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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

LA RAGIONE

FOGLIO EBDOMADARIO DI FILOSOFIA RELIGIOSA POLITICA E SOCIALE

DIRETTO DA AUSONIO FRANCHI

NUOVA SERIE

Tom. VII.

TORINO, 1857

TIP. V. STEFFENONE, CAMANDONA E C.

Via B. V. degli Angeli, 7

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RASSEGNA POLITICA

Molti giornali hanno rilevalo, che contemporaneamente ai tumulti italiani, che finirono con la ornai quasi accertata morte del colonnello Pisacane, si scoperse in Francia una congiura rivolta, per quanto diccsi, a togliere di vita l'imperatore. Ma ben più di questa sotterranea machinazione che venne, al solito, scoperta e sventata con qualche arresto, tornò nociva e spiacente al governo francese l'aperta battaglia mossagli intorno alle urne elettorali dalla ridestatasi democrazia, che ne sortì formidabilmente vittoriosa. Tutti li uomini politici di Francia, che ci scrissero in proposito, vanno d’accordo nell’asserire, che mai si è dato al secondo impero colpo più grave di questo. E tale è anche il giudizio manifestatoci da alcuni fra li esuli più illustri di quel paese fatale.

Anche la Spagna fu negli scorsi giorni. agitala da una delle solite cospirazioni. Un drappello di uomini a cavallo invase Utrera, nella provincia di Siviglia, al grido di Viva la Repubblica!quindi die' fuoco alle caserme di quelle truppe, che opposero più viva resistenza, e riscossa una contribuzione forzosa di 8000 piastre, si ritirò fra le montagne. Da varie parti vennero inviate milizie su le traccie degli insurti. Discutevasi nel Senato un progetto di legge relativo alla lèva di 50,000 uomini, allorché d’improviso interpellato il ministro Narraez intorno a quelle fazioni, egli non seppe nasconderne la gravità; tanto più che in pari tempo altre sommosse erano scoppiate a Ternel, a Malaga, ed altrove.

Fece grande sensazione in Europa, e la farà certo anche nelle altre parti del mondo, l’inattesa risposta data da lord Palmerston al deputato, che il richiese se il governo inglese era anch’esso disposto a concorrere con tutto il mondo civile alla grandiosa impresa del taglio dell’istmo di Suez; od almeno, se voleva valersi della sua influenza in Costantinopoli per ottenere dalla Porta la tanto aspettata sanzione al progetto del sig. Lesseps; progetto (disse l’interpellante sig. Berkeley, che ha già ottenuto l'approvazione dalle primarie città, e dai più distinti porti sei Regno Unito. E la risposta, per dirla in breve, è questa; che il governo inglese fu e sarà sempre ostile a tale impresa, la quale dal lato mercantile non offre vantaggio di sorta, e dal lato politico è sommamente perniciosa, perché sarebbe contraria al buon accordo fra la Turchia e l’Inghilterra, ed allo spirito del trattato di Parigi, ed agevolerebbe all’Egitto i mezzi di sottrarsi, all'alta signoria della Porta. La stampa di tutti i paesi non mancherà di rispondere tra breve alle superbe ed egoistiche parole del vecchio Lord.

Quantunque in proporzioni incomparabilmente più esigue, non mancò di destare in Piemonte, e massime nella Liguria, un dispiacere assai vivo il volo dato giorni sono dal Senato del Regno, per cui venne respinto quel sussidio alla pericolante Società Transatlantica, che il governo stesso aveva proposto, ed i Deputati a grande maggioranza di suffraga avevano sancito.

A tutti riescirà assai grave la notizia della morte di Béranger, il più popolare dei poeti contemporanei.

Sabbato 25 luglio 1857 NUOVA SERIE An. III. T. VII. N. 145

LA RAGIONE


FOGLIO EBDOMADARIO DI FILOSOFIA RELIGIOSA POLITICA E SOCIALE

SOMMARIO

L'Individuo e lo Stato. III — Pensieri di un esule. III — Uchronie. II — Les deux Pélerins. — Bibliografia. — Rassegna politica.

CARLO PISACANE

È dovere di patriota, è bisogno del cuore profondamente esultato, questa funerea commemorazione in onore di un uomo, ch'io ebbi fra i miei più cari amici, e di cui il mondo ammira in questi giorni l’eroica audacia, che gli è costata la vita.

Nacque il Pisacane a Napoli, nell’agosto del 1818. Figlio di pazzia famiglia, fece i suoi primi studj nell'Accademia militare, e fu ammesso qual paggio alla corte del re Borbone. L’odio, che presto senti nascersi in petto contro i principi, massime di quella stirpe, e il desiderio di addestrarsi dovunque fosse nel mestiere dell’armi, onde mettersi in grado di esercitarlo più tardi a beneficio della patria e della libertà, il decisero a lasciare il paese nato, e ad arruolarsi tra le schiere dei soldati francesi, che partivano per la guerra d’Algeria; e colà non gli mancarono occasioni diguadagnarsi la stima e l’affetto dei commilitoni. Però non appena ebbe sentore, che anco l’Italia s’era sollevata, accorse su i campi lombardi, dove si giocavano le sorti della nazionale indipendenza. É da quel punto, che assume importanza storica la sua vita.

Addetto, col grado di capitano, al secondo reggimento di fanteria lombarda, egli ebbe a sostenere diversi scontri con l’austriaco, finché riportonne grave ferita in un braccio; dalla quale per altro non tardò a guarire, sussidiato come fu dalla robusta natura, e dalle sollecite cure degli amici.

Per la legge di fusione, le milizie lombarde vennero unite all’esercito piemontese; onde il Pisacane, in seguito ai disastri di Custoza, ed alla capitolazione di Milano, passò anch’esso il Ticino, e tenne i q u uncino a Vercelli. Se non che, scoppiata nel frattempo la rivoluzione nell’Italia centrale; e proclamata in Roma la Republica, egli, chiesto ed ottenuto in breve regolare congedo dal ministro sardo, recossi colà, dove un irresistibile instinto gli presagiva, che più gloriosamente avrebbe potuto consacrare l’opera sua a difesa della periclitante libertà. Quivi si guadagnò l’amicizia e la confidenza del triumviro Mazzini, il quale sel tenne presso di sé, elevandolo al grado di colonnello, ed all’officio di capo dello stato maggiore. Fu allora, che avuta occasione di conoscere all’opera i due acclamati generali delle falangi republicane, Garibaldi e Roselli, già tra loro rivali e malvolenti, concepì contro di essi quel dispregio, che non temette più tardi di manifestare in publico, anche a costo di ferire le più popolari simpatie; tanto in lui sempre prevalse, ad ogni altra considerazione, l'amore del, vero.

Caduta Roma, il Pisacane andò esule in Isvizzera, dove si trovò con Mazzini, e fornì all'Italia del Popolodiversi articoli, all’uopo di dimostrare quanto fatale riesca alla libertà l'instituzione degli eserciti assoldati, e quanto sia necessaria alla conquista dell'indipendenza italiana, l’attuazione del principio svizzero ed americano, per cui, all'uopo, ogni cittadino sa e può essere soldato. Passò quindi a Londra, dove conobbe i capi della democrazia francese colà rifugiati, e potè apprenderne dalla viva loro voce quei sistemi sociali, di cui egli presto invaghissi e fece tesoro, malgrado che fossero dal Mazzini alteramente combattuti, ed anco dai liberali italiani ignaramente oppugnati. Venuto poi, nel 1850, a Lugano, ravvivò l’amicizia, che aveva già stretta a Milano, con Carlo Cattaneo, pel quale professò sempre i sensi della più alta ammirazione. Fu là, nella calma di cui ci fu prodiga quell'ospitale Republica, ed inspirato dal sapiente discorrere di un tanto amico, ch’egli scrisse la narrazione su La guerra combattuta in Italia nel184849, che è forse l’istoria più dotta, più fedele, e più completa di quante se ne scrissero, da amici e da nemici, da nazionali e da stranieri, intorno a quella prima fase della rivoluzione italiana.

Molti mesi egli allora passò meco in quasi fraterna dimestichezza con Cattaneo, con Dall'Ongaro, con De Boni; e prestò abituatomi alla cara consuetudine di sua compagnia, non dimenticherò mai il dolore, che sentii dentro di me il giorno, in cui ci diede addio, per raggiungere incognito quell’egregia signora, che aveva abbandonato la primitiva famiglia, i parenti, li agi domestici, il paese nativo, tutto, per dividere le tribolate sorti del profugo politico: tanto forte fu l’affetto, ch’egli aveva saputo inspirarle con le rare virtù, e con la gentile persona.

Riunito cosi alla donna del cuor suo, che stava ansiosa in Genova ad aspettarlo, l'amico nostro profittò di quella calma di spirito, che dona la domestica pace, e che forma il più desiderabile fra i beni di quaggiù, per dedicarsi con più intenso animo, non già alle congiure, ch’egli al pari di noi stimava inutili e funeste alla causa patria, ma a quelli studj, dai quali egli era convinto potesse esclusivamente derivare il trionfo della rivoluzione.

Per attendere con minori distrazioni ai quali studj, egli ritirossi per tre anni in una romita casa su ’l colle d’Albaro, dove solo era visitato dai più intimi amici. E sono frutto di tanta laboriosità quei Saggi storici-politici-militari su l’Italia,che, benché compiuti sino dal 1855, giacciono tuttavia inediti, per non essere riescito quel valente uomo a trovare un editore, che abbia voluto assumersi l’incarico di pubblicarli; tanto miserande sono oggidì le condizioni librarie nel nostro paese. E chi sa per quanto tempo sarebbe stato ad essi negato l’onore della stampa, ove (in seguito alla sorvenuta catastrofe, che se gli tolse la vita, pur di tanto gli accrebbe la fama) non si fossero accinti a procurarne la publicazione i tre concittadini e commilitoni Carlo Mezzacapo, Cosenz, e Carrano; i quali intendono con ciò «di adempiere due debiti: l’uno di porre ad atto l’ultima volontà dell’Autore; l’altro di offrire agli amanti d’Italia, qualunque sia la loro opinione, opportuna occasione di dare una testimonianza di affetto all’ingegno ed al valore di un illustre martire della libertà italiana ((1)).»

Oltre a quest’opera, non conosciuta per anco se non per alcuni interrotti frammenti, che si pubblicarono nell’appendice di un giornale di Genova, il Pisacane sostenne una viva polemica col generale Roselli intorno ai fatti militari di Roma ((2)); e diè fuori una duplice protesta contro le pretensioni di Murat al trono di Napoli, l’una di conserva con altri trenta emigrati politici delle Due Sicilie (V. il Dirittodel 1855, N° 227); l’altra individuale, ed inserita ne Italia e Popolodell’istesso anno (N° 263). Dei quali fatti è bene tener conto ad allontanare, per amore di giustizia e della verità storica, il sospetto di complicità murattiana nell’audace spedizione del Cagliari. Del resto, esperto com’era nelle scienze matematiche, tornato a stabile dimora in Genova, ei si die’ in questi ultimi anni a farne professione presso alcune famiglie di amici; e diversi mesi consacrò eziandio a fare sul terreno li studj preparatorj per una strada ferrata da Bra a Mondovi.

Ma, più che a queste materiali evenienze della sua vita, a far noto quale uomo fosse il Pisacane, giova por mente all’indole del suo pensiero,alla natura delle idee per lui professate. E m’è dolce il poter dichiarare, ch’egli era apostolo dei medesimi principj politici, filosofici, e sociali, che formano cumulativamente il simbolo. di quella religione razionale, alla quale noi pure prestiamo sincero e fervido culto. E le prove di questa nostra asserzione rifulgono ad ogni periodo di quel suo volume su la guerra combattuta in Italia, che unico finora fu pubblicato.

Superfluo, invero, sarebbe l’additare tutte quante le pagine, nelle quali il Pisacane comprova la verità, da noi pure professata, che vano e peggio è l’attendersi schietto ed efficace sussidio dai principi o dalla diplomazia a promuovere la causa della rivoluzione; e quest'altra, che la conventuale disciplina, inflitta alle truppe assoldate, vai meno dell’entusiasmo proprio delle milizie cittadine a conseguire la vittoria nelle battaglie della libertà e dell’indipendenza. Név’è bisogno di prolissa dimostrazione; mentre siffatte verità vengono riconosciute da quanti sono i fautori di democrazia. Piuttosto accennerò come anch’egli, il Pisacane, proclamando l’assioma, che militi debbono essere tutti, e soldatonessuno, riconosce con noi, che nelle guerre nazionali «il popolo tutto deve radunarsi al campo; né deve esservi distinzione fra il soldato ed il cittadino;» per cui «la guardia nazionale riesce una di quelle assurde instituzioni, figlia del dualismo costituzionale,» la quale rappresenta l'esercito del popolo posto a fronte con l'esercito del principe (pag. 336). — Anch’egli ammette con noi, che fu e sarà sommamente esiziale l’anteporre il concetto della semplice indipendenza a quello della libertà, imperocché «se il pensiero della nazionalità bastò per promuovere l’insurrezione, non poteva bastare a conseguire la vittoria;» ragione per cui la parola d’ordine dell'avvenire non dev'essere guerra allo straniero, ma guerra ai tiranni (pag. 342-350). — Anch’egli con noi deplora l’infausta prova fatta dagli «illusi, che sotto il titolo di partito nazionale e d’associazione italiana,immolano la libertà all’unità» (pag. 345346); dovendo la preoccupazione della unità nazionale essere posposta, non preferita alla nazionale libertà, per la ragione, che i mezzi vanno subordinali allo scopo. — Afferma anch'egli con noi, che il suffragio universale, irrecusabile come principio, non può venire applicato senza le «debite cautele di modo, di tempo, di luogo, di cose, e di persone; affinché non avvenga che il popolo, una volta padrone di sé, non faccia uso de' suoi diritti, che per votare di nuovo la propria servitù, pago solo di essere per una volta tanto chiamato sovrano (pag. 353, 362). — Anche egli con noi riconosce, che se talvolta si può imprecare all’uno od all’altro governo, che imperversi a Parigi, non è lecito mai tener broncio al popolo di Francia, e tanto peggio muovergli insulto, come fanno pur troppo molti dei nostri patrioti; essendo un fatto, che «mentre il governo francese bombardava Roma, la nazione francese operava in Italia una salutare invasione di idee (pag. 359)», come pure è un fatto, che se noi ci adopreremo a diffondere le idee di Francia, invece di ciecamente oppugnarle, esse «valicheranno le Alpi prima delle sue armi, e basteranno a compiere la rivoluzione italiana (pag. 367).» — Anch’egli al pari di noi è devoto ai principj della nuova scuola razionalista e sociale, talché Don esita a proclamare, che la miseria e la religione sono i primi ausiliarj dei despoti (pag. 332);» che stolto è il credere, che si possano salvare le nazioni «marciando alla guerra con l’insegna del privilegio e del cattolicismo (pag. 347);» e non deve fere maraviglia se la rivoluzione del 48 fu dovunque sconfitta,dal tomento che si ebbe dovunque la dabbenaggine di far cantare il Te Deum,e benedire la bandiera dai preti cattolici (pag. 47),che la religione, insomma «è l’ostacolo più potente, che si opponga al progresso dell’umanità (pag. 34849).» E siccome il Pisacane era uomo logico, franco, ed intero, così alle convinzioni sue coscienziosamente conformava le opere; e non solo s’asteneva egli da ogni pratica cattolica, ma quando, cinque anni or sono, gli è nata una bambina, l’unica che gli sopraviva, si ricusò di portarla alla Chiesa per le consuete cerimonie lustrali, e di farla inscrivere su i registri clericali; ma ricorse in quella vece all’opera ben più competente di un publico notajo, dando cosi l’esempio di una condutta, che, ove fosse imitata, varrebbe più d’ogni altra cosa ad accelerare lo scioglimento del problema religioso, il quale pesa, come incubo, su l’età nostra. Si, ad accelerare il trionfo del Vero, più d’ogni propaganda filosofica, varrebbe il proposito in ogni cittadino, che abbia perduta la fede nella mitologia papale, di non permettersi alcuna pratica, che sia propria dei credenti, come, per umani riguardi, finora troppo spesso succede. Ed in ciò, ripeto, l’opinione di Pisacane è appieno conforme alla nostra.

