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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

ARCHIVIO STORICO SICILIANO

PUBBLICAZIONE PERIODICA DELLA SOCIETÀ SICILIANA PER LA STORIA PATRIA

NUOVA SERIE, ANNO XXIV

PALERMO

TIPOGRAFIA LO STATUTO

1899

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

ROSOLINO PILO

MEMORIE E DOCUMENTI

¿al 1857 al 1860

I

Rosolino Pilo fa uno dei più intrepidi ed instancabili uomini d’azione, che si siano consacrati alla libertà ed unità d’Italia dal 1848 al 1860. Egli fu tra i primi a prendere le armi nella rivoluzione Palermitana del 12 Gennaio 1848. Già in Palermo due o tre settimane prima di questa celebre data, per il rifiuto del Borbone di concedere la guardia nazionale ed altre riforme, s’erano formate in pochi giorni e in ogni classe di persone varie società segrete con lo scopo d insorgere contro l’assolutismo. La società segreta, di cui faceva parte il Pilo, si radunava in casa di Francesco Burgio di Villafiorita posta nella Fieravecchia, dove anche si fece un deposito d'armi e munizioni. Quando l'8 Gennaio ’48 Giuseppe La Masa ritornò in Palermo, si rivolse al Pilo per essereinformato del vero stato delle cose. I duo patrioti non potettero vedersi che il giorno 10 nel palazzo Paterno, dove La Masa s'era nascosto. E benché il Pilo non potesse dare al La Masa in formazioni soddisfacenti, perché mancava un comitato centrale rivoluzionario, pure lo rassicurò abbastanza sulla disposizione d’animo della popolazione. Il Pilo si riuniva pure con un'altra diecina di persone nella casa del capitano marittimo Pasquale Miloro a preparare cartuccie, armi, coccarde, sciarpe ed una bandiera tricolore, la quale all’alba del 12 gennaio andarono a porre tra lo braccia della statua di Palermo nella piazza della Fieravecchio. La moglie di Pasquale Miloro, Santa Diliberto (che aveva avuto per primo marito un Astorino e perciò è chiamata dal La Farina nella sua Storia della Risoluzione Siciliana Santa Asturina) faceva parte della comitiva e si rese celebre quella mattina col distribuire coccarde e nastri tricolori e coll’eccitare i popolani ad insorgere. La sera del 12, essendosi i soldati borbonici dopo poche scaramucce ritirati nelle caserme e fortezze, si costituì a dirigere la rivoluzione un comitato provvisorio, del (¡naie il giorno appresso fece parte anche il Pilo. Non essendo nostro proposito d’intrattenerci sulla rivoluzione del ’48-49, diciamo che dopo la caduta di essa, il Pilo andato in esilio non ebbe fede nel governo Piemontese, ch'egli credeva municipale, cioè avente in animo il vantaggio della regione e non la liberazione nazionale. Perciò a suo parere non rimaneva altra via al risorgere d’Italia che quella delle sollevazioni popolari, che, se prima erano andate a male, dovevano l’una volta 0 l’altra riuscire vittoriose; e in questo consensiva pienamente con Mazzini. Messosi dunque in relazione col grande apostolo dell'unità Italiana, divenne un ardente Italiano unitario, com’egli chiama il suo partito, in opposizione a quello municipale costituzionale, eh’erano a suo avviso il governo Piemontese e i partiti liberali delle altre parli d'Italia.

Dopo i fatti di Milano del 6 Febbraio 1853, l'Italia superiore non era più un campo favorevole alle insurrezioni ed ai tentativi Mazziniani. Perciò Mazzini nella sua infatigabilità volse le mire al mezzogiorno d’Italia. Fu ordita la spedizione di Pisacane, che doleva partirò il 10 Giugno 1857 da Genova. Ma, come dice Mazzini mel suoi Ricordi su Carlo Pisacane, un incidente di quelli che miuno può prevedere 0 combattere attraversò e distrusse tutto il nostro lavoro lo stesso giorno che doveva tradursi in atto». Questo incidente è appunto la prima partenza di Rosolino Pilo, che qui ‘pubblichiamo, tratta da un manoscritto tutto di pugno del Pilo stesso. Su quest'incidente non s’è conosciuto sinora che le brevi note di un taccuino del Pilo pubblicate dall’illustre Prof. Alfonso Sansone wV Esposizione di Palermo 189192 (Treves Editore), e dall’Avv. Emanuele Di Marco nell’opera: Rosolino Pilo precursore dei Mille in Sicilia, Catania, 1892.

Riportiamo queste note a piè di pagina (1).

Ora ecco la relazione del Pilo:

Prima partenza. Nella sera del 0 Giugno in un giardino prossimo alla spiaggia di Rìvarolo di Ponente fecesi l’imbarcamento di 250 fucili, 20 mila cartuccie, 250 daghe, ed una cassa di polvere da fucile sfusa; e ciò fu fatto con l’assistenza ed aiuto materiale di 50 e più operai e borghesi di Genova e con la cooperazione attivissima degli egregi patrioti Angelo Mangini, Profumo, Casareto etc. Alla mezza dopo la mezzanotte fu eseguito in un baleno l'imbarcamene delle munizioni, armi ed uomini, parte dei quali erano giunti da Torino alle 8 p. m. e parte da Genova; con molta arte si giunse ad eludere la vigilanza delle guardie di Dogana, le quali da congiurati Genovesi s’erano fatte allontanare dal luogo destinato all'imbarcazione. Questa per primo fecesi sopra una barca da pesca a remi: poscia alle 2 ore si fece in alto mare il trasbordo del materiale e dei 30 individui, che dovevano viaggiare alla volta di Ponza. Il trasbordo fecesi sopra una tartana capitanata da un vecchio contrabbandiere ed affidata ad altri cinque marinai compreso il nostromo, che erano alla conoscenza del viaggio da farsi e del fine dell’imbarcamento del materiale; lo che ignoravasi dal vecchio capitano, che sulle prime credeva trattarsi di contrabbando di mercanzie. Fatto il trasbordo, Mangini e Profumo scambiati cordiali abbracci con R. P. (Rosolino Pilo) ed E. P. (Enrico Pisani) etc. tornarono in Rivarolo per ragguagliare il Pisacane in Genova che 1 prima pratica della spedizione era già ben riuscita. Il vecchio capitano avvedutosi che non si trattava di contrabbando di mercanzie protestò di voler ritornare e tentò di mettersi al timone per vivai di bordo, ma il nostromo detto il Sordo e il primo marinaro Paganetto si misero al possesso del timone; e così tolto il comando al vecchio capitano, si spiegarono le vele. Posta la prora al vento, principiossi la navigazione dirizzando il bastimento a Levante per tener la rotta verso la Corsica e Pisola di Sardegna, poiché doveva la barca il di 10 Giugno trovarsi all’isola di Montecristo, dove il Pisacane con Falcone, Giovanni Nicotera, il capitano Genovese Giuseppe Daneri (partendo

da Genova il 10 Giugno col vapore il Cagliari e impossessandosene con un colpo di mano mercé l'aiuto di altri 25 marinai ed uomini d'armi) dovevano portarsi; e di là prendendo nel loro bordo il materiale di guerra e gli uomini, che stavano imbarcati sulla (ariana, navigare verso l’isola di Ponza.

Tutto al primo giorno sembrava andare favorevolmente; madopo 24 ore di navigazione si conobbe che pochissime leghe si erano fatte a causa del poco ven(o e del poco cammino del legno. Il pericolo d’essere sempre vicini a Genova e quindi di subire facilmente una visita a bordo faceva piangere il vecchio capitano il quale scongiurava li suoi compagni a tornare; ma durando il tempo calmo, il nostromo e i suoi marinari stettero fermi e non diedero retta di sorta alle lamentazioni vive del capitano, che chiamavasi tradito dal Paganetto e dal Sordo, che non gli avevano dichiarato prima quel che dovevasi praticare e gli avevano tolto il(4 )comando. Il dì 8 Giugno stavasi la barca quasi ferma sotto la Spezia e proprio presso terra alla distanza d’un terzo di miglio per lo che agl’imbarcati bisognò di stare tutta la giornata in un piccolo spazio sotto coperta e precisamente nella stiva, dove v’era in serbo la munizione e i fucili. E ai 30 individui componenti la spedizione bisognò di stare tutta la giornata postati sopra la ghiada che per sagorra portava il piccolo bastimento. Verso la sera li» marinari vedendo che non v’era possibilità d’allontanarsi dalla spiaggia, pensarono di mettersi in sulla lancia ed a forza di remi portare la tartana alquanto in fuori, per potere col vènto della: sera slargarsi dalla spiaggia del golfo di Spezia, dove stavasi in pericolo d’essere scoperti. Si riuscì dopo più ore di lavoro a scostarsi alquanto e fatto buio li 30 individui poterono portarsi sulla, coperta a respirare un po’ d'aria. Si sperava d’aver nel corso della notte un pochino di vento per far del cammino ed essere almeno in rotta, onde il dì il, non potendo trovarsi all’isola di Montecristo, trovarsi almeno presso quella località: non s’erano fatte che da circa GO leghe in tre giorni e dovevasene far altre 100 circa per trovarsi al luogo di convegno. Pure si sperava nei due giorni, che rimanevano, di molto acquistare di via. La notte il vento ci spinse al largo dalla terra, ma sempre in vista 'del golfo della Spezia. Il giorno 9 il tempo sin dall'alba mostrò segni di pioggia; ciò faceva sperare bene, dappoiché ci auguravamo del vento favorevole per far cammino. Ma il destino doveva mostrarcisi nemico e tale ci si manifestò dopo poche ore che s' era fatto giorno. Un uragano in pochi momenti scalenossi: il mare divenne più che burrascoso: un vento tutt'affatto contrario cominciò) a soffiare: il battello ruppesi nella carena e l’ondate del mare penetravano dentro, di modo che in pochi minuti si giunse ad avere 4 palmi d’acqua. Per maggior mala sorte il bastimento trovavasi con la pompa inservibile, s’era senza carta di navigazione, con attrezzi e cordaggi vecchi, che rompevansi ad ogni infuriar di vento. Li marinari per la folta nebbia non sapevano più dove stava la terra e quindi perdevansi d’animo. Si raccolsero tutti a consiglio con il vecchio capitano, il quale corrivo del toltogli comando e dell’operato imbarco d'uomini e d’armi, a suo dire, a modo d'inganno, sulle prime si rifiutava di prender parte al consiglio; ma poscia vedendo che, se si fosse tenuto oltre il mare, il naufragio era certo, piangendo consigliava di cacciar in mare tutto quanto v'era di compromettente sul bordo, di metter le vele e dirigere il timone verso Genova, essendo il vento in poppa per quel porto. A questo punto fu chiamato R. Pilo e gli si fece la relazione della dura posizione. Il Pilo consigliava di far ogni sforzo per tenersi in quel punto e di attendere che la tempesta si fosse alquanto calmata. Ma vane riuscirono le sue istanze, dappoiché capitano e marinari protestavano dicendo che mantenendosi in quel sito non si sarebbe più avuto tempo di salvarsi dal naufragio, che la tempesta non sarebbe presto cessata né il bastimento era più in condizione di poter resistere all'urto delle onde. Lo che fu dimostrato dal fatto pochi momenti dopo, essendosi rotto in carena, allora facendo conoscere il pilota il Sordo e il primo marinaro a netto che non era più possibile di trovarsi al punto convenuto col Pisacane verso la rotta ¡dell’isola di Montecristo, quand'anche il bastimento fosse in istato di mantenersi in mare; per evitare il naufragio, che il capitano? i suoi ritenevano certo, si mise il bastimento alla direzione di Genova dove il vento furiosamente lo spingeva. E cosi in tra ore circa si rifece il cammino che s’era fatto in tre giorni e si giunse alle 3 ore p. m. del giorno 9 Giugno nel porto di Genova, avendo il pilota e gli altri marinari cacciato in mare li 250 fucili, le munizioni tutte, le 250 daghe, la cassa di polvere, le vanghe, pali, zappe, giberne ed una delle due imbarcazioni. E ciò contro il volere di R. Pilo, il quale aveva progettato che almeno si fossero salvati li 250 fucili col porli sotto la sagorra; operazione che erasi già cominciata ad eseguire, ma poscia fu presto interrotta per le proteste del capitano e detti marinari, che temevano della visita della Dogana al giungere in porto. Come si arrivò al porto di Genova, quelli della dogana e della sanità tardarono pel tempo agitato a portarsi in sul battello. E così di pieno giorno ed alla vista di tutti gli equipaggi dei bastimenti e vapori, che stavano presso la Darsena dove il bastimento diè fondo, li passeggieri gettaronsi in sul battello con il capitano, che dovevasi portare all’ufficio di sanità; e quindi inosservati entrarono dalle varie porte nella piazza di Caricamento e si poterono salvare dall’essere arrestati».

A questo racconto seguono nel manoscritto del Pilo altre notizie, che però non giungono sino alla seconda partenza di lui, ch fu il 24 dello stesso mese. Il Pilo rientrato in Genova si recò immantinente dal Pisacane e lo trovò in compagnia di Angelo Mangiai ch’era stato avvertito dal marinaro Paganetlo di tutto l’accadutoIl loro primo pensiero fu quello di scrivere al Fanelli, ch’era il capo partito residente in Napoli, per avvisarlo che la spedizione non avrebbe più luogo il 10 Giugno. La lettera fu scritta e indi— rizzala un Bozigher usciere del consolato Inglese di Napoli, che poi doveva curarne il ricapito. Siccome non v'era tempo da perdere perché il vapore postale francese partiva lo stesso giorno (9 Giugno) alla volta di Napoli, fu commesso al Pilo di recare la lettera al consolato Inglese di Genova, che la doveva spedire a quello di Napoli. Mentre il Pilo andava al consolato Inglese, Pisacane e Mangiai si avviarono da Mazzini per informarlo del contrattempo; ma in questo mentre la signora Enrichetta Di Lorenzo, amica e compagna di Pisacane, lo consigliò di andare egli stesso a Napoli per vedere coi propri occhi lo stato della città e i mezzi del partito d'azione. La signora Enrichetta era contraria a questa spedizione; non aveva le speranze del partito mazziniano nò credeva che un paese disposto alla involuzione avesse bisogno d'aiuti esterni e del sacrificio di pochi individui per iniziarla. Essa sperava che Pisacane col viaggio di Napoli avrebbe mutato pensiero. Carlo Pisacane d’accordo con Mazzini accetti» il consiglio della sua signora; ne informò il Pilo, che trovato chiuso il consolato Inglese era tornato senza aver potuto consegnare la lettera; fece in fretta una valigia con poca biancheria e parti sul vapore postale francese col passaporto di Francesco Daneri. Questo passaporto era già pronto e vistato, perché con esso il giorno dopo (10 Giugno) doveva partire Enrico Cosenz per capitanare la rivoluzione che sarebbe scoppiata in Napoli in appoggio dello sbarco di Pisacane. Ma il Cosenz avendo la mattina dello stesso 9 Giugno parlato con Mazzini e saputo che con lui sarebbe andato a Napoli Maurizio Quadrio, non volle più partire, sì perché in fondo poco gli piaceva la spedizione e si perché la presenza del Quadrio in Napoli dava uno spiccato colore mazziniano all’impresa.

Qui finisce tutta la narrazione del Pilo. Ma non sarà discaro ch’io m’intrattenga un altro poco intorno alla spedizione di Pisacane

Aurelio Saffi nel proemio agli scritti di Mazzini, vol. IX, p. 138, dice che

«il Pisacane andò

in Napoli, vi si trattenne due o tre giorni e tornò esultante d’entusiasmo, convinto che colà tutto era pronto, lo spirito pubblico unanime, l’esito certo». Il Saffi qui carica molto le tinte, come mostra la seguente lettera del Pisacane al Pilo:

«Napoli 13 Giugno 57.

Carissimo amico,

Lunedi avrai già ricevuto la mia lettera per posta. Ora non posso scrivere che due righe, giacché bisogna subito consegnare la lettera. Dirai all’amico (Mazzini) che non vi è nulla di concreto pel momento, vi sono elementi disgregati né possono concretarsi in pochi giorni: contavano tutti sul fatto nostro. Io non ho del tutto perdute le speranze, ma le speranze sono debolissime: nella giornata di domani e dopo mi assicurerò meglio del tutto e non potendo sperar nulla, come credo, verrò col primo vapore che parte. Dunque all’arrivo del primo vapore fa in modo che 22. 8. 63. 82. 85. 44. (Daneri) venga egli medesimo al bordo.

Carlo Pisacane.

Questa lettera, a mio parere, parla solo della possibilità d'iniziare la rivoluzione in Napoli. I capi popolani e borghesi, che si riunirono col Pisacane nei giorni 13 e 14 in questa città, si vantarono che se l’iniziativa partiva dalla provincia, essi vi avrebbero dato in Napoli un seguito immediato. «Carlo promise, dice il Pilo in una lettera da Malta del 5 Dicembre '57, che avrebbe fatto di tutto per promuovere un movimento in provincia ed al capopartito residente in Napoli (Fanelli) ed al Pateras

fece conoscere che tornando in Genova avrebbe procurato di portar a termine la spedizione; che partita la spedizione, con segno telegrafico ne sarebbero stati avvisati perché secondassero l’impresa.

Ma sullo vicende della precedente spedizione del Pisacane non dispiacerà di leggere i ragguagli contenuti nella seguente lettera del Pilo, il quale mentre nella narrazione si limita alla nuda esposizione dei fatti, nella lettera dà libero sfogo ai suoi sentimenti. Essa perciò farii conoscere il modo di sentire e di giudicare del Pilo, che,, sebbene ardente ed eccessivo nei giudizi, è pure abbastanza imparziale; e mentre rimprovera ai costituzionali di Napoli la loro riluttanza ad insorgere, biasima anche l’inerzia dei mazziniani di quella città. La lettera è indirizzata alla signora Enrichetta in. Genova:

«Malta, li 3 ottobre ’57.

Gentilissima amica,

Quanto le vostre righe mi abbiano lacerato l’animo, non trovòtermine come signifìcarvelo. Pur troppo, egregia amica, avete ben ragione di piangere e di reputarvi sgraziatissima per l'incommensurabile perdita, che voi, la sventurata Silvia eia nostra comune patria l'Italia hanno sofferto con la morte gloriosa sul campo di battaglia del vostro amico e mio confratello Carlo. Sgraziato eroe! Si. esso peri, a quanto ne ho potuto sapere, la mattina del 2 Luglio mentre con li compagni s’accingeva a combattere: lui ed i suoi erano sfiniti per le fatiche durate dalle 6 p. m. del 28, momento di disbarco in Sapri e principio di marcia e di combattimenti. Falcone perì al suo fianco, Nicotera ferito in più punti e gravemente sopravvive. Egli vide massacrare quegli eroi sotto i propri occhi. Ah! sventura! ben si puòdire: i fratelli hanno ucciso i fratelli!! Sventurata amica, da quanto ho constatato dalle corrispondenze, che Fanelli possiede, li capi della Basilicata sono li più colpevoli. Essi si scusano col dire di non essere stati avvisati dall’imminenza del disbarco; che tutto era pronto per la prima volta, cioè pel 13 Giugno; che non effettuatosi il disbarco per quel di, non s’aspettava pel 28. Aggiungono d’aver appreso la notizia del fatto dell’eroico Carlo dopo la disfatta; che furono impossibilitati e non più in tempo di correre in aiuto degli sbarcati con gli uomini molti in armi, che avevano dichiarato d’aver pronto ai loro cenni per insorgere. Dichiarazioni ed assicurazioni, ’ che Fanelli possiede in originali documenti. Ora io condanno li capi della Basilicata: primo, perché ritengo per fermo che l’annunziodel glorioso fatto compiuto il 28 in Sapri giunse in Basilicata prima del 2 Luglio, giorno in cui Carlo e i suoi furono dalla forza numerica maggiore dopo quattro giorni di marcio e combattimenti massacrati; secondo, perche non si sollevarono anche dopo il giorno 2 contro il governo Borbonico, che massacrava 400 eroi. Essi capi della Basilicata al Fanelli avevano scritto d’aver centinaia d’uomini armati di tutto punto e pronti a battersi e ad appoggiare un nucleo d’uomini ardili, che si fossero presentati in quei dintorni di loro provincia. Ora Carlo si basò su quest'appoggio e con li suoi si mise in marcia per quella provincia. Li signori capi della Basilicata, che sin da maggio dal Fanelli erano stati avvisati che sarebbe avvenuto un movimento in provincia e che doveasi da loro assistere ed appoggiare con quelle forze armate, che avevano dichiarato d'avere, se non erano vigliacchi e tristi avrebbero dovuto correre in aiuto di Carlo, anche se fosse vero che tardi fosse loro giunta la notizia dello sbarco dei 400 eroi. Ma io ritengo per fermo che essi vigliaccamente s’aspettavano che Carlo solo con gli sbarcati si fosse aperta la strada fino alle loro case. Eh! si, questi signori che dichiarato avevano che se si fosse fatto uno sbarco l’avrebbero sostenuto con i loro armati, non avendo fatto nulla nulla, per me sono degni d’essere ritenuti non solamente vigliacchi, ma essendo influentissimi e disponendo di più centinaia d’uomini completamente armali, dei quali 260 con cavalli, a mio modo di vedere possono condannarsi per traditori; perché per me si tradisce la patria, quando non s’aiuta un movimento d’un numero d’eroi non insignificante, com’era quello guidato da Carlo.

