelli, e il ragionamento del moderno critico dimostra a chiare note che se Minucio fu poco accorto, non era né tampoco giustificato il convincimento di Fabio, che i Romani, combattendo, avessero a soccombere. Non porta miglior giudizio di Varrone, agli errori del quale attribuisce in gran parte la vittoria riportata da Annibale a Canne. Dopo le disfatte toccate, sovviene l’epoca più luminosa per le armi romane, e strenui guerrieri si appalesarono Mario, Silla, Lucullo, Pompeo, Cesare, ma a tutti questi sovrasta Scipione, per sentenza del Pisacane, innamoratosi giustamente alle virtù cittadine di quel-l'eroe. Ciò non ostante incresce che di Cesare non abbia detto quanto conveniva, e pure in un’opera che di cose militari discorre particolarmente io non so qual altro capitano possa dar materia di più gravi disquisizioni, o che si vegga isolatamente, o che si consideri in rapporto con altri. Forse che il n. A. non aveva abbastanza studiato un tal punto della sua storia; e così ne induce a credere il vedervi qua e là qualche omissione o lacuna.

III

Se questo fu l’apogeo, or comincia a declinare la gloria delle armi di Roma. Assai ne furono le cagioni, che il Pisacane enumera 'con fine accorgimento, ma di tutte queste la principale è il difetto dell’amor di patria, dacché i soldati eran divenuti stranieri al paese e stranieri i cittadini all’esercito. Per tanta corruzione cadde l’impero, e col medio evo venne su la milizia feudale, rappresentata dal valore,dalla forzae dalla destrezza individuale;cosicché la scienza sfugge aa ogni indagine che possa far sul proposito, ed invece sì arricchisce ai curiose ricerche la filologia. Il Pisacane spigola anch’esso in questo campo, ma noi invece, passando oltre, saluteremo con esso lui le milizie mercenarie: putredine di tempi barbari, feroci, dalla quale scaturì il nuovo fato delle armi italiane. Primi mercenarii furono i nobili, che fecero delle guerre un mestiere, e fra gli antichi è da contar in capo a tutti Castruccio Castracane. che in tre battaglie diverse mostrò abilità grande nel movere le schiere e pratica cognizione del terreno per adattarvi le mosse opportune; ma più che tanto è maravigliosa la difesa da lui fatta della città di Pisa, mercé una posizione di fianco assai bene e strategicamente escogitata. Mancato Castruccio, vennero meno i condottieri italiani per te contenzioni infinite suscitate dagli odii di parte; d'onde si originarono i’ sospetti vicendevoli e le imbelli gare, così gli uni che l’altre coronati inseguito da vergognosa mollezza. Profittarono gli stranieri di questo stato d’abbandono in cui era immersa l’Italia e piombarono a guisa di cavallette sovra di noi. Ecco l’origine delle compagnie tedesche, unghere, provenzali, inglesi, brettone: mezzo secolo di servaggio ignobile e doloroso (1327-1377) che toccò egualmente ad ogni parte della penisola, finché non apparve Federigo di Barbiano, il quale sotto una sola insegna riannodo gli sparsi guerrieri e mise nuovamente in onore il nome italiano. Ad esso seguirono altri è poi altri, che il Pisacane viene enumerando, ma non sì che se ne possa fare un’idea adeguata per la successione degli uomini e dei fatti. Meglio a ciò provvede il dotto e diligente lavoro del Ricotti, Le Compagnie di ventura in Italia. 11 nostro autore volle invece spiegare a suo modo alcune imprese di quell’età per trarne cognizioni adatte alla natura delle sue ricerche; ma non credo che quanto eloquente, fosse sempre altrettanto felice nelle sue spiegazioni. Non sempre l’arte vincea ma l’ardire, e a quelle astuzie di guerra non bisogna dare una importanza maggiore di quanto convenga a un racconto. Per esempio, io non so quanti approverebbero un capitana che oggi si lasciasse chiudere in un sacco per traversare il campo nemico, e recarsi in mezzo ai suoi, col pericolo di mettere a repentaglio non pur la sua vita, ma la fortuna intera di quella fazione. E pure tanto operò il Piccinino: tanto loda il Pisacane, né me ne maraviglio, pensando solo agli ultimi fatti del generoso Napoletano lo non intendo con ciò menomare il merito di quei capitani, e sarebbe stoltezza; dico solo che l'arte avea bisogno di principii più saldi, di norme più sicure, di pratiche più costanti; e tutto ciò ebbesi per mezzo di un illustre italiano,, che mettendo insieme gli ordini antichi con i moderni, e contemperando le discipline militari alle istituzioni politiche, creò la scienza della guerra. Fu questi Nicolò Machiavelli, il quale suggellò con la sua opera l'epoca più luminosa della nostra storia militare dopo quella de' Romani.