Ma anco in altra gravissima questione, il rimpianto amico era completamente d'accordo con noi: nel credere, cioè, che vano e peggio è nell’età presente il dar mano a congiure, e promuovere insurrezioni, ove prima non siasi guadagnato nelle moltitudini, con l’apostolato della parola, non solo il consenso degli animi, ma eziandio l’effervescenza degli spiriti, in favore di quel principio, che si vorrebbe sostituire all’ordine attuale. Senza di che, il dar di piglio alle armi solo per obbedire alla parola d’ordine di un caposetta, riesce un vero maleficio.

Stupiranno i lettori nell’apprendere, che tale fosse la convinzione del Pisacane; e non a torto: ond’è, che a togliere ogni dubbio ben sento la necessità di abbondare nelle prove.

Apriamo il suo libro; alla prima pagina leggiamo l’epigrafe, con la quale suolsi formulare il pensiero fondamentale dell’opera. Essa dice:— «Le rivoluzioni materiali si compiono, allorché l’idea motrice è già divenuta popolare.»Avrebbe potuto l’amico nostro esprimere più chiaramente questo concetto, che è pure il medesimo, per cui i partigiani dell’azione materiale ed immediata ci muovono si aspra guerra, anche a costo di recare oltraggio, non dico alla nostra persona, ma a quei principj, che abbiamo conformi, ed all’intento finale, che eglino stessi più volte proclamarono commune? Si, la convinzione di Pisacane, intorno alle rivoluzioni materiali, è espressa in modo chiaro ed esplicito sino dal frontispizio; e dovrebbe bastare all’intento nostro. Ma ei vi ritorna ad ogni tratto nel corso dell'opera, quasi fosse dominato da quell'idea unica, e fissa, quasi sentisse la necessità di protestare a prioricontro quelli improvidi tentativi di sommossa, cui sapeva pur troppo esclusivamente intenti taluni de' suoi antichi compagni.

Egli infatti soggiunse: — «È un errorereso commune in Italia per ignoranza,che ha fatto credere ad ardenti patrioti nella possibilità di ottenere una rivoluzione cospirando, ed è costalo moltissime vittime (pag. 223). — Le cospirazioni e le congiure, cosa affatto individuale, non possono che attaccare li individui; esse strozzano imperatori, pugnalano despoti e ministri, decidono le sorti di due candidati ad un trono, ma non potranno giammai compiere una rivoluzione. La loro efficacia è in ragione inversa della instruzione di un popolo; la libera espressione del pensiero, la discussione, il cullo del vero, sono in opposizione con le congiure, le quali richiedono simulazione e deificazione d’individui (pag. 224).» —È inutile, che un popolo vinca per un momento con le armi; imperocché esso dovrà sempre di nuovo soccumbere «ogni qual voltai destini di una nazione sono retti da individui, senza esservi un’ideanelle masse, che tracci loro la via da seguirsi (pag. 347).» — «L’Italia è schiava, perché manca nel popolo la rivoluzione delle idee, che deve sempre precedere la rivoluzione materiale… UN POPOLO,CHE INSURGE PRIMA CHE SAPPIA QUALI RIMEDJ BISOGNA APPORTARE A' SUOI MALI,È PERDUTO (pag. 351). — Se il concetto, che informa la rivoluzione non ha tracciata la via, ed iniziate le radicali riforme sociali, il governo surto dalla rivoluzione non farà che sostituirsi al caduto (ibid.). —L’immenso sviluppo del progresso umanitario cammina da sé, e restringe in un piccol cerchio l’influenza dei rivoluzionali italiani, capace solamente di generare moti parziali, inconsiderati, RIPROVEVOLI, che si spengono nell'isolamento senza propagarsi, come l’incendio di una nave nel mezza dell’Oceano (pag. 352). — Insurgere e vincere non basta agl'Italiani: ma bisogna, che essi siano pronti a sostenere una guerra con unadelle più formidabili potenze militari del mondo; quindi la necessità, che un esercito surga subito, numeroso, compatto. I battaglioni accozzati in pochi mesi non sono che feccia di plebe ardente in ammutinarsi, e codarda in ordinate battaglie… Quindi solo un concetto chiaro, pratico, che prometta al popolo un cambiamento di Stato,può spingerlo volenteroso alla guerra, ed unificarne gli sforzi (pag. 353). —Quali sono le riforme desiderate dai republicani addetti al partito rivoluzionario italiano? Si ignora: l’ignorano essi medesimi, e pretendono che il popolo, per conquistare questo futuro incognito, compia la rivoluzione, ed attenda che Dio communichi le tavole della legge ad un nuovo Mosè (pag. 357). — Le numerose legioni del popolo non potranno avere altra bandiera, che questa: la nazione tutta guerriera; li strumenti del lavoro in commune; l’educazione universale, gratuita, obligatoria.» Questo è

«il germe della futura rivoluzione, che i pensatori dovrebbero svolgere, elaborare, discutere, formulare, rendere popolare.» Ma «queste verità vengono negate dal partito rivoluzionario.» Ed ecco perché «dopo molti inutilitentativi, suggettati col sangue di numerose vittime,non esiste ancora un’idea, non un decreto, che esprima un principio (pag. 35859).» Che se la causa italiana nel 48 fu perduta, malgrado il buon esito della sollevazione pronta, universale, trionfante, la causa si è, che «il popolo mal rispondeva ai bisogni della patria, mancando la rivoluzione delle idee (pag. 246).»—E se, pur salvando l’onore delle armi, fu vinta del pari la già proclamata Republica romana, la causa è sempre questa: che «il governo di Roma, per quanto italianissimo e rivoluzionario d’intenzione, era mancante d’idee (pag. 186, 358).»

Or, come avvenne egli mai, che un uomo di quella tempra, e professante siffatte opinioni, potè discendere a pigliare la parola d’ordine negli oscuri conciliaboli di un combattuto cospiratore? Come potè egli d’un tratto chiudere il libro delle idee, di cui sentiva tanto il difetto, per dar tosto di piglio alle armi materiali, le quali ei sapeva quanto riescano perniciose, ove siano inopportunamente brandite? Qual triste genio esercitò su lui tanta influenza ' da indurlo a farsi conduttiero di si disperata impresa?

Benché per più anni io mi sia adoperato à popolarizzare tra li Italiani, per quanto mi fu concesso dallo scarso ingegno, la verità dei principj dal Pisacane medesimo propugnati; quel senso di pietoso riguardo, che per i vinti si soffre, non mi consente or qui di proferire parole, le quali possano parere meno riverenti a chi cadde pugnando, fosse pure improvidamente, per amore di patria e di libertà. Però, se i lutti presenti hanno da esser scuola di migliori successi per l’avvenire, è debito di coscienzioso scrittore il dimostrare, come mal si potesse nutrire lusinga di buona riescita per la sommossa ultimamente tentata; né solo a Genova ed a Livorno, ma eziandio a Napoli. E piglieremo a norma del nostro giudizio, onde riesca più competente, i principj dal Pisacane si altamente proclamati.

Ebbene, chi può sostenere, che la rivoluzione delle idee fosse nelle provincie napoletane cosi matura da assicurare il successo della insurrezione materiale? E non dico già delle idee communistiche e socialistiche, che pure il povero amico mio stimava indispensabili (pag. 357); ma di quelle soltanto della democrazia e della Repubblica? Eppure, quale altro vessillo sventolò, o poteva far sventolare il Pisacane senza taccia d’apostasia, se non il republicano, che molti pur dicono essere stata la causa prima di sua miseranda sconfitta?

Nello stato attuale dell’Europa, finché imperi in Francia un Bonaparte, egli è evidente, che ove le armi della rivoluzione conseguissero nell'Italia meridionale un momentaneo successo, non tarderebbe ad esservi spedita una francese coorte a confiscarne i vantaggi a profitto del pretendente Murat. L’occupazione di Roma, dall’una parte, rende impossibile alla Francia imperiale il tolerare uno Stato cosi vicino governato dalla Republica e dalla rivoluzione; e le facilita, dall’altra, l’invio dell’armata necessaria a comprimerle. Per il che, ove la fortuna avesse arriso agli audaci idei Cagliari sino a procurar loro completa vittoria contro il Borbone, non altro avrebbero fatto alla fine, che adeguare a furia di cadaveri la ria, che deve condurre al trono di Napoli il Napoleonide; il quale successo, a detta dei Mazzini, e dei Manin, e dello stesso Pisacane, non che propizio, sarebbe agl’interessi italiani assai più intenso dell’attuale schiavitù. Il che significa, che nella migliore delle ipotesi si sarebbe ottenuto quella, che a loro giudizio sarebbe la più triste delle conseguenze.

Quale funesto consiglio indusse dunque l’amico mio, in onta dei suoi più saldi propositi, a capitanare la temeraria spedizione?

Tempo non è ancora di rimuovere dinanzi. al Publico il velo dell’infausto mistero. E non è tanto per l’amico perduto, ch’io n’ho l’anima trafitta, quanto per vedere la causa della patria sempre più compromessa.

Si, o mio diletto: il so bene, il sento, che la personale tua sorte é piuttosto da invidiare, che da compiangere. Benché giovine e pieno di vita, una malattia avrebbe potuto sorprenderti d'improviso, come a moltissimi accadere spegnere ingloriosamente il grande animo tuo. Così, invece, l’ambascia degli amici per l’acerba tua morte trova ampio conforto nel pensiero, che per essa tu avrai vita imperitura nella memoria dei posteri. Imperocché il tuo nome, inscritto fin d’ora tra i martiri più insigni della libertà italiana, verrà glorificato fino alle più tarde generazioni. Ma poiché tu nulla, certo, operasti mai per lusinga di vantaggi personali, — fosse pur quello di acquistarti una gloria immortale, — sibbene per giovare alla redenzione della patria, — fosse pure co’ l sacrificio della vita, — deh mi consenti, che ad ammaestramento dei concittadini nostri, io dimostri come mal si proveda in tal modo ai patrj interessi.

Non istiamo al giudizio degli scrittori nazionali, poiché essi (anche i più onesti, anche i più radicali) mostraronsi unanimi nel pronunciare assai severa sentenza contro il malaugurato tentativo. Badiamo dunque a quanto ne dissero, tra li stranieri, coloro che sempre mostraronsi più imparziali, anzi più benevoli a nostro riguardo. E valgano per tutti il Siècle,ed il Courrier de Paris. Parlando della spedizione contro Napoli, disse l’uno: —: «Nous nous hâtons de déclarer que de pareilles tentatives ont profondément affligé tous les patriotes éclairés;»e ciò per la ragione, che fra i tanti lugubri risultati di simile intrapresa, il meno luttuoso fu «un redoublement de sévérité envers les prisonniers politiques.»Ed il Siècle, dopo aver ricordato ai capi della congiura l’iliade dei mali publici e privati, che ne derivano, risolutamente concluse: —«Il faut mettre un terme à cette sombre et lugubre histoire de petits et de grands complots, n'aboutissant qu’a mieux sceller le joug qui pèse sur les diverses fractions italiennes.»

Egli è ben vero, che la sconfitta «non rende bugiardi i diritti del popolo, né meno giusta la causa nostra, né men degna l’Italia di libertà.» Sì, èverissimo, che «un esito sfortunato, un’impresa fallita, non possono rendere inefficace la verità di un principio,.» come disse il giornale, che è l’interprete in Italia del partito d’azione. Ma non è questione di principio, or qui, sibbene del modo di farlo prevalere. E quando il sistema delle congiure e delle spedizioniha già fatto tante e sì male prove, parmi sia debito, non foss’altro, di coscienza, lo studiare se mai se ne potesse trovare un altro più acconcio. L’esempio vantato ad ogni tratto del cristianesimo, che si diffuse e trionfò coi sangue dei martiri, non regge all'uopo., Avvegnaché i primi cristiani affrontavano bensì impavidi la morte, quando, incalzati dai despoti pagani, non avevano altra scelta, che tra il martirio e l’abjura di loro fede; ma non hanno mai tentato di far valere la loro causa con le armi: e se talvolta si nascondevano nelle catacombe, era per sottrarsi al furore dei persecutori, e per leggere in pace la feconda paroladei loro apostoli, non per tramare sterili congiure. Chi vuole affrettare il trionfo delle proprie idee per mezzo delle armi, invochi dunque l’esempio dei turchi, non quello dei cristiani.

Ricordino gli Italiani, che Béranger, l’inspirato poeta e il grande patriota, di cui l’Europa tutta deplora in questi giorni la morte, era tanto avverso all’opera delle cospirazioni, che a stento si persuadeva, che avesse a giovare alla causa del popolo e della libertà anche la rivoluzione del 1848, benché trionfante; talché all’amico, che si congratulava dell’ottenuta vittoria, presago forse della prossima reazione, mesto rispose quel venerando: —«J’aurais mieux aimé descendre les degrés que les événements nous ont fait sauter.»

Possa l’Italia trarre profitto dalla misera fine del giovine soldato, e dalle sapienti parole dell’ottuagenario poeta; su le cui ceneri ancora calde ne sia concesso tributare da ultimo un concorde tributo di lacrime e di ammirazione.

MAURO MACCHI

NOTA

Cogliamo l’occasione, che ce n’offre il bell'articolo del nostro collaboratore in commemorazione di Carlo Pisacane, nuovo martire dell’Italia e della liberti, per rispondere brevemente ad alcune lagnanze, che ci vengono mosse, in termini pieni di cortesia e

di benevolenza, da due corrispondenti torinesi del Pensiero, giornale d’Oneglia N. 83.

Essi primieramente si dolgono di un nostro avventato, prematuro, ed ingiusto pronunziato,onde ci siamo lasciati trascinareanche noi da non sanno ben quale abbaglio di prima impressione a vituperare i recenti moti, sino a chiamareuna folliai generosi tentativi di Livorno e di Napoli. Ci scusino, ma essi hanno franteso il significato delle nostre parole; e siamo troppo certi, che rileggendole a

mente riposata, vedranno anch’essi, che le non erano un pronunziato,ingiusto,prematuro,avventato;ma che anzi escludevano positivamente ogni nostra intenzione di pronunciare un giudizio qualsiasi intorno al merito intrinseco, politico o morale che voglia dirsi, di quei tentativi. Il dire, come noi abbiam detto: — sono una temerità, un’assurdità, una follia, tutto quel che si vuole,ma sono pur sempre un atto d'eroismo, a cui nessun Italiano potrà negare il suo compianto, — ci sembra evidentemente, ch’equivalga a dire: noi lasciamo ad ognuno la libertà di qualificare, a tenore della propria coscienza e delle proprie informazioni, la ragionevolezza di que’ tentativi, cioè la probabilità della loro riuscita; ma, quanto a noi, non possiamo e non vogliamo considerare in essi altro che l’eroico ardimento di coloro, i quali si sacrificarono per la causa della patria e della rivoluzione; e tanto ci basta per credere, che non potrà non esser loro benigno e pietoso il cuore d’ogni Italiano. Ora come mai que’ nostri amici han potato scorgere in cotesto linguaggio un vitupero,un pronunziato ingiusto, prematuro,e avventato?

Essi citano poi un brano di lettera, che riceveano da un loro amico di provincia, il quale pure si lamenta, che noi abbiamo giudicati quei fattim modo. che mai non si sarebbe aspettatoda noi. E perché?