Per il nessun movimento in Napoli, tutta la colpa, per quanto il Fanelli ha dichiarato e dimostrato con documenti, ricade sugl’infami dottrinari e moderali, i quali dissuasero tutti li capi popolani della Capitale e dei dintorni a gittarsi in piazza; e ciò dopo di essersi convenuto e promesso al Fanelli il 29 Giugno e il 30 detto mese e dopo riunioni con l’intervento del Fanelli, che si farebbe una solenne ed imponente dimostrazione in sostegno degli eroi, che con l’italiano vessillo sin dal 28 la sera battevansi con le truppe borboniche. Ma nel giorno che tutto stava pronto nella capitale per tare tutti li partiti d’accordo la dimostrazione, per mezzo della quale Fanelli e i suoi pochi compagni pensavano di promuovere la rivoluzione, li moderati e dottrinari sottomano contromandarono. spedendo corrieri nei dintorni, ogni agglomerazione d’uomini d’azione e fecero conoscere ai capi popolani della capitale che s’era stabilito di non far nulla per non far succedere un nuovo quindici maggio... Li moderali, che tanto male produssero in quest’ultima eroica impresa, meritano la forca, perché comportaronsi infamemente... Fanelli ed i suoi pochi amici mancarono, per non aver saputo cogliere il primo momento d’effervescenza popolare all’annunzio o divulgamento della notizia dello sbarco avvenuto

Amica sventurata, voi scuserete se quanto vi ho scritto sta vergato confusamente, ma ho dovuto scrivervi con precipitanza.

R. Pilo»

II

Prima d’andar oltre debbo avvertire che gli scritti sopra riportati si conservano presso la Società Siciliana di Storia Patria, alla quale il lettore sarà grato, se li troverà degni di nota. Debbo poi ringraziare il Dott. Giuseppe Lodi, segretario di essa società, cosi largo dei sussidi della sua estesa erudizione e della sua preziosa libreria a quanti studiano gli annali del Risorgimento Italiano, e il Cav. Crispo Moncada, che mi fu sommamente cortese in tutte queste ricerche. In seguito dovrò citare non pochi documenti dell'Archivio di Stato di Palermo, pei quali sin d’ora rendo le maggiori grazie che so al dotto bibliotecario di quell’archivio, Dott. Giuseppe La Mantia.

Ora per tornare al proposito, Carlo Pisacane, come tutti sanno, parti da Genova per Sapri il 25 Giugno 1857. 11 giorno avanti in una barca da pesca Rosolino era partilo la seconda volta insieme con altre 24 persone per attendere in alto mare a 20 miglia da Sestri di Levante il vapore Cagliari, che doveva tenere a bordo Pisacane, Nicotera, Falcone, Daneri e i loro compagni. Ma sia stata nebbia o errore di rotta, il vapore passò senza essere visto; quelli della barca errarono qua e là circa tre giorni,. finché il 26 la sera furono accertati che Pisacane era partito all’ora prefissa e che ornai era indubitato che avesse proseguito il cammino. Perciò il 27, dopo aver discusso se mancato rincontro col Cagliari convenisse dirigersi a Livorno dove pure si preparava un moto rivoluzionario, deliberarono di ritornare a Genova. Nella quale città, secondo il disegno prestabilito, i Mazziniani appena conosciuto lo sbarco di Sapri dovevano occupare per sorpresa i forti e l’arsenale, impadronirsi di una fregata ad elice, ch'era nel porto, caricarvi i cannoni e le altre munizioni di guerra; quindi imbarcarsi tutti pel regno di Napoli in soccorso di Pisacane. Questo disegno, che Garibaldi giudicò insensato, non si potette effettuare perché il governo ne aveva avuto sentore poco prima dell’esecuzione né era più possibile la sorpresa. Lo stesso Mazzini vide all’ultimo momento la necessità di desistere: ma il contrordine non arrivò. a tempo per tutti, perché quelli designati a impadronirsi del forte Diamante, approfittando di qualche dimestichezza che avevano colle guardie, vi erano già penetrati dentro, avevano chiuso i soldati in una camera e ucciso il sergente Pastrone, che opponeva maggiore resistenza (notte dal 29 al 30 Giugno): ina poi la mattina seguente non vedendo mutazione nella città abbandonarono il forte. Questi fatti diedero origine ad un processo, nel quale fu coinvolto Rosolino, come colui che doveva partecipare all’assalto del forte dello Sperone. Fu spiccato contro di lui un mandato di cattura, benché assai poco si conoscesse della sua parte nella congiura; ma si sapeva ch’era partito e poi tornato, ch’egli era come il capo degli esuli Siciliani seguaci di Mazzini e che nel tentativo la sua parte non poteva essere secondaria. Il Pilo visse latitante alcuni giorni, finche poco prima della metà di Luglio trovò modo di fuggirsene a Malta. Frattanto si fece una perquisizione giudiziaria nel suo domicilio in Genova; ma non essendovisi trovato che uno stocco o spada montata in bastone, fu rinviato al tribunale correzionale per ritenzione (Tarmi insidiose e condannato nel Gennaio del ’58 a tre mesi di carcere.

Queste vicende e la stessa catastrofe del Pisacane non valsero a sbigottire l’animo del Pilo. Ecco come egli scrive da Malta il 5 Novembre ’57 al suo amico Matteo Cheusel in Genova:

Amico gentilissimo,

.... Non vi parlo di me dopo le sventure e la perdita sofferta del mio migliore fratello, il grande eroe Carlo Pisacane. L’animo mio è molto contristato; ma non per questo ho smesso di lavorare per la nostra diletta patria. Oh! no; io oggi più che mai sento desiderio di farla finita coi nostri oppressori».

Nello stesso senso aveva scritto quattro anni prima ad Antonino Pracanica, uno dei capi dell’insurrezione Messinese del 1° Settembre ’47 e poi nel ’48 comandante generale della stessa città:

22 Febbraio 1853.

«Saprai certamente a quest’ora l’infelice esito del movimento rivoluzionario accaduto il 6 febbraio in Milano. Per Dio! è stata una grande sventura: ma speriamo che la faccenda non s’arresti al primo tentativo. Mi cade in mente che in Settembre’47 il movimento di Messina fallì e dopo 4 mesi l’uragano riscoppiò in tutta la Sicilia. Io mi auguro che fra poco l’insurrezione scoppierà in tutta Italia: sulla Francia non conto». (Archivio di Stato di Palermo, Fase. 64 nella Bacherà della Sala 1(a)).

In altra lettera del 22 Gennaio 1853 al fratello primogenito Ignazio, che contrariamente agli altri della famiglia era reazionario borbonico, Rosolino parlando d'un’aggressione che aveva patito in Genova da due Siciliani di bassa condizione dice: «Con grande piacere t’aiuterei, fratello mio, nell’amministrazione e governo degli affari di tua famiglia; ma nel momento vedo eh'è impossibile il mio ritorno in patria, perché un ostacolo potentissimo vi ha, il quale non può sormontarsi tanto facilmente per la mia maniera di pensare, dalla quale non posso recedere. Ne sono dolente, perché pur troppo vedo che dobbiamo esser divisi: ma come opporsi all'avverso destino? Pazienza dunque; e speriamo nell’avvenire, che mi auguro sia un giorno a tutti propizio». (Archivio citato, Filza 1183, n. 57).

Vivevano in Malta Ruggiero Settimo, ornai estraneo alla politica, Giorgio Tamaio con Cesare Napolitani ed altri esuli di Siciliane soprattutto Nicola Fabrizi, che vi si era stabilito dal 1837, persuaso che il moto liberatore della penisola sarebbe cominciato dal sud. Vi era un'attiva corrispondenza coi comitati liberali di Palermo, Messina, Catania. Malgrado ciò l’anno che il Pilo passò in Malta fu assai triste per lui, perché l'aria non gli era propizia, oltre che «il non vedere, dicevano i suoi amici, esaudite le brame patriottiche lo rendeva triste e di cattivo umore». Accresceva il suo dolore l’essere lontano da una signora di Genova, ch’egli amava ardentemente e ch'era figlia di un notaio maritata a un negoziante e separata dal marito. Agitato da tante passioni, lì Pilo, ch’era stato sempre di debole salute, ebbe un attacco di congestione al cervello e fu assalito da frequenti dolori allo stomaco. Il che aggravato dalla malinconia di vivere su quello «scoglio» lo indusse appena si riebbe alquanto a partire da Malta per Londra, donde poi intendeva di passare nella Svizzera. In Londra, dove giunse nel Luglio 1858, ebbe un altro attacco al cervello r per la troppa applicazione» dicono i suoi amici, cioè pel troppo ardore che metteva in tutte le suo opere; ma per fortuna l’attacco fu leggiero. Golii egli prese

parte attiva alle operazioni del comitato Mazziniano. Un agente Borbonico scrive da Londra l'11 Settembre 58: «E qui giunto un certo Rosolino Pilo Gioeni, come incaricato per gli affari di Sicilia, il quale unitamente ad un certo Fanelli sono in continua occupazione per le cose del Regno (com'essi dicono) e presiedono ogni settimana nel comitato col Mazzini» (Arch. di Pal.).

Frattanto si maturavano gli eventi, che dovevano condurre alla guerra del 1859. Nel Luglio 1858 avvennero gli accordi di Plombiéres tra Cavour e Napoleone III, i quali accordi trapelati nel pubblico vi destarono il più vivo fermento e le più grandi speranze. Si presentiva che si appressavano i giorni dell'azione contro lo straniero; la maggior parte dei rivoluzionari, che stavano nel Piemonte o nelle altre regioni d'Italia, subendo l’influsso dell’opinione pubblica smettevano in tutto in parte le loro predilezioni personali per le forme di governo o per i modi della lotta e si disponevano a cooperare col Piemonte all’impresa nazionale. Il Pilo ricevette molte lettere dei suoi antichi compagni del ’57, senza che ne rimanesse scossa la sua diffidenza ed ostilità verso il governo Piemontese. Egli non voleva ammettere che

l’egemonia Piemontese, ch’era il perno della politica di Cavour, offriva un mezzo assai più sicuro e valido per raggiungere l’unità che non le insurrezioni popolari, che avrebbero dovuto dare d'un getto l’unità e la vittoria. «Scacciare anzitutto l’Austriaco dall’Italia, perché diventasse possibile ogni altro progresso della penisola: l’egemonia piemontese mezzo e guarentigia all’Europa: questi i chiari propositi di Cavour. L'era degli ideali assoluti doveva essere chiusa. Ma chi di quegl'ideali vagheggiati avesse saputo mettere ad effetto la maggior parte, per questo solo li avrebbe oltrepassati tutti». (Vittorio Graziadei. La parte di Cavour, p. 22. Torino, 1886). Non sarà privo d'interesse ilriportare qui alcune lettere tra il Pilo e i suoi amici di Genova, dalle quali apparirà meglio un fatto ancora poco conosciuto, cioè per quali considerazioni l'antico partito rivoluzionario di Genova abbandonò Mazzini e si dispose ad operare al cenno di Cavour. Il Pilo era informato minutamente di tutte le operazioni e trattative su questo riguardo. Il suo amico Giorgio (un Sardo, di cui non m'è riuscito di accertare il cognome) che gli mandava lettere quasi ogni settimana, cosi gli scriveva sul finire del ’58:

Genova 23 Dicembre ’58.

«Pochi giorni sono Garibaldi fu chiamato a Torino e dal La Farina fu presentato a Cavour, il quale gli disse: Noi desideriamo la corona d'Italia (cioè detraila Italia). Lo circostanze si presentano a noi favorevoli e vogliamo ad ogni costo approfittarne. È nostra intenzione per creare l’occasione di servirci dell'elemento popolare. Incarichiamo quindi voi di organizzare un corpo di bersaglieri che farebbe parte della guardia nazionale mobile e che potreste comporre di tutto il corpo rivoluzionario. Intenderemmo di avere nel momento della lotta la dittatura militare; e per questa organizzazione avrete armi, denari, munizioni e vestiario. — A questa proposizione Garibaldi rispose di essere pronto ad accettare l’incarico, qualora fosse sicuro di nessun intervento francese. — Gli fu risposto di essere decisi ad agire ad ogni costo e che se il paese risponde volentieroso ed energico non si avrebbe sicuramente nessun intervento; ma non si eviterebbe questo, se l’appello non corrispondesse. — Dopo tale dichiarazione Garibaldi si decise di mettersi all'opera e di cominciare le disposizioni: ebbe pure l’acconsentimento di parlare liberamente. Venne quindi qui, incaricò Nino Bixio dell’arruolamento per tutta la città e la provincia; fece chiamare da 34 (Carrara?) e da 121 (Milano) individui, che accorsero immediatamente e coi quali si misero d’accordo e stabilirono che farebbero accorrere alla chiamata ogni elemento e preparerebbero l’animo al gran colpo. Siccome poi dal Governo gli fu comunicato che la cosa dovrebbe cominciarsi non prima di Marzo e non dopo di Maggio, cosi si emanarono ordini di prudenza per non precipitare. Avendo dovuto Garibaldi pei suoi interessi di famiglia recarsi provvisoriamente in Sardegna, lasciò ampia procura di agire in suo nome a Medici, il quale quanto prima recherassi a Torino, onde, verificato se esiste a disposizione il denaro, potersi mettere immediatamente all’opera. Entro la settimana ventura si sarà fatta questa verificazione e l’opera sarà alacremente condotta. Bixio incaricato di questo arruolamento fece appello a noi tutti: ci riunimmo per decidere il da farsi in presenza di questa eventualità. La maggioranza propende per accettare l'azione e di star attenti per qualunque caso avvenire. Non voglio dilungarmi sulla maggiore o minore utilità di questa cosa perché Angelo te ne scrive in proposito svolgendo i suoi pensieri come meglio crede. Ti prego solo d'essermi sollecito nel rispondere su quest’argomento, dilungandoti per quanto ti è possibile nello svolgimento di qualunque idea.»

Arch. Stat. Sic. N. 8. anno XXIV.

Il Pilo dovette affrettarsi a riconfermare la sfiducia sua e di Mazzini verso la politica Piemontese. E Giorgio poco dopo gli rispondeva:

«Genova 5 Gennaio ’59.

Carissimo amico,

L’idea di 202 (Mazzini) di far opposizione a quanto pare sia disposto di fare il governo piemontese mi sembra assai intempestiva. Per quanto dubbia debba essere la nostra fede in questo governo, non possiamo scordare eh’esso gode da lungo tempo le simpatie di tutta l'Italia e che in questo momento le simpatie rinvigoriscono, giacche presentano quanto da noi fu sempre desiderato, l’azione e la guerra contro lo straniero. Tu dici che non credi a questo: io invece sono d’opinione contraria, ad onta delle poche disposizioni prese finora da questo governo per mettersi in campo. Non dissimulo che non è di buon augurio l’alleanza Franco-Russa; ma siccome le eventualità d'una guerra sono imprevedibili, dal momento che essi promettono a noi armi e munizioni, sarebbe un grave torto se le rifiutassimo. Il fare poi quanto dice 202 sarebbe un perdere assolutamente in faccia alla opinione pubblica qualunque prestigio. D’altra parte esiste già in faccia a noi un fatto compiuto, la congiunzione cioè dei nostri di 121 (Milano) con quelli di Torino; e questo non si potrebbe distruggere, giacché fu stretto dietro lo varie nostre dichiarazioni più volte ripetuto di accettare il loro concorso, ogni volta che fossero per l’azione. Non ti celo che tanto qui che altrove l’opinione pubblica è propensa a sostenere il governo piemontese e ad avversare qualunque moto fosse fatto in contrario. Buccinano già che 202 sia strumento dell’Inghilterra, la quale vedendosi tagliata fuori di questa combinazione cerca ogni mezzo per distruggere i piani concertati. Io e gli amici tutti, che conosciamo 202 e lo veneriamo per la sua costanza e la sua virtù, non possiamo sentire queste voci che con rammarico, ma tanto i maligni quanto i deboli non mancano, gli uni di fomentare, gli altri di essere abbindolati; ed infine chi ci perderà sempre saremo noi e il nostro povero paese da tanto tempo in questa situazione a causa delle continue dissensioni e discordie. Gli altri amici scrissero e scriveranno su questo proposito a 202. Voglio sperare che si persuaderà che non gli convenga di fare l’opposizione che disse; gli converrebbe piuttosto prepararsi, stare a vedere la condotta di Cavour ed appoggiare se fanno da senno e se l’opinione pubblica è con loro o fare altrimenti in caso contrario. Solo in questo caso verrebbe appoggiato; altrimenti oltre di perdere in faccia all’Italia il suo prestigio, arrischierebbe di vedersi solo o ben poco appoggiato.»

Quest’esortazioni non ebbero effetto: Mazzini non volle rassegnarsi all'alleanza coll’uomo della spedizione di Roma e del 2 Dicembre; onde mandò fuori il 28 Febbraio 1859 una sua dichiarazione sottoscritta anche dal Pilo e da circa 150 altri Italiani. Riportiamo alcuni punti di questa dichiarazione:

«Nella supposizione più che probabile che una guerra s’apparecchi in Italia fra l’Austria da un lato, la monarchia Piemontese bla Francia imperiale dall’altro;

I sottoscritti, convinti

Che senza unità non v’è patria:

Che senza sovranità nazionale non v’è nazione:

Che senza libertà, libertà vera e per tutti, non v'è indipendenza:

Che un popolo non può levarsi in armi con un programma dimezzato:

Convinti da ultimo

Che un’alleanza della monarchia piemontese con Luigi Napoleone Bonaparte produrrebbe inevitabilmente una coalizione Europea contro la causa patrocinata e che la sola probabilità d'alleanza siffatta ha già rapito all’Italia gran parte del favore, che l’Europa intera le dava:

Che il levarsi a insurrezione e guerra per una sola frazione d’Italia, lasciando l’altre frazioni alla tirannide al malgoverno allo smembramento, sarebbe un tradire onore patria giuramenti èd avvenire ad un tempo:

Dichiarano

Che se la guerra Italiana s’iniziasse diretta e padroneggiata da L. Bonaparte od alleata con lui, essi s’asterrebbero deplorando dal parteciparvi:

Che serbandosi diritto di voto e di apostolato, essi pronti oggi come sempre furono a sacrificare il trionfo immediato della loro fede individuale al bene ed all’opinione dei più seguirebbero sull’arena la monarchia piemontese e promuoverebbero con tutti i loro sforzi il buon esito della guerra, purché tendente in modo esplicito all’unità nazionale Italiana.»

Gli amici di Genova, come poteva prevedersi, non fecero buon viso a questa dichiarazione; ed Angelo (un Lombardo,di cui nemmeno m’è riuscito di accertare il cognome) ne dà le ragioni nella seguente lettera:

Genova 12 Marzo ’59.

Carissimo Rosolino,

Le conclusioni della dichiarazione (del 28 Febbraio) contenuta nel n. 13 del Pensiero ed Azione mi pare che si riducano propriamente a dire: non partecipiamo alla guerra, se c’ entra Bonaparte; non ci associamo alla monarchia Sabauda, se questa non si fa rivoluzionaria e da domani non possiamo avere il diritto di pronunziarne la decadenza. —Non vorrei commettere uno sbaglio d’interpretazione per non arrischiare di fraintenderci. Ma mi pare che la sostanza della dichiarazione sia quella che ho esposta.

Ma ecco che cosa oppongo a queste due conclusioni: rinnegare un amico nuovo, anche pericoloso, per farsene un nemico accanito pericolosissimo è una politica che non mi va a sangue. E bada che uso la parola amico per chiarezza soltanto e in un senso profano del tutto, poiché io credo che Napoleone III ami la libertà d’Italia quanto io il palo del Gran Turco; e perciò io credo che si debba approfittare del suo antagonismo con l’Austria, accettandolo come un fatto, che ci può di riverbero riuscir favorevole, non come pruova della sua tenerezza verso di noi. E questo per la prima. Quanto alla seconda, il non voler tener conto degl’incagli che un governo costituito, per ciò solo ch'è costituito, deve trovarsi innanzi anche quando è deliberato alle risoluzioni più ardite, la non mi sembra proprio giustizia; come non mi sembra giustizia il pretendere che un governo l’indomani d’una vittoria lasci discutere la propria esistenza.

I principii li venero e li adoro più di qualunque altro o almeno quanto qualunque altro. Ma di fronte ai principii voi non vedete che menzogne: io vedo anche dei fatti. E di qui soltanto comincia la nostra divergenza.

Sia improvvido traviamento, sia mal calcolata fiducia, le masse {intendo anche le masse colte) non possono, non sanno, non vogliono crear la nazione con uno di quegli slanci immortali, di cui dovrebbe pur essere capace un paese che si chiama Italia. Bensì avendo udito rumoreggiare novelle ambizioni di primato monarchico o nuove velleità di vittorie napoleoniche, hanno creduto giunto il momento di profittare delle une e delle altre per conseguire, se non l’unità nazionale, tanto almeno che basti per dire d'aver fatto un gran passo verso la medesima, un passo che sia foriero d’altri più facili e pronti. Se questo è delitto, i rei sono tanti da non poterli punire od anche soltanto contrastare.

«Senza unità non v'è patria.» Ma per chi si combatte e si muore da tanti anni in Italia se non per la patria? Non siamo costituiti in nazione, è vero; ma una patria, una sacra adorabile patria, l’abbiamo per Dio! — «Senza sovranità nazionale non v’è nazione.» Ma la Spagna non è nazione? La Francia non è nazione? La stessa Inghilterra, ove è ancora un lontano benché fremente desiderio il suffragio universale (altro degli elementi della sovranità nazionale), noi è nazione?—«Senza libertà non v’è indipendenza.» Ma o io non so che voglia dire indipendenza o sono indipendenti, benché senza libertà vera e per tutti, le suddette nazioni ed altre che sarebbe agevole nominare.

Frattanto in Italia gli avvenimenti precipitavano. L’Austria dichiaro guerra al Piemonte: il 29 Aprile Vittorio Emanuele rivolse agl’italiani un proclama, col quale dichiarava di non avere altra ambizione che di essere il primo soldato dell’indipendenza Italiana. Poco dopo Napoleone III pubblicava anch’egli un suo proclama. Paolo Orlando scrive al Pilo:

Genova 7 Maggio 1839.

«Non puoi farli un’idea esatta delle cose di qui: non vi sonopiù partiti: è un volere universale: il proclama di Vittorio Emanuele e quello di Napoleone III hanno messo il suggello, il colma direi, all'idea generale. Gli applausi si spingono fino al fanatismo: da tutti si è sicuri che questa volta l’Italia sarà indipendente. La donne incoraggiano gli uomini: è una vergogna per un giovine passeggiare per le strade. Pei condannati del 29 (Giugno 1857)Vittorio Emanuele ha dato la piena amnistia. Vedremo il povero Savi: e tu che pensi di fare?»