IV

Se nostra è la scienza, le armi da ora in poi non sono più nostre. Mutate le sorti d’Italia per la discesa di Carlo Vili, venuti a mancare gli Sforza, i Piccinini, i Carmagnola con altri de' loro emuli e seguaci, l’arte della guerra ottenne un campo più vasto infeudandosi nel dominio del Principato. Al valor personale fu sostituito il coraggio collettivo, all’arroganza e indisciplinatezza de' mercenarii fu surrogato l’ordine e la disciplina delle milizie assoldate. I principi italiani cominciarono anch’essi a introdurre milizie nazionali; ma a qual prò se combattevano per lo straniero? Di ciò si duole, e giustamente, il Pisacane; non pertanto dove egli trova un italiano da gloriare, ne coglie di volo l’occasione, e sotto la penna gli;ricorrono i nomi dell Alviano, di Ambrogio Spinola, del Marchese di Pescara, di Prospero Colonna, per opera de' quali la scienza della strategia ebbe uno sviluppo stragrande, essendosi fatti costoro maestri agli stranieri di marcie, di posizioni, di diversioni.

Altrimenti avvenne della tattica, la quale non profittò quanto poteva e doveva. Fatto paragone, poche differenze (dice il Pisacane) eranvi tra le nuove schiere e le milizie feudali. Cosi almeno fino ai 1612, poiché scese in campo Gustavo Adolfo. Fu desso, questo re guerriero, che mise nuovamente in onore gli ordini romani, dividendo i grossi battaglioni in compagnie, a modo degli antichi manipoli: fu desso che introdusse nuove armi e rese più mobile un esercito, per non dir altro. Fra i tanti ritrovati bellici di quel tempo, fu opera nostra il perfezionamento del moschetto, mercé il fucile a pietra. Fra i tanti uomini di cui quel secolo va fastoso, usciva di terra italiana un Monte cuccoli, altro legislatore, dopo Machiavelli,, dell'arte della guerra. Di esso ragiona il Pisacane con giustezza d’idee, non che degli altri scrittori e capitani succeduti al Montecuccoli.

Da quella schiera nobilissima venne fuori il Maresciallo di Sassonia, l’autore di un detto, divenuto tanto popolare, che cioè il segreto, della guerra è nelle gambe:parole che, come in principio, cosi anche oggidì vanno spesso malamente interpretate, né il Pisacane fa opera inutile a spiegare, aggiungendo come quell’illustre guerriero fosse anch’esso caldo propugnatore degli ordini romani, da' suoi predecessori o sconosciuti o discontinuati.

Al Maresciallo di Sassonia tien dietro Federico di Prussia, la cui fama restò lungamente sospesa tra gl’incensi degli adulatori e le contumelie degli avversarii; ed anche oggidì non mancano di quelli che si lasciano vincere, parlando di lui, da' pregiudizi o dalla passione. Non così il Pisacane, il quale si addimostra un severo critico nell’esame delle opere del gran capitano. Egli mette tutto in bilancia, lodi ed accuse, esagerazioni e fallacie, e di tutto rende ragione con un’analisi rigorosa, quando adducendo il proprio giudizio, e quando allegando l'autorità altrui. Son poche pagine, ma tali che valgono meglio de' tanti volumi scritti sul proposito con ristucchevole abbondanza. Senza dubbio, grandi slanci d’ingegno mostrò Federico efermezza di propositi, ma più che novatore e da tenersi qual perfezionatore nell’arte militare. Fu desso che pose sul suo. vero sentiero la tattica; ma non bisogna obbliare che questa fu creata da Gustavo Adolfo. Per la qual cosa se quegli è il più gran capitano del secolo XVII , Federico non ha chi l egnagli nel secolo XVIII. 