1° Perché «condannare la rivolta con le armi, e restringere la rivolutone alla penna, è un voler nulla.» Ma, di grazia, ove mai e quando abbiamo noi scritto, che si debba restringere tuttala rivoluzione alla penna, e condannare ognirivolta a mano armata? Ce lo mostri, e non esiteremo un instante a ritrattare una sciocchezza cosi badiale.

2° Perché il dire: noi siamo uomini di studio e non d'azione, vuol dire, secondo lui, noi siamo uomini impotenti; lasciateci nella nostra impotenza. Ma impotenzaa far che? a fare quello, che non sapiamo, né dobbiamo, né vogliamofare? La sarebbe un'impotenza, di cui per verità andremmo piuttosto lieti, che dolenti. La Ragioneha dichiarato fin dal suo programma, e ripete tutti i giorni nel suo frontispizio, ch'essa è un foglio di filosofia, e nulla più; e noi che lo scriviamo, con tutti li amici nostri che da tre anni ci vengono prestando il doro concorso, non abbiam mai preteso, che dovesse bastare la nostra penna a liberare l’Italia; ma ci siamo unicamente prefissi di adoperarla a combattere qualche errore, ed a propagare qualche verità, che ci apparisse come un più grave ostacolo o un più sicuro avviamento al suo riscatto. Del resto, noi non siamo candidati di nessun ministero, di nessun generalato, di nessuna dittatura; non siamo congiurati di nessun partito, di nessuna setta; e, merito o demerito che sia, è propriamente e rigorosamente vero, che siamo uomini di studio e non di azione, eche senza punto detrarre alla gloria di chi serve la democrazia con l’opera della mano, noi ci contentiamo di servirla conl'opera di quel po’ di senno, che ci toccò in sorte. Può darsi, che il nostro servigio sia di poco o niunvalore; ma esso risponde alla condizione e alla tenuità delle nostre forze; e massime fra democratici dee ben valere il principio, che chi fa quanto può, fa quanto deve. .

Anzi la conclusione di quella corrispondenza medesima ci rassicura; poiché riconosce anche nell'opera nostra un elemento necessario e naturale della rivoluzione: «Noi crediamo, dicono i corrispondenti del Pensiero,che vadano errati tanto quelli, che limitano l'opera di redenzione della patria all'indestruttibile e profondo si, ma lento e secolare progresso per mezzo dello studio, quanto coloro, i quali ripongono l'esclusiva loro fiducia nella forza delle armi. Lo studio e le armi sono indispensabili entrambi alla salute d'Italia; queste ci libereranno dallo straniero e dagli interni oppressori; quello ci darà concordia d’intenti e base adamantina alle future instituzioni, che elaborate dalla scienza, dovranno surrogare quelle congegnate dalla forza e dalla superstizione, su cui vacilla la decrepita società dei giorni nostri.»

E noi sottoscriviamo con ambe le mani a questa bella e buona verità, la quale determina ottimamente il doppio officio e degli studj e delle armi nell'opera di redenzione della patria. Edacché non tutti possono far tutto, e la divisione del lavoro è canone fondamentale d'ogni sorta d'economia; cosi li preghiamo a non più rimproverarti d'aver eletta per noi la parte degli studj, come noi non incolperemmo loro, né altri, di togliere per se, qualor l’amassero meglio, la parte delle armi.Le dévouement véritable,conchiuderemo noi pure con una bella sentenza di Béranger, le dévouement véritable, utile, est celui qui s’étudie à ne nous faire entreprendre que ce dontnous somme capables.

RASSEGNA POLITICA

Il giornalismo europeo si occupò in questa settimana del Testamento politico di Carlo Pisacane, che trovandosi fra le carte raccolte nella di lui casa in Genova dall'autorità giudiziaria, venne spedito, non si sa da chi, al Journal des Débats. Con questo testamento, che porta la data 24 giugno, il Pisacane, alla vigilia di imbarcarsi sul Cagliari,volle scrivere una specie di programma, il quale facesse conoscere al mondo le sue opinioni politiche e sociali, nel caso che, come pur troppo avvenne, avesse a cader vittima del suo tentativo.

Benché sia manifesto, che il prode soldato aveva intenzione, e fors’anche desiderio, che le idee da lui cosi succintamente esposte fornissero

argumento di libera discussione, pure il dolore troppo vivo per la recente sua perdita, e la pietà dovuta all'acerbo suo fato, non ci consentono di sottoporre le dottrine da lui ultimamente professate a quella critica, che richiede animo calmo e spassionato, se ha da riuscire competente in chi la fa, ed accetta a chi l'ascolta. Diremo dunque soltanto, come il Pisacane dopo aver dichiarato, che il socialismo espresso dalla formula libertàed associazione(come vogliono tutti i socialisti, cominciando di quelli di Francia, è il solo avvenire, non lontano,d’Italia e forse dell’Europa, protesta essere sua convinzione, che le ferrovie, i telegrafi, e tutti i miglioramenti dell’industria sono assai più dannosi che utili, finché «una terribile rivoluzione non avrà cangiato d’un tratto tutti li ordinamenti sociali.» Protesta, che non farebbe un menomo sacrificio per ottenere una costituzione, e nemmeno per cacciare li Austriaci di Lombardia; essendoché per lui «dominio di Casa Savoja o Casa d’Austria è precisamente lo stesso.» Ei crede anzi, che «il reggimento costituzionale del Piemonte è più dannoso all’Italia che la tirannide di Ferdinando II.» Protesta infine, esser suo convincimento, che «la propaganda dell’idea è una chimera, e che l’educazione del popolo è un assurdo;» essendoché «le idee risultano dai fatti, non questi da quelle.» Coloro, che hanno letto l’articolo di Mauro Macchi, che noi abbiamo pubblicato nella Ragione. della scorsa settimana, intorno alla vita ed alle dottrine altre volte propugnale dal Pisacane, possono giudicare per sé soli, quant’esse siano diametralmente opposte a quelle ora da lui manifestate nel suo testamento politico. E ciò basti: che i riguardi, cui abbiamo accennato da principio, ci vietano d’insistere più oltre.

Finalmente anche Mazzini ha dato segno di vita, pubblicando un articolo sula Situazione,nel quale non vuol dire se abbia avuto parte «di. soldato o di capo; ma pur confessa d’aver avuto una parte qualsiasi nei «pensamenti(!!)genovesi del giugno.» Scopo dell’articolo è di protestare essere una menzogna: — che una parte qualunque della città fosse minata, — che volessero liberarsi i forzati, — che fossero dati ordini di saccheggio, che fossersi compilate note di proscrizioni, — che si volesse far guerra accanitaalle truppe. — E siccome le mine furono trovate, e sequestrate, e sono tuttavia visibili nell'arsenale di Genova. Mazzini ne spiega la sussistenza dicendo, che «officio dei sacchi di polvere an la miccia, èquello di rovesciare subitamente porte chiuse e che importa varcare. Delresto, egli afferma, che il disegno «intorno a cui si affacenda in oggi il governo piemontese, era disegno italiano.» .

Anche qui lasciamo per ora ai lettori di giudicare intorno al merito della mazziniana apologia, della quale non conosciamo finora se non un brano riferito dal Movimento;giacché il foglio dell'Italiadel popolo,che la publicava, per no improvido rigore del fisco venne sequestrato. Siccome però abbiamo inteso, che il sig. Mazzini si lagna in particolare di noi, e ci muove non sapiamo qual rimprovero od accusa, procureremo di avere il suo articolo, e gli risponderemo dovere.

InFrancia non è per anco sedata l’immensa commozione prodotta dalla morte di Béranger. Che se i capi dell'impero stimarono indispensabile circondarne il feretro con una siepe di bajonette, i capi del sacerdozio trovano ora il loro tornaconto a vituperarne la memoria, spargendo intorno la vilissima voce di una pretesa sua conversione alla fede cattolica. A dir vero, nessuno presta più orecchio a siffatte infamie, cui sogliono ricorrere i preti ogni qual volta venga a morte alcuno di quei grandi individui, di cui si onora ('Umanità; imperocché ai loro interessi sarebbe certo tanto più utile il poterli far credere ad essi devoti, quant'è loro più fatale il fatto, che quei sommi vivono e muojono onoratissimi, benché abbiano sempre fatta al cattolicismo la più aspra guerra. Ma fosse pur vero, quanto è falso, che Béranger negli ultimi ed inconscj momenti della sua esistenza avesse detto parola, o fatto un gesto a seconda dei desiderj clericali, contro questi atti machinati della ornai spenta sua intelligenza, noi avremmo a contraporre l’aperta e costante sua condutta di quasi ottant’anni. E ciò valga per tutti i casi consimili.

In Spagna dall’autorità soldatesca e gesuitica ora imperante si commisero stragi si enormi, che invero non hanno altro riscontro nell'istoria contemporanea, per quanto polluta di sangue essa sia. E un vero macello, che vi fanno li armati fidi dell'atroce Narvaez, di pieno accordo con i tonsurati mezzani della pinzochera Isabella.

Ben più consolante spettacolo ci porge il vicino Portogallo, dove il giovine re chiuse or non ha guari la sessione parlamentaria, liberamente dolendosi, che la brevità del tempo non abbia concesso ai deputati di formulare in legge «il pensiero che dovrebbe animare tutti li uomini, che sono al maneggio della cosa publica: quello di dotare il paese, come più presto si possa, d’un sistema d'instrazione nazionale, che consolidi la libertà, educando uomini atti a ciascuno dei civili officj.»

Sabbato 8 agosto 1857 NUOVA SERIE An. III. T. VII. N. 147

LA RAGIONE


FOGLIO EBDOMADARIO DI FILOSOFIA RELIGIOSA POLITICA E SOCIALE

SOMMARIO

A Giuseppe Mazzini. — Giordano Brano, XVI. — Filosofi francesi del Secolo XIX. I. — Eugenio Sue.

A GIUSEPPE MAZZINI

Signore,

Nell’articolo da voi publicato su l’Italia del Popolo (Supplimento al N° 156, 29 luglio), col titolo: La Situazione, fra le molte e varie schiere d’avversarj, che più o meno direttamente voi pigliate di mira, son io il solo, che vi piaque di nominare. Ed io, non che dolermi di questa distinzione, ve ne so buon grado; poiché mi dispensate cosi da certi riguardi, che per avventura mi avrebbero consigliato a non parlare di voi e della vostra apologia, per non incorrer la taccia di inveire contro un caduto, e d’insultare ad un vinto. Ma voi, rivolgendo a me solo la parola, e solo il mio povero nome facendo segno alle vostre lagnanze ed accuse, mi obligate a deporre ogni riserbo verso di voi, e ad applicare al vostro scritto le leggi d’ una critica libera e rigorosa. Avete quindi perduto con me i vantaggi, a cui la vostra condizione presente potea darvi diritto; e se la vostra causa ne soffrirà scapito e nocumento, incolpatene voi stesso, che l’avete voluto.

Incomincierò a riferire per disteso il tratto del vostro articolo. che mi riguarda particolarmente; giacché io, o Signore, seguo un metodo di polemica assai diverso dal vostro: non cito degli avversarj qualche frase o sentenza staccata, a cui si può affibbiare qual significato si voglia; ma cito alla lettera e alla distesa i loro ragionamenti, affinché ognuno possa apprezzare da sé il valore delle mie confutazioni. — Ecco le vostre parole:

Il signor Ausonio Franchi in un numero della Ragione, che mi vien sott’occhio, inveindo contro il tentativo di Genova, ch’ei chiama con aperta mala fede trama ordita contro la libertà, dichiara, che dove non è tirannide, le sommosse tono attentati contro la libertà, sono fasi di guerra civile. Norme siffatte, prefisse a criterio dei casi di Genova, son forse logica di filosofo materialista, non certo d'uomo Italiano, che intenda a porre onestamente in chiaro le condizioni della questione vitale, che s’agita in oggi nelle viscere del paese.

Cito, tra la moltitudine degli accusatori, il sig. Ausonio Franchi, non perche le sue accuse abbiano maggior peso dell’altre, ma perchè, movendo da lui scrittore di merito in alcune cose, e liberissimo in tutte, rivelano più potentemente il guasto, che s’ è fatto negli intelletti per riguardo alla questione nazionale, e come i migliori soggiaciano pur troppo, senza pure avvedersene, all’influenza esercitata negli ultimi anni dalla tattica monarchica piemontese, dal dualismo, che s'è fatalmente impiantato, di Piemonte e d’Italia.

Prima di enumerare la serie di spropositi d’ogni sorta, che avea accumulati in queste linee, mi preme troppo, o Signore, di ricacciarvi in gola un’espressione, che è qualche cosa di peggio d’una assurdità; un’espressione, che finora, grazie al cielo, nessuno potè adoperare contro di me; un’espressione, a cui do la più formale e solenne mentita. Voi capirete, ch’io alludo alla frase, in cui mi imputate a dirittura un'aperta mala fede. Or io con la medesima asseveranza vi dico, che la vostra imputazione è una calunnia ed una menzogna. Voi, che da parecchi anni ci venite cantando inni alla vostra onestà, e-tessendo panegirici alla vostra innocenza; voi, che in quest’articolo stesso vi proclamate umilmente per l’uomo, che non ha mentito mai, né celato la verità; voi, che avete rintronali li orecchi all’Italia ed all’Europa di elegie e di filippiche contro le contumelie, le calunnie, e le menzogne de’ vostri nemici: voi, o Signore, dovevate andar più cauto nel giudicare la coscienza mia; dovevate osservare con me la legge di verità e di giustizia, che invocate sempre per voi; dovevate almeno giustificare un’accusa si grave con qualche prova, con qualche apparenza di prova; giacché non siete mica un oracolo, né la vostra bocca è un organo di Dio. E pure, quasi che una vostra semplice parola fosse l’argumento più perentorio ed apodittico del mondo, voi vi contentate di gettarmi in faccia l’accusa di aperta mala fede, e tirate innanzi tranquillamente, sicuro che quando voi avete parlato, la questione è decisa. Ma no, Signore; le asserzioni da chiunque vengano non sono ragioni; e l’asserzione della mia aperta mala fede, benché sia uscita dal labro di chi non ha mentilo mai, nè celato la verità, è bugiarda e calunniosa. Né io fo come voi: non asserisco, ma provo.

In che consiste un giudizio di mala fede? Consiste nella mancanza di sincerità, nell’affermare o negare contro coscienza, nel dire diverso o contrario di quel che si crede. Dunque per poter qualificare di mala fede il giudizio, che io ho portato del tentativo di Genova, voi dovete provare, che chiamandolo una trama ordita contro la libertà… io mentiva a me stesso, mentre era invece persuaso e convinto, ch’esso mirava a sostenerla, e non a perderla. E per potermi tacciare di aperta mala fede dovete provare di più, che il contrasto fra la mia proposizione e la mia coscienza era manifesto ed evidente; si che al fatto mio non c’ era scusa possibile. Or bene, io vi sfido publicamente, o Signore, ad allegare l’ombra sola d’una prova, che quel giudizio repugnasse minimamente alla mia intima persuasione; se no, avrò il diritto di dirvi e ripetervi a mia discrezione, che voi avete mentito e calunniato.

Potrei, a rigore di logica e di giustizia, lasciar la questione in siffatti termini, da cui non v’è, e non può esservi scampo, né uscita per voi. Siccome però non è tanto la vittoria, che mi stia a cuore, quanto la verità; cosi non voglio né anco prevalermi di tutti i diritti della mia parte; e in luogo di pretendere da voi, che dimostriate positivamente la mia aperta mala fede, starommi pur pago, che la rendiate solo probabile negativamente, dimostrando cioè, che nessuna ragione poteva indurmi a credere il vostro tentativo una trama contro la libertà… Parmi di essere più che discreto, e di ahondare in generosità verso di un uomo, che à gratuitamente, si indegnamente mi oltraggiava.