Ed Angelo:

Genova 13 Maggio 1839.

Amico carissimo,

«Da ben tre mesi io son rimasto senza tue lettere. La mia previsione — ch’io ti sia spiaciuto — si è dunque avverata. Ma si è avverata pure l’altra — che sareste rimasti pochi ed isolati. Vorreste ostinarvi a languire sopra una via disertata oramai da tutti gl’italiani? Vi si vorrebbe ostinare Giuseppe Mazzini, questo nostro venerando apostolo, il quale ispirandosi ai sentimenti che gli hanno dettata la famosa lettera a Carlo Alberto potrebbe scegliersi una via degna di lui? In Toscana non' vi sono Francesi: in Toscana l’ordinamento politico è riservato a guerra finita. Non è nemmeno quello il vostro paese? —Sperate forse in Napoli, nella Sicilia? Tanto meglio, tanto meglio davvero. Ma badate che il grido «viva l’Italia una» non vi riesca grido separatista. — L’Italia del ’59 è sublime di concordia, di abnegazione. Il numero, il contegno e la diversa provenienza dei volontari fu argomento di spettacolo nuovissimo ed oltre ogni dire solenne.

E per quanto possa spiacerne ad un repubblicano assoluto, la sincerità di re Vittorio Emanuele, l’eminente capacità del Conte Cavour e la sopraffina politica di Napoleone III furon tanto che basta per trascinare le turbe. Possibile che non vi abbiano persuaso a secondare le universali tendenze quelle tante relazioni, che dovete aver ricevuto sul vero stato attuale della pubblica opinione? — Più d’uno trovai diffidente all'estremo, ma che partiva pel campo. — E perché? domandai. — Perché si combatte l’Austriaco. — Ecco la risposta che vince qualunque discussione.»

Rosolino rispose:

Londra li 30 Maggio 1859.

Carissimo Angelo,

Ho avuto 15 buoni giorni di forte malattia ed ho sofferto molto fisicamente e moralmente: ora sto meglio e da 3 giorni ho lasciato interamente il letto: spero di riavermi del tutto e di acquistare quelle forze che mi occorrono per agire.

Mio caro, ti lagni del mio lungo silenzio. Mi duole che hai creduto che la tua lettera di 3 mesi fa mi fosse spiaciuta. Oh! no. Io nello scrivere settimanalmente al nostro Federico intendevo di scrivere anche a te: ero certo che le mie lettere da Federico ti erano comunicate, avendonelo più volle pregato di farlo. — Alla tua lettera di tre mesi sono non risposi punto per punto, perché avendo fatto proponimento di non più contrariare e sindacare le viste presenti dei miei antichi amici politici, credei non conveniente di combattere quanto mi vergasti in quel tuo foglio; molto più che ero e sono persuaso che li fatti dimostreranno chi di noi si sarà ingannato.

Amico mio, io ritengo per fermo che l’Italia non avrà la sua indipendenza, mercé Fattuale invasione del sopraffino politico Luigi Napoleone, oggi vostro grande e magnanimo imperatore; ritengo per fermo che molto meno l’Italia conseguirà la Unità Nazionale; e spero che so non vorrete negare la luce del giorno, avrete il buon senso di convenire in questo, che l’attuale guerra governata da Napoleone il sopraffino non darà all’Italia l'Unità tanto sospirata da noi tutti e per la quale tanti martiri sono caduti in questi ultimi dieci anni. La guerra attuale, a mio avviso, non ci frutterà che nuovi proconsoli francesi e soffocamento di libertà costituzionali in Piemonte. Un bene voi Lombardi forse conseguirete, quello cioè di riunirvi al Piemonte; ma ciò non importa indipendenza d’Italia, dappoiché noi avremo altre provincia d’Italia invase dallo straniero, cioè un Plonplon in Toscana e nelle Romagne, il Papa sostenuto in Roma dai Francesi etc. Se l’indipendenza, che desiderate, è questa, oh! si, che l’avrete facilmente.

Mi dici che ti sei imbattuto in più d’uno diffidente all’estremo ma che ciò non ostante partiva pel campo, perché si combatteva l’Austriaco. Io ammiro costoro, ma non so imitarne completamente l'esempio; molto più che ho fiducia che vi sarà terreno di combattere l’Austriaco senza bisogno di mettersi sotto gli ordini del tristo despota, Napoleone III. Io p. e. tosto che avrò ricuperato le forze fisiche e avrò li mezzi pecuniari, non me ne starò con le mani alla cintola, come sin dal 1847 non ci sono stato un solo giorno; ma sarò conseguente a me stesso, non mancherò al giuramento fatto alla mia patria di combattere per l'Unità d'Italia e contro lo straniero sia Austriaco sia Francese od altro, che si abbia il piede nella nostra sventurata Italia. Questo credo ch’era il dovere di tutti eri’ Italiani e precisamente di quelli che sino a pochi mesi fa professavano questi principii. Non scrivo ciò per muover loro rimprovero, dappoiché ritengo che un malinteso dovere verso la patria li ha spinti sotto bandiera non nostra.

Amico mio, mi parli di terreno per me e i miei amici politici in Toscana, dove non vi sono Francesi e vi è riservato l’ordina mento politico a guerra finita. Ora il fatto posteriore alla data della tua lettera del 13 ha distrutto tutto quanto mi scriveste Plonplon con numerose truppe Francesi trovasi già in Toscana; di più quel governo si è sottomesso al protettorato Sabaudo-Napoleonico ed il risultato di questo protettorato è stato l'annullamento della libertà della stampa e della libertà individuale. Ed 4 bene che tu sappia che anche prima di stabilirsi questo stato di cose avevo già pruove dell’intolleranza, del partito Sabaudo. Sappi che io il 7 Maggio scrissi ad un mio antico amico politico, amicissimo di Malenchini, domandandogli se io, Mosto (Antonio), Libertini (Giuseppe), D’Antoglietti ed altri saremmo potuti andare in Toscana senza pericolo di venir vessati; molto più che dichiaravamo di non andar colà per cospirare contro lo stato politico impiantatosi, ma per stare in Italia pronti a correre in qualunque punto della penisola, dove non vi fossero Francesi. Il 12 Maggio ebbi la risposta, la più triste che mai si potesse dare da Italiani e fu ch’era stato dato ordine agli Agenti consolari di non permettere l'andata in Toscana a tutti i compromessi in fatti di politica contraria a quella seguila oggi dai buoni ed onesti Italiani, che sarebbero quelli che plaudiscono all’invasione Francese e Napoleonica del momento.»

Bisogna confessare che in questa lettera non mancano le qualità, che gli amici tutti riconoscevano in Rosolino e che lo rendevano loro tanto caro, schiettezza, franchezza e chiarezza nello esprimersi.

Cominciata la guerra, gli Austriaci furono sconfitti a Palestro, Magenta, Solferino e S. Martino. L’entusiasmo cresceva con le vittorie e da tutti si riteneva certa e prossima la liberazione d’Italia, quando si seppe che la sera del 6 Luglio Napoleone aveva mandato a proporre all'Imperatore d'Austria un armistizio, che era stato accettato la mattina del 7. Fu un colpd durissimo. La guerra finiva col lasciare la Venezia sotto l’Austria e col permettere che in Toscana, nei Ducati e nelle Romagne fossero ristabilite le antiche signorie. Tutti sanno che Cavour a quella notizia corse sul Mincio e in vivo diverbio con Vittorio Emanuele voleva indurlo a non accettare l’armistizio. Il 10 Luglio «il Re chiamato a se il Generale Della Rocca lo intrattenne del colloquio ch’era avvenuto poco prima tra lui e Cavour. Sa lei che vorrebbe Cavour? disse il Re. Vorrebbe ch’io da solo continuassi la guerra. Detesto anch’io questa pace infame, ma io non perdo la ragione, pon mi lascio accecare dalla passione.» A nessuno verrà in mente che Cavour desse quel consiglio per difetto di acume prattico e di. giusta considerazione, ma piuttosto ch’egli era mosso da quella sovreccitazione d’animo che creò gli eroi del Risorgimento. Non farà perciò meraviglia che anche il Pilo volesse la continuazione della guerra; se non che in questa dava il primo posto ai volontari e il secondo all’esercito Piemontese. Egli scrive ad Angelo:

Londra 18 Luglio 1839.

Mio carissimo amico,

Oggi quello che costà si dovrebbe fare si è di non far disciogliere i corpi dei volontari; si dovrebbe farli dichiarare non soddisfatti della pace compiutasi, ma risoluti a combattere finché l’Austria non sarà fuori d’Italia e finche lìtalia libera dallo straniero non si sarà costituita o in uno stato monarchico, se Vittorio Emanuele riverrà in campo con l'esercito per ottenere l’unità della penisola; o solto forma repubblicana, se Vittorio Emanuele verrà meno al suo programma di voler far l’Italia libera e indipendente. Dal canto nostro si sta facendo di tutto per convincere gl'Italiani di accettare il pensiero ora manifestato e di metterlo tosto in esecuzione, dappoiché per riuscire non bisogna dar tempo agli Austriaci di riordinarsi e di riparare le loro perdite né a Napoleone di soffocare l’indignazione sviluppatasi in tutti gli animi di sano sentire. — La Sicilia sembra dispostissima a muoversi, giusta le lettere che abbiamo ricevuto; e già un nostro amico vi è andato per stabilire gli accordi. Oggi Salvatore (Calvino) e Vincenzo (Cianciolo) dovrebbero subito recarsi in Sicilia e mettersi alla testa del movimento. Io compirò il mio dovere ed altri pure. Ciò vi serva d’avviso. Nelle Romagne è d'uopo che si vada e si faccia ingrossare il corpo dei volontari colà esistenti: insomma ordinare un esercito rivoluzionario Italiano o riprendere l’ostilità, anche a costo di rimanere schiacciati. È mestieri che si operi, che si faccia scoppiare la rivoluzione ovunque; onde la; storia, nel caso che la fortuna ci fosse nemica, possa dire: gl'italiani fecero il loro dovere, ma una forza maggiore di stranieri soffocò il volere degl’italiani, quello cioè di conquistarsi la libertà,, l’indipendenza e l’unità. Io spero e mi lusingo che tu e quanti hanno sangue Italiano nelle vene si metteranno all'opera e giureranno alla Patria ed a loro stessi di spargere l’ultima stilla di sangue per ottenere il santo scopo di sopra manifestato.»

Ma sul proposito del Pilo di recarsi in Sicilia bisogna rifarci alquanto indietro.

III

Nel Novembre 1858 il Pilo ricevette da Malta una lettera di Giovanni Corrao, altro esule Siciliano, che lo invitava ad unirsi a lui per un tentativo in Sicilia. Per circa due mesi si scrissero ripetutamente senza potere bene intendersi o per la irregolarità del ricapito o per la difficoltà di tutto determinare in iscritto. Infine il Pilo mandò al Corrao questa lettera;

«Londra li 17 Gennaro 79.

Caro amico.

Varie lettere v’ho dirette in seguito dell’ultima vostra d’or sonpiù mesi ed ignoro se vi siano pervenute. L’affare che mi proponete è stato accettato e non manca per definirlo che la vostra venuta. Se vi mancano i mezzi per ricongiungervi a me, prendete ad imprestito il denaro, che sarà pagato alla scadenza senza fallo: contate per questo sulla mia parola. Io vi sarò compagno nell’impresa: però bisogna far presto. Aspetto un vostro riscontro a rigor di posta per sapermi regolare. Addio: non vi scrivo altro perché conto di riabbracciarvi presto.

Vostro aff. mo fratello

Rosalino.

Ma prima di ricevere questa il Corrao gli avea spedito un’altra lettera, che come tutte quelle di lui è scritta in un gergo tra lingua e dialetto, ma che pure il lettore vorrà tenere in pregio, perché questa corrispondenza è il primo anello d’una catena, di cui l’ultimo è lo sbarco di Marsala. Riproduco la lettera quasi com’è originalmente, salvo nell’ortografia e nella punteggiatura. Corrao dunque scrive a Rosolino:

Malta 18 Gennaio ’59.

Impareggiabile amico,

Ieri ebbi il piacere di ricevere una vostra a me tanto cara per mano di Grassetti (Tamaio). Se non mi avesse ingannato il divello, avrebbe mesi quattro che sarebbe (sarei) entrato all’Ospedale e forse avrebbe guarito il povero ammalato: era una buona occasione che mi si presentava, ma Civello mi è stato la causa. Allora ho lasciato Alessandria e mi sono portato in Malta; ed appena arrivato il 6Novembre subito ho scritto in Palermo onde vendermi un fondo di mia proprietà. Ma voi sapete il tempo che prendono le vendite e per questo sarebbe meglio che voi mi muniate dei mezzi necessari, onde sull’istante mettermi all’opera. Avrei amato fare tutto a spese mie, ma il tempo incalza e bisogna presto guarire l'ammalato, per cui resta a voi di accelerare il passo e lasciate a me la cura di guarire questo povero infelice padre di tanti figli. Ed io sono del vostro parere, che riusciremo a farlo alzare di letto in prima cura. Ciò vi basti; all'opera e siamo degni dei nostri avi e facciamo conoscere che abbiamo vita, onore e cuore. Voi mi dite se persisto nel mio proponimento. Mi fate un torto: salto Iddio come ho sofferto e soffro a non avere potuto andare presto all’ospedale e quante occasioni ho rifiutato per essere fermo nel mio proponimento. Forse non è dovere di dare tutto per una madre afflitta e calpestata? E cosa è un uomo, che non ha patria e libertà? bisogna farci a riacquistare la patria e libertà col proprio sangue e la propria vita. Credetemi degno della vostra stima e credetemi che anelo il momento di guarire l’infermo a spese della mia salute: e cosi i figli suoi acquisteranno il padre. Sarò io fortunato e felice quando avrò dato la salute all’ammalato, anche con la certezza che dopo un minuto si verificasse la mia morte. Ciò vi basti: attendo l’esito con premura e contate che forse quest’ammalato sarà guarito da un Siculo. Non vi è bisogno di raccomandarvi il silenzio. Salutatemi il nostro Pippo (Mazzini). Salutatemi Mangini. Voi ricevete un abbraccio del vostro per sempre

Giovanni Corrao.

Ricevuta questa lettera, Rosolino il 28 Gennaio gli rimise Lire ¿00, il Cav. Palermo dimorante in Malta gli diede il suo passaporto; ed il Corrao il 20 Febbraio parti per l'Inghilterra sotto il dome del Palermo. Verso la metà di Marzo era a Marsiglia: in Londra forse non giunse che alla fine d’Aprile. Nel Maggio il Pilo cadde ammalato: nel Giugno forse si attese di conoscere la piega delle cose della guerra. Dopo l’armistizio di Villafranca si credette giunto il momento d'agire. La persona andata in Sicilia a stabilire gli accordi, come dice Pilo, era il Crispi, amico di Rosolino sin dal Novembre 1847, quando avevano insieme partecipato alle dimostrazioni fatte in Napoli sotto gli archi di S. Francesco di Paola per invitare il Borbone a concedere delle riforme. Riuscite vane queste speranze, il Crispi il 6 Gennaio 1848 tornò da Napoli a Palermo, dove già sul finire del Novembre era tornato il Pilo ed assicurò questo e gli altri che i liberali di Napoli e delle provincie non avrebbero lasciato soli i Siciliani, se insorgevano; ad ogni modo promise loro, se la rivoluzione scoppiava il 12, di tornare in Palermo col vapore del 14. Infatti il 14 verso le 4 pom. si presentò al Palazzo Municipale, ch'era la sede del Comitato generale formatosi quello stesso giorno, e fu dal Pilo presentato al Principe di Pantelleria, che presiedeva il Comitato di guerra e di pubblica sicurezza e che da quella sera scelse il Crispi per suo segretario.

IlCrispi sbarcato a Messina percorse incognito gran parte delF isola, fermandosi più a lungo nelle tre città principali. Vi trovò i Borboni profondamente avversati come alla vigilia del 12 Gennaio ’48, un’ammirazione immensa per quanto s’era fatto nell’Italia superiore, una forte volontà di mutamento politico, ma con mira ben diversa da quella del 184S. Il partito d'azione era unitario: non più si proponeva l'autonomia dell’isola e la lega cogli altri Stati Italiani, ma la fusione con la monarchia di Vittorio Emanuele. La guerra combattuta nel Maggio e Giugno e le rivoluzioni della Toscana e dell'Emilia avevano prodotto sugli animi dei Siciliani un effetto profondo e dato un nuovo corso alle loro aspirazioni. Già nel Maggio ’59 molti in Palermo, Messina e Catania si erano dichiarati pronti a un movimento rivoluzionario, come quello della Toscana nell’Aprile precedente, ma a condizione che il Piemonte prestasse degli aiuti o i Napoletani insorgessero anche essi, in modo cho il governo non potesse mandare altre forze in Sicilia; le quali condizioni non s'erano potute per allora soddisfare. Non mancavano nell’isola i fautori dell’indipendenza già dichiarata nel 1848, ma erano più disposti a lamentare l’andamento delle cose che ad agire. L’ ostacolo principale era la forza militare Borbonica: 30 mila uomini, la metà dei quali nella sola città e provincia di Palermo: una polizia vigile,sospettosa,energicamente diretta; in Palermo le caserme fortificate e la sera frequenti pattuglie di G soldati con un agente di polizia: cannoni nelle fortezze e nella piazza del Palazzo Reale. Contro queste forze non bastavano i 700 fucili depositati in Malta e qualche altro migliaio che non era impossibile di aggiungervi. Erano necessari gli aiuti esterni, come s’è detto; qualche sollevazione negli Abruzzi o nelle Calabrie, che paralizzasse le forze della Corte Napoletana e soprattutto l’invasione di un uomo temuto dai Borbonici sin dal 1849, di Garibaldi allora comandante dell'esercito Toscano e vicecapo dell’esercito della lega formatasi nell’Agosto '59 tra la Toscana, i Ducati e le Romagne. Ma questi soccorsi, ritenuti indispensabili dai più arditi Siciliani, non si potevano ottenere che inalberando il vessillo dell'unità; altra ragione per smettere le aspirazioni d’uno stato separato. Con tali propositi dunque si stabilì nell’Agosto ’59 tra il Crispi e il Comitato segreto di Palermo d’insorgere il 4 ottobre, onomastico del Re. Ma il disegno non ebbe effetto, non per dissuasione di moderati, che Rosolino nella lettera seguente chiama «addormentatoci e faccendieri monarchici piemontesi», ma perché la polizia dai primi di Settembre aveva avuto sentore della congiura, i capi della quale o furono imprigionati o dovettero nascondersi. Fu imprigionato Salvatore Cappello, patriota attivissimo e godente somma popolarità, Rosario D’Ondes, Vito La Russa ed altri; si dovettero nascondere i fratelli Salvatore, Pasquale e Raffaele Di Benedetto, dei quali i due primi morirono poi in Palermo il 29 maggio ’60 colpiti di mitragliane! difendere le barricate del Cassare (corso Vittorio Emanuele) contro i borbonici accampati a Piazza Vittoria e l'ultimo nel 1867 a Monte San Giovanni combattendo gli zuavi Pontifici. A causa degli arresti la sommossa fu protratta dal 4 al mattino del giorno 9. Ma frattanto alcuni divennero perplessi e sfiduciati: il dissenso impedì il movimento. Pochi più arditi tentarono il giorno dopo (10 ottobre) una sollevazione nei dintorni di Palermo, ma non furono secondati.

Frattanto, poco dopo del Crispi, anche il Pilo era partito da Londra, forse sul finire di Luglio e si era recato in Toscana. Di là verso la metà d'Agosto andò nelle Romagne, non per far continuare dai volontari la guerra contro l’Austria, come aveva pensato prima, ma piuttosto per spingerli ad assalire dal nord il regno di Napoli e fare una diversione a favore della sollevazione Siciliana. Ma appena giunto colà per ordine del Governatore fu imprigionato con altri mazziniani. Nell'albergo della Fenice di Firenze, dove Pilo aveva preso alloggio, fu sequestrato per richiesta della polizia di Bologna un baule lasciatovi da lui, nel quale oltre gli oggetti di vestiario e di viaggio si contenevano «due ritratti di Mazzini ed alcune piccole scatole con sostanze venefiche {credo medicinali)». (Arch. di St. di Bologna. Per gentile comunicazione del Barone Starrabba, Soprintendente dell’Arch. di St. di Pal.). Furono puro sequestrate presso il locandiere e all’ufficio postale di Firenze otto lettere dirette al Pilo, alcune delle quali «contenevano espressioni, che confermavano i progetti di Mazzini». (Dispacci 21 e 24 Agosto della prefettura di Firenze alla direzione di polizia di Bologna). Questi progetti, com’è noto, tendevano a far invadere le provincie rimaste al Papa per portare poi la rivoluzione nel Napoletano. Ma ai primi di Settembre il Pilo fu liberato dalle carceri di Bologna ed espulso dal territorio delle Romagne. Egli si rifugiò a Lugano. Riporto una sua lettera diretta a Rosario Bagnasco, autore col fratello Francesco della celebre sfida del 12 Gennaio 1848 e allora vivente in Marsiglia. Il Pilo in termini comjnerciali parla della congiura Palermitana e del suo ritorno in famiglia, cioè in Sicilia:

«Lugano 11 ottobre 1859.

Mio carissimo amico.

Ieri ricevei la vostra del 6 corrente e mi riuscì graditissima. Pur troppo l'arresto e la privazione per 40 buoni giorni di libertà personale mi hanno dissestato: mi troverei in tutt'altro paese e forse gli addormentatovi e li faccendieri monarchici piemontesi non sarebbero riusciti a dissuadere li buoni dal farla finita Dico. non sarebbero riusciti perché il silenzio che regna in commercio mi significa che la cambiale che Ciccio aveva promesso e che anche Giorgio (Tamaio) avvisavami che sarebbe stata il 4 pagata, non fu certo alla scadenza pagata. Spero che li debitori non tarderanno ad eseguire il promesso pagamento; io,se potrò avere li necessari mezzi che dopo le peripezie sofferte mi sono venuti meno, andrò in seno alla mia famiglia. Intanto voi continuate a scrivermi e se avrete notizie d’importanza telegrafate dicendomi: rostro fratello è fuori pericolo di fare bancarotta, fate giro di cambiale. Questo telegramma mi significherà che tutto è riuscito e che posso con amici andare o che gli amici possono andare, se io sarò partito prima.