La terza stella di questo cielo è Napoleone Bonaparte. Il suo nome sta scritto in fronte al nostro secolo, né altri sarà, almeno per lungo spazio di tempo, che possa scancellarlo. Diffici cosa è parlare di lui, per me difficilissima, non avendone l’ingegno; e se anco ne avessi, non potrei sbrigarmene in poche parole. Pur nondimeno voglio osservare che fa opera inutile chi si avventura in un'analisi di fatti, senza esporre preliminarmente quella sintesi meravigliosa da cui scaturi la rivoluzione francese con i suoi cozzanti elementi. L'uomo è il risultato di quella lotta, cosi nel campo dell’intelligenza come nel campo delle passioni, e più acquista di energia e di grandezza per quanto più incontra di ostacoli, finché su lo sfasciume dei vecchi troni non perviene ad innalzare un nuovo vessillo, che dovea di sé empire la terra. Esaurite quelle forze impellenti, altre forze sottentrano, né al tutto brute, né al tutto razionali, ma tali che creano una nuova statica sociale, la quale non ha nulla per sé di durevole, nulla di virtuale: tutto è caduco o fittizio. Cercando il riposo nel moto e il moto nel riposo, essa si aggira perpetuamente in un circolo vizioso, dal quale è difficile prevedere quando e come ne uscirà l’Europa. Se io non mi attento a profetare, non credo né pure all'effettuazione delle teoriche del Pisacane. Egli evoca un ciclo già compito, e la storia non si rifà due volte. Ma questa (me n'ero scordato) non è materia pel mio scritto. Non altro ufficio io mi assunsi se non quello di storico, e a tale ufficio adempio, parlando da ultimo delle armi piemontesi.

V

Il Pisacane, memore dell’ingiuria giustamente lanciata contro le milizie italiane, fatte imbelli da compra servitù, non può fare a meno di emendare un suo fallo, confessando che altrettanto di vergogna non toccava a' Reali di Savoia, i quali tennero saldo un esercito indipendente, fedele, onorato. Cosi da S. Quintino a Goito e Pastrengo; cosi per lunga serie di guerre combattute con varia fortuna, ma tempre con generosità e fierezza di animo. E nessuno per certo vorrà negare al piemontese un'attitudine maravigliosa a' servizi militari. Ne conveniva lo stesso Monluc, maresciallo di Francia, man dato a combattere in Italia sotto il signor di Brissac, a' tempi di Francesco Primo. Il Piemonte(scriveva egli nel terzo libro de' Commentari) è scuola di gente di guerra per la più bella e sana disciplina militare che fosse in Europa. E badate: è un francese che parla, anzi un guascone.

Quella disciplina fu sempre la medesima, ed essa non ha nulla che gravi sulla coscienza del soldato. 11 quale, affidatosi alla mano di chi lo guida, conosce pur troppo tradizionalmente che quella regola tiene al suo meglio. Ed ecco dove sta questo secreto di coesione che le più seducenti utopie non possono improvvisare senza timor di pericolo. E un sentimento di scambievole fiducia che va e viene, come fa il sangue, che opera e lavora, senza accorgersene, incessantemente. Spiritus intus alit.

Se nulla ha di forzato, non ha né pur nulla di arrischiato o di provocante. Armato o no, il Piemontese rammenta anzi tutto la sua qualità di cittadino: egli antepone il bene dell'universale a quello dell’individuo, e, moderato qual è ne’ suoi desiderii, canta egualmente i piaceri del campo e le beatitudini della pace. Il suo ritratto sta qui effigiato in questo quaternario di un’antica canzone savoiarda:

Je suis né dans les alarmes:

Le harnais est ma maison;

Mais le déteste les armes

Que l’on prend hors de saison.

Con siffatti elementi Casa Savoia avrebbe potuto aspirare più alto. all’indipendenza e grandezza d’Italia. Così il Pisacane, cosi quegli altri che, mossi da un desiderio di bene, trovano agevole ricomporre la storia sugli errori altrui, più agevole ancora cementarla co’ sogni della propria fantasia. Ma chi non conosce le strette che questo nostro paese ebbe a patire, posto com’è fra le morse di due potenti vicini? Quindi il bisogno ai stringersi quando a Francia, quando all’impero; quindi la necessità di temperare con le astuzie della politica lo slancio della bravura. E non è a dire che ad esso abbondassero le simpatie degli altri Italiani. Ebbele, è vero, Carlo Emmanuele I, ma di pochi patrizi, e fecero difetto. Più tardi andò sconosciuto, o non lo si volle conoscere affatto.