Intanto che voi studiate il duro tema, vi dirò io una parte delle ragioni, che mi mossero a giudicare il vostro tentativo una trama ordita contro la libertà; e vi dirò per ora quelle soltanto, che mi vengono concesse da voi, o Signore, da voi stesso ((3)). lo dunque mi tenni in obligo di pronunciare una condanna severa di: quel vostro disegno:

1° Perchè con esso somministravate pretesti a interventi stranieri, che avrebbero naturalmente incomincialo con abolire la nostra libertà;

2° Perchè gettavate con esso il paese negli orrori d’una guerra fraterna, in cui la prima a perire sarebbe stata infallibilmente la libertà;

3° Perchè con esso interrompevate Tunica via, per cui il Piemonte esercita un’influenza benefica negli altri Stati Italiani, senza schiuderne un’altra: e questa via è la libertà;

4° Perchè infine voi credete la libertà del Piemonte più funesta all’Italia che la tirannide dell’Austria, del papa, e del Borbone; onde l’attribuirvi il disegno di scalzarla e d’abbatterla, è un atto di pura giustizia, poiché è darvi ciò che v’appartiene, uno de’ primi articoli del vostro simbolo di fede ((4)).

Eccovi le mie premesse, o Signore, cioè le vostre; dalle quali chi non abbia smarrito affatto ogni uso di ragione, vede a derivare legittima, necessaria, irrepugnabile questa conseguenza: dunque il vostro tentativo di Genova era di sua natura una trama contro la libertà piemontese; dunque non solo io poteva in buona fede giudicare così il vostro disegno, ma non poteva giudicarlo altrimenti, senza un'aperta mala fede.

Quindi le parti fra voi e me sono al tutto rovesciate; perocché o volete fame una questione di logica; e son io che ragiono a dovere, mentre voi sofisticate: o una questione di morale; e son io che rispetto la buona fede, mentre voi la calpestate.

E v’ha di più e di peggio. Finora ho ribattuta la vostra accusa, ammettendo che materialmente sia giusta; cioè, che la citazione delle mie parole sia esatta ed intera. Ma invece, voi, uomo che non ha mentito mai, né celato la verità, e clic si fa maestro di buona fede a tutto il mondo, voi avete per giunta falsificato anche materialmente il mio giudizio. Voi mi late dire in termini assoluti, che il tentativo di Genova era una trama ordita contro la libertà; e non è vero: io l’ho chiamato una trama contro la libertà, che in questa parte d'Italia concentra i ridi e le speranze di tette le provincie sorelle; cioè, non contro la libertà in genere, e mine principio o sistema, bensì contro la libertà di fatto, quale che siasi, per cui (a ragione od a torto, non monta; che si tratta unicamente della realtà materiale o storica del tatto, e non già del suo valore politico o razionale) la rimanente Italia si ripromette dal Piemonte ajuti d’ogni maniera al suo riscatto: falsificazione prima. Mi fate accusare in termini assoluti di trama contro la libertà chiunque avea parte nel tentativo di Genova; e non è 'ero: io ho distinto fra i disgraziati esecutori del disegno fratricida, che forse non ne comprendevano! enormità, e coloro che n'erano i veri autori, ossia i capi della congiura; e non a quelli, che sono i più, ma bensì a questi, che si riducono a pochissimi, ho imputato d’aver ordita la trama contro la libertà piemontese: falsificazione seconda. Ora ditemi, o Signore: avanti l'arrogarvi l’officio di censore della buona fede altrui, perchè non badate a mettere un po’ meglio in chiaro ed in sicuro la vostra?

Il punto per me più grave della controversia è dunque risoluto: passiamo agli altri. Voi riprovate la massima, che io posi a fondamento del mio parere: dove none tirannide, le sommosse sono attentati contro la libertà, sono faci (e non fasi) di guerra civile. Quali sono però i vostri argomenti per dimostrarla fallace? E il solito, cioè nessuno. Per tutta confutazione voi sentenziale, che «norme siffatte, prefisse a criterio dei casi di Genova, son forse logica di filosofo materialista, non certo d’ uomo italiano, che intenda a porre onestamente in chiaro le condizioni della questione vitale, clic s’agita in oggi nelle viscere dei paese.» Anzi tutto, che i casi di Genova potessero riguardarsi come una face di guerra fraterna, lo avete riconosciuto voi stesso. E non baste! Non basta dunque, che un’impresa possa condurre alla guerra fraterna, per doverla abominare? Ah! se né pure il criterio della guerra fraterna non è per voi norma sufficiente a discernere il bene dal male; in verità, o Signore, non avrei solo da compiangere l'aberrazione della vostra niente, ma più ancora l’induramento del vostro cuore.

Voi mi chiamate filosofo materialista: è un’altra falsità, la quale concorre efficacissimamente a confermare sempre più, che voi leggete senza intendere li altri, o parlate senza capire voi stesso; poiché io sono così alieno dal materialismo, come dallo spiritualismo, in quanto die io tengo del pari cotesti sistemi, e tutti li altri analoghi, in conto d’altretantc forme di dogmatismo; e li combatto lutti egualmente, come dottrine ch’eccedono i limiti e le condizioni naturali della scienza, ed evangelizzano l’assurdo solfo il nome di Assoluto. Del resto, qualunque sia la classe di filosofi, in cui vi piaccia di collocarmi, per me è tutt'uno; giacche nelle materie filosofiche siete così incompetente, che e il menarne vanto e il muoverne lamento sarebbe ridicolo del pari. Vi dirò solo, che, materialista o no, una logica, la quale prefige il criterio della guerra fraterna a norma delle sommosse, non è mia, o Signore, ma è del senso commune e del senso morale; e se voi osate dubitarne, o non avete ancor acquistalo, o avete già perduto e l’uno e l’altro. La Convenzione, in uno de’ suoi giorni d’eroico entusiasmo, gridò: Périssent les colonies plutôt qu’un principe! E a me basterà sempre la logica del mio cuore per gridare: periscano tutte le unità e le indipendenze, tutte le costituzioni monarchiche e republicane, piuttosto che ottenerle al prezzo orribile ed infame d’una guerra fraterna!

Soggiungete poi, che la mia logica non è certo d’uomo italiano, che intenda a porre onestamente in chiaro le condizioni della gestione vitale, che s’agita in oggi nelle viscere del paese. La mia logica, o Signore, venne già due volte alle prese con la vostra. La prima volta nel mio libro della Religione del secolo XIX, ove pigliai a discutere una pagina del vostro scritto Agli Italiani (1853), in cui erano riassunti i principj della vostra politica, e paragonata la famosa vostra formula con quella della rivoluzione francese. E che cosa mi avete risposto? Voi, onestamente bulla; e i vostri discepoli cominciarono onestamente a susurrare la notizia della mia apostasia. La seconda volta nella Ragione (1856), allorché risposi a varie lettere da voi publicate nell’Italia e Popolo, con espresse e calde instanze a tutti l’Italiani di buona volontà, perché volessero ponderare le vostre idee, e contraporvi le loro. E che cosa mi avete replicato? Voi, sempre onestamente nulla; e vostri satelliti tornarono onestamente alle arti loro per diffamarmi, ino a spacciare ch’io m’ero venduto al Ministero. Tal è, o Signore, l metodo, onde voi intendete a porre onestamente in chiaro le condizioni della questione vitale del nostro paese: metodo, clic avete seguito appuntino, per tacere di tanti altri, con Mauro Macchi, il quale vi avea fatto l’onore di dedicar all’esame delle vostre dottrine, non solo qualche capitolo di un’opera o qualche articolo d’un giornale, com’io, ma due libri intieri ((5)).

Cotesta è dunque l'onestà della logica e della discussione, che piace a voi? 0 piegare il capo ai vostri cenni, con l’obedienza cieca de’ frati; o tirarsi addosso da voi e dai vostri ogni specie di vituperi, non saprei se più iniqui od assurdi. Laonde non c’è verso con voi di poter essere onesto, se non a patto di pensare e parlare e operare sempre a piacer vostro, con la docilità della pecora e l’indifferenza del giumento. Chi vaneggia con voi, è onesto; chi ragiona contro di voi, è un rinegato. È la logica del gesuitismo, né più né meno; e pare propriamente la sola, di cui v’intendiate. Ma non è dessa la mia. Anche impugnando con tutta l’energia del più fervido convincimento i vostri errori, io ho professato sempre altamente il massimo rispetto alla nobiltà del vostro animo e alla rettitudine della vostra coscienza. Voi all’incontro, la bella prima volta che vi risolvete a proferire il mio nome, tirate a disonorarlo, rappresentandomi per un uomo di aperta mala fede e di intendimenti disonesti. Oh! se ricorrete ad argumenti di tal fatta, convien dire che vi sentiate veramente ridutto all’estremo d’ogni ragione!

Ma gli era appunto per veder di porre onestamente in chiaro le condizioni del risurgimento d’Italia, clic io aveva ultimamente impresa la critica delle vostre proposte. Non so, s’io m’ abbia punto contribuito a definire la questione in se stessa; quel che so certamente d’aver posto in chiaro cd in chiarissimo, si è, che voi nell’ordine teoretico non avete alcun’idea esatta od adequata della rivoluzione; e nell’ordine pratico non avete alcuna notizia vera e reale delle condizioni d’Italia. Quindi con tutta l'onestà della vostra logica voi siete condannato ad essere fatalmente il più gran nemico della vostra causa: (pianto più vi siete adoperato per la rivoluzione, tanto più l’avete attraversata; e quanti più sforzi farete per l’Italia, tante più saranno le sventure, che le aggraverete sul capo.

Che voi reputiate di poco o niun peso le mie objezioni, non mi stupisce, né m’importa gran fatto: non siete voi il giudice, a cui ne appello, ma il Publico, a cui solo spetta di pronunciare una sentenza fra le vostre declamazioni e i miei raziocinj. Badale per altro, che il metodo stesso della vostra polemica involge la vostra condanna; perocché vi son casi, in cui il non risponder nulla, come faceste per lo passato, o il rispondere peggio di nulla, come fate adesso, è sogno infallibile del proprio torio. E il caso nostro non è uno di quelli?

In altri tempi, quando voi, non accecato ancora dallo spirito di parte e dall’ambizione di caposetta, eravate anche voi educatore più che soldato, uomo più di lettere che di fazioni, io sarei andato superbo d’essere da voi reputato scrittore di riverito in alcune cose; ed avrei preferita questa semplice approvazione vostra a tutti li elogj possibili di qualunque altro autore. Ma dacché avete abiurata la professione, a cui dovete il meglio della vostra fama, per abbandonarvi, a quella, che vi fruttò tante delusioni, vi meritò tanti anatemi, e vi alienò il fiore dei vostri antichi seguaci ed amici; dacché vi siete dato a bestemiare lettere e letterali, a maledire studi e studiosi, a scommunicare libri ed idee, a bandire la religione della forza e il culto dell’ignoranza; dacché nei vostri ultimi scritti, e particolarmente in quest’articolo che mi concerne, mostrate di predicare già con l’esempio, e di voler disimparare fino il vocabolario e la grammatica: ah! Signore, la vostra lode mi suona troppo sospetta; e ho gran timore, che voi mi diate qualche merito per ciò che v’ha ne’ miei libri di più difettoso.

Il titolo però, che accetto volentieri anche da voi, come un debito di giustiziarsi é quello di scrittore liberissimo in tutto; e l’accetto come una smentita, che date voi medesimo a que’ vostri imbecilli settarj, che regalano un’anima vendereccia come la loro a chiunque non sia uso come loro di prostituirla. Ed io ve ne son grato, o Signore: questa testimonianza, che voi rendete alla libertà del mio pensiero e alla dignità della mia coscienza, mi ristora in parte dell’ingiuria, di cui non vi siete vergognato di farvi un’arma contro di me. Sì, io sono liberissimo in tulio; e come liberissimo, ho confutata la vostra formula, perchè in essa non ha luogo se non una libertà alla gesuitica o alla musulmana. Come liberissimo, ho combattuta la vostra bandiera neutra, perchè sacrifica anticipatamente la libertà ad una transazione di partiti; come liberissimo, ho censurata la vostra teorica del silenzio su la propria fede, perchè equivale ad un rinegare tacitamente la religione della libertà; come liberissimo, ho rifiutata la vostra distinzione da casista fra il campo del pensiero e il campo dell’azione, perchè implica l’abbandono e il disonore della democrazia; come liberissimo, ho biasimato il vostro stolto consiglio di lasciare in disparte il socialismo, perchè la rivoluzione della libertà non può sperarsi che da un rinovamento sociale; come liberissimo, ho disapprovato il favoloso concetto, che vi siete formato dei partiti e del popolo in Italia, perchè la prima legge della libertà vuol essere la verità; come liberissimo, ho disfatto il vostro castello in aria d’una Italia sempre pendente da un vostro cenno per surgere in armi, poiché le sorti della libertà fortunatamente non istanno in vostra mano, e la fede dell’Italia nella sua libertà poggia sopra di un fondamento un po’più sodo delle vostre congiure; come liberissimo, ho mostrato quanto sia assurda e puerile la vostra ostinazione a segregare la rivoluzione italiana dall’europea, perchè la libertà d’Italia non può aver sicura guarentigia fuorché nella solidarietà con le altre nazioni civili; come liberissimo infine, ho potuto facilmente riconoscere, che la vostra cieca e fanatica passione per sollevare l’Italia contribuisce più oggimai alla sua servitù che tutto l’odio barbarico e infernale de’ suoi oppressori, perchè voi, con la vostra monomania dell’azione, con i vostri tentativi comici o atroci, con la vostra ingiustizia verso li altri partiti, co’l vostro monopolio del patriotismo e della virtù, con la vostra libidine d’atteggiarvi ad oracolo, ad autocrate, a dittatore, a pontefice massimo della republica, avete nociuto alla causa della democrazia italiana assai più che l’Austria ed il papa; avete costretto il fiore dei liberali a disertare la vostra bandiera; vi avete inimicati quasi tutti li uomini più noli e più cari alla patria; li avete spinti o a ritirarsi dall’aringo politico, o a gettarsi nelle file dei costituzionali, ed a ricoverarsi all’ombra del vessillo di Savoja; avete reso odioso alla generalità degl’italiani il nome stesso di mazziniano, e fattolo sinonimo di gente senza cuore e senza cervello; e quel partito democratico, ch’era uscito dalla catastrofe del 49 il più polente e glorioso, voi l’avete scompigliato e disperso, talché oggi non ha più un centro commune, non programma, non bandiera, non direzione, non ordinamento: non è più un partito; e i pochi, durati sempre costanti nella loro professione di fede, possono ben sostenerla con isforzi e sacrificj individuali, ma non più o non ancora con forze ed industrie collettive. L’ora della democrazia, pochi anni fa, parea giunta finalmente per la nostra miseranda patria: oggi, vostra mercè, è più remota che mai. Io dunque non sono del vostro partito, perchè voglio essere liberissimo in tutto; perchè amo la libertà, e voi la disconoscete; perchè difendo la democrazia, e voi la Sgominate; perchè professo il socialismo, e voi lo maledite; perchè anelo alla rivoluzione, e voi le siete d’impedimento.