Il telegramma speditelo al sig. F. Robiolo in Lugano all'ufficio posta. — Addio, mio caro; vogliatemi bene, salutatemi gli amici che mi ricordano e tanto cose fate gradire ai componenti la vostra famiglia.

Addio, gradite una fraterna stretta di mano.

(Arch. di St. di Pal. Stanza 1°, n. 7)

Il Pilo si trattenne circa 3 mesi in Lugano, pur facendo frequenti viaggi nell'Italia superiore. In questo tempo e più particolarmente sul finire di Novembre le grandi potenze avevano accettata la proposta di Napoleone III, di riunire dopo la firma del trattato di pace, che discutevasi in Zurigo, un congresso per risolvere gli affari d’Italia. Questo congresso secondo la volontà di Napoleone e dell’Inghilterra doveva aprirsi sulla base del non intervento, cioè sul rispetto dei voti popolari degl’italiani. Ma nel Gennaio ’G0 il congresso fu rinviato a tempo indeterminato, e non se ne parlò più. Prima però si poteva sempre temere che si riunisse e malgrado le apparenze riuscisse contrario alle aspirazioni nazionali. Per impedire o diminuire questo danno Rosolino parti nel Dicembre da Lugano per Genova. Il giorno stesso della sua partenza il Direttore di polizia del Cantone Ticino mandava il seguente rapporto al Console Napoletano di Trieste:

Bellinzona 13 Dicembre 1859.

«Il sig. Rosolino Pilo appartenente ad una distinta famiglia di Sicilia, emigrato dal 1849, già più volte apparentemente (?) espulso dal governo Sardo ed ultimamente imprigionato in Bologna, indi da colà esiliato per essergli state trovate addosso parecchie lettere di Mazzini, di cui è ora il capo dello Stato Maggiore, questa sera parte da Lugano alla volta di Genova. Scopo di questa gita è di intendersi con alcuni tra i principali cospiratori di Palermo, Catania e Messina venuti espressamente per prendere dei concerti per una nuova e meglio organizzata insurrezione in quelle provincie. Vuoisi con questo prevenire gli effetti del prossimo Congresso, onde far vaierò sul tappeto la teoria dei fatti compiuti. Credo che questa volta si tratti di cosa troppo seria nel caso che abbia principio, perché il Rosolino è uomo positivo né facile a sobbarcarsi ad imprese poco maturate e senza elementi efficaci e sicuri. Negli ultimi moti di Sicilia egli ricusò (?) di prender parte benché istruito di tutto, sapendo non aver ben preparato il terreno e non ancora disposti gli elementi, di cui dovevasi far capitale; e pare certo che il contrordine partisse da lui (!), ma che non giungesse a tempo e non potesse quindi impedire che qualcuno dei cospiratori non insorgesse intempestivamente. — Nello accomiatarsi stamane da alcuni suoi amici diceva che forse non lo avrebbero più riveduto; che però se a Genova non avesse trovato tutti gli elementi disposti e sicuri, fra quindici giorni sarebbe ritornato a Lugano» (Arch. di Pal.).

Si riferiva pure che a Bellinzona il Pilo avesse comprato per 200 lire un passaporto portante i suoi connotati e la condizione di calzolaio. Ma il ministro Napoletano crede che a Genova avrebbe preso un altro passaporto, perché «le sue maniere, il volto, il portamento tradirebbero il contegno di un calzolaio. Da Ancona parimente si telegrafava il 21 Dicembre al ministro Napoletano degli affari esteri che il Pilo era andato a Genova per far insorgere la Sicilia prima del congresso di Parigi e che Genova seguirebbe tali mosse.

Certo a quei Siciliani che s’abboccarono con lui a Genova Rosolino consegnò la lettera del 23 Dicembre 1859, che si legge nella Vita di Garibaldi della signora White-Mario. Il Pilo dice agli amici di Sicilia:

« Vi scrissi che la Sicilia insorgendo ora o meglio prima che il Congresso sacrifichi la nostra Italia come nel 1815, può salvar se stessa e 23 milioni di fratelli

Animo, decidetevi e fate che la Sicilia, la quale è stata sempre la terra delle generose e grandi iniziative, non venga meno a sé stessa ed all’Italia.,,,,,,,,,,,, Si, la Sicilia dev'essere la formidabile cittadella d’Italia; è la bandiera tricolore pura di stemmi municipali che dovreste inalberare insorgendo, la quale rapidamente vedrebbesi sventolare su tutte le città della penisola. La bandiera tricolore pura di stemmi municipali era certamente quella senza il segno della Trinacria, ma anche senza la Croce di Savoia.

Lo spirito pubblico Siciliano non era discordante dalle esortazioni del Pilo, salvo sul punto della bandiera. Il pensiero di abbattere il governo Borbonico era comune alla borghesia ed all'aristocrazia. Al posto della congiura abortita nell’ottobre sorsero in Palermo numerose società segrete, delle quali l'una non conosceva l’altra, ma che pure erano in buon numero conosciute da certuni che appartenevano a più società nello stesso tempo e che a un dato momento potevano ricollegarne le fila e dirigerne le forze. V’ era poi una corrispondenza attivissima con Fabrizi e Tamaio in Malta, con i fratelli Orlando, Pilo e Crispi in Genova. Uno dei più operosi nel ricapitare la corrispondenza clandestina era Marco Davi, comandante di un battello postale a vapore, che deludendo con grandissima cura l’occhio penetrante della polizia consegnava le lettere in Genova agli esuli Siciliani e in Palermo ai fratelli Di Benedetto, a Casimiro Pisani o ad altri. I congiurati si diportavano con quella profonda abnegazione e irremovibile intrepidezza, che solo una grande idea può ispirare; e la grande idea era la formazione d'un grande Stato Italiano sotto lo scettro di Vittorio Emanuele.

In quel momento la sollevazione Siciliana sembrava necessaria alla salute d’Italia. Si riteneva da non pochi certa una nuova guerra coll’Austria nella prossima primavera e dopo la profonda disillusione dei preliminari di Villafranca si sentiva di doverla fare con le sole forze nazionali; ma a ciò occorreva la conquista precedente del regno di Napoli e Sicilia, e l’incorporazione dell’esercito Napoletano in quello dell’Alta Italia. Bisognava inoltre emancipare il governo Piemontese dalla dipendenza di Napoleone III e solo l’Italia unita sarebbe valsa a ciò. Tutto dunque dipendeva da quello che farebbe l'Italia meridionale e specialmente la Sicilia, nella quale, come abbiamo visto, non v’era scarsezza di forze né di buona volontà. Ma il Pilo pensava che molte volte una tendenza sociale non può esplicarsi per mancanza d'un uomo che se ne faccia come il rappresentante e l'autore o la sostenga con ardimento pari alle circostanze. L’ essere andata a vuoto la congiura dell’ottobre gli fece forse credere che mancava l'uomo che desse il primo urto e come il segnale del movimento universale. Egli sentiva in sé di poter essere quell'uomo, ma non si riteneva un gran capitano né un gran politico; nel campo dell'azione militare egli pensava giustamente che Garibaldi era l'uomo predestinato. Il Pilo avrebbe rimossi i tanti ostacoli, che la gran massa degl’irresoluti e dei timidi pone sempre nel passare dai progetti ai fatti; ma a dirigere,il movimento e a farlo trionfare era necessario il braccio di Garibaldi. Ed era necessario per un altro motivo. Rosolino era convinto che oramai per compiere l’unità d’Italia ci volevano, più che i diplomatici, gli uomini d'azione; ma s’andava avvedendo che il programma, che solo potesse riunirli e perciò solo avesse probabilità di riuscita, era quello di Garibaldi: Italia e Vittorio Emanuele. Quest’era pure il nuovo programma della rivoluzione Siciliana. Lo stesso Mazzini dovette cedere su questo punto e perciò scrisse il 2 Marzo ’60 «agli amici di Palermo e di Messina»:

Se l’Italia vuol essere monarchica sotto la casa di Savoia, sia pure. Se dopo tutto vuole acclamare liberatori e non so che altro il re e Cavour, sia pure. Ciò che tutti ora vogliamo è che l'Italia sì faccia».

Questa lettera, malgrado la sua punta d’ironia, ebbe un effetto grandissimo. Quei congiurati, ch'erano soliti d’ispirarsi alla parola di Mazzini ma che capivano che il suo programma non avrebbe trovato seguito, si attennero al consenso esplicito, dato dal4’instancabile apostolo dell’unità, di proclamare Vittorio Emanuele: da quel momento sparvero gli ultimi dissidi e tutti di qualunque partito si posero alacremente all’opera. Francesco Riso, agiato fontaniere, fu giudicato capace per l'ardire e la sagacia di condurre gli armati alla lotta e dal comitato segreto di Palermo fu posto a capo di tutto il movimento per preparare i mezzi necessari all'azione.

Le notizie dei preparativi di una prossima sollevazione pervenute al Pilo lo determinarono a recarsi ad ogni costo in Sicilia.

Ma i suoi mezzi erano troppo scarsi, ond'egli il 24 Febbraio ’60 scrisse a Garibaldi da Genova chiedendogli rivoltelle e una somma di denaro per acquistare armi e noleggiare un bastimento. Queste armi e questo denaro Garibaldi poteva prenderli dai fondi del comitato del Milione di Fucili, che s'era costituito nell’autunno del ’59 con residenza in Milano, ed aveva Giuseppe Finzi a depositario. «Approntato questo — scrive il Pilo a Garibaldi — io ed altri amici miei e con Medici e con Bixio, se vorranno unirsi a me, andremo al punto già designatoci per iniziare con quelli del mio paese nativo un fatto serio nel Mezzogiorno, dove voi a nostro avviso telegrafico dovreste farci la grazia di recarvi per capitanarci e salvare cosi la causa Italiana, pujj troppo in pericolo in questo momento. — Dateci, vi prego, quanto sopra vi ho richiesto in nome dei buoni di Sicilia e siate certo che riusciremo a mettere in fiamme tutto il mezzogiorno d’Italia al grido dell'unità e libertà. Voi, Generale, capitanerete militarmente il paese e così' avrete garenzia che non si potrà straripare dal convenuto prò grammo, che solo può riunire tutti gli elementi d'azione e così solamente l’Italia sarà».

Questa è la prima volta che il Pilo faadesione al programma di Garibaldi, benché non ne ripeta esplicitamente la formola. Ma Garibaldi credette necessario di ricordargliela e in data del 15 Marzo ’60 gli risponde da Caprera:

«Carissimo Rosolino,

Con questa mia intendetevi con Bertani e con la Direzione di Milano per avere tutte le armi ed i mezzi possibili. In caso d'azione sovvenitevi che il programma è: Italia e Vittorio Emanuele. —Io non mi arretro da qualunque impresa per arrischiata che sia, ove si tratti di combattere i nemici del nostro paese. Però nel tempo presente non credo utile un moto rivoluzionario in nessuna parte d’Italia, a meno che non avvenga con non poca probabilità' di successo. Oggi la causa del paese è nelle mani dei faccendieri politici: bisogna aspettare che il popolo Italiano conosca l’inutilità «delle mene di questi dottrinari. Allora verrà il momento d’agire. Oggi saremmo biasimati dalla gran rttaggioranza».

Ricevuta questa lettera, il Pilo niente scosso dalle dissuasioni di Garibaldi prese accordi con Bertani per avere le armi e il denaro; ma il fatto s!a che non ebbenulla, certo per cause indipendenti dalla volontà di Bertani, di Finzi o di Garibaldi.

Nello stesso 15 Marzo i fratelli Di Benedetto e il Pisani scrissero da Palermo ai corrispondenti Messinesi di essere quasi pronti. «Siamo oramai in posizione tale, che prestissimo daremo mano all’opera; anzi da un giorno all’altro può sopravvenire qualche fatto che ci obblighi ad affrettarla. Gli eventi in Italia ora devono incalzarsi».

I Messinesi in data del 18 ne informarono i fratelli Orlando, il Pilo e il Crispi, i quali di riscontro avvisarono i Messinesi che dal 3 all’8 del prossimo Aprile di notte in un punto presso il castello delle Grotte sarebbero sbarcati due individui per capitanare colà la rivoluzione. La lettera sottoscritta dal Crispi diceva:

Genova (22?) Marzo 1860.

«La vostra del 5 cadente giunse con moltissimo ritardo: non così quella del 18. Vogliate, vi prego, risponderci sempre coi mezzi di cui noi ci serviamo per farvi giungere le nostre lettere.

«La presente vi sarà data dalla persona che ho più cara dopo la Patria. Immediatamente dopo il suo arrivo preparatevi, perché dal 3 Aprile in poi per cinque sere continue un individuo si trovi dopo le 10 pom. sotto al vecchio forte della Grotta. Egli dovrà avere una cravatta bianca al collo, tale da farsi distinguere di notte dall’individuo, che si presenterà; dovrà rispondere giusta la parola d’ordine, che vi fu scritta da Rottolo {pseudonimo di Rosolino Pilo); a poca distanza dovrà tenere una vettura, nella quale possano andare tre persone. Preparate per lo stesso giorno un asilo a coloro che arriveranno. — La vostra del 18, che fa sperare un prossimo avvenimento, ci ha fatto immenso piacere. — Dopo la vostra del 9 del mese nulla mi resta più a dire ai fratelli Palermitani: nel continente tutto è a noi propizio pel momento. Su via, facciamo il nostro dovere perché i Borboni vadano via e il nostro paese divenga parte del grande Stato Italiano. — Distruggete la presente dopo averne prese le indicazioni».

I Messinesi trasmisero agli amici di Palermo queste notizie, ¿accompagnandole con la seguente lettera:

Messina (27?) Marzo ’60.

«Ricevemmo altre due vostre del 19 e 21 corr. Con quest’ultima vi partecipiamo l'avviso avuto dal n. 5 che sarebbero venute alcune persone; e se mai al giungere di esse non sarà scoppiata la rivoluzione, che si prepari loro un locale per stare nascosti e al sicuro».

I fratelli Di Benedetto, il Barone Pisani e gli altri del comitato segreto di Palermo considerando a questa notizia che i lavori erano molto avanzati, che lo sbarco a Messina pei primi d'Aprile di due o più emigrati assicurava la cooperazione di quella città; pressati inoltre da Francesco Riso, e dal fatto che la congiura correva imminente pericolo d'essere scoperta, in una riunione dei 31 Marzo stabilirono pel 4 Aprile lo scoppio dell’insurrezione.

Il momento appariva propizio: l'annessione della Toscana e dell’Emilia al Piemonte compiutasi in quei giorni sembrava garentire un esito simile a rivoluzioni dello stesso genere.

Frattanto a Messina l’uomo dalla grossa cravatta bianca aspettò per 5 notti consecutive (dal 3 all’8 Aprile) presso il vecchio ponte del castello delle Grotte la persona misteriosa che gli si doveva avvicinare con la parola d'ordine di Robiolo, ma nessuno si presentò. E quando alle 2 del mattino del 10 Aprile due uomini sbarcati da una paranza andarono a quel punto, non vi trovarono nessuno. Erano il Pilo e il Corrao, che arrivavano troppo tardi, ma non per loro colpa. Essi in Genova, malgrado che non avessero avuto nulla dal Comitato di Milano, avevano acquistato rivoltelle, qualche bomba all'Orsini e forme per fabbricare bombe, polvere, palle, cariche di rivoltelle e capsule di fucile. Non s’erano procurati molti fucili, perché dovevano venire da Malta mandati dal Fabrizi. Con queste armi ed attrezzi, che tutt'insieme empivano quattro cesti, e con poco denaro essi partirono nel pomeriggio del 26 Marzo da Genova per la Sicilia. Ma prima di parlare del loro viaggio debbo dare alcune notizie di Corrao, che diventa da questo momento l’inseparabile compagno di Pilo.

Giovanni Corrao era un calafato del porto di Palermo, che per altro nobilitava il suo mestiere chiamandosi costruttore di marina. Nerissimo di barba e capelli, rozzissimo e quasi truce d'aspetto, sfornito d'ogni cultura, era però dotato d’ingegno vivace, d’animo imperterrito e d’un coraggio a tutta prova. Nel Gennaio ’48 s’era segnalato nell’assalto del Castellammare di Palermo. Destinato dipoi al servizio dell’artiglieria in Messina si trovò unito all’altro Palermitano Antonio Lanzetta; e tutti e due diedero tali pruove d’eroismo nei cinque giorni che durò la difesa di quella città (37 Settembre) che la Camera Siciliana dei Comuni il 23 Settembre ’48 su proposta del Ministro della Guerra approvò all’unanimità il seguente decreto:

«Giovanni Corrao ed Antonio Lanzetta avranno gli onori e il soldo di capitani d’artiglieria. Il potere esecutivo gl’impiegherà in quei modi, che crederà convenevoli».

Non li dichiarò benemeriti della patria, come il Ministro proponeva, per non sembrare d’escludere gli altri non nominati.

Caduta la rivoluzione, il Corrao si rifugiò in Malta, donde alla fine del Giugno ’49 ritornò a Palermo nella speranza d'una imminente sollevazione. Ma fu arrestato poco dopò e per disposizione della polizia relegato in Ustica. Nel Maggio del ’52, approfittando d’una barchetta lasciata sul lido da alcuni giovinetti del paese, vi s’imbarcò con altri relegati e tentò di fuggire, ma fu raggiunto e ricondotto nell’isola. Sottoposto per questo fatto a procedimento criminale non ne riportò condanna; malgrado ciò la polizia lo mandò nella cittadella di Messina, in cui stette dall’Agosto ’52 al Maggio del ’55. (Arch. di Pal. Filza 1236 n. 158) Ricondotto allora in Palermo e chiuso nelle grandi prigioni, venne liberato col patto di recarsi all’estero e di non tornare nel regno. Egli parti il 5 Settembre ’55 alla volta di Marsiglia; di là nel ’56 passò in Genova, ma ne fu espulso nel Settembre ’57 come agente Mazziniano. Andò in Alessandria d'Egitto e di là a Malta, come fu narrato, finché nella primavera del ’59 si ricongiunse col Pilo in Londra.

Tale era l'uomo che insieme col Pilo si recava in Sicilia per iniziare o capitanare la rivoluzione. Essi sapevano rinsufiicienza dei loro mezzi, ma credevano che loro basterebbe di dare il segnale perché il popolo si facesse loro cooperatore. Perciò vanno senza nessun altro compagno, con poche rivoltelle e bombe tascabili; vanno, malgrado che ne fossero dissuasi da Garibaldi e non vedessero da tutte le parti che terribili nemici o increduli amici. Vanno insieme il gentile cavaliere e il rozzo calafato; l'uno che potea vantare la nobiltà degli antenati catalani e normanni (perché si diceva che i Pilo discendessero da un conte di Barcellona, catturato dai Genovesi verso la metà del secolo XII, gli eredi dei quale fondarono una potente famiglia in Genova, donde alla metà del secolo XVI per necessità politiche si trasferirono parte in Sardegna, parte in Sicilia; e nei Gioeni, ascendenti materni di Pilo, scorreva non l'aborrito sangue d’Angiò, ma quello d'un Normanno, la cui discendenza grandeggiò nell’isola al tempo della dinastia Aragonese); l'altro non avente altra nobiltà che nel braccio forte e nel cuore indomito. Vanno i due, che quasi simboleggiano l'affratellamento della nobiltà e del popolo per la salute d'Italia; vanno incuranti di tutto, fuorché di sollevare la madre afflitta e calpestata. Andate, uomini audaci; voi impedite che negli eventi della risurrezione d'Italia vi sia soluzione di continuità. Siete due; e che possono due soltanto? Possono moltissimo, se sono veramente devoti alla patria e se incarnano il momento storico.