Pur tuttavia che cosa fruttasse questo lunghissimo esperimento di circospezione e di pazienza, possono ben dire gl’italiani di oggidì, che, corretto il lor fallo, assistono trepidanti allo svolgimento ai un dramma già presso al suo termine. — E qual ne sarà il fine? — E impossibile ciò prevedere, né qui ragiomam noi di politica. Lo storico intanto non può fare a meno di raccogliere nella sua mente i moltiplici elementi di civil sapienza, di concordia, di coesione, che diedero soffio di vita ad una farfalla creduta già morta per trarne gli auspicii di un miglior avvenire.

Questi elementi si svilupparono qui, nella terra delle nazionali aspirazioni, ed essi trovano la loro ragione di essere nelle sue antiche memorie, nella lealtà del principe, nello spirito pubblico, nel costume del popolo rifatto. Se non la forma repubblicana (qual si vorrebbe dal Pisacane), ci assicurano le costituzionali franchigie guarentite dal senno e dall’esperienza; se non le bollenti commozioni delle milizie cittadine, il valor freddo e misurato di soldati ossequenti alla causa della libertà. Né si adducano in contrapposto i vizi di un tempo. Le tradizioni guerriere, sepolte ne’ romanzi, non son più il patrimonio del patriziato; né i natali han più prevalenza alcuna sul merito negli ufficii militari. Di che sospettare? di che temere?

La sola questione che può renderne dubitosi è quella dell'alleanza, e ad essa si appoggiano, per farne un’arma nemica, i tepidi fautori della nostra indipendenza. Ma è la Francia che combatte con noi, e un portato della nazione è Luigi Buonaparte. Essa propugna una causa che per la santità sua non può essere nullamente disonestata; che è tutelata non già dall’ambizione di un solo o di pochi, ma dalla virtù di più milioni di uomini. E non sarebbe questa la prima volta che Francia ne uscisse con le mani nette. Combatté per l’indipendenza di Grecia, combatté per quella del Belgio: e qual frutto ne raccolse? qual compenso ne addimandò? Suo miglior compenso sarà quello che le verrà conceduto dalla civiltà. Oltrediché se tanto acquista in grandezza, sicurtà maggiore troverà ella per l’avvenire contro gli eterni suoi nemici; a lei saranno di ausilio e la cognazion delle razze e la solidarietà de' popoli fratelli.

E questa la mia opinione, libera, spontanea, spoglio, qual io mi sono, da seduzioni o paure; ma se le mie parole non parranno abbastanza autorevoli, ecco di giunta il giudizio dello stesso Pisacane, che sull'animo di moltissimi sarà certo di maggior peso: «L’amicizia, scriveva egli, della potenza preponderante in Italia era vassallaggio umiliante per esso (Piemonte); quindi, conservandosi in ogni tempo bene collegato con Francia, bisognava contrapporla all’impero. Le guerre combatterle con proprie forze come alleato di Francia, non ammettere in Italia armi francesi, o solamente pochissime, e servirsi dell’amicizia di questa potenza solo per poter «essere considerato nella pace generale, e delle armi di lei solo «nel caso che venisse dal nemico sopraffatto.»

Di quel ch’egli pensasse assai ne indovinò, e lo mostrano i fatti compiuti. A’ danni possibili od accadere provveggano ora i buoni Italiani. Le forze di Francia saran poche se maggiore il numero delle nostre armi, e l’opinione pubblica in Europa peserà meno nella bilancia de' nostri destini, se più concordi saranno le volontà nostre. Fortunatamente è così qual io dico; ciò non pertanto debbo confessare che brutto spettacolo è quello di alcuni dissidenti che, non so per qual cecità, tengonsi lontani da questo benefico moto, e gridano all’incendio senza apportare un soccorso. Così non avrebbe certo operato il Pisacane, del cui nome fanno sciupo certuni, senza averlo ben conosciuto. Se avessero letto nell’animo suo, avrebbero scorto quanto maggiore fosse in lui il desiderio dell’operare alle necessita fatali de' tempi, e come da questa discordia ai elementi opposti rampollassero alcuni concetti disperati o paradossali. Il cuore uccideva la mente: a differenza di certi altri che tengono in freddo la mente perché il cuore non abbia né pure a palpitare.

G. DEL RE.

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(1) Saggi storici-politici -militari sull'Italia, di CARLO PISACANE; vol. I e II. Genova, 1858.




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RISORGIMENTO ITALIANO - Nuovi Documenti sulla spedizione di Sapri

1919

ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

1923

MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

1927

NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano






Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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