E poi ci venite a lamentare il guasto, che si è fatto negl’intelletti per riguardo alla questione nazionale, e come i migliori soggiacciano pur troppo, senza pure avvedersene, all’influenza esercitata negli ultimi anni dalla tattica monarchica piemontese, voi, che avete scambiata la questione nazionale con una setta, e l’avete ridutta alle torbide e tenebrose proporzioni d’una congiurai Ma prima di fare il medico all’intelletto altrui, dovreste provedere alla sanità del vostro; poiché quando un uomo grida al guasto degl’intelletti anche migliori, è sommamente probabile, che il guasto maggiore sia avvenuto nel suo. D’altra parte, se la tattica piemontese è riuscita a guadagnarsi l’assenso dei migliori e dei più, sapete a chi lo deve? A voi sopratutto, che siete riuscito così bene a disgustare di voi e della vostra società i più ed i migliori. 11 governo piemontese ha fatto ottimamente l'officio suo; siete voi, che avete mancato in tutto e per tutto al debito vostro. Oh! v’attendevate forse, che il conte di Cavour inalberasse a Torino la bandiera di Dio e il popolo, e convertisse li Stati Sardi in un comitato della Giovine Italia? Egli, ministro di uno Stato monarchico costituzionale, ha cercato di promuovere l’interessi del suo governo, e di ruinare quelli del vostro partito. Di che vi dolete? Tra voi era guerra; e s’ egli fu vincitore, perchè non sapete voi almeno serbare la dignità del vinto?

Mi rimane ancor da rispondere a due domande, che sembrano rivolte a me, benché non vi sia espresso il mio nome. Il tratto è un po’ lungo: voglio nondimeno riferirlo intiero, a edificazione dei lettori. Dopo una lunga diatriba contro quello, che voi denominate dualismo di Piemonte e d’Italia, a cui pone suggello questa preziosa notizia, che voi siete i soli, che amino sempre e davvero Italia, proseguite cosi:

Pochi anni prima del 1830, surse in Francia una scuola d’uomini, i quali in nome delle libertà violate, dell'onore offeso, e del diritto dei più, si diedero a sommuovere le moltitudini. Parlavano al popolo d’un’era novella, che schiuderebbe a tutti le vie del miglioramento materiale, intellettuale, morale; enumeravano con accento di sdegno le ineguaglianze tra i figli d’una stessa terra, le ingiustizie tradizionalmente commesse a danno della classe più numerosa e più povera; si affratellavano con i popolani nelle associazioni segrete; congiuravano, combattevano con essi. I popolani rovesciarono un giorno la monarchia de' vecchi Borboni. Li uomini di quella scuola, saliti al potere, ordinarono leggi a tutelare l’esercizio dei proprj diritti, a perpetuare nella propria classe ogni influenza governativa, a far monopolio per se di ricchezza e d'onore. E noi? le promesse? l'era novella d'eguaglianza e d'amore? gridava il popolo dimenticato. Noi abbiamo conquistato il nostro benessere, risposero i moderati di Francia; conquistate il vostro, se pur potete.

Con qual nome chiama egli lo scrittore socialista quei disertori della causa del popolo? Quel nome può darsi dal popolo italiano al Piemonte.

Ponete una terra, la Francia a cagion d’esempio, ricaduta, dopo un generoso tentativo di rivoluzione, sotto un giogo tirannico e invasa dallo straniero. Ponete che nel bacino del Rodano o altrove un esercito di quaranta mille Francesi, proceduto d’ogni materiale di guerra, padrone d'una zona di settemille miriametri quadrati, appoggiato sopra una popolazione di quattro millioni d’uomini e più, abbia serbato libertà d’azione,, e li occhi di tutta la nazione s’affisino in esso,eé li oppressi di tutta la nazione stiano preparali a secondarne le mosse. Intorno al recinto, che racchiude quell’escrcito e quella popolazione, l’invasore tortura, e trucida; il nome e la bandiera di Francia son trascinati nel fango. I liberi del bacino del Rodano guardano altrove; s’ordinano a convivenza gioconda: patria, dicono, ci è il suolo, che noi calchiamo: noi siamo liberi, e basta.

Con qual nome chiamate quei disertori della nazione? Quel nome può darsi dalla nazione italiana al Piemonte.

Eccovi pronta la mia risposta: io chiamo disertori della causa del popolo i disertori della causa del popolo, e chiamo disertori della nazione i disertori della nazione. La mia risposta non vi soddisfa molto? Peggio per voi: imparate prima a far le domande in termini più sensati.

Frattanto, poiché vi piace questo procedere a domanda e risposta, ne farò io un’ altra. Con qual nome si devono chiamare t vostri due paragoni? Nel vocabolario italiano io non conosco una parola, che basti da sé a qualificarli, come si meritano; e però m’è forza Rappigliarmi a qualche circonlocuzione. Essi adunque sono lutto quel che possa darsi di più stupendamente sofistico, di più grottescamente balordo; sono il sublime, l’ideale dell’assurdità; sono un documento irrefragabile, imperituro, che la mente di chi li concepì ha tanta attitudine al raziocinio, quanta l’orecchio dina sordomuto alla musica. Paragonare le relazioni politiche d’un partito, d’un esercito, d’un dipartimento di Francia verso il resto della nazione francese, con quelle del governo e dell’esercito di Piemonte verso li altri Stati Italiani; in fede mia, gli è un insultare al buon senso del Publico. Eh! Signore, fate prima di tutta l’Italia una nazione sola, un solo Stato, come la Francia; e poi udiremo pazientemente i vostri paragoni.

Ho ristretta la mia critica solo a quei punti del vostro articolo, che erano indirizzati contro di me: quanto agli altri, non devo, nè voglio scendere ad una discussione particolare e minuta, di cui non potrei così presto venir a capo. Ma basta un argumento generale a mandar in fumo tutta la vostra catilinaria. Perocché il gran chiasso, che levate per alcune false notizie, raccolte o inventale da parecchi giornali à vostro danno e vitupero, dà troppo chiaro a divedere, che voi siete nel caso di un avvocato, il quale dovendo patrocinare una causa disperata, s’afferra agli accessorj per dissimulare il principale, tuona su li accidenti per distrarre dalla sustanza. Avete contato fino a sette menzogne nei fatti parziali o nelle circostanze, di cui foste accusato; ma quand’anche ne poteste enumerare fino a settanta e a settecento, che mai vi gioverebbe? Il fatto nella sua sustanza rimarrebbe sempre tal quale. Ora voi avete confessato, ch’esso poteva giudicarsi meritevole di condanna severa; e ne avete allegati i motivi. A che dunque strillate si forte contro alcune voci più o meno menzognere e calunniose, mentre la coscienza vi dice, che eziandio smentite quelle voci, il fondo della questione non muta punto, giacché ognuno avea il diritto, e quindi il dovere di condannarvi severamente? Orsù, quali erano, senza menzogne e senza calunnie, i pensamenti, che avevate machinati? Erano di mobilizzare i materiali da guerra e i mezzi d’azione di Genova a prò dell’impresa e della patria commune: lo dite voi stesso. E quali erano le vie, che tentavate per compiere l’impresa? Erano le vie della violenza: lo dichiarate voi stesso. Ma eravate almeno sicuro, di quella sicurezza che si può e si deve avere in tali casi, della riuscita? No; voi ammettete, che anche ad uomini dall’anima più italiana l’impresa vostra potea parere inopportuna, immatura, pregna di pericoli, ineseguibile. Ebbene, o Signore, stando pur a queste sole confessioni, la trama che ordiste deve inorridire chiunque non sia destituito d’ogni sentimento d’umanità; che il gettare un paese nelle calamità d’ interventi stranieri e di guerre fraterne per un disegno, che al paese medesimo può parere inopportuno, immaturo, ineseguibile, e una violenza, che non si può assolvere da delitto, se non imputandola ad un delirio di passione, che tocchi alla follia.

Cessate dunque di far tanti rammarichi della stampa nemica; poiché detratte pure tutte le accuse false, che l'odio di parte le poteva suggerire, ne rimangono ancor tante vere e giuste ed enormi, che voi per pudore dovreste lacere. All’incontro, voi usate co’ vostri nemici ed avversarj un linguaggio, che vale precisamente quello da loro tenuto con voi. Eccone un saggio: voi chiamate il loro procedere un turpe spettacolo di contumelie, di menzogne, di oscena gioja, un'orgia d’iloti briachi, di accuse feroci, di gesuitismo politico; li chiamate stolti, calunniatori sfrontati, anime da livrea, gentaglia, fango d’Italia, immorali, partito bugiardo, partito di facendieri codardi, apostati dei loro fratelli, addormentatori o peggio, raggiratori, tormentati di vanità, tiepidi, professori di una codarda, immorale, anti-italiana teoria, traditori della loro missione, disertori della causa del popolo, disertori della nazione, raggiratori delle alte sfere, raggiratori delle basse sfere, ecc. ecc.

Conchiudo, o Signore: «Quando i partiti, scendono sistematicamente alla immoralità; quando perduta ogni dignità di fede, ogni abitudine di guerra leale, non assalgono più che con la menzogna, non combattono che con l’insulto, non ammettono possibilità di convinzioni diverse in altrui, o d’onestà, traviata se vuolsi, in chi guerreggia in altro campo che non il loro; stanno spegnendosi: son partiti decaduti a fazione.» La sentenza è vostra, ed è giustissima. Se mai un giorno risanerete del guasto, che s’è fatto nel vostro intelletto, capirete finalmente, o Signore, come questa sentenza traduca a capello il giudizio, che l'universalità degl’italiani ha già portalo di voi e del vostro partito.

Sabbaio 15 agosto 1857 NUOVA SERIE An. III. T. VII. N. 148

LA RAGIONE


FOGLIO EBDOMADARIO DI FILOSOFIA RELIGIOSA POLITICA E SOCIALE

SOMMARIO

Giuseppe Mazzini II. — All’Italia del Popolo— Pensieri di un esule. — G. Rovere e Bersezio. — Joseph de Maistre. — Rassegna politica.

A GIUSEPPE MAZZINI

II

Mentre io scriveva nella Ragionela risposta al vostro articolo La Situazione,voi, o Signore, ne mandavate all'Italia del Popolo (Supplimentoal N° 462) un altro, in cui seguitando a svolgere lo stesso tema, avete aggiunto qualche cosa, che contradice a due degli argumenti da me allegati per confutarvi. Se io volessi badare unicamente al valore di queste nuove confessioni o ragioni, onde vi lusingate per avventura d’esservi purgalo d’avanzo da certe accuse, che io pure dopo tanti altri vi ho mosse, non ne avrei fatto né pur caso; giacché in verità non valgono meglio dell'altre a giustificare i vostri disegni. Ma incolpato da voi di aperta mala fide,mi sta troppo a cuore di non lasciare nessun appiglio, nessun pretesto alla vostra calunnia; e quindi non voglio dissimular nulla di ciò, che voi recate in mezzo a vostra difesa, ed in risposta alle mie objezioni; poiché la prima legge d’una polemica di buona fede si è di riferire con religiosa integrità ed esattezza li argumenti degli avversarj, e di ascoltar sempre le loro difese, benché tardive ed inette.

Il primo punto, in cui il secondo Supplimentoesprime un’opinione diversa da quella che io vi attribuiva rispondendo al primo, concerne, la stima, che voi fate della libertà del Piemonte. Perocché fra le ragioni, che m’inducevano a qualificare il vostro tentativo di Genovaper una trama ordita contro la libertàpiemontese, io arrecava pur questa, che «voi credete la libertà del Piemonte più funesta all’Italia che la tirannide dell’Austria, del

papa, e del Borbone.» All’incontro, voi ora non solo dichiarate di tenere questa libertà in conto di benefizio, ma ve ne mostrate più tenero e geloso d’un costituzionale, fino a promettere che sareste pronto a difenderla contro chi che sia ad ogni costo: «Noi vogliamo italianizzarepiù sempre il Piemonte. Per noi, lo Statuto non è se non una conquista di quattro millioni e mezzo d’italiani: conquista, che li rende capaci di giovare efficacemente alla causa nazionale. — Non v’è in oggi per ogni uomo, che si chiami italiano, se non una causa, la causa italiana. Non v’è che una via per promuoverla, via di dovere per ogni uomo che si vanti italiano, l’azione italiana. Il

punto d’appoggio alla leva, «che deve promuovere quest’azione, è naturalmente collocato dov’è libertà, dove li Italiani possono meglio intendersi, e apprestare senza pericolo li apparecchi della lutta. Al Piemonte è toccato in sorte d’essere questo punto. Per questo ci è sacro; per questo, se l’Austria o altri osasse assalire, surgeremmo noi lutti, monarchici e republicani, a difenderlo.»

L’opposizione fra il concetto che io v’ho attribuito, e quello che voi qui esprimete, è manifesta. Rimane però a vedere, se la vostra parola sia di tale e tanta autorità, che basti a disdire ogni testimonianza contraria. Io m’era fondato su quella di Pisacane, che nel suo testamento scriveva di professare per un articolo di fede, che «il reggimento costituzionale nel Piemonte è più dannoso all’Italia che la tirannide di Ferdinando II; e che se il Piemonte fosse stato retto nella guisa medesima degli altri Stati Italiani, la rivoluzione sarebbe fatta.» Ed io poteva, in coscienza, nella parola di Pisacane riconoscere la professione di fede del vostro partilo; giacché l’Italia del Popolo,che ne è l’interprete officiale, publicando quel testamento affermava solennemente ed assolutamente, che esso è il CODICE DELL’AVVENIRE, e dev’essere il LIBRO DEL VERO ITALIANO (N 161).

Or bene, quand’anche non avessi in mano altro documento che questo, non esiterei punto, o Signore, fra te due testimonianze contrarie, di credere a quella di Pisacane, e non alla vostra.

Non potrei credere a voi. — Voi dinanzi a me non avete più diritto ad esser creduto; perché avendo mancato una volta alla legge della verità e della giustizia, la vostra parola mi dee riuscire sempre sospetta. Voi fate l’innamorato del Piemonte e della sua libertà, dopo il mal esito della vostra congiura; quando, cioè, avete udito a levarsi in Europa un grido universale di maledizione contro di voi: ed è troppo tardi. Voi siete nella condizione di un accusato, che cerca di scolparsi; o peggio ancora, in quella d’un avvocato, che patrocina la propria causa; e quindi l’interesse della vostra difesa vi fa ricorrere a tutti li artifizj retorici, che possano attenuare il vostro torto. Voi mostrate d’essere sovente in un tale stato d’allucinazione, che non è possibile di prendere in «ti ì serio tutte le vostre parole; giacché, per citarne ancor un esempio, quando un uomo come voi osa dire, che il popolo noi lo vedemmo surgere, dovunque fu chiamato; surgere e vincere (Supplimentoal N° 156); è troppo evidente, ch’ei non ragiona, ma delira. In voi dunque, o Signore, mancano le condizioni morali e intellettuali d’un testimonio degno di fede, e superiore ad ogni eccezione.

E dovrei credere a Pisacane. — In lui, al contrario, quelle condizioni si verificano tutte. Egli non ha dato mai, né a me, né ad altri, motivo alcuno di revocare in dubio la sincerità della sua parola. Egli attestava la sua avversione alla libertà del Piemonte, prima di gettarsi nell’impresa, che gli costò la vita; quando, cioè, non avea ragione alcuna di fingere un sentimento, che non prosasse nell’animo suo. Egli dettava le sue ultime volontà, e lasciava al paese il segreto de' suoi ultimi pensieri ed affetti, in uno di queimomenti supremi, in cui la parola diventa sacra, e la coscienza assume tutto il carattere di testimonio infallibilmente verace. Dunque la sua dichiarazione meritava ogni fede, e la vostra non ne merita nessuna; dunque io dovea credere, che nel vostro partito si odia più lo Statuto del Piemonte, che la tirannide di Ferdinando II e dell’Austria e del papa.

E indarno mi opporreste, che Pisacane enunciava una sua opinione privata, e non già una credenza commune del partito. Perciocché la parte, ch’egli ebbe nella congiura, mostra all’evidenza | com’egli primeggiasse tra voi. Ora, in una questione sì capitale, Chi potrebbe mai credere, che l’opinione d’uno dei capi fosse al tutto individuale, e non avesse alcun seguito fra i suoi compagni? chi potrebbe né anche imaginare, che Pisacane arrischiasse la sua vita in un’impresa, nella quale avesse contrarj, sopra uno de' principali articoli del programma, tutti i suoi commilitoni? Néintendo già d’indurne, che tutti invece fossero del suo avviso, e voi per il primo: ho parlalo e parlo, non dei singoli individui, ma in generale del vostro partito; e se la sua dichiarazione non è sufficiente a provare, che tutti pensassero come lui, lo è assai meno la vostra a conchiudere, che volessero tutti l’opposto.