IV

I due partirono da Genova in una vecchia paranza comandata da Silvestro Palmerini ed avente a pilota Raffaele Motto, che poi lasciò una relazione di questo viaggio, pubblicata nel 1877. Oltre di questa farò uso d’ora in poi delle memorie inedite di Corrao, dettate da lui nel 1861 all’Ing. Salvatore Mattei, che nel '48 e nel ‘60 aveva militato come ufficiale sotto di lui. Debbo all’Avv. Giuseppe D’Accanii, della cui amicizia mi onoro, la conoscenza del signor Giovanni Corrao, nipote dell'eroe, che mi donò una copia di queste memorie. Partiti dunque i due da Genova alle 3 pomeridiane del 26 Marzo, approdarono dopo tre giorni di navigazione (2628) a Postiglione nel golfo di Follonica ed ivi per fornirsi di quanto era loro necessario stettero tre giorni (2931 Marzo). Da Postiglione giunsero dopo altri tre giorni di navigazione al grado 40° di latitudine Nord quasi nel centro del Mare Tirreno. Il mare e l'atmosfera erano calmi, ma dal sud venivano ondate grandissime. Dopo poche ore si scatenò un vento violentissimo di sudovest: per due giorni (15 Aprile) la tempesta fu fierissima: la paranza andava alla deriva nella direzione di Levante. Nella sera del 6 al vento furioso si aggiunse acqua e grandine: la notte fu orribile. La mattina del 7 per non dare nelle secche del Volturno, verso cui erano spinti dal vento, dovettero poggiare per le bocche di Napoli e cercare di rifugiarsi nel canale tra Procida e Capo Miseno con pericolo di cadere nelle mani della polizia borbonica. il Pilo, a cui necessariamente si fece questa proposta, tutto bagnato d’acqua sporca di zavorra, disse: «Fate come credete; una volta che il pericolo ci minaccia, tanto sarà finire allesso come arrosto. Quando non c’ è altra via di scampo, fuggiamo il pericolo presente; e sarà quel che sarò». Ad otto miglia da Capri scoprirono un bastimento, che riconobbero siciliano, col quale dopo un'ora di bordeggio si trovarono non più distanti di un tiro di pistola. Domandarono al capitano 4onde venisse e quegli rispose che il vento del sud li aveva staccati dalla costa siciliana e che andavano a prender terra a Castellammare di Stabia. I due esuli, malgrado i travagli del mare e il pericolo della costa napoletana, all'accento della terra nativa, che non udivano da tanti anni, trasalirono di gioiaÀE già si vedevano le nubi prendere un’altra direzione, onde si attese bordeggiando ad un cambiamento di tempo. Infatti quando si era a tre miglia da Capri, si formò una controburrasca di tramontana con vento fresco dello stesso punto. Era quel che si voleva: si fece rotta rapidi e contenti per Messina. Alle 10 di sera del giorno 9 Aprile si imboccò lo stretto: a cagione della corrente contraria ci vollero tre ore per arrivare al castello delle Grotte: alle due del mattino del 10 si sbarcò al posto designato. Ma, come s’è detto, non trovarono il rappresentante del comitato Messinese. Già attraversando lo stretto avevano notato che la cittadella di Messina bombardava la città. Ora avviatisi verso di questa incontrarono gruppi di uomini e donne, cheguardavano attoniti il cannoneggiamento. Ne domandarono la causa ed alcuni risposero che il popolo minacciava d’insorgere e perciò la cittadella tirava cannonate. Pilo li arringò ed esortò ad andare in aiuto del popolo e a brandire le armi contro il comune nemico. Ma la gente non si mosse e rispose che prima di giorno non si poteva conoscere il da fare. Allora Pilo e Corrao con le armi in pugno si diressero verso la città, ma trovate le porte ben custodite dalla truppa, si ritirarono su una collina al disotto dei Cappuccini per attendere il giorno. La mattina Corrao riconobbe un certo Giovanni Straruzzo,al quale promise un compenso se recava nella città una letteraa Giacomo Agresta, proprietario di Messina che faceva pure l’interprete e uno dei capi del comitato. Quegli acconsenti volentieri, ma non volle compensi. Dopo un’ora invece di Giacomo Agresta, ch’era in carcere, venne il cugino Giuseppe Agreste,, quello stesso che per cinque notti aveva fatto la guardia al ponte delle Grotte e che dopo aver provveduto i due arrivati di quanto loro bisognava, li condusse verso le 2 pom. sopra un legno mercantile? austriaco, dove s’era rifugiata una parte del comitato segreto di Messina.

In tempi di agitazioni e di rivolte corrono mille voci disparate, che sono facilmente credute dai troppo timidi o dai troppo arditi Cosi accadde ai due emigrati dopo lo sbarco. Sentirono dire che Palermo era già in mano del popolo, che 30 mila uomini vi combattevano contro le forze borboniche, le quali dopo grave disfatta sarebbero state respinte in mare: che Milazzo e Barcellona erano insorte e che tutti i paesi dei dintorni avevano inalberato il puro vessillo tricolore. Il Pilo era forse troppo corrivo a credere a queste voci, assai lontane dal vero. Il fatto era che Milazzo e Patti non si erano mosse affatto; in Barcellona s’era fatta una dimostrazione ma senz’armi, cioè s’erano agitati dappertutto dei fazzoletti tricolori e gridato: Viva Vittorio Emanuele; ma senza andare più in là. Nei loro distretti poi la tranquillità era stata quasi perfetta. Quanto a Messina i fatti stavano cosi: Giunta il giorno 8 la notizia certa dell’insurrezione Palermitana del 4 Aprile, della quale si farà parola in appresso, Messina si agitò potentemente. Si formarono crocchi e masse di persone, che presero a insultare 1? forti pattuglie, che percorrevano le strade: una mano d’insorti osò di attaccare una pattuglia, la quale però li respinse gagliardamente: altri operarono contro il distaccamento militare del carcere, ma invano. In seguito a questi fatti fu proclamato lo stato d’assedio: la città divenne quasi deserta e la maggior parte delle famiglie si rifugiò in campagna. La sera del 10 gl’insorti si raccolsero nei colli che circondano Messina e cercarono di penetrare in città, ma dopo un conflitto di 6 ore furono respinti dalle truppe che ebbero un soldato morto e un ufficiale ferito. Il giorno appresso (11) il comandante della Piazza pubblicò» un proclama minaccioso, il quale spaventò tutti: gli stessi consoli stranieri si misero in salvo con le loro famiglie sulle navi di lor nazione, che stavano nel porto. Ma poi si recarono insieme dal Comandante della provincia per protestare contro i feroci propositi del Comandante della piazza; onde questi mise fuori un altro proclama, nel quale spiegava che i mezzi estremi si sarebbero usati soltanto contro gli aggressori e non contro l’intera città. I consoli tornarono alle loro abitazioni, ma le promesse non furono mantenute, perché malgrado che da parte della città non si fosse attentato alla sicurezza delle truppe, queste con vivo fuoco d'artiglieria e moschetteria tirarono quasi continuamente dalla cittadella sulla città di giorno e di notte. I consoli esteri, meno quelli di Russia e d Austria, di nuovo protestarono, e il Comandante rispose essere ciò accaduto per equivoco. Perciò in nome dei Consoli il ministro Inglese e l’incaricato d'affari di Prussia se ne richiamarono presso il ministero in Napoli, pretendendo inoltre indennità e soddisfazioni. (Dispaccio 20 Aprile ’60. Filza 1230 n. 10). Lo stesso Intendente di Messina, Antonio Cortada, riconobbe «che non v'era alcuna ragione di venire a questi estremi di terrorismo che avevano ridotto il paese in condizioni da stringere il cuore e facevano presentire tristissime conseguenze» (Filza 1239, foglio 64)... Il movimento di Messina era abortito e non vi era più nulla da sperare.

In Catania, dove le notizie di Palermo giunsero come a Messina il giorno 8 e vi produssero vivissimo fermento, non si venne a. nessun fatto notevole per mancanza d'un capo risoluto. Per cinque giorni la rivolta stette per iscoppiare, ma infine svanì senza manifestarsi. Se in quei giorni vi fossero stati il Pilo e il Corrao, Catania avrebbe fortemente combattuto i borbonici. Neanche da questo lato il Pilo giunto troppo tardi poteva sperare qualche cosa. Non rimaneva che muovere verso Palermo, dove si credeva che la rivoluzione avesse una base maggiore.

Ora si può valutare nella giusta misura la seguente lettera, che Rosolino mandò ai fratelli Orlando in Genova e che si legge nella Vita di Garibaldi della signora White-Mario:

Messina 12 Aprile ’60.

Miei carissimi amici e fratelli,

«Eccomi finalmente a terra: i primi pericoli mi è riuscito di superarli. Quindici giorni di navigazione non mi fecero giungere in tempo all’inizio della rivoluzione di Palermo, avvenuta il 3 corrente. Se fossi giunto in tempo qui o in Catania, sarebbero queste due città pure in mano del popolo Ilo proposto oggi di radunare una buona parte di gioventù e marciare verso Catania e Palermo Oggi stesso partirò a cavallo per raggiungere i 30 mila che combattono in Palermo contro le truppe regie. Il grido dei nostri è unità e libertà d’Italia. Ieri sera giunse notizia che le truppe borboniche toccarono una grande disfatta, che una grande parte fu respinta in mare.... Più paesi della provincia di Messina già sono in insurrezione: Milazzo è insorta; Barcellona è insorta e vi ha il marchese Mauro con 400 già in armi e tutti i paesi del vicinato di Barcellona e di Patti hanno inalberato il puro vessillo tricolore. Io ritengo che la vittoria sarà per noi e che l’ora è vicina della distruzione del dispotismo; però fa d’uopo che si pensi ad aiutarci, a spingere col mezzo della stampa codesto governo. È venuto il tempo di essere audaci…… Io sarò felice di poter dare tutto il mio sangue all’Italia nostra. Voglia il cielo esserci propizio una volta……. Addio. Corrao vi abbraccia».

La marcia su Catania era stata caldeggiata da Pilo, quando i due emigrati, lasciato la sera del 10 il bastimento austriaco (cioè con bandiera austriaca, ma di terra italiana ancor soggetta all’Austria) ed entrati in città, ricevettero nella casa di Giuseppe Agresta, dove alloggiarono, la visita di Pasquale Lo Sardo, presidente del comitato Messinese, e di altri. Il Lo Surdo credeva di poter raccogliere 800 uomini, coi quali avrebbero marciato su Catania. Corrao era contrario e diceva doversi andare a Palermo, dalla quale dipendeva la somma delle cose; ma infine cedette alle istanze del compagno. Fu stabilita la notte successiva pel movimento. Alle 0 pomeridiane del giorno il Pilo, Corrao ed Agresta con i cesti delle munizioni traversarono la città fino al porto, dove salirono su un bastimento mercantile americano posto in comunicazione con la terra per mezzo d un lungo tavolone e furono ricevuti cordialmente dal capitano. Caricarono in una lancia le munizioni e si avvicinarono ad un legno francese per prendere il sig. Santi Marciano, che vi si era rifugiato coll’intenzione di emigrare e che ora saputo l’arrivo dei due emissari aveva mutato pensiero. Ricevuto il Marciano, la lancia manovrata da marinai americani usci dal porto e si diresse verso il luogo detto «il Paradiso» a tre chilometri al nord di Messina. Le sentinelle lungo la spiaggia gridavano: alto! chi va là? e volevano ché la barca si fermasse. Ma Pilo e Corrao esortarono i marinai a proseguire e a non temere le palle. Infine giunsero al punto stabilito. Ivi dovevano trovare un rappresentante del comitato con i mezzi di trasporto delle persone e delle munizioni per potersi poi riunire agli altri e muovere tutti insieme verso Catania. Invece non trovarono nessuno. Corrao si sdegnò fortemente: Agresta e Marciano si scoraggiarono: Pilo rimase impassibile e disse: Vedremo come finirà. Poi seppero che sino a mezz’ora innanzi erano state colà appiattate due compagnie di soldati, che evidentemente davano la caccia a qualcuno. Dopo qualche incertezza, trasportarono a terra coll’aiuto dei marinai americani le munizioni, le posero nella casella d un contadino indicata dall’Agresta ed aspettarono il giorno. Essendo poco dopo l'Agresta tornato a Messina o per sapere dal comitato la causa del convegno mancato o per spedire a Genova alcune lettere di Pilo per mezzo di qualcheduno del battello postale, che da Malta doveva passare il 13 per Messina, gli altri tre decisero di muovere alla volta di Palermo senza dare più ascolto al comitato Messinese. La sera del 12 partirono per il Faro, lasciando sotto severe minaccio il contadino della casetta custode degli oggetti depositati e di più dandogli una borsa di 100 onze (L. 1275) da consegnarsi all’Agresta quando fosse tornato. Dopo tre ore di cammino giunsero alla costa settentrionale della Sicilia dirimpetto a Milazzo. Riposatisi un poco noleggiarono delle cavalcature e proseguirono per la via di Spadafora; il Marciano per ristoro della fitta pioggia, ch’era venuta loro addosso, condusse gli altri duo ad una casina presso il mare, dove furono cordialmente ospitati dal proprietario avv. Francesco Guardavaglia. Partiti di là, giunsero a Santa Lucia la mattina del 14: ricevettero la visita di multi liberali, ai quali diedero incoraggiamenti e promisero prossimi aiuti; e ad un reazionario, che mandò loro a diro che andassero via per fuggire un incontro con i militi della guardia urbana, risposero che essi li attendevano per farli scomparire tutti con una bomba all’Orsini. La notte si posero in viaggio per Barcellona, dove giunsero a punta di giorno e quasi insieme con

loro arrivò pure l’Agresta che veniva da Messina e che disse essere state le armi collocate in luogo sicuro ed aver egli ricevuto dal contadino le 100 onze. Allora mandarono a chiamare un antico liberale per mettersi d’accordo sul da fare in Barcellona e Milazzo; ma l’antico liberale non andò e invece mandò un suo nipote a pregare i due emissari di tornare a Messina per imbarcarsi e mettersi in salvo, perché in Palermo tutto era finito; se no, sarebbero caduti con certezza in mano al carnefice. Pilo a questa risposta forse temette che il suo compagno si scoraggiasse e lo guardò fiso negli occhi per sapere che cosa volesse rispondere. Corrao con tutta calma e freddezza disse: «Io e il mio amico signor Pilo non siain venuti in Sicilia per ritornare all’estero né facciamo parte della famiglia dei vili; piuttosto i nostri capi in mano al carnefice che tornare indietro ed emigrare di nuovo. Dite a vostro zio che la causa nostra non verrà meno, perché l’eroe Europeo, il novello Washington, sta per mettere piede da un momento all’altronel suolo Siciliano. Noi non vogliamo altro che cavalli e carrozza per recarci nelle vicinanze di Palermo. Pagheremo tutto con la nostra borsa, ma che vostro zio faccia presto; altrimenti comincieremo la rivoluzione in Barcellona, dove siamo ben conosciuti». Pilo durante la risposta di Corrao mostrò viva gioia e alla fine gli gettò le braccia al collo e se lo strinse fortemente al petto. In meno d’un’ora l’antico liberale fece allestire una carrozza. Marciano ed Agresta rimasero in Barcellona per ricevere le istruzioni che i due manderebbero dalle vicinanze di Palermo e quindi mettere in moto tutta la provincia di Messina; Pilo e Corrao partirono alla volta di Patti, dove si fermarono pochi minuti e proseguirono per la Gioiosa, in cui ebbero calde accoglienze e si trattennero due ore. Passarono la notte del 15 in un albergo presso il capo Orlando; la gente di campagna accorreva a vedere i due reduci, che esortavano tutti di tenersi pronti a prendere le armi al segnale che darebbero. La mattina proseguirono per Sant’Agata, dove giunsero poco prima di mezzogiorno in mezzo a una moltitudine di popolo. Andati all’albergo ricevettero la visita di molti giovani, in gran parte studenti venuti dalle terre vicine, che chiesero notizie dei soccorsi che si avrebbero e delle speranze che si potevano nutrire. Pilo arringò quei giovani esortandoli a prendere le armi e a finirla cogli oppressori. L’avv.

Galvagno sopraggiunto in questo mentre domandò: «È vero che verrà il gran Generale Garibaldi?» I due risposero: «È tanto vero, quanto è vero che noi siamo qui». I giovani entusiasmati trassero dalle tasche dei nastri tricolori e promisero che appena tornati nei loro paesi vi avrebbero preparato la rivoluzione. Da Sant'Agata il Pilo scrisse lettere ardentissime e pressantissime ai fratelli Orlando, a Garibaldi, a Bertani, a Fabrizi, che dovevano essere spedite per mezzo dell'Agresta rimasto in Barcellona; e forse queste lettere furon tra quelle che giunsero in Genova il 29 Aprile a notte tarda e furono comunicate a Garibaldi la mattina del 30, come accenneremo in appresso.

Su questa parte del viaggio dei due emissari molte notizie si trovano nel proemio del SaiH al vol. XI degli scritti di Mazzini e nelle Cospirazioni e rivolte di R. Villari.

Ora avvicinandosi i due alla provincia di Palermo, è necessario di conoscere gli avvenimenti di essa.

V

L’insurrezione del 4 Aprile, che rese immortale il nome di Francesco Riso, doveva principiare nel convento della Gancia ed essere sostenuta dagli altri quartieri della città e da numerose squadre dei paesi vicini, che la mattina stessa appena cominciata la lotta sarebbero corse a Palermo. Pietro Tondù doveva condurre una squadra da Carini, Pietro Piediscalzi da Piana dei Greci, Domenico Corteggiani da Misilmeri, Luigi Puglisi da Bagheria; Giambattista Marinuzzi doveva capitanare i contadini della campagna di Palermo riuniti ai Porrazzi presso le porte della città. Francesco Riso per essere pronto all’alba a dare il segnale s’era rinchiuso nella notte del 3 al 4 Aprile con altre 20 persone in un magazzino del convento della Gancia, ch'egli aveva preso in affitto e nel quale deponeva la polvere, le bombe all’Orsini e le altre armi della sollevazione, senza che i frati ne sapessero niente o partecipassero affatto alla congiura. Ma il Direttore di Polizia, che sapeva della congiura senza riuscire a scoprirla, da qualche indizio avuto casualmente sospettò che Piazza Marina e i luoghi vicini dovessero essere teatro di qualche grave avvenimento; onde vi mandònella notte dal 3 al 4 un battaglione di fanteria, uno squadrone di cavalleria, alcune compagnie di cacciatori e due cannoni. Francesco Riso per nulla sbigottito dalla vicinanza di tante forze dà alle 5 del mattino il segnale della insurrezione. Squilla la campana della Gancia e sul campanile sventola la bandiera tricolore. Quindi egli e i suoi escono armati dal convento gridando: viva l’Italia, viva Vittorio Emanuele; e chiamano i cittadini alle armi. Le loro file s'ingrossano, ma le forze borboniche si avanzano: si impegna una lotta feroce: gl'insorti sono costretti a rientrare nel convento, dove proseguono a combattere con estremo furore, finché ferito mortalmente con tre palle nell’addome ed una al ginocchio Francesco Riso, la vittoria resta ai borbonici.

Nello stesso tempo le squadre esterne trovarono compagnie di soldati appostate nei dintorni della città e non potettero entrare. Pietro Tondù, che aveva marciato tutta la notte da Carini, imbattutosi all’alba del 4 Aprile nelle truppe appostate a Passo di Rigano all’ovest di Palermo ingaggiò il combattimento, ma non potette aprirsi il varco. Egli si ritirò nei Colli occidentali della città, donde nei giorni successivi (57) unitosi con Giuseppe Bruno assali i borbonici a S. Lorenzo e a Baida.

Pietro Piediscalzi, instaurato il di 4 un nuovo governo, mosse il 5 da Piana dei Greci con 180 Chianiòti armati di fucile e molti altri di falci e bastoni. Ma come si appressarono a Palermo seppero dei fatti della Gancia e retrocessero. Non potevano ritirarsi alla Piana senza cadere di li a poco in potere dei borbonici; onde mossero verso Monreale col disegno di disarmare con un colpo di mano il presidio di quella città aiutati dalle squadre dei fratelli Sant’Anna di Alcamo. Tre volte assalirono quelle truppe e le respinsero dentro l’abitato. Il giorno dopo (6 Aprile) rinnovarono la pugna sino a mezzogiorno, ma per la mancanza delle munizioni si dovettero ritirare. Tornarono alla Piana accolti come vincitori e nella Chiesa si cantòil Tedeum. Il dì 9 uniti a una squadra di Corleone comandata dal marchese Salvatore Firinaturi e ad altre di Misilmeri e di Villabate andarono a Gibilrossa, ma vi furono accerchiati da due colonne di soldati borbonici provenienti l’una da Palermo e l'altra da Mezzagno. Dopo vivo combattimento molti delle squadre riuscirono a rompere il cordone mi

litare e a salvarsi. Ritornarono il 10 alla Piana alquanto scorati; di nuovo però ripresero animo vedendo il giorno dopo arrivare le squadre di Gorleone, di Ciminna, di Termini e di Contessa. Ma all’alba del giorno 15 giunge alla Piana il generale Cataldo a capo di 3,000 uomini; le squadre, che non contavano più di 700 armati, si ritrassero nelle campagne. Il generale Cataldo ristabilì il governo borbonico e proclamò l’amnistia per tutti quelli che si presentassero con le armi dentro 24ore; quindi prese a inseguire le squadre. Le quali ridotte a circa 400 uomini si trovavano presso Carini all’ovest di Palermo; e comprendendo che ornai non avevano altra via di salute che l’audacia deliberavano di tentare un colpo su Palermo per ravvivarvi la rivoluzione. Ma il giorno 18 vi sono assaliti da tre colonne borboniche di circa 1000 uomini ciascuna, l’una da S. Giuseppe dei Mortilli, l’altra da Monreale e la terza da Capaci; un battello a vapore li bersagliava dalla marina. Benché troppo inferiori di forze e privati per vari accidenti dei principali comandanti, gl’insorti arditamente accettarono la battaglia: per 6 ore si sostennero nel disuguale combattimento r infine Carini fu presa d’assalto e in gran parte bruciata. Ornai la. rivoluzione era domata, le squadre disperse e non più in grado di affrontare il nemico. Piediscalzi il 19 ritornò alla Piana e non vi trovò che silenzio e squallore: ognuno credeva la rivoluzione già morta, nel nascere. Ma il giorno 20 a rianimare la rivoluzione arrivano a Piana dei Greci Rosolino Pilo e Giovanni Corrao.

Vedemmo come i due fossero giunti a Sant’Agata. Per il resto di questa storia farò uso di alcune carte dell’Archivio di Stato di Palermo; delle memorie già citate di Corrao, che vanno dal 26 Marzo ai primi di Giugno del 18G0; di una lettera di Giovanni Pittaluga pubblicata nel Giornale di Sicilia (Maggio 1894) e di una bellissima opera manoscritta di Carmelo Piola, intitolata: Siciliani illustri morti per la causa nazionale. L’ing. Gaspare Finazzi di Monreale mi fece conoscere D. Giacomo Cusumano, che fu allato del Pilo nel combattimento della Neviera e mi diede molte notizie, che trovai concordanti coi documenti. Ebbi poi cura di visitare i luoghi, la cui conoscenza sembrava necessaria a comprendere certi fatti; e in una delle mie gite ebbi a compagni l’egregio mio amico Ing. Finazzi e il prof. Alfonso Sansone che ha un culto per tutte le memorie del patrio insorgimento e nel registro dei visitatori del monastero di S. Martino, del quale parleremo in appresso, scrisse alcune parole in ricordo di Rosolino Pilo.

Riporto primieramente un dispaccio del Luogotenente generale di Sicilia al ministro per gli affari Siciliani in Napoli:

«Palermo 26 Aprile 1860.