Ma per vostra disgrazia, o Signore, oltre il testamento di Pisacane, esiste tutta una serie d’altri documenti, che confermano il mio giudizio, e smentiscono il vostro: documenti così notorj, massime tra i vostri, che tanta audacia a rinegarli diviene un portento d’ingenuità, per non dire di aperta mala fede. Questa serie di documenti è negli articoli del vostro Monitore officiale, Italia e Popolo,tempo fa, e oggi l'Italia del Popolo. Testimonio per voi più autorevole, più legittimo, più immune da ogni ombra di sospetto non potrei certo invocare; dacché, in fine dei conti, è proprio l’eco della vostra stessa voce. Ora sentite un po’ che cosa cantava del Piemonte e della sua libertà l'organodel vostro partito (L’Italia del Popolo,N° 2. — 22 febrajo, 1857):

Nel numero del 5 febrajo dell'Italia e Popolo avevamo detto, che se dopo il 1849 tutta la Penisola fosse stata ricondutta sotto il despotismo, che opprime Venezia, Roma, e Napoli, la commuue sventura avrebbe associato tutti li Italiani in una communanza d'aspirazioni e di sforzi, dalla quale a quest’ora sarebbe surta la rivoluzione. La diplomazia, aggiungevamo, ha preveduto quale spaventosa situazione avrebbe creato per l'Europa un popolo valoroso, bollente ancora della recente battaglia, e tuttavia violentemente compresso. Una caldaja scaldata a tutto vapore, e con tutte le valvole chiuse, avrebbe presentato minori probabilità d’esplosione, che non l'Italia. La diplomazia, riconoscendo quindi la necessità di dare uno sfogo alla machina, ha lasciato in Italia a guisa di valvule di sicurezza la bandiera, lo Statuto, e la stampa del Piemonte.

Tutti schiavi, cospirerebbero tutti all'emancipazione, non fidando che in sé medesimi Essendo invece la famiglia italiana divisa in venti millioni di schiavi, e in cinque millioni di uomini relativamente liberi', avviene che questi ultimi non solo obediscono all'empia norma del chi sta bene non si muove, ma, temendo di perdere quanto hanno, non desiderano che altri si muova; avviene. che le altre infelici provincie d'Italia, sperando nelle vaghe promesse del Piemonte, desistono dall’oprare da sé medesime, o fiaccamente lo fanno. Il Piemonte essendo in possesso d’una porzione di libertà, può in lui più la paura di perderla, che non il dovere di farne partecipi i suoi fratelli. Ecco il principio consenatore, naturalmente avverso alla rivoluzione, per mezzo della quale soltanto avrà indipendenza l’Italia. Ecco per conseguenza nel Piemonte costituzionale un gravissimo ostacolo all’emancipazione di tutta la Penisola.

E basti per ora: se di tali testimonianze ve n’occorrano altre, dite pure liberamente; che ne tengo qui a' vostri ordini quante ne possiate desiderare. Intanto però tiriamo la conseguenza: dunque la confessione di Pisacane era rigorosamente conforme alla credenza più ortodossa del vostro partito; il quale ha stabilito davvero fra i primi articoli del suo simbolo di fede, che alla redenzione d’Italia nuoce più la libertà del Piemonte, che l’oppressione degli altri Stati Italiani. Dunque è falso, che a voi, al vostro partito il Piemonte sia sacroper la sua libertà; è falso, che voi reputiate il suo Statuto capace di giovare efficacemente alla causa nazionale; èfalso, che siate luttipronti a surgereper difenderlo da chiunque osasse assalirlo.

A questa smentita, che si ricava immediatamente da un semplice confronto della vostra testimonianza con quella di Pisacane e del vostro giornale, mette il suggello un’altra ancor più positiva ed eloquente, che si deduce dal ragguaglio delle vostre parole con i vostri fatti; e per un uomo d’azione,come voi, nei fatti assai più che nelle parole dee rintracciarsi la verità de' vostri intimi pensieri. Voi ci annunziate, che il Piemonte per la sua libertà vi è sacro. Su dunque, vediamo, che cosa avete fatto per mantenerla? 0 piuttosto, che cosa non avete fatto per espiantarla? Che cosa avreste potuto fare di più e di peggio, se Faveste avuta in odio e in abominio? In questi ultimi anni le avete creati più imbarrazzi e pericoli voi solo, che tutti insieme i suoi nemici interni ed esterni; talché se questo povero Statuto ne andò finora salvo ed illeso, gli è ben vostro malgrado, poiché faceste quant’era in voi per trascinare il governo nello stesso precipizio di reazione degli altri Stati Italiani, e gettarlo nelle braccia dell’Austria e del papa. Il tentativo del 6 febrajo, i tre o quattro tentatividi Sarzana, il tentativoper eccitare a sedizione l’esercito, il tentativoultimo di Genova, e il tentativocontinuo del vostro partito per mettere in uggia al popolo questo poco di libertà, che si gode in Piemonte, esaggerando la gravezza delle imposte, tacendo i benefizj d’un maggiore incremento del commercio e dell’industria, cogliendo occasione da tutto per rinfocolare odj municipali, per rendere il governo odioso all’Italia e sospetto alla diplomazia; per denunciarlo ogni di a' servizj ora della Francia, ora dell’Austria, in danno d’Italia; per rappresentarlo ai popoli come un traditore nato della libertà, e ai governi come un focolare inestinguibile di sommosse presso i vicini, ecc. ecc.: ecco, o Signore, li atti, con cui avete dimostrato quanto vi sia sacrala libertà del Piemonte! Buon per lui e per noi, che sembrate da un implacabile destino condannato a tentare sempre, e non riuscir mai; giacché altrimenti, ove un solo dei vostri mille tentativisi fosse effettuato, la libertà del Piemonte o per guerra civile o per invasione straniera avrebbe dovuto soccumbere da un pezzo. E voi, con una serie di tali tentativisu la coscienza, voi, o Signore, osale vantarci il vostro amore per il Piemonte? osate gridare publicamente, che vi è sacrala sua libertà? Pisacane che prova almeno di franchezza, dichiarandosi nemico d’uno Stato, a cui forse non movea che una guerra indiretta: voi all’incontro, che vi spacciate per l’onestà e la buona fede in persona, voi esclamate che vi è sacro il Piemonte e la sua libertà, mentre appunto v’eravate accinto a mandare in soqquadro e l’uno e l’altra. Or io vi dicono Signore, che qualunque uomo onesto e di buona fede, chiamerà la dichiarazione di Pisacane un atto di lealtà, e la vostra un atto d’ipocrisia.

E non crediate già, che io biasimi la guerra da Tvoi fatta al Piemonte, perché mi sia uno di coloro, i quali riconoscono ne suo Statuto e nella sua monarchia una guarentigia sicura, un pegno infallibile della indipendenza ed unità d’Italia. La Ragioneha formalmente e replicatamente combattuta questa fiducia, come una illusione funestissima; e fin dal N° 7 faceva suoi li argumenti di Giuseppe Ferra ri; poco appresso, nel 5° 9, quelli della Gazzetta popolaredi Cagliari; indi, nei N‘ 49, 94, e 120, quelli di Mauro Macchi; e nel N° 98, quelli di Giuseppe Montanelli, per convalidare il sistema da noi propugnato, e sostenere co ’l rinforzo dell’autorità di sì valenti scrittori, che principi e fazioni, diplomazie e congiure sono mezzi del pari inetti a redimere l’Italia; che la teorica dell'indipendenza e del nazionalismo è fallace; che la libertà e l’unità d’Italia è un problema indissolubilmente connesso con la rivoluzione francese ed europea. Anzi negli articoli su le Bandiere e Programmi(N«108, 109, e 111), in cui ho esaminate particolarmente le vostre idee, mi toccò di rinfacciare a voi medesimo un indegno compromesso con i monarchici, uno stolto abbandono della democrazia, un palliato tradimento della rivoluzione. Ma biasimo la vostra guerra al Piemonte, perché è sleale ed assurda; perché vi governate con l’iniqua massima: o tutto, o nulla; perché in luogo di adoperare pacificamente questa libertà all’apostolato delle vostre credenze, volete confiscarla violentemente a profitto della vostra setta; perché in luogo di rispettare l’opinion publica del paese, e cercare di guadagnartela con la forza della verità e della ragione, l’insultate, la calunniate, e attendete solo a machinare tentativicontro di essa: perché in luogo di mostrarvi banditore inflessibile dei principj, che costituiscono il vostro ideale, ma estimatore prudente delle difficultà, che ne attraversano l’attuazione, e ricercatore studioso delle vie migliori per superarle, vi accommodate di leggieri a manomettere i principj, anelate solo ad impossessarvi del governo, e non rifugite da nessun mezzo, per ingiusto che sia, e violento, ed atroce, purché conduca al vostro scopo, a farvi re d’una qualche republica. Noi adunque, benché vagheggiamo un ideale di rivoluzione molto piùprogressivo del vostro, possiam dire a buon diritto, che la libertà del Piemonte ci è sacra; poiché la riguardiamo come una stazione men lontana dalla nostra meta che non l’oppressione delle altre provincie italiane; e siamo consentanei a noi medesimi, se detestiamo chiunque pazzamente o perfidamente vorrebbe metterla a repentaglio, e renderla complice di prepotenze, d’usurpazioni, di tirannidi, in nome del papa, o innome del popolo, che per noi è tutt’uno. Ma voi, che la stimate un ostacolo gravissimo all'emancipazioned’Italia, voi non potete amarla, non potete difenderla; voi siete l’alleato di lutti i suoi nemici, siete il nemico di tutti i suoi difensori; e quando attestate che vi è sacra,o mentite alla vostra coscienza, o rinegate la vostra fede.

Veniamo al secondo punto, su cui avete disdetto nel nuovo Supplimentociò, che io v’imputava a proposito dell’altro. Fra i varj modi, con cui avete ruinata la causa della democrazia italiana, io annoverava pure la vostra libidine d’atteggiarvi ad oracolo, ad autocrate, a dittatore, a pontefice massimo della republiea. Or voi, rispondendo ad un giornale, che si era già doluto della nuova specie di tirannide,onde voi pretendete di mettere il vostro Io in luogo d’Italia,prendete a scusarvi nei termini seguenti:

Non è concesso a voi gettare un’accusa di servilità a un partito, che sacrifica i proprj averi, combatte e muore col nome d’Italia sul labro, senza convalidarla le prove. Or dove sono? Nel nome? quel nome non fu assunto mai dal partito fu dato, con impudenza solenne, e credendo allontanarmi uomini che marnano, irritandone l’amor proprio, da taluno fra i vostri, e fu raccolto poi com'arme di guerra dalle spie, dagli agenti austriaci, e dai gazzettieri di corte e di misere fazioni, che sognano aristocrazia dall'esilio. Nella formula, che voi dite sostituiti al principio nazionale? Se accennaste mai alla formula Dio e il Popolo, ricordatevi, che sotto l’impero di quella formula, proclamata spontaneamente da Roma e Venezia, cioè dai soli due punti, nei quali la Sovranità Nazionale era in atto, s salvava, non foss’altro, contro Francia ed Austria l’onore d’Italia, mentre dagli uomini d'altre formule si tradiva fugendo: se a quella più strettamente politica, con la quale tentavamo più recentemente accordo con tutte frazioni: la Nazione salvi la Nazione; la Nazione sia arbitra de' proprj fati, potete ideare formula più identica di questa al principio nazionale? 0 guardando agii uomini del partito d’azione, agli uomini, che mentr’altri si svegliava (sic) la parte di spettatori e di critici, si stringevano a lavoro con me, dagli uomini vostri del 1833, sino agli arditi popolani del 6 febrajo, da Petroni a Calvi, dai fratelli Bandiera a Carlo Pisacane, osereste mai dalla loro condutta desumere taccia d’animo servile al partito?

No, Signore, non è questione né di nomi,né di formule,A"altri;è questione di voi, di voi solo; è questione di pratica, e non di teoria; è questione di fatti, e non di parole, né d’idee. Ne volete le prove? Ma le prove sono tante, quanti sono li uomini egregi, che prima erano con voi, e poscia v’hanno abbandonalo. Pochi anni fa, stavasi raccolto intorno a voi il fiore de' liberali italiani; erano con voi in communione di speranze e timbri, di gioje ed affanni, di studj e travagli, quasi tutti li uomini per altezza d’ingegno, per nobiltà d’animo, per valore di braccio rispettali e benedetti da tutta Italia. Ed ora? Guardatevi dintorno, o Signore; e se i vostri occhi sono ancora capaci di veder nulla? vedete. Tutti quei vostri antichi commilitoni vi hanno rivolte le spalle; e quasi tutti di amici e cooperatori son divenuti vostri avversarje nemici ((6)). E perché? Voi dite, perché sono tiepidi, egoisti, codardi, disertori, traditori, ecc.; essi invece dicono, perché voi, che a parole fate l’apostolo della libertà, della toleranza, della conciliazione, siete co’ fatti, il genio stesso dell’intoleranza, dell’assolutismo, dell’autocrazia; perché a stare con voi bisogna far sempre a modo vostro in tutto e per tutto, e obedire a' vostri cenni, ed eseguire i vostri ordini, ed essere vostri sudditi, vostri commissari, vostri soldati; perché l’unica virtù, che voi esigete dai vostri socj, è la sottomissione a' vostri voleri; e l’unico vizio, che non potete loro perdonare, è la discussione de' vostri decreti; perché voi preferite un idiota o un furfante, che vi si professi ciecamente devoto, al più sapiente ebenemerito cittadino, che vi si profferisca compagno, e non servo, e che associandosi con voi non intenda però di abdicare la propria coscienza, e di deporre nelle vostre mani la propria ragione.

Ed ecco di nuovo a conflitto due testimonianze opposte: la vostra e la loro. A qual delle due si dee prestar fede? Nessuno al mondo, da voi infuori, potrebbe stare in forse della risposta; giacché converrebbe rovesciare tutti i canoni più elementari, più fondamentali della logica, della critica, della morale per aggiustar fede a voi solo, e negarla a tanti altri, che per meriti verso la patria e la libertà, verso le lettere e le scienze, non sono punto inferiori a voi. Non è dunque da credere a voi, quando li accusate di codardia e di tradimento; ma è da credere a loro, quando v’accusano d’intoleranza e di despotismo: non sono dessi, che han disertata la bandiera della patria; ma siete voi, che avete scambiata la causa del popolo con quella della vostra ambizione.