Il 16 corrente furonvisti nei boschi di Caronia due stranieri, Italiani all'accento, ben vestiti, i quali si avvicinarono a S. Stefano di Camastra e domandarono di qualcuno. Passava in quel momento un tal Falla, corriere postale che da Palermo si recava a

Messina con la valigia. Fu fatto fermare dai due stranieri e

interrogato sullo stato dell'insurrezione di Palermo e se la lotta continuava ancora fra le truppe e il popolo. Il corriere rispose che aveva lasciata la città tranquilla ed ogni lotta finita.

I

due stranieri si mostrarono contrariati a quelle notizie; uno di essi fattosi indietro si sbottonò l’abito e mostrò una fascia tricolore, che portava a tracollo, due revolver ed alcune granale fulminanti sospese alla cintura. Minacciò di assassinare il corriere, ma si risto da qualunque offesa per consiglio dell'altro. I due stranieri cavalcavano due muli. Dai boschi di Caronia passarono oltre e furon visti nelle vicinanze di Cefalo, di Termini e di Villafrati, promettendo dovunque pronti soccorsi da Malta.

Uno è il notissimo Rosolino Pilo, che superasi doversi ritrovare clandestinamente in Sicilia; l’altro è ignoto. Si è messa la forza pubblica sulle loro traccio e si è promesso un premio a chi in qualunque moto li metterà nelle mani della giustizia. — Si hanno degl’indizi, che sono nelle vicinanze di Piana dei Greci. (Filza 1238, n. 82).

E l’ispettore di polizia di Termini scrivo a Maniscalco direttore di polizia in Palermo:

«Termini 28 Aprile ’60.

«Il

giorno che sortimmo dal Castello si avviarono verso le ore

23 a queste! volta con vetturali di Pettineo due individui, che per esteri si annunziavano; Pano con barba bionda e lunga e l’altro con lungi! barba nera e capelli alla nazzarena. Avendo conosciuto che le truppe avevano rioccupata la città si fermarono un istante fuori l’abitato e quindi si avviarono a piedi per la via di Caccamo, ove raggiunti da due vetturali di Termini, Antonino Agnello e Nicolò Scalambra, si condussero a Villafrati e di là si crede che si siano diretti a Marineo. Mi si assicura essere costoro gli emigrati Rosolino Pilo e certo Corrao da Palermo; anzi si dice che abbia il Pilo nel fondaco fuori l’abitato scritto in un pezzo di carta il suo nome. Indagando qual via avessero di poi tenuta, oggi ho sentito che il Pilo trovasi in Capaci o nei paesi vicini e che giorni sono furono in cotesta città raccolte dai liberali delle somme, che allo stesso spedirono; dovendosi quest’ultima notizia ritenere come certezza assoluta». (Filza 1671).

E Maniscalco annota di suo pugno sul dispaccio dell’ispettore: «si risponda che troppo tardi ha conosciuto questo fatto».

Con queste indicazioni non è difficile di rifare tutto l’itinerario di Pilo e Corrao da Sant’Agata in poi. Essi traversarono i seguenti territori: S. Stefano di Camastra (16 Aprilo), Cefali (17), Termini (18), Villafrati, Marineo (19), Piana dei Greci (2027), Colli di Palermo (29). Insomma essi traversarono l’intera provincia di Palermo descrivendo un larghissimo cerchio intorno a questa città.

Frattanto tutta la Sicilia si riempiva della voce che non due soltanto, com’era veramente, ma 700, anzi migliaia d’emigrati erano sbarcati coti armi e denaro. La presenza di Pilo e Corrao, che annunciavano il prossimo arrivo di numerose forze, provava agli occhi di molti la verità di quelle voci; tanto più che i due si mostravano pubblicamente nei vari paesi che attraversavano, esortando i liberali a riordinarsi, a rifare le squadre, a tenersi pronti per l’azione. Dappertutto si spargeva la fama dei due emissari venuti dall’Italia continentale, vestiti di velluto nero con sciarpe tricolori e che seminavano dappertutto monete d’oro. Il popolo inclinato al meraviglioso se Ji dipingeva come due cavalieri erranti, dei quali spessissimo leggeva le avventure ole vedeva rappresentate in infimi teatri; li credeva venuti dal continente per sostenere la rivoluzione finché non giungessero gli aiuti di Malta o d'altre parti e prestava fede a quanto di più esagerato si narrasse sul. loro conto. E siccome si è potenti non solo per le forze che st ha, ma anche per quelle che ci si attribuisce, la leggenda non meno che la presenza di Pilo e di Corrao diedero nuova vita alla rivoluzione. Al loro passaggio le autorità sparivano o si scusavano e schiere d’animosi si offrivano al loro comando. Dove non c’era una colonna di soldati, che per altro Pilo e Corrao evitavano, si può dire che il governo borbonico non esistesse più.

I

compagni d’armi e le guardie urbane non ardivano d’affrontare i due emissari. Passando questi dopo rincontro del corriere Falladietro il monte di Cefalù si trovarono con grande sorpresa a pochi passi da molti compagni d’armi. Impugnarono le armi e con viso impassibile s’inoltrarono in mezzo a loro, anzi entrarono nello stesso albergo, dove quelli erano alloggiati. Le guardie andavano e venivano, ma nessuno ardì di montare le scale. Finito il pranzo e pagato il conto, i due colle armi pronte uscirono dall’albergo a dieci passi di distanza l’uno dall’altro. Il Pilo impaziente di scambiare qualche parola con quei compagni d’armi prende la mano d’uno di essi e gli dice: «bastardo Siciliano, questo è il momento di ravvederti». La guardia cogli occhi bassi non ebbe la forza di rispondere.

A duecento passi da Cefalù si avvicinarono a loro otto uomini a cavallo. Pilo e Corrao li guardarono bene in viso e non vi scorsero ostilità, ma benevolenza. Per più di mezz’ ora camminarono tutti in silenzio, finché uno degli otto rivoltosi a Pilo gli disse: Lei é il signor La Masa? noi ci offriamo ai suoi comandi, la nostra vita è a sua disposizione«. «E voi chi siete? rispose Pilo; e donde venite?» Disse: «Siamo della Roccella; e avendo saputo' che in Cefalù sono sbarcati degli emigrati, siamo venuti ad offrire il nostro braccio». Pilo li lodò del loro patriottismo e si fece da loro accompagnare fino a Termini. — A Gratteri furono accolti entusiasticamente da tutti, perfino dagl'impiegati borbonici.

Il

giorno dopo giunsero a Termini e si fermarono all’albergo detto Sant’Angelo pochi passi prima d’entrare nella città occupata dalla truppa. Di là rimandarono la guida in Barcellona da Santi Marciano, perché facesse venire da Messina le pirogranate o bombe all’Orsini, le forme per la fabbrica di nuove bombe, la polvere e i fucili. Pilo prima di partire da Termini scrisse nel magazzino di un certo Arangio in un pezzo di carta da un lato il suo nome e cognome e dall’altro la sola parola «parto»; e diede il foglio con una sterlina d’oro a un garzone del magazzino perché lo consegnasse al fratello Giuseppe Pilo, che allora dimorava in Termini vigilato dalla polizia. Quindi ripresero il cammino per Villafrati. Lungo la strada correvano gli abitanti delle case di campagna a vedere i due e tra loro dicevano: «ecco gli emigrati, ecco i nostri liberatori: questa volta abbiamo vinto». —Pernottarono a Villafrati, dove si abboccarono coi liberali del paese. La mattina del 19 si posero in viaggio per Piana dei Greci; ma la nuova guida o mal pratica dei luoghi o infida li condusse al bosco della Ficuzza, vastissima tenuta Reale tra Marineo e Corleone, nella quale improvvisamente si trovarono a fronte di alcune guardie appostate. Il 'Pilo domandò ad una di loro se quella era la strada che conduceva a Piana dei Greci. Quegli rispose: «chi siete voi altri?» e insieme chiamò all’armi. I due viaggiatori si trovarono circondati la più di dieci guardaboschi, che li volevano costringere a passare per una strada, che stava sotto la loro posizione. Corrao gridò a Pilo: sù, andiamo via per la strada che facciamo: avanti». E tutti e due con le pistole nella destra e le bombe all’Ordini nella sinistra, minacciando distruzione se i guardaboschi ardissero di tirare un colpo, spronarono i muli. Ma quelli inseguivano formando un semicerchio per arrestarli, ed uno dei più giovani incalzava troppo Corrao, che gli gridò: «miserabile, non ti è cara la vita? Qui nella mia mano è la vostra distruzione. Andate o vi faccio sparire tutti dalla faccia della terra». I guardaboschi si fermarono, contenti d’arrestare i due vetturali e la guida.

Quindi i due proseguirono per Marineo e Misilmeri, nei quali paesi ebbero liete accoglienze e promesse di numerosi armati: nell’ultimo furono ospitati da Antonio Guzzetta Guarmusci, sotto la cui guida la sera del 20 Aprile giunsero alla Piana dei Greci.

Ivi intesero la sconfitta di Carini di due giorni prima e la dissoluzione di quasi tutte le squadre. Pilo non si perdette d’animo: arringò i Chianiòti assicurandoli dei pronti soccorsi dei fratelli del continente per la via di Malta o per altra via; mandò corrieri ai signori La Porta e Firmaturi in Corleone, al Barone di Sant’Anna in Alcamo perché raccogliessero le disperse squadre e alla marina di Girgenti per sapere se era avvenuto lo sbarco delle armi e degli emigrati di Malta. Gli abitanti di Piana dei Greci si rallegrarono molto di queste promesse. Pietro Piediscalzi, che in quei giorni si nascondeva aspettando l’occasione di emigrare, riorganizzò subito la sua squadra. Un capitano di compagni d’armi, che andò alla Piana il 24 Aprile per ritirare i 121 fucile che s’erano raccolti per le presentazioni volontarie, notò con meraviglia «che ivi erasi novellamente manifestato lo spirito turbolento e che i tristi imperversavano«. (Filza 123S, n. 84). Dalla Piana fu subito spedito a Palermo il calzolaio Ferdinando Subirò per avvisare il comitato segreto della presenza di Pilo e Corrao e degl’imminenti aiuti. Quest’avviso risollevò gli animi: il comitato raddoppiò di zelo per raccogliere uomini e denari e mandò a Pilo quella somma, di cui parla come assoluta certezza l’ispettore di Termini e che fu di mille onze (L. 12,750). Il 24 Aprile si trovarono affissi in vari punti di Palermo sette cartelli «sediziosi» nei quali tra l’alt re cose si diceva: «La Sicilia è unii sola patria con l’Italia libera. I prodi emigrati sono fra noi. Viva Vittorio Emanuele! Viva la libertà! Viva l’unità Italiana! All’armi!» (Filza 1238, n. 76). Il luogotenente generale di Sicilia scrive al ministero di Napoli in data del 26 Aprile: «I tristi che era usi ritirati dopo gli scontri infelici con le Reali Truppe, ripigliano coraggio e si presentano ad una nuova riscossa». (Arch. di Pal.). Molti da Palermo si recarono nelle montagne a ingrossare le guerriglie. Il Firmaturicorse subito alla chiamata di Pilo e giunse forse il 22: circa due giorni dopo si uni loro Pietro Lo Squiglio, uno degl'insorti del 4 Aprile e dei superstiti di Carini, che dopo la disfatta erasi rifugiato nelle montagne. Pietro Lo Squiglio, che nel ’48 era stato dei 100 Crociati Siciliani andati sotto La Masa a combattere nel Veneto gli Austriaci, era una vecchia conoscenza di Pilo e Corrao; e mori poco dopo all’alba del 27 Maggio, all’assalto del ponte dell’Ammiraglio.

La polizia che, come abbiamo visto, non ignorava la presenza di Pilo in Piana dei Greci, fece nel colmo della notte tra il 25 e il 26 circondare dalle truppe il paese e procedere a un nuovo disarmo «e all’arresto dei più facinorosi». (Arch. di Pal.). Ma Pilo,. Corrao, Lo Squiglio, Firmaturi e Piediscalzi sospettando qualche tranello la notte erano andati a dormire a un casino distante un mezzo miglio dal paese. L’indomani seppero che la Piana era circondata dai soldati, onde si ritirarono più in là sulle colline dello Sbanduto. Il paese fu sottoposto a minutissima perquisizione: il disarmo fu rigorosissimo: vennero tolte le spade perfino alle statue di S. Giorgio e di S. Demetrio.

Il Firmatimi riparti forse il 27 alla volta di Corleone per intendersi con Luigi La Porta, che il 2 Maggio ricomparve a capo di 80 uomini nei boschi di Ciminna (Arch. di Pal.): Piediscalzi restii nei monti della Piana con la sua squadra non disciolta e mantenuta in gran parie a sue spese: Pilo con Corrao

e Lo Squiglio partirono per la valle di S. Martino per avvicinarsi al comitato centrale di Palermo. Giunsero forse la mattina del 29 al monastero di S. Martino appartenente all’ordine di S. Benedetto. L’abate Luigi Castelli promise di somministrare quanto era necessario alle loro persone, ma li esortò ad allontanarsi da quei luoghi. I tre si sdegnarono d’uria accoglienza così fredda, dove avevano sperato valido appoggio; onde attraversato Monte Cuccio giunsero alla regione delta Inserra nella parie occidentale dei colli di Palermo e pernottarono in una casuccia. Quindi si stabilirono nella casa detta del Monaco, che forse allora era disabitata e vi si trattennero una quindicina di giorni.

L’Inserra è un altipiano della catena dei monti, che va da Monte Cuccio al mare. Alto circa 250 metri e posto in una insenatura ad angolo tra la catena principale e una sua diramazione, domina la vasta vallata che col nome di Piana dei Colli si stende al nord di Palermo tra la catena della quale parliamo e il monte Pellegrino. Dall’Inserra salendo per circa un chilometro si giunge alla casa del Monaco posta tra vaste piantagioni di fichi d’india all’altezza di circa 400 metri e chiamata cosi perché

era proprietà d’un convento, che vi faceva ordinariamente dimorare un suo monaco. Varie trazzere o strade mulattiere passano in vicinanza della casa del Monaco, dietro la quale la montagna sorge ripida e nuda, tutta greppi e massi e appena con qualche pianticella nei crepacci. Di questa casa i tre fecero il centro delle loro operazioni, perché mentre da essa si guardava la vallata di Palermo e si poteva scoprire qualunque movimento nelle sue strade, si aveva poi facile comunicazione coi monti di Torretta, Montelepre e Carini. Per stare al sicuro d'una sorpresa tenevano 6 esploratori, pagati ciascuno con 6 tari (L. 2,50) al giorno, oltre il mangiare; e cambiavano spesso dimora, specialmente la notte che passavano ora in una grotta, ora in un pagliaio, non mai due volte nello stesso punto. Da questa casa spedirono subito un corriere in Palermo ai fratelli Di Benedetto, che risposero essere la città ben disposta, ma bisognare un aiuto dal di fuori: indicarono pure i capi della sollevazione precedente, che speravasi si riunirebbero tutti sotto la guida di Pilo e di Corrao. Questi allora mandarono corrieri dappertutto e presero a riorganizzare le forze insurrezionali da Palermo a Castellammare del Golfo.

Mentre cosi Pilo attendeva a rianimare la rivoluzione, il suo nome e il suo ardire non erano senza influsso presso gli amici di Genova. Garibaldi appena conosciuta l’insurrezione di Palermo ordinò che si facessero venire le armi e i denari da Milano e si allestisse un vapore. Ma Cavour e Farini cercano, benché indirettamente, di distoglierlo dall'impresa: le notizie della Sicilia giungono poco incoraggianti. Garibaldi era perplesso. Ed ecco che il 24 Aprile ritorna in Genova e si presenta al Generale il Motto pilota della paranza, con la quale i due emigrati erano andati a Messina. Garibaldi lesse commosso la lettera mandatagli dal Pilo e rivolto al Motto disse: «Ma se stamane ho letto in un giornale che il movimento di Sicilia è stato represso — Generale, rispose il pilota, manco da pochi giorni dalla Sicilia e mi pare impossibile che il Borbone abbia avuto tempo di frenare una rivolta, che ogni giorno prendeva più vaste proporzioni. Rosolino e Corrao sono partiti da Messina per portare la rivoluzione in Palermo, seminandola lungo la via. Messina e le vicinanze erano insorte la sera stessa che entrammo nello stretto. Ed ora, Generale, ci vuole il vostro braccio, altrimenti saranno tutti sacrificati». Garibaldi risolve di partire il più presto possibile. Ma il 27 giunge un telegramma di Fabrizi da Malta: «Completo insuccesso nelle provincie e nella città di Palermo. Molti profughi raccolti dalle navi Inglesi giunti in Malta». Garibaldi dolente dichiarò la spedizione impossibile. Ma la notte del 29 giunge un altro telegramma di Fabrizi che la mattina del 30 è portato a Garibaldi: «L’insurrezione vinta nella città di Palermo si sostiene nella provincia. Notizie raccolte dai profughi giunti in Malta su navi Inglesi». Nello stesso tempo gli si portaronoaltre lettere e dispacci «dai quali appariva che l'insurrezione nell’isola andava rapidamente pigliando piede. Si annunziava in ispecie che Marsala fosse già in potere degli

insorti e si aggiungeva che Rosolino Pilo era a capo poco meno d'un esercito». (Diario di G. Bandi presso Chiala. Lettere di Cavour, vol. IV, p. CLIII). Queste voci sul Pilo m’hanno indotto a credere che fossero allora arrivate le lettere scritte, certo con molte esagerazioni, da Sant’Agata il 16 Aprile. Ad ogni modo solo allora Garibaldi si decise definitivamente ed esclamò pieno di gioia: Partiamo e sia pure domani.

Quanto al telegramma di Fabrizi spedito il 26 e giunto il 27, molti dopo il successo di Garibaldi dichiararono ch’esso mandato in cifra era stato malamente interpretato. Ma se il telegramma era scoraggiante, era anche verissimo; né Fabrizi era capace di mandare false notizie per causare forse una catastrofe. Il secondo telegramma poi non

contradice

al primo: solo chiarisce che l’insurrezione si sosteneva nella provincia di Palermo. E se questa notizia, anch’essa vera, contribuì a decidere Garibaldi, se ne deve cercare la causa nell’azione di Pilo e di Corrao.

E mentre i Mille si raccoglievano in Genova e salpavano da Quarto, Pilo e Corrao

ignari di tutto ciò lavoravano col massimo ardore a risollevare la Sicilia. Siccome alle loro richieste di danaro per pagare le squadre il comitato centrale di Palermo aveva risposto di non avere, dopo l’emigrazione di molti contribuenti, che 450 onze, alle quali non avrebbe posto mano che solo due giorni avanti l’azione, il Pilo firmò una cambiale di L. 6,000 da scontarsi in Malta da Nicola Fabrizi e la mandò ai Di Benedetto perché la negoziassero. Quindi con alcuni capi della sollevazione precedente tenne convegno nella Ferriera, ch'è una tenuta contigua all’Inserra. Ivi sedettero sotto un carrubbo Pilo, Corrao,

Salvatore Macaluso, Francesco Ferrante, Carmelo Ischia, Mariano Mineo.

Pilo mostrò la necessità di riorganizzare le squadre, perché era tempo di tentare un colpo. Quelli si dichiaravano pronti, eccetto Carmelo Ischia, che diceva di non potersi far nulla perché mancava il denaro, mancavano le munizioni e soggiungeva: «Maledetto il momento, che mi sono mescolato in faccende politiche». Ma infine anche

l’Ischia cedette alla pertinacia di Pilo e Corrao specialmente per l’assicurazione di prossimi soccorsi, e di là i quattro convocati scesero nella Piana o si addentrarono nei monti per ricominciare il lavoro. Qualche giorno appresso l’opera era già molto avanzata: Fischia aveva arruolali 400 uomini della Piana dei Colli e consegnato un’onza a ciascuno e aveva mandato al deposito di Carini 2 quintali di salnitro e non poca quantità di piombo. Dall’Inserra Pilo. Corrao e Lo Squiglio andarono a Carini, forse il 6 Maggio, dove convennero anche Tondù, Bruno, Marinuzzi. Pilo arringò la popolazione «dimostrando che non era più il tempo di transigere con la tirannide, il cui trionfo avrebbe soffocato per sempre le aspirazioni di tanti secoli; la lieve sconfitta sofferta essere dovuta all’infinito numero dei nemici provveduti d’ogni militare apparecchio a fronte di pochi generosi sforniti di tutto. Esortava il popolo ad organizzarsi ed osteggiare ancora il nemico, fino a quando fosse giunto il soccorso dei valorosi fratelli del continente». (Manoscritto citato di Carmelo Piota). In Carini si presero gli ultimi accordi per la prossima sollevazione. Pilo fu riconosciuto capo supremo; Corrao ebbe il comando di tutte le forze, Tondù la soprintendenza delle munizioni da guerra e da bocca, Bruno l'ispezione dei corrieri, delle vetture e delle guide. Si raccolsero dalle casse pubbliche e da contribuzioni private più di 600 onze (L. 7650), e si versarono al Marinuzzi, che funzionavi! da ufficiale pagatore. Si convertirono le macine di sommacco in macine di polvere, si apri un laboratorio per la fabbrica delle cartuccie e la fusione del piombo. Si destinò un ospedale dei feriti a Carini ed un medico curante; si nominarono due cappellani, Padre Misseri e Padre Calderone. Gli animi si rinfiammavano dappertutto. Da Torretta andò) in Carini una squadra di 44 uomini con 100 onze, da Montelepre un'altra squadra con altre 100 onze, dai Colli di Palermo e da Capaci una squadra di 400 uomini, dalla Favarotta 150 uomini con la musica alla testa, da Tommaso Natale e da Sferracavallo 50 uomini e cosi da altre parti; sicché già si formava una colonna di più 1000 uomini, che si raccoglieva sul monte detto Serra dell'occhio per muovere di là all’assalto di Palermo. Corrao li disciplinava militarmente distribuendoli in squadre di 10 uomini ciascuna con un caporale e preponendo ad ogni 10 squadre un capo e un sottocapo. Si aspettavano tra breve quelli di Partinico, di Piana dei Greci, di Corleone, di Misilmeri e di altri paesi. L’isola era già pronta a divampare di nuovo: lo sbarco di Garibaldi fu il colpo di fulmine che incendia la polveriera. E già apparivano i segni precursori della nuova rivoluzione. L’8 Maggio il comitato segreto di Palermo in una stampa clandestina diceva: «I nostri fratelli, che nei lunghi anni d’esiglio hanno sospirato il momento di venire nella loro terra natale a dividere i pericoli della lotta contro il Borbone, sono già in armi e con noi». E terminava col grido: «Viva Vittorio Emanuele, Viva l’Italia». (Filza 1238, n. 2).