Névi giova l’opporre, che «dagli uomini del 1833 sino agli arditi popolani del 6 febrajo, da Petroni a Calvi, dai fratelli Bandiera a Carlo Pisacane, niuno oserebbemai dalla loro condutta desumere taccia d’animo servile al partito; e che su questioni sociali ed altre correva dissenso tra Pisacane e voi.» Voi sofisticate su le parole. Dalla vostra pretensione ad essere un misto di papa e di generale ne segue soltanto, che per appartenere alla vostra consorteria fa d’uopo riconoscere in voi, non un amico, un fratello, con cui si pongono in commune consigli ed opere, ma un capo che comanda, e vuole obedienza: a questo solo patto si può militare sotto di voi; se no, no. Ora chi v'ha mai detto, che non si possa accettare un tal patto se non da animi servili?Certo, la servilità d’animo è una delle condizioni più frequenti di chi si fa suddito volontario d’un altro; e niuno meglio di voi lo dovrebbe sapere, dopo un’esperienza cosi lunga e cosi sciagurata. Ma non è la sola. Anche un animo forte, altero, sdegnoso, audace, indomito, quanto si voglia, può essere trascinato da un’illusione, da nostalgia, da un parosismo d'odio alla tirannide, d’amore alla patria, d’avidità di gloria, a indossare un giogo, che gli si rappresenti come un’armatura per correre più spedito e sicuro alla conquista della libertà. Ora, che in mezzo alla gente servile, di cui solete circondarvi, spicchino pure alcuni di cotesti generosi, i quali si danno a voi per immolarsi alla patria, che monta? Cessa forse però di esser vero, che voi siete l’autocrate del vostro partito? Che volete governarlo per via di fede cieca e d’obedienza passiva? Che non lolerate critiche, né contradizioni? Che credete sempre, perfin nelle cose di fatto, a chi parla conforme a' vostri vaneggiamenti, e non mai a chi per ossequio alla verità testifica contro? Che non cedete mai né a ragioni, per quanto evidenti; né a preghiere, per quanto supplichevoli; né a rimostranze, per quanto concordi; né ad opposizioni per quanto inconcusse? Che insomma non ammettete altra legge fuorché il vostro arbitrio, altro diritto fuorché il vostro volere, altra autorità fuorché il vostro comandamento?

Ah! permettevate a Pisacane di non essere del vostro avviso in certe questioni sociali ed altre!Gran mercé, o Signore: vuol dire adunque, ch’eran questioni affatto aliene dal programma della vostra congiura; altrimenti, per accostarsi a voi, egli avrebbe dovuto abjurare il proprio giudizio anche su tali questioni, come l’abjurava pur troppo su tante altre.

Accennate da ultimo all’amore scambievole tra voi e quei vostri: «Ma questo affetto, esclamate, osereste voi chiamarlo servile? Non «potete levarvi a un ideale di communione nella stessa fede senza «intravedervi tirannide?» E voi, o Signore, osate fondare su questo affetto una difesa dalla taccia d’intoleranza e di despotismo, che vi si appone? Fingete dunque d’ignorare, che non v’è tiranno, spirituale o temporale, pontefice o imperatore, czar o sultano, il quale non abbia una schiera di devoti adoratori assai più numerosa della vostra, e da cui non sia amato e venerato assai più che voi da' vostri partigiani? Dunque perché ognuno di costoro può vantarci l’affetto de' suoi, non dovremo più reputarli tiranni delle coscienze o delle nazioni?

Ma voi m’uscite sempre dal seminato. Non si tratta dell'affetto degli altri verso di voi, ma del vostro contegno verso degli altri. Che i vostri settarj vi si stringano attorno per interesse o per fanatismo, per una passione nobile o abjetta, non importa nulla alla nostra questione. Ma voi. che officio v’arrogate fra loro? Ecco il punto, che dovevate chiarire, e che invece non toccate né pure. Li uomini insigni, che vi hanno amato mollo e conosciuto troppo bene, si sono tutti alla fine ribellati contro di voi, perché sdegnarono di assuggettarsi al vostro dominio, e di servire ai vostri capricci: ecco il fatto, che smentisce tutte le vostre parole. Se avete buoni argumenti da contraporgli, adduceteli; e il Publico giudicherà: ma se non avete altro da allegare a vostra discolpa che l’affetto de' vostri, oh! fareste meglio a tacere, per non confermare vie più l’accusa, che tanto vi cuoce.

Questa volta sono costretto, e parmi quasi una fortuna, di passare conchiudendo dal serio al comico, dalla polemica alla farsa. Sapete che è? il vostro Monitore officiale ha pigliate le vostre difese, ed ha confutata la mia risposta a voi con una tal batteria di argumenti e di documenti, da chiudermi al tutto la bocca in eterno. Figuratevi! se voi, che siete il maestro, discorrete cosi all’impazzata;. che tremenda dialettica dovrà esser quella de' vostri allievi, i quali presso a pocostanno a voi, come la scimia all’uomo ((7))! E infatti, io sono bello e spacciato, poiché mi hanno colto in flagrante delitto di una contradizione sì portentosa, che riduce a zero tutte le mie objezioni, e converte in assiomi e teoremi e dimostrazioni e corollarj di rigore matematico le vostre ciance. La cosa. è chiara e lampante come il sole. Cinque anni e mezzo fa, ho detto bene di voi; oggi ne dico male; dunque son reo della più enorme contradizione, in cui sia mai incappato un figliuolo d’Adamo; e quel che è più mirabile e piacevole insieme, dunque tutto ciò che ora ho detto o posso dire, è falso; e tutto ciò che dite o direte voi, èvero. Vedete, o Signore, quanto siate felice nella scelta dei vostri apologisti! Quel giornale, che èuna perpetua vicenda d’elogj sperticati e di improperj furiosi agli stessi uomini, da oggi a domani, secondo che camminano, o no, sotto la guida della vostra bacchetta; quel giornale, che proprio in questi dì ha vuotato il sacco di tutte le contumelie contro Felice Orsini, ch’ora dianzi il suo eroe, perché non avrà voluto seguirvi fino ad atti, che la sua ragione chiamava insanie, e la sua coscienza chiamava delitti ((8)); si, Signore, è questo giornale medesimo, che ha fatto la novissima scoperta della mia stupenda contradizione, perché nel 57 non uso più con voi il linguaggio, che ho usato nel 52: come se, lodato un uomo una volta per il bene che ha fatto, si fosse perduto il diritto di biasimarlo in seguito per il male che farà; come se in questo intervallo di oltre a cinque anni voi non aveste scritte le pagine che io critico, e orditi i tentativi che io condanno ((9)). Ah! che teste quadre sono mai coloro, a cui avete commesso il nobile mandato di sonare l’organo del vostro partito! E che partito è il vostro, se siete ridutto a confidarne l'apologia a teste di quel calibro! Ma che cosa dev’essere il gregge, se tali sono i pastori? Che cosa sarà la vostra plebe, se tal è la vostra aristocrazia? E voi, o Signore, non vi vergognate della stupidità de' vostri novelli avvocati? Non sentite, che il loro patrocinio dà il colpo di grazia alla vostra fama e alla vostra causa? E poi, pretendete di esser voi i rappresentanti d’Italia? voi, l’interpreti della sua mente e del suo cuore? No, povera gente, l’ora vostra non è ancor sonata. Dovete primafar dell’Italia una tribù di mezzo cretini e mezzo selvaggi; e allora, si, ne sarete voi i rappresentanti legitimi e naturali, Ma finché l’Italia conterà fra le nazioni civili, datevi pace, la non soffrirà giammai l’onta di essere' rappresentata da un partito, il quale combatte coi senno dei pensatori, che scrivono oggidì la Italia del Popolo,e co’ l braccio dei cavallieri, che fecero ultimamente le loro prove dinanzi al tribunale di Parigi.

AUSONIO

ALL’ITALIA DEL POPOLO

L’esperienza di questi ultimi anni m’aveva pur troppo già appresa l’esistenza in Italia di un partito, il quale, mentre si arroga il merito esclusivo della libertà e della buona fede, non sa comprendere, come altri possano professare diversi principj per altretanto coscienziosa convinzione, e non teme perciò farsi arma contro i dissidenti di calunnie ed oltraggi. Che se talvolta esso si trova a fronte di tali uomini, cui riesca assolutamente impossibile dar taccia di eunuchi,o codardi,o. venduti,o svergognati Tersiti,eccolo tosto por mano ad altro genere di accuse: a quella dei tiepidi,dei mezzo intelletti,e sopratutto dei vanitosi insanabili. Non è per altro che per sterminata vanità,e per orgoglio offeso(sic), che Ferrari, che Montanelli, che Orsini, ed altri mille, si permettono di far conoscere i proprj pensieri, anche quando essi siano per avventura non affatto conformi a quelli manifestati dall’uomo, che venne testé nel suo medesimo giornale, ed in seguito a non molto gloriose né fortunate imprese, proclamato nuovo Mosè.

SI, questo io sapeva da un pezzo. Eppure se c’era accusa, che non m’aspettassi per aver dimostrato, come un amico prestasse culto ai medesimi principj, cui sono devoto io pure, certo era quella della vanità personale; mentre non si tratta già di principj, che si possa credere aver scoperto o propugnato io per primo, in qualità di autocrate o di rivelatore; ma di tali, che formano il complessivo patrimonio della democrazia, e cui può bene esser lecito di mostrarsi fedele anche all’ultimo dei mortali. Tanto meno poi, doveva aspettarmi accusa siffatta da chi professa cosi fanatica idolatria per sé medesimo, da reclamare a proprio merito ed a gloria propria tutto quanto di buono e di eroico si è fatto in Italia da alcuni lustri in quà, dal martirio di Ciro Menotti al sacrificio di Agesilao Milano, dalla prima insurrezione di Lombardia all’ultima sommossa di Sicilia, dalle riforme amministrative di Pio IX ai diplomatici discorsi di Cavour. Parmi che non abbiano bel garbo a parlare dell’altrui vanità coloro, che ogni giorno trovansi costretti di respingere l’accusa di voler sostituire il loro IO alla Nazione; coloro, che audacemente reclamano come frutto dell’opera propria la bandiera tricolore che sventola in Piemonte, e la libera stampa di cui vi si gode, quantunque Cuna e l’altra cerchino vituperare con quotidiani insulti; coloro, che vivi tuttavia ed incolumi, senza avere impugnato mai altr’arma che la penna, e consegnando ad altriil pugnale, osano parlare del loro esempio,del loro coraggio, e persino del LORO SANGUEsparso pel riscatto d’Italia; e spingono l’immodestia sino a proclamarsi IMMORTALI!((10)) No, io non poteva aspettarmi d’essere accusato di. superbia per aver ricordato il consenso fra le idee di un amico e le mie, da chi ogni giorno si vanta d’avere tutti i ventiquattro millioni d’italiani, non solo consenzienti, ma devoti, ma entusiasti delle sue dottrine, per modo da essere sempre pronti a prodigare per esse la vita.

E del pari, il diritto di deridermi per i pochi proseliti ch’io feci co’ miei poveri scritti, io credeva dovesse spettare a tutt’altri, fuorché a chi «dopo 27 anni di fatiche, di stenti, di martirj e di sacrificj inauditi,» è riescito a destare così scarse simpatie, chele popolazioni, appena vedano avvicinarsi alle coste un naviglio che sospettino carico de' suoi agenti, si levano a tumulto, non per agevolarne, ma per contrastar loro lo sbarco.

Ad ogni modo, che importa egli mai per l'interessi d’Italia, e per quelli del partito sedicente dell'azione, ch’io sia, o no, colpevole del peccato di superbia, od anco, se vuoisi, di tutti li altri peccati capitali? La questione, a mio credere, doveva essere tutt’altra.

È debito di uomo onesto, mi sembra, il supporre — finché non abbia prove in contrario — che se io propugno alcuni principj, piuttosto che alcuni altri, il faccia per l’unicaragione, che stimo quei primi meglio acconci al trionfo della libertà e della democrazia; ossia, secondo il ‘mio modo di vedere, perché li giudico migliori.

Ora, volendo rendere anch’io (che ben ne aveva quanto altri il diritto, e fors’anche il dovere) un tributo di compianto all’eroico Pisacane, in quale miglior modo avrei potuto farlo che dimostrando, come fosse egli pure fautore di quelle dottrine, ch’io reputo più utili all’Italia, ed avverso a quelle altre che, a ragione od a torlo, io stimo alla sua causa più perniciose?

Ecco perché, e l’unicoperché, quando il desolalo mio cuore mi dettò la funerea commemorazione in omaggio dell’estinto amico, ho creduto di non potere far meglio che provare,come fosse anch’egli, almeno altre volle, «apostolo dei medesimi principj poli«lici, filosofici, e sociali, che formano cumulativamente il simbolo «di quella religione razionale, alla quale noi pure (cioè, non io «individualmente, ma tutti i republicani socialisti) prestiamo sin«cero e fervido culto?»

Se v’era taluno, cui questa provariescisse grave ed uggiosa cosi da non poter lasciarla passare senza protesta, cerio egli era in diritto di adoperarsi per trovar modo di impugnarne, se fosse stato possibile, l’autenticità, od almeno per scemarne il valore. Ma, a tal uopo, quali erano i soli mezzi onesti, e quindi i soli efficaci?

Nel primo caso, era quello di provarea sua volta, com’io mi fossi ingannato nell’esporre i pensieri del Pisacane, alterando le di lui parole, ó dando loro inesatta significazione.

Nel secondo, era di ammettere il fatto, che tali idee avesse in altri tempi il Pisacane veramente professate, e addurre insieme le ragioni, per cui in seguito le disdisse; onde il lettore fosse posto in grado di giudicare, quanto abbia più ragione chi stimò bene di cambiare consiglio, che non li altri, i quali stettero fermi e fedeli agli antichi propositi.

Poiché, grazie a Dio, lo scrittore dell’Italianon potè valersi del primo metodo di confutazione, era dover suo, mi sembra, di seriamente attenersi al secondo. E dico seriamente; avvegnaché la prevalenza da darsi all’una od all’altra fra le opposte dottrine, che in

diversi tempi professò il Pisacane, involga tale questione, da cui può dipendere la vita di tanti nostri magnanimi concittadini, e la salute della patria, e il trionfo della rivoluzione. Questo, dico, è tale un problema, alla cui soluzione non sarebbero state soverchie le cinque lunghe colonne, che furono consacrate al futile intento di far palese al mondo (che punto non si cura di me ) la mia miserabile superbia.

La discussione infine si riduce a questo sol punto: di vedere, cioè, quale contribuisca a rendere più cara, e più gloriosa la memoria del prode soldato, fra me ed i partigiani di Mazzini; ossia, fra chi ricorda, che il Pisacane fu anch’egli un giorno f avviso, che «la rivoluzione materiale delle armi non potrà mai conseguire duraturo trionfo, finché manchi la rivoluzione nelle idee,» e che «l’unico germe della rivoluzione futura consiste nell'educazione del popolo» — e chi vorrebbe cancellate queste savie sentenze, per ripetere al mondo solo quell’altra, che «la propagazione dell’idea èuna chimera, e l’instruzione popolare un’assurdità.»

E si noti per giunta, che quando io scrissi il mio articolo, non avrei potuto, né anche volendo, far prevalere le dottrine postume del Pisacane esclusivamente ammirate dall’Italia,a scapito delle altre, ch’ei professò negli anni più belli della sua vita; poiché queste ultime erano le sole fatte di publica ragione, e nulla sapevasi per anco del Testamento politico,di cui appena per vaghe voci sospettavasi l'esistenza, e nessuno avrebbe creduto di vedere si presto diffuso per le stampe.

Ad ogni modo, per fare equa censura del mio scritto, compito dell'Italiaera quello di provare, che al Pisacane torna onorevole soltanto l’essere presentato al Publico nell’atteggiamento deffini pavido venturiero, e che per conseguenza io ho recato oltraggio alla di lui fama, additandolo invece sotto l’antico sembiante del ponderato pensatore. Se in ciò il mio avversario sia riescito, chi ha senno Iodica.

Giovi intanto il ricordare, come li egregi colonnelli Cosenz, Mezzacapo, e Garrano, i quali pietosamente si fecero a compiere l’estremo desiderio manifestato dal compianto amico (della cui fama essi sono sicuramente teneri almeno quanto tutti i presenti e passati collaboratori dell’Italia)hanno pensato di sospendere la publicazione di quella parte dei postumi volumi del Pisacane, in cui trovansi esposte appunto le idee politiche, che il mio avversario pretenderebbe fossero le sole conosciute.

MAURO MACCHI

PENSIERI DI UN ESULE

V

§ 17. — Del come sarebbe da provedersi al governo d’Italia durante lo stadio rivoluzionario e la guerra d’emancipazione.