Il giorno dopo verso le 6 pom. molta gente passeggiava per via Macqueda con sembiante concitato. I giovani presero a schernire i soldati; una mano d’audaci voleva disarmare una pattuglia, che prima cercò di respingerli e infine fece fuoco. Le altre pattuglie accorse nello stesso luogo caricarono la folla con la baionetta. La folla gridava: «Viva l’Italia, viva Vittorio Emanuele». Vi fu un morto ed otto feriti. Si vedeva che Palermo si preparava ad una seconda riscossa. Il luogotenente generale scrive a Napoli il 10 Maggio: «Col durar delle speranze di vicini soccorsi, che il partito rivoluzionario si aspetta dal Piemonte, dura e si accresce l’ostinazione dello spirito fazioso, che informa una parte degli abitanti di questa città, i quali in preda ad un delirio anarchico fan di tutto per sovvertire l’ordine».

L’11 Maggio sulla falsa notizia dello sbarco degli emigrati di Malta a Punta Bianca nella marina di Girgenti, un buon numero di squadriglieri convenuti da Piana dei Greci, da Partinico, da Montelepre si raccolgono a Malvello sotto la guida di Pietro Piediscalzi. La squadra il giorno appresso circondò il paese di Roccamena e intimò il disarmo a tutti coloro che non volessero seguire la bandiera nazionale. Si raccolsero 80 fucili, pochissimi denarie munizioni, ma nessuno del paese volle arrotarsi. «Ciò fatto andarono nell'ex-feudo Gallardo,

ove mentre stavano facendo colazione arriva il marchese Firmaturi con due dei suoi e più lardi un uomo a cavallo, il quale dà l’annunzio che Garibaldi era sbarcato a Marsala con 1200 Italiani. A questa nuova scaricarono i fucili per la gioia e quel giorno fu per loro una festa incantevole». (G. Petta, Piana dei Greci nella rivoluzione del '60, Palermo 1861). Possiamo anche invaginarci la gioia, che dovette provare a quella notizia Rosolino, che aveva promesso tante voltegliaiuti dei fratelli del continente. Egli spedi subito un pedone alla volta di Garibaldi per mettersi ai suoi ordini e cooperare con lui. Gran parte delle squadre, che dovevano riunirsi a Pilo, s’indirizzarono pure a quella volta.

VI

Garibaldi, vinta il 15 Maggio la battaglia di Calatafimi, occupò il giorno appresso il paese di questo nome e di là scrisse al Pilo:

Calatafimi 16 Maggio 1860.

Caro Rosolino,

Ieri abbiamo combattuto e vinto — i nemici fuggono verso Palermo— le popolazioni sono animatissime e si riuniscono a me in folla. Domani marcerò per Alcamo. Dite ai Siciliani ch'è ora di finirla—e che la finiremo presto; qualunque arma è buona per un valoroso, fucile falce mannaia un chiodo alla punta d’un bastone.

Riunitevi a me od ostilizzate il nemico in cotesti dintorni, se più vi conviene. Fate accendere dei fuochi in tutte le alture, che contornano il nemico — tirar quante fucilate si può di notte alle sentinelle e posti avanzati — intercettare comunicazioni— incomodarlo infine in ogni modo. Spero ci rivedremo presto.

Vostro

G. Garibaldi».

La mattina del 17 giunse in Alcamo, donde la sera proseguì la marcia in avanti e la mattina del 18 occupò Partinico. In questo giorno o nel precedente Rosolino avendo intercettate delle corrispondenze nemiche le aveva spedite a Garibaldi, e chiestogli nello stesso tempo armi e. munizioni. Garibaldi così gli rispose quella stessa mattina:

«Partinico 18 Maggio 1860.

Caro Rosolino.

È tempo di marciare verso Palermo, di approfittare dello entusiasmo del popolo e dello sconforto dei regi. Fate quanto vi ho scritto nell'antecedente e più se potete.

Io marcio verso Monreale e sarò vicino a quel posto verso sera.

Avvicinatevi per le munizioni e vi farò parte di quella che abbiamo. Assicurate però i nostri prodi che col ferro faremo assai più che col fuoco contro i nostri nemici. Con affetto.

Vostro

G. Garibaldi».

E poco appresso verso mezzogiorno mandò quest’altro biglietto:

Partinico 18 Maggio.

Caro Rosolino,

Bisogna dire ai nostri prodi di Carini che si preparino a coadiuvare l'opera nostra di domani. Io marcerò alle 3 pom. verso Monreale. Frattanto si accendano falò questa notte su tutte le alture che avvicinano Palermo e si molestino i regi con fucilate di notte in tutte le’ posizioni che occupano e di giorno in ogni modo possibile.

Dite ai bravi Siciliani che un ferro qualunque nelle loro mani — vale un fucile. Addio.

Vostro

G. Garibaldi».

Pilo fece accendere centinaia di fiaccole e fuochi sui monti; e i Palermitani, come cantò Giuseppe Romano nel 1862 in un carme a Rosolino Pilo,

confortavan l'ore

Delle squallide sere i circostanti All’Oretea città colli guardando Di molte faci risplendenti e lieti.

Ma la preoccupazione delle armi da fuoco era insistente nel Pilo, che cercava di procurarsene per tutte le vie. coi né mostra il seguente biglietto mancante di soprascritta e conservato dal Dott. Giuseppe Lodi:

Carini 18 Maggio ’60.

Signore,

Dall’ottimo Giovanni Ferranti ini si scrive che siete possessore di numero dieci fucili e che siete disposto a darli dietro mia garanzia. Ciò posto, mi permetto di farvi queste linee, che vi varranno per la garanzia che ricercate.

Gradite li miei ringraziamenti e credetemi

Obb. mo

Rosalino Pilo — Capaci.

Pochi giorni prima aveva anche tentato d’avere munizioni dal Comandante del Governolo, nave da guerra Piemontese che dal 23 Aprile stazionava nel porto di Palermo e che contava tra gli ufficiali il Siciliano Giuseppe Denti, nipote di Pilo. Il Denti rimasto orfano aveva emigrato con Pilo nei primi del Maggio ’49 per Marsiglia e di là poco dopo per Genova.

Il

Pilo gli aveva fatto da padre, ed ottenuto con gran difficoltà un posto nell'Accademia navale di Genova, donde lo vide uscire ufficiale della Marina Sarda. Il Denti (che poi mori contrammiraglio) così gli scrive:

15 Maggio ’60.

Mio amatissimo Rosolino,

Quanto caro mi sia riuscito il tuo biglietto puoi facilmente figurartelo— tu che sai quanto t’amo. Mi avessi chiesto la vita, non avrei esitato un istante a dartela — nessuno ne ha più diritto di te. Ma quanto mi chiedi è cosa assai difficile. Il comandante non è a bordo, ma quand’anche vi fosse son certo che risponderebbe negativamente. Pure appena tornerà, gliene parlerò; e ove la persona, che mi ha portato oggi il tuo biglietto, torni, le darò più positiva risposta. Ama il tuo Peppino».

«Palermo 18 Maggio.

Amato mio Rosolino,

... Mi affligge più che pena mortale il non poter farti avere quelle munizioni che desideri. Se Iddio esaudisse tutti gli ardenti desideri, sta certo che avresti quanta polvere e palle sono sul Governolo. Ma Iddio, pare, non corona sempre i santi e forti propositi. Ma credo in Cristo che, se non ò il Dio dei vili, coronerà i vostri sforzi... Ama chi t’adora. Tuo figlio Peppino».

Il Pilo la mattina del 18 lesse nella piazza di Carini tra l’entusiasmo generale la lettera di Garibaldi del 16, della quale mandò copia al comitato di Palermo e a molti altri Comuni; poi verso mezzogiorno si recò nei monti di S. Martino, dove fu raggiunto da Salvatore Calvino, capitano dello Stato Maggiore di Garibaldi, con una squadra di Siciliani e non di carabinieri Genovesi, come scrissero alcuni. Di questa e d’altre cose c’ informa la seguente lettera di Rosolino a Pietro Tondù rimasto in Carini per procurare oltre del vettovagliamento le munizioni, cioè polvere, palle e anche lancie per chi non avesse fucile:

(Monti di S. Martino 18 Maggio).

Caro Pietro,

Le vettovaglie arrivarono qui alle ore 17, non so per quale causa; né mi volli occupare a penetrarla. Se la squadra dei 100 individui, che tu mi dici avere bene organizzata, si trova tutta armata con fucili, mandala domani presto qui stesso, ove pernotteremo stanotte ad aria scoverta, perché per ordine del generale Garibaldi non dobbiamo abbandonare questa posizione, anzi dobbiamo in diversi modi e in diversi punti incomodare il nemico. Si è venuto ad unire a noi il nostro confratello Salvatore Calvino capitano dello Stato Maggiore di Garibaldi, portando seco una squadra dei nostri senza denaro. Egli ci coadiuverà nelle operazioni da fare e ci darà dilucidazioni — Sento con piacere i voli che si son fatti per la munizione. Domani mandala tutta e fa continuare con maggiore alacrità il lavoro. Dal modo come scrive il generale Garibaldi è da credere che tra stanotte e dimani seguirà l’attacco sopra Monreale. Tieni questa notizia come riserbata per te solo e pel comune e buon amico Padre Luigi (Domingo?) — Don Giovanni (Corrao) ti saluta. Egli è disceso in S. Martino seguito da molti dei nostri per far delle scoverte o per attaccare.

Torno alla squadra. La condizione se non importa che non: devi mandare tutti quelli che hanno fucili. Anzi te lo raccomando perché ci sarebbero di giovamento.

Salutami tutti i galantuomini del paese, che ebbi il piacere d’avvicinare. Rispettami il Comitato. Abbraccia il tuo fratello

Rosalino.

(Arch. di Pal. 1 stanza, n. 59).

Garibaldi, come dice nel suo secondo dispaccio del 18 al Pilo,, si avanzò verso le tre pom. per la via di Monreale e si accampò nell’altipiano di Renda. La mattina del 19 si spinse sino alle prime case di Pioppo a 5 Chilometri da Monreale e di là scrisse al Pilo, evidentemente rispondendo a richieste ed osservazioni di lui:

«Misero Cannone 19 Maggio 60.

Caro Rosolino,

Ho risposto alla vostra lettera annessa ai dispacci sequestrati: non posso per ora mandarvi munizioni e cannoni.

Penso di marciare verso Monreale nelle ore tarde della giornata. Con la vostra gente coadiuvate il possibile alle nostre operazioni, incomodando il nemico in ogni modo.

Dite ai vostri compagni che in Lombardia e in Sicilia noi abbiamo sempre vinto il nemico che aveva cannoni e noi no: che i Siciliani sanno perfettamente combattere a ferro freddo e che in ogni modo vinceremo.

Osservate i nostri movimenti con messi svelti e sicuri e regolatevi in conseguenza.

Si stanno confezionando munizioni e subito che ne avrò delle pronte, ve ne farò parte.

Salutatemi i vostri bravi compagni.

Vostro

G. Garibaldi».

Rosolino dovette riscrivergli chiedendogli istruzioni e se Calvino, che dal giorno avanti si trovava con lui, dovesse anche dipendere da lui. Garibaldi rispose con una lettera che per lacerazione del foglio manca del principio e della fine:

«Renda 19 Maggio 60.

Tenersi sopra il nemico ed ostilizzarlo per quanto sia possibile, senza esporsi seriamente:

Tenermi informato di qualunque cosa e coadiuvare alle nostre operazioni. Calvino sarà ai nostri ordini, quando debba dipendere da noi.

Quando noi potremo attaccare francamente il nemico — attaccarlo pure risolutamente da parte vostra.

Il giorno dopo il Pilo ricevette questo dispaccio dal capo di Stato Maggiore di Garibaldi:

«Dal campo presso Renda sulla via di Monreale
ore 2 pom.del 20 Maggio 1860.

(Pressantissimo). D’ordine del Generale: Ella marcerà sollecitamente con le forze delle quali dispone sopra S. Martino, affine di cooperare col Generale che opera sopra Monreale. Gol messo stesso che reca quest’ordine e con altri messi sicuri, tosto che riceverà questa lettera, renda avvisato il Generale del quando può giungere con le sue forze a S. Martino, con quali forze vi può giungere e a quale ora può cooperare sopra Monreale e in qual modo.

Faccia seguire i primi avvisi a misura che avanzano le sue forze e principalmente dopo l’arrivo a S. Martino.

Sirtori».

Al signor Rosolino Pilo a Carini

o dovunque trovasi (il messo recherà la risposta)

S. P. M.

Il Pilo, appena ricevuto questo dispaccio, ordina a Pietro Tondù in Carini che venga con tutte le forze o le mandi sotto qualche capo fidatissimo:

«Monti di S. Martino li 20 Maggio.

(Riserbatissimo) Carissimo Pietro,

In vista bisogna che le masse facciano mossa pel monastero di S. Martino. Il generale Garibaldi l'ha ordinato e bisogna ubbidirlo subito subito. Disponi quindi che le squadre di costì vengano subito portando le munizioni e procura tu di far aumentare le braccia per continuare la fabbricazione.

Se tu credi che per riuscirvi e er badare ancora alla fabbricazione delle lancio sia necessaria la tua presenza, restati, purché la marcia venga affidata a persone energiche e bene intenzionate.

Io affido a te questa interessantissima incombenza, essendo troppo necessario che essa venga senza la menoma remora adempita.

Rosalino Pilo»

In questa lettera sono di pugno del Pilo la sola firma e le parole subito subito aggiunte lateralmente al testo. Il Tondù ri, cevuta la lettera si pose subito in marcia e giunse al monastero di S. Martino circa le 9 pom. Ma poco dopo la mezzanotte ripartì alla volta del campo di Renda.

Dopo il suo arrivo Rosolino spedì questo dispaccio:

«S. Martino 20 Maggio ore 10 pom.

Arrivato qui con 250 uomini.

Domattina richiamerò Corrao

coi 150 uomini dal monte della Neviera.

Le altre spero che arriveranno tra stanotte e domani di buon’ora.

Al monastero di Valverde nella strada di Monreale ad un miglio da Palermo 4 grossi cannoni mascherati.

Al Generale Garibaldi

Rosalino Pilo».

Nella lettera al Tondù si manifesta l’impeto, che Rosolino metteva in tutte le sue cose e in questo dispaccio fatto cosi concisamente e nel quale è pure di Rosolino la sola firma, si rivela oltre la stanchezza forse anche l’ansia di chi si approssima ad ‘Una pruova decisiva. La signora White-Mario nella Vita dli Garibaldi dice che Rosolino in quel giorno scrisse alla donna, che amava: «Questa sera mi congiungo con Garibaldi, se le palle mi rispettano» Egli comprendeva la difficoltà della pugna imminente, ma con Garibaldi era sicuro della vittoria; e forse già pregustava l’ebbrezza del trionfo e pensava con orgoglio alla donna amata. Ma il fato si apprestava a colpirlo.

Il monastero di S. Martino, che si dice uno dei sei conventi fondati in Sicilia dal Papa Gregorio I nel secolo VI, è uno splendido edificio, che sorge a 12 Chilometri all’ovest di Palermo, sulle pendici occidentali d’una vasta vallata interrotta da numerosi monti, e valli minori e cinta di alte montagne per tutti i lati, salvo all’est dalla parte di Palermo, dove ha più largo orizzonte. La vallata è limitata al nord dal monte Cuccio e dalle sue diramazioni occidentali, all’ovest dalla Serra dell’Occhio, al sud dal Castellaccio e dal monte Meta, il cui punto più alto si chiama Pizzo di Giardinello (m. 870). Quest’ultima catena divide la valle di S. Martino dalla città di Monreale; la Meta col Pizzo di Giardinello domina dal lato sud la strada che da Monreale va a Pioppo e all’altipiano di Renda e dal lato ovest la cosi detta Vallecorta, che divide la Meta dal monte Boarra e dal Monte di Mezzo, che può dirsi una diramazione del Boarra fiancheggiante la Vallecorta. Dal Pizzo di Giardinello si dirama verso il monastero di S. Martino, nelle cui vicinanze finisce, un altro monte di altezza poco minore, che si chiama monte della Neviera. Ad esso, come ancora alla Serra dell'Occhio e alle altre elevazioni vicine al monastero, si dà il nome generico di Monti di S. Martino.

La mattina del 21 Maggio, mentre l'accampamento dei Mille era ancora nell’altipiano di Renda, gli avamposti Garibaldini si stendevano sino alle falde del Boarra sull’ingresso meridionale della Vallecorta in un luogo chiamato Lenzitti, a due chilometri da Monreale. Le falde del Boarra erano occupate dalla squadra di Piana dei Greci comandata da Pietro Piediscalzi. Questa squadra dopo la notizia ricevuta il giorno 12, come narrammo, nell’ex-feudo Gallardo, s’era incamminata per Corleone, dove il giorno 13 fu ricevuta trionfalmente. «Le grida di viva l’Italia, viva Garibaldi si ripetevano per ogni strada, per ogni vicolo. Fra quel turbine di ovazioni udivasi pure il nome di Pietro Piediscalzi, ih quale alzato sulle braccia fu condotto in trionfo da un immenso popolo frenetico di gioia, che lo precedeva, lo fiancheggiava, lo seguiva chiamandolo il vero propugnatore della libertà». (G. Petta, Piana dei Greci nella rivoluzione del 60). Il giorno 17 tornarono alla Piana e vi combattettero una colonna nemica che veniva da Parco. La mattina del 18 la squadra si presentò a Garibaldi in Partinico, fu passata a rassegna dal colonnello Giacinto Carini e col nome di Cacciatori dell’Etna destinata agli avamposti di Lenzitti. Ma mentre si pensava di assalire il nemico, si fu all’improvviso da esso assaliti.

Il giorno 20 i comandanti borbonici deliberano di prendere ¿’offensiva, e la mattina del 21 si fanno avanti. Bisognava assalire l’avanguardia garibaldina e per essere sicuri alle spalle disperdere le squadre dei monti di S. Martino. I Borbonici procedono in tre colonne, partite due da Monreale (centro ed ala sinistra) ed una da Palermo (ala destra); quella del centro si avanza di buon mattino ad occupare le cime del monte Meta e il Giardinello ed oltrepassando la Vallecorta occupa anche il monte di Mezzo e in parte la cresta del Boarra. Questa colonna dal Giardinello apre il fuoco con colpi rari e riparata da un muro, che ivi sorgeva per divisione di proprietà, è quasi invisibile. G’insorti, che rispondono arditamente e s’avanzano cautamente verso il Giardinello, potettero credere d’aver vinto o respinto il nemico. Gl’insorti si stendevano dal lato della valle di S. Martino sui fianchi della Meta dalla Neviera sino al Montecristo, ch'è un poggio dominante la Portella di S. Martino cioè il passo che conduce da Monreale a questa valle e pel quale si credeva che s’avanzerebbero i nemici. Ma questi invece avevano occupato le cime dei smonti e soprastavano alle squadre. Il Pilo all’alba del 21 aveva richiamato Corrao al monastero di S. Martino; ma appena scambiati i primi saluti, corse la voce che il nemico si avanzava, onde Corrao ritornò di corsa al suo posto sul Montecristo e poco dopo Pilo e Calvino salirono la Neviera con tutte le loro forze. Frattanto s’avanzano le colonne laterali nemiche, l’una verso S. Maritino minacciante di girare la Neviera, l’altro dal lato di Monreale per assalire le squadre sulle falde del Boarra e tagliar loro ila ritirata verso Renda. Allora suona nelle file borboniche la tromba ordinante il fuoco: la truppa accumulata sul Giardinello e sulla Meta esce dai suoi ripari e comincia un terribile fuoco di fila: una pioggia di piombo cade sulla cresta della Neviera e del Montecristo, mentre dall’alto del Castelluccio a distanza tuona il cannone. Pilo certo non s’aspettava d'essere assalito da forze cosi imponenti. Le sue squadre erano nell’impossibilità di resistere a un fuoco così nutrito e a tanti nemici che sempre pili s’avvicinavano di fronte e alle spalle, cioè dalle vette della Meta e del Giardinello e dalla valle di S. Martino. Il Pilo vestito da borghese, salvo che portava una sciarpa tricolore ed un berretto con striscie che lo indicavano comandante, «gridava ai suoi: coraggio, fratelli, coraggio contro i satelliti della tirannide. Dobbiamo liberare la patria. Viva l’Italia una». Le squadre non potevano retrocedere a S. Martino, verso cui s’avanzavano i Cacciatori borbonici; non potevano scendere nella Vallecorta, senza esporsi come bersaglio al fuoco; non potevano difendere a lungo le loro posizioni, anzi nemmeno dispiegare le loro forze, perché dominate da nemici più in alto e più numerosi. Il pericolo non poteva superarsi senza un soccorso. Rosolino risolve di scrivere a Garibaldi e frattanto resistere disperatamente. Egli sul Pizzo cioè sul punto più alto della Neviera, seduto sul terreno in pendio, riparato da due roccie disposte quasi ad angolo e da un rialzo intermedio di terra scriveva in un foglio sul ginocchio rialzato, quando una palla rimbalzando da una delle due roccie lo colpì nella testa e penetrò nella cavità del cranio. Si piegò su se stesso, quindi cadde rovesciato a terra dando in forti convulsioni. Accorsero i suoi per assisterlo e poco dopo presolo per le gambe e per le spalle lo portarono giù dal Pizzo con l’intenzione di trasportarlo al monastero. Ma in meno di due ore spirò. Non aveva ancora quarantanni, essendo nato in Palermo la notte del 12 Luglio 1820. All’appressarsi sempre più incalcante del nemico, gli squadriglieri accortisi che il comandante era spirato non pensarono che a salvarsi e deposero il cadavere lateralmente a una casetta, che chiude l’ingresso d’un magazzino di neve. Potevano essere le 9 antimeridiane. — All’alba dello stesso giorno un’avanguardia borbonica aveva assalito alle falde del Boarra le squadre di Piana dei Greci. Sulle prime fu respinta, ma poi tornata con forze maggiori sopraffece le squadre, che sperarono di salvarsi per la Vallecorta, forse non credendola occupata dai nemici; ma mentre Pietro Piediscalzi tentava questa via, infondendo col suo esempio fermezza e coraggio ai seguaci, colpito da una palla al petto rimase all'istante cadavere.