Quel che ho discorso intorno all'ordinamento dell'Italia redenta, può riuscire di lume intorno al modo d’ordinare il governo italiano durante la rivoluzione e la guerra santa. Poniam, per esempio, che il primo grido d’insurrezione risuoni nell’estreme contrade della Penisola, che sono le uniche pure, le quali possano in questo momento dare inizio al gran fatto: che cosa fare dovrebbero i capi della sollevazione? Emancipar tosto il Commune, e dar fuori questa brevissima legge:

Il popolo d’ogni Commune del Napoletano converrà intero su la publica piazza ad iscegliere nel proprio seno i suoi capi, i quali provederanno sovranamente alle cose tutte del loro Commune, ma innanzi «ogni altra all’ordine publico, alla giustizia, e al sostentamento dei poveri, né finché sia per durare la guerra santa, altr’obligo s’avranno i Communi verso lo Stato, oltre quello di fornirgli uomini armati in pro«porzione dei loro abitanti, e la metà del danaro, che saran per ritrarre dall’unica imposta su i redditi da sostituirsi a tutte le altre gravezze oggi in essere. Le presenti circoscrizioni territoriali saran conservate, fino a che Italia non siasi affatto sbrigata dei forestieri; ed un com«missario straordinario, sedente nel capoluogo d'ogni provincia, accentrerà quivi le forze militari e pecuniarie speditevi dai Communi, per indi farle convergere verso la città capitale, donde il governo provisorio, colà costituito dai delegati delle provincie, le invierà subito a Roma.»

E questo, che ho detto del Napoletano, andrebbe applicato alla rimanente Italia, a misura che la rivoluzione fosse per allargarvisi; e i varj Stati, a congiungere in una strettissimamente le loro forze contro il commune avversario, spedire dovrebbero a Roma i lor delegati, i quali costituirebbero un Direttorio supremo, inteso unicamente a. purgare l’Italia dallo straniero. Consumala poi la grand’opera dell’emancipazione nazionale, la prima, anzi unica cura del Direttorio italiano sarebbe quella di convocare in Roma l’Assemblea nazionale, ordinatrice suprema della Republica.

§ 18. Del modo io che li Italiani s'avrebbero a reggere nel presente serraggio.

Da un lato, in Italia, stanno i sacri diritti della nazione, dall'altro la forza brutale dei forestieri e dei principi dall'armi straniere unicamente sussulti. Il perchè a sola una cosa avendo ad intender li oppressi, cioè a scuotere il giogo degli oppressori, e cacciatili oltr’alpe, unificarsi in nazione, tutte tutte le forze, che sono in loro, e' denno apprestare all'azione, anzi ad un impeto disperato, unanime, eroico, da durar tanto, quanto l'insulto dell’armi straniere in sul territorio italiano! La forza brutale, la forza brutale sol essa è cagion del misero stato presente dei nostri popoli; chè moralmente parlando, l'Italia è indipendente, una, e republicana. Ed invero nessuno può dubitare di questo, che li stranieri sgombrati appena dal nostro suolo, i troni dei nostri principi n'andrebbero a pezzi isso fatto, ed un solo grido si leverebbe dalla Sicilia alle Alpi, il grido d'Italia libera ed una!

Un'occasione propizia porgusi adunque al glorioso fatto d'una sollevazione generale, ed i popoli d'Italia tutta con una mente, con un sol cuore ridaranno di piglio alle armi! Ed intanto un contegno altamente sdegnoso, una resistenza continua, comechè mula, da loro oppongasi agli oppressori, a farli sempre più certi, sol dalla forza dover eglino riconoscere la lor padronanza d'Italia, d'Italia che inchina il collo, e non l'animo alla servitù abominata, d'Italia che l'orecchio e la mano ha teste riavvezze al suono e al maneggio dell'armi, d'Italia che ove brandisca di nuovo la spada, saprà rinovare le magnanime prove di Milano, e di Goito, di Bologna due volte eroica, e di Roma e Venezia rifatte guerriere dalla Republica!

E oziosi in mezzo al presente servaggio non si veggan languire i nostri uomini più prestanti per cuore e intelletto, ma invece alacremente e' s'adoprino nell'accrescere in petto alle moltitudini, quinci l'odio profondo del giogo straniero, e dei principi dello straniero vassalli,quindi l'amore della patria commune, e dei loro diritti le faciano istrutte, e le intrattengano insieme dei sommi beni, onde sia loro larga l'indipendenza e la libertà della patria!

Una propaganda insomma assidua ed ardente s’operi dai migliori, cosi mercé della voce viva, come di scritti, nebulosi non già, né tronfj o diffusi, ma chiari, semplici, brevi, e però accommodati all'intelligenza vulgare. Questa massima poi s'abbia innanzi alla mente mai sempre, nel confortare le moltitudini all'opere virtuose, nulla potere tali conforti, ove siano smentiti dalla vita viziosa di chi li porge.

Né si trascuri lo studio delle instituzioni politiche delle altre nazioni,fine di toglierne il buono, consumata appena la nostra rivoluzione, a benefizio d'Italia. Ma per via delle lunghe battaglie soltanto potendo ottenersi il discacciamento dello straniero, alle arti guerresche le genti italiane tengano sempre rivolto l'ingegno, ed i giovani massimamente, i giovani a somma speranza della nazione, in ogni forte esercizio, e in ispecie nel maneggio dell’armi continuamente s'addestrino, ben ricordevoli quali esser denno, i nostri oppressori averne tenuti si lungamente lontani da ogni esercizio di guerra, col solo fine di renderne imbelli ed effeminati, e però impotenti ai nobili sforzi, onde solo, ripeto, può venire all'Italia il massimo bene dell'indipendenza!

Perorazione

Questi consigli, o Italiani, io volli porgervi dall'esiglio: consigli desunti così dalle lunghe meditazioni intorno alle nostre sorti politiche, ed alle libere instituzioni degli altri popoli, come dall'amore caldissimo del vostro bene. E voi, esaminate questi miei pensamenti, e riconosciutili buoni e attuabili, accoglieteli nel vostro cuore profondo, per indi giovarne la nostra carissima patria. E fra le presenti miserie, state desti e prontissimi a cogliere il minimo destro, che la fortuna sia per offrirvi allo insurgere simultaneo, ed al brandir l'armi novellamente contro lo straniero invasore.

Né, sonata alla fine l'ora desiderata, vi sia di sconforto il pensiero delle toccate sconfitte e dei mali infiniti, che loro tennero dietro; chè prescindendo dalla gloria immortale acquistata nel 48 e nel 49, si in campo, che nel difender le sacre mura di tante nostre città, i casi tutti di quest'ultimi tempi, a ben guardarli, son pieni d'insegnamenti preziosi,e però da tenersi providenziali.

Providenziale il procedere fiacco ed inabile di re Carlo Alberto durante le guerre del 48 e del 49, siccome quello, che fece chiarissima a tutti la capital verità, mala guida all’emancipazione d'un popolo dover essere un principe qualsivoglia, ancorché mosso da smisurata ambizione; chè argumento essenziale ad iscacciar lo straniero si è l'impeto rivoluzionario,e impossibile è affatto che un re qualunque inducasi, non dirò a promuoverlo, ma a secondarlo.

Providenziale il tradimento, di che papa Pio, già si levato alle stelle dai liberali stessi, facevasi reo verso la causa italiana, siccome quello, che ribadi l'opinione, non d'altro poter essere fonte all'Italia il papato, se non d'accrescimento di divisione e di servitù!E providenziale tener si dee lo spergiuro di re Ferdinando, non che la serie di nefandigie aggiunte da lui non ha guari alle antiche, e providenziale il cumulo orrendo di mali, sotto cui gemono di presente le due più belle provincie d'Italia, che lo spergiuro ed i nuovi delitti di re Ferdinando ogni speranza precidono per l'avvenire alla dominazione dell'empia razza borbonica; e dall'eccesso delle miserie, giusta l'arcana legge posta agli umani, nascerà finalmente il sommo bene da si lungo tempo desiderato!

.E providenziale altresì va tenuta la fuga di Leopoldo granduca, poi lo aver egli chiamato l'armi tedesche in Toscana, e da ultimo lo aver rotto fede a quelli ch'ei dice suoi sudditi, ed i quali, mutato in odio e dispregio profondo l'antico affetto, non altro oramai veggono in lui, se non un principe austriaco, abjettissimo servo della sua casa!

E non meno providenziale fu la caduta di Roma republicana, per opera dell'armi straniere invocate da papa Pio, siccome quella, che il papa e il papato cacciò più che mai fra le cose rimorte, e la città massima battezzò capitale d'Italia!

E providenziali da ultimo tenere si devono le nuove torture infitte a sì gran parte d'Italia dalle masnade imperiali dal 48 in poi, non escluso l'orribile strazio di Brescia, non esclusi li ammazzamenti e li spogli del Lombardo-Veneto, della Toscana, e dello Stato Romano, non escluse nemmeno le battiture, onde il bastone tedesco faceva segno la carne di tanti nostri fratelli; perocchè l'impeto estremo, che solo, siccome ho detto, può liberare l'Italia dal giogo dei forestieri, solo da un odio profondo e implacabile, da un'indicibile rabia, da un'immensa ed universale disperazione esser potrà originato.

Oh! guaj, guaj a quei che conculcano si barbaramente l'infelicissima Italia; avvegnachè, se scorata, accasciala, impotente ella sembra, alto, fiero, terribile ella cova nel cuore il desiderio della vendetta, e ben memore dei fatti gloriosi operati nel 48 e nel 49,quantunque divisa e tradita, a surgere e ad operare s'appresta unanimemente, e fatta cauta dalla recente esperienza dolorosissima, non sarà per deporre la spada, che dico? per aver posa, durante un'ora, durante un minuto, durante un attimo, finché un solo straniero contamini il suo territorio, finché li ultimi avanzi della sua servitù miseranda non siano stati distrutti!

G. RICCIARDI

NOTE

(1)V. Ilmanifesto d’associazioneall’opera: SAGGI STORICIPOLITICIMILITARI SU L’ITALIA,per Carlo Pisacane. — L’opera è divisa in quattro parti, che formeranno un volume di circa 1000 pagine, in 8°. Ciascuno dei quattro fascicoli costerà fr. 3, da pagarsi mensilmente all’atto della consegna. La stampa verrà intrapresa appena saranno raccolte 250 firme.

(2)V. La Voce della Libertà,del settembre 1853.

(3)«Al primo svelarsi dei disegni di Genova, i partii; forti(:)avrebbero usato un linguaggio di condanna severa; avrebbero deploralo le illusioni perenni di uomini, che s’ostinano in creder l'Italia propizia in oggi a rivoluzioni;avrebbero cercato dimostrare, che la via pacifica tenuta dalla monarchia piemontese è la sola, dalla quale possa quando che sia venir salute all’Italia;avrebbero a insistito su la grande responsabilità, che pesa su chi interrompe quella via, senza certezza di schiuderne un'altra; su i pericoli d’una guerra fraterna, sui pretesti somministrati a interventi stranieri.»Ma a trovar simili ragioni nonera punto mestieri d'essere un partito,né forte, né debole: bastava avere un po' di sale in zucca, e un po’ di sangue umano nelle vene;e tutta la stampa europea si fondò principalmente su queste ragioni medesime per esecrare il signor Mazzini e i suoi disegni di Genova.

(4)Lo dichiarava espressamente C. Pisacane nel suo testamento, eco fedele delle scempiaggini di Mazzini:«Credo, che il reggimento costituzionale nel Piemonte è più dannoso all’Italia, che la tirannide di Ferdinando II. Credo fermamente, che se il Piemonte fosse stato retto nella guisa medesima degli altri Stati Italiani, la rivoluzione sarebbe fatta.»

(5) LE ARMI E LE IDEE (1855), e LA CONCILIAZIONE DEI PARTITI (1856).

(6)Un giornaletto, a cui l’illustre storico, che lo scrive, dà un merito ed una autorità, che mancano a tanti giornaloni, proponeva al sig. Mazzini questa sfida:

«Che ci nomini il Mazzini dieci uomini liberi, e di tal nome da essere conosciuti da tutta Italia, i quali siano per lui! (Il piccolo Corriere d'Italia,N. 14 t° agosto).»E questa sfida noi la rinoviamo.

(7)Dopo scritte queste parole, mi capita sottocchio un recente foglio dell’Italia del Popolo(N. 170), che ne fornisce caldo caldo un documento prezioso. Eccolo: «Noi non abbiamo sistema,meno che il sentimentodella patria, e la tedenel suo avvenire.» Oh! finalmente l'avete trovato il terreno conciliativo!

Ha se tutta il vostro sistemaconsiste in un sentimento della patriae in una fede nel suo avvenire,che significa dunque la vostra guerra contro i. monarchici e i clericali? Non hanno anch’essi, come voi, un tale sentimentoe una tal fede? E che significa poi la vostra professione di democrazia? Significa unacosa sola, ed è, che voi siete davvero in odio al senso commune. E non è più possibile dubitarne dacché per mettere il colmo all'evidenza, ripigliate: «Noi, al momento, quantunque la nostra fede individualesia republicana e socialistica, non predichiamo né monarchia, né communismo, né socialismo, né altra teoria.» Ha bravi! dunque non predicate la monarchia, QUANTUNQUE SIATE RBPUBUCANI.

Vale a dire, che stando al vostro discorso, di regola generale spetterebbe a voi republicani di predicare la monarchia;sicché non predicandola,fate un’eccezione! E con un cervello, che connette a questo modo, voi avete la fronte d’intitolarvi li Italiani veri, nel senso più sano?Eh! prima di dottoreggiare in politica, andate a studiare un po’ di grammatica, idioti che siete!

(8)Nello stesso N. 170 dell'Italia del Popolosi legge una dichiarazione dell’Orsini, la quale rende appunto cosi ragione della sua rottura co’ mazziniani: «Ammaestrato da una ben triste esperienza della inutilità di meschini tentativi; guarito, per cosi dire, dalla malattia delle politiche avventure, cui partecipai sotto la direzione di Mazzini; convinto, che la via battuta era falsa: ho stabilito fermamente meco stesso di andar dritto al mio scopo, di parlar alto, franco, senza timori e senza rimproveri; e finché basterammi vita, di operare con tutte e le mie forze al conseguimento della indipendenza italiana,della unità,e della republica,secondo che la coscienza mi consiglia.

(9)Ebbene, questo è Punico argumento, che ['Italia del Popoloabbia saputo contraporre a tutte le objezioni, che io ho mosse al suo Mazzini. Si suol dire, che non v’è causa tanto disperata, a cui un po’ di sofistica non possa almeno in apparenza temperare la vergogna della sconfitta. Bisogna dire adunque, o che la causa di Mazzini è caduta al di là d’ogni disperazione, o che il suo Monitore trovasi a secco perfino di sofismi! — Ah! no, scusate: l’argumento della contradizionenon è veramente Punico; e il genio apologetico dell'Italia del Popolone ha ricavato un altro non meno perentorio dalla mia condizione personale, e ne ha infiorati tutti due li articoli, in cui s’arrabbatta per rispondermi. Ma questo è un campo degno di voi, o Signori, e di voi soli: spaziateci a vostra posta, ch’io ve l’abbandono. Voi, così verginidi contradizioni, mi volgete ora in insulto quel titolo stesso, che un tempo mi recavate a gloria: e tal sia di voi. Diuna cosa sola ho da arrossire in vita mia; ed è d’avermi tirato addosso qualche lode da gente di quel valore intellettuale e morale, politico e civile, di cui fa segno alpresente l'Italia del Popolo. Di un’altra cosa però non avverrà giammai che mi rincresca, ve lo giuro: ed è di esser vituperalo, come apostata, da voi e da chiunque vi somiglia.

(10)V. L’Italia del Popolo, eparticolarmente il foglio del 24 luglio, N. 152.



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Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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