La leggenda, che accompagnòil Pilo nella sua traversata della Sicilia, continuò anche intorno la sua morte. Si disse ch'egli portava una cintura piena di monete d'oro, che avrebbero eccitata la cupidigia di qualcuno delle squadre, il quale o per questo motivo o per essere stato duramente ripreso dal Pilo di qualche sua rapina o d’altro avrebbe concepito odio feroce ed effettuato nella confusione del combattimento il proposito omicida. Un mio amico di vasta cultura e d'ingegno arguto mi disse ch’egli aveva girato gran parte dei giardini Palermitani, dove lavoravano molti delle squadre del ’60, per appurare il vero della morte del Pilo e che le loro relazioni erano quasi concordi che la morte fosse dovuta al tradimento di qualcuno dei tanti ma finsi, che facevano parte delle squadre. Ma questi racconti per quanto diffusi debbono assolutamente rigettarsi; essi mostrano solo che la scomparsa improvvisa d’un uomo eminente nel punto, in cui sembrava elevarsi a maggiori destini, impressiona il popolo, che spiega la catastrofe col delitto. Le voci poi di tradimento da parte del Corrao, l’indivisibile compagno di Pilo, fanno parte della nefanda gazzarra, con cui l’ignobiltà umana tentò di gettare il fango sulle più alte figure del risorgimento nazionale.

Fu Rosolino di statura media, di complessione piuttosto smilza, con capelli biondo-chiari ch’egli usava di portare lunghi e a zazzera, e con barba rada e tendente al rossiccio. La sua salute aveva sempre degli alti e dei bassi. Soffriva attacchi nervosi, colpi al cervello ed era minacciato spessissimo di dolori allo stomaco. Con tutto questo sembrava incapace di riposo e di scoraggiamento. Instancabile nell'eccitare ed organizzare moti favorevoli alla causa nazionale, pronto sempre ad esporsi a tutti i rischi era della scuola di quelli che credono doversi tirare contro il nemico sin l’ultimo colpo: forse è quello che l’ucciderà. Irremovibile nei suoi propositi, imperturbabile nei maggiori pericoli, devoto alla grandezza della patria, egli testimonia onorevolmente d'una generazione la quale ebbe quello che e prima e dopo sembrò mancare agl’italiani, il carattere.

Morirono con Rosolino Pilo sulla Neviera Salvatore Pellitteri di Boccadifalco e Cristoforo Caruso di Terrasini, che feriti gravemente non potettero fuggire e furono finiti dai nemici sopraggiunti. Con Piediscalzi poi nella Vallecorta morì Giuseppe Tagliavia Palermitano. I borbonici alla loro volta ebbero due soldati morti e sei feriti.

Il 22 Maggio il Luogotenente generale scrive a Napoli: «Una persona spedita come esploratore fra le bande che osteggiavano ieri le Reali Truppe sui monti di Monreale, di ritorno ha riferito che i filibustieri di Garibaldi accampati a 6 miglia da quella città non pigliarono parte al combattimento e che meglio di 2,000 erano gl’insorti che furono attaccati dalle Reali Truppe. Li capitanava il notissimo Rosolino Pilo Gioeni, che fu ucciso nel combattimento e spogliato delle sue vestimenta

dagli stessi faziosi e lasciato mulo sulle roccie. Gl’insorti ebbero sette uccisi e parecchi feriti e dei prigionieri». (Filza 123S, n. 51).

Di cinque degli uccisi abbiamo riferito i nomi. Ma dobbiamo ancora intrattenerci della morte del Pilo.

VII

Chi dal monastero di S. Martino sale il monte della Neviera dopo una mezz’ora giunge ad un’amena valletta, dove vi sono due poveri fabbricati, l’uno per custodia dell’ingresso del magazzino di neve, che dà il nome al monte, e l’altro per deposito degli attrezzi da lavoro. Salendo da questa valletta nella direzione del Pizzo di Giardinello si giunge al Pizzo della Neviera, cioè al punto più alto di essa. In questo Pizzo fra due roccie calcaree sporgenti e un rialzo di terra vi è un riparo che sembra sicurissimo, perché chiuso da tutti i lati, salvo da quello del monastero e del magazzino. In quel riparo Rosolino scriveva a Garibaldi, quando una palla partita dal Pizzo di Giardinello colpi la roccia e rimbalzando colpi Rosolino alla testa. La posizione e Tesarne dei luoghi esclude assolutamente che Rosolino sia stato colpito da altra palla che da una di quelle partite dal Giardinello e per soprappiù di rimbalzo. La voce assai diffusa ch’egli sia stato ferito alla nuca sembra una pruova del tradimento a chi non conosce i luoghi; ma precisamente alla nuca poteva essere ferito se la palla era borbonica, perché il Pilo nel descritto riparo volgeva le spalle al Giardinello, donde sparavano i nemici. Io però credo che fu colpito poco sopra la tempia sinistra, come assicura chi vide il cadavere; il che coincide pienamente con le circostanze sopra descritte. Uno dei suoi non gli poteva tirare se non facendosi apertamente vedere da tutti, il che nessuno afferma che sia avvenuto. Solo si dice che qualcuno delle squadre fingendo di sbagliare tirò nella direzione del comandante. Ma questo non è possibile, perché dovendo gli squadriglieri sparare nella direzione del Giardinello, nemmeno vedevano il comandante nel riparo descritto: chi di loro voleva colpirlo doveva collocarsi in tale posto e maniera da non lasciare nessun dubbio sulle sue intenzioni. Ora, come ho detto, nessuno afferma questo. In quello spazio fra le due roccie Palermo dovrebbe innalzare una stela o porre una lapide al suo eroico figlio, anzi sulla roccia stessa, che fu veicolo di morte, scolpire la gloria dall’instancabile campione della libertà ed unità d’Italia.

Caduto il comandante, accorsero i suoi, come dicemmo, e poco dopo presero a trasportarlo giù dalla cima del monte. Ma giunti presso la casipola della neviera, vedendo il comandante già morto e i nemici vicini abbandonarono il cadavere a lato del muro della casipola fra le alte ortiche, ai raggi del sole cocente; e proseguirono la discesa per salvarsi. Giovanni Corrao

e Salvatore Calvino, che durante il combattimento avevano in tutti i modi coadiuvato il Pilo, gli tolsero la sciarpa tricolore, l’orologio e il portafoglio per consegnarli alla famiglia, lasciandolo cogli altri panni che aveva indosso. Sopraggiunti i nemici, spogliarono il cadavere e sfondata la porta della neviera gettarono su di esso quel tritume di paglia e di neve che vi era e gli fecero altri sfregi. Frattanto gli squadriglieri in ritirata giunti al fondo della stretta valle cominciarono a salire il monte opposto ch'è la Serra dell’Occhio: e i soldati dall'alto delle loro posizioni avrebbero potuto farne strage, se per pietà o per stanchezza non avessero tirato in aria o a sola polvere. Verso le li ogni combattimento era finito. Poche ore dopo l’abate del monastero, Luigi Castelli, mandò sul monte tre suoi inservienti per prendere e seppellire i morti; e quelli trovato il cadavere di Rosolino lo riposero dentro una cassa, che avevano recato con se e lo portarono all’abazia, dove fu deposto la sera stessa del 21 nella tomba di mezzo detta di San Gregorio.

Sopraggiunta la notte, le squadre si dispersero e Corrao si rifugiò a Montelepre, che dista circa due ore di cammino.

Garibaldi avendo visto quella mattina il nemico spingersi avanti per la cresta del Boarra sino a Pioppo, capì ch’esso non intendeva più di tenersi sulla difensiva. E credendo ancora il Pilo in vita, gli scrisse questa lettera, di cui la sola firma è autografa, mentre le altre già riportate sono interamente di mano di Garibaldi:

«Misero Cannone 21 Maggio '60.

Caro Rosolino,

Ciò che fece il nemico questa mattina non è che una ricognizione.

Da parte vostra continuate ad ostilizzare ed allarmare il nemico quanto è possibile.

Dite poi ai nostri picciotti che se vogliono andare a Palermo e liberare il loro paese, si conformino a far la guerra provvisti di tutto qualche volta e mancanti di tutto qualche altra.

Vostro

G. Garibaldi».

Quando poi seppe la morte di Rosolino ne fu molto addolorato. Ma subito considerò che dopo la ricognizione di quel giorno il nemico tramai assicurato alle spalle, forte di numero e ben armato sarebbe forse venuto il giorno appresso ad assalirlo nel suo stesso accampamento di Renda occupando prima i monti che lo dominano. Perciò fedele alla sua massima di assalire francamente a tempo opportuno e di non esporsi seriamente in condizioni sfavorevoli; persuaso che la sua superiorità consisteva principalmente in una mobilità occulta, che sconcertava tutti i disegni del nemico, al quale appariva di sorpresa; ordina nelle ore pomeridiane la levata del campo, procede nel colmo della notte per istrade disastrose sino a Parco, dove giunge la mattina seguente e di là scrive a La Masa,

che ordinava il campo di G ibi 1 rossa:

«Parco 22 Maggio 1860.

Abbiam marciato tutta la notte con un tempo (l’inferno e strada consimile. — Siam qui, mi piace la posizione e procureremo di sostenerla fino a prendere l'offensiva. — Inquieteremo il nemico più che potremo — farete lo stesso da parte vostra e mi darete vostre nuove. Addio, caro amico.

G. Garibaldi».

Al Tondù, che aveva raggiunto 1 accampamento Garibaldino, il Dittatore rilascia queste istruzioni, scritte tutte di sua mano:

Parco 22 Maggio 1860.

Il Comandante Pietro Tondù è autorizzato a riunir gente armata — per ostilizzare i nemici in qualunque modo possibile.

Egli deve requisire dalle Autorità locali tutto quanto abbisogna per mantenere e vestire la sua gente — documentando le stesse con regolarità.

Egli deve mantenersi possibilmente in continua relazione col mio quartiere generale—avvertendomi di qualunque cosa che possa importare.

Egli deve tenere continuamente dei piccoli distaccamenti sul nemico per incomodarlo — particolarmente di notte — tagliando le sue comunicazioni, convoglio etc.

Procurerà poi soprattutto di dare la maggiore regolarità e disciplina possibile alla gente che comanda—reprimendo qualunque furto, violenza, etc.

G. Garibaldi».

(Arch. di Pal. 1(a)Stanza, n. 56).

Non mi resta che di dare una notizia di Corrao. Rifugiatosi a Montelepre dopo il combattimento della Neviera, in due giorni rifece le squadre che s’erano sbandate e tornò a stabilirsi alla casa del Monaco nell’inserra, dove era stato un quindici giorni con Pilo. Occupò Montecuccio e i colli vicini ed ogni sera vi faceva accendere un centinaio di fiaccole. Il 27 Maggio alle tre pomeridiane arrivò a lui una staffetta del Dittatore, il quale la mattina era entrato a Palermo da Porta Termini. La staffetta consegnò a Corrao

un dispaccio, col quale gli si ordinava di scendere per le 5 antimeridiane del giorno appresso alle porte di Palermo, ma senza farne accorti i nemici e gli stessi suoi. Corrao

nel colmo della notte scende in silenzio verso Palermo, ancora per tre quarti in potere dei borbonici, finché nello stradone dei Lolli incontrò il nemico. S’impegna un vivo fuoco: cadono il portabandiera ed altri militi del Corrao;

ma egli fa occupare le case dirimpetto la caserma di S. Francesco di Paola, vi apre delle feritoie, fa tirare all'improvviso

sulla truppa accampata nelle vicinanze della caserma. Il nemico è volto in fuga, la caserma è presa d’assalto e il passo per entrare nella città rimane libero. Corrao

vi manda metà della sua gente, ma prevede che il nemico tornerebbe alla riscossa; onde fece barricare una parte del Corso Olivuzza, occupare le case all’intorno ed egli si stabilì nel palazzo Butera (Fiorio). Infatti non molto dopo per lo stradone dei Lolli si avanzano gridando forti colonne borboniche, che ingannate dalla scarsa luce e dal silenzio giungono assai dappresso alla squadra appostata. Ma colpite da scariche di moschetterà si danno alla fuga: subito dopo però ritornano due altre volte all’assalto. La quarta volta vennero con l’artiglieria, le cui granate scoppiavano dentro le abitazioni; ma infine dopo un’ora si ritrassero definitivamente. Allora Corrao

ferito d'una scheggia nella fronte entrò vittorioso in Palermo da Porta Macqueda la mattina del 28 Maggio, quasi dal. lato opposto per cui era entrato Garibaldi.

G.

PAOLUCCI.

(1) Queste note erano state scritte a lapis dal Pilo nelle pagine di un taccuino. Vi fu chi col passarvi sopra l'inchiostro lo rese quasi illeggibili e di più saltò qualche parola, ch’io riporto in corsivo, e interpolò certe altre, che ho chiuse tra parentesi. Bisogna premettere che Giorgia Pallavicino aveva dato ad un comitati costituitosi in Torino quando esisteva in Sicilia il movimento Beoti veglia, 300 fucili e carabine. Scioltosi il comitato, i fucili rimasero a disposizione di La Farina e di La Masa. Avendo La Farina, com’egli stesso dichiarava, spedito a Palermo 50 carabine, restavano 200 fucili e 5) carabine, i quali poi non so corno vennero in potere dei Mazziniani.

Ecco le note del taccuino: «Il 6 Giugno 1857 alle ore 8 e tre quarti p. ni. lasciai con 1 amico Pisani Genova con grandissimo dolore. Abbracciai prima i fratelli Orlando, Mustica, Errante, Terasona, Kirkinerr Bertolami, indi Cianciolo, che trovai presso il caffè della lega Italiana o Pisacane con la sua signora Enrichetta. Alle 9 ore con Giacomo Profumo in carrozza ci portammo a Rivarolo.

Verso le 10 p. m. entrammo in una villa, dove entrarono una ventina d’operai, Angelo Mangini, Conti ed altro Genovese; ed alle 12 e 20 minuti imbarcammo 2?,0 lucili e carabine con munizione corrispondente (quelle che s’erano avute dal Deputato Giorgio Pallavicino, s’imbarcarono 230 daghe e muniziono molta e vari utensili, come zappe, pali, casse con mina e corda miccia). Angelo Mangini mi donò per sua memoria un pugnale con manico bianco; altro me lo donò Cianciolo prima di lasciarmi in casa sua. Angelo Mangini e Profumo vennero in barca finoai bordo, lo schooner (?) lo trovammo alle due ore dopo la mezzanotte allo aggiornare del 7.

La mattina del giorno 8 s’ebbe calmerie.

Notamento degli emigrati imbarcati per la spedizione verso Ponza:

(1) Bario Stefanelli marchigiano di lesi.

(2) Rosalino Pilo Palermitano.

(3) Enrico Giuseppe Pisani Messinese.

(4) Giovanni Sala di Milano.

(5) Vincenzo della Santa di Padova.

(6) Michele Barone di Ravenna.

(7) Giuseppe Olino di Ati.

(8) Lucchi Ettore di Cesena, studente in medicina a Pisa.

(9) Pietro Rusconi di Monza.

(10) Demetrio Inglesi Perugino.

(11) Domizio Stamposio di Ferrara.

12. Ortolano Cortese di Ferrara.

13. Giovanni Parente.

14. Enrico Rossi di Milano.

15. Daniele Blaffarde di Lione.

16. Giobbe Manchini Perugino.

17. Luigi Stefanini di Ancona.

18. Natale Gasparetti di Ancona.

di 8 calmerie, il dì 9 tempesta sotto la Spezia. Alle 3 p. m., dopo aver voluto li marinari (e capitano del bastimento) ad ogni costo buttare in mare i 250 fucili (stati dati da Giorgio Pallavicino), altrettante daghe e 35 mila cartuccie, si tornò nel porto di Genova con tre palmi d’acqua nella stiva, si disceso nel porto in ventuno. Nel battello del capitano alle 1 p. m. parti per Napoli Pisacane».









Pisacane e la spedizione di Sapri (1857) - Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito
1851 Carlo Pisacane Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49
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1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. I HTML ODT PDF
1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. II HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. III HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. IV HTML ODT PDF

1849

CARLO PISACANE Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma

1855

La quistione napolitana Ferdinando di Borbone e Luciano Murat

1855

ITALIA E POPOLO giornale politico Pisacane murattisti

1856

Italia e Popolo - Giornale Politico N. 223 Murat e i Borboni

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L'Unita italiana e Luciano Murat re di Napoli

1856

ITALIA E POPOLO - I 10 mila fucili

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Situation politique de angleterre et sa conduite machiavelique

1857

La Ragione - foglio ebdomadario - diretto da Ausonio Franchi

1857

GIUSEPPE MAZZINI La situazione Carlo Pisacane

1857

ATTO DI ACCUSA proposta procuratore corte criminale 2023

1857

INTENDENZA GENERALE Real Marina contro compagnia RUBATTINI

1858

Documenti diplomatici relativi alla cattura del Cagliari - Camera dei Deputati - Sessione 1857-58

1858

Difesa del Cagliari presso la Commissione delle Prede e de' Naufragi

1858

Domenico Ventimiglia - La quistione del Cagliari e la stampa piemontese

1858

ANNUAIRE DES DEUX MONDES – Histoire générale des divers états

1858

GAZZETTA LETTERARIA - L’impresa di Sapri

1858

LA BILANCIA - Napoli e Piemonte

1858

Documenti ufficiali della corrispondenza di S. M. Siciliana con S. M. Britannica

1858

Esame ed esposizione de' pareri de' Consiglieri della corona inglese sullaquestione del Cagliari

1858

Ferdinando Starace - Esame critico della difesa del Cagliari

1858

Sulla legalità della cattura del Cagliari - Risposta dell'avvocato FerdinandoStarace al signor Roberto Phillimore

1858

The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

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Ricordi su Carlo Pisacane per Giuseppe Mazzini

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CARLO PISACANE - Saggi storici politici militari sull'Italia

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RIVISTA CONTEMPORANEA - Carlo Pisacane e le sue opere postume

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POLITECNICO PISACANE esercito lombardo

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LOMBROSO 03 Storia di dodici anni narrata al popolo (Vol. 3)

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Raccolta dei trattati e delle convenzioni commerciali in vigore tra l'Italia egli stati stranieri

1863

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1863

Giacomo Racioppi - La spedizione di Carlo Pisacane a Sapri con documenti inediti

1864

NICOLA FABRIZJ - La spedizione di Sapri e il comitato di Napoli (relazione a Garibaldi)

1866

Giuseppe Castiglione - Martirio e Libert࠭ Racconti storici di un parroco dicampagna (XXXVIII-XL)

1868

Vincenzo De Leo - Un episodio sullo sbarco di Carlo Pisacane in Ponza

1869

Leopoldo Perez De Vera - La Repubblica - Venti dialoghi politico-popolari

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BELVIGLIERI - Storia d'Italia dal 1814 al 1866 - CAP. XXVII

1873

Atti del ParlamentoItaliano - Sessionedel 1871-72

1876

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1876

Gazzetta d'Italia n.307 - Autobiografia di Giovanni Nicotera

1876

F. Palleschi - Giovanni Nicotera e i fatti Sapri - Risposta alla Gazzettad'Italia

1876

L. D. Foschini - Processo Nicotera-Gazzetta d'Italia

1877

Gaetano Fischetti - Cenno storico della invasione dei liberali in Sapri del 1857

1877

Luigi de Monte - Cronaca del comitato segreto di Napoli su la spedizione di Sapri

1877

AURELIO SAFFI Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini (Vol. 9)

1878

PISACANE vita discorsi parlamentari di Giovanni Nicotera

1880

Telesforo Sarti - Rappresentanti del Piemonte e d'Italia - Giovanni Nicotera

1883

Giovanni Faldella - Salita a Montecitorio - Dai fratelli Bandiera alladissidenza - Cronaca di Cinbro

1885

Antonio Pizzolorusso - I martiri per la libertࠩtaliana della provincia diSalerno dall'anno 1820 al 1857

1886

JESSIE WHITE MARIO Della vita di Giuseppe Mazzini

1886

MATTEO MAURO Biografia di Giovanni Nicotera

1888

LA REVUE SOCIALISTE - Charles Pisacane conjuré italien

1889

FRANCESCO BERTOLINI - Storia del Risorgimento – L’eccidio di Pisacane

1889

BERTOLINI MATANNA Storia risorgimento italiano PISACANE

1891

Decio Albini - La spedizione di Sapri e la provincia di Basilicata

1893

L'ILLUSTRAZIONE POPOLARE - Le memorie di Rosolino Pilo

1893

 MICHELE LACAVA nuova luce sullo sbarco di Sapri

1894

Napoleone Colajanni - Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane

1905

RIVISTA POPOLARE - Spedizione di Carlo Pisacane e i moti di Genova

1895

Carlo Tivaroni - Storia critica del risorgimento italiano (cap-VI)

1899

PAOLUCCI ROSOLINO PILO memorie e documenti archivio storico siciliano

1901

GIUSEPPE RENSI Introduzione PISACANE Ordinamento costituzione milizie italiane

1901

Rivista di Roma lettere inedite Pisacane Mazzini spedizione Sapri

1904

LUIGI FABBRI Carlo Pisacane vita opere azione rivoluzionaria

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Giudizi d’un esule su figure e fatti del Risorgimento

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Lettera di Carlo Cattaneo a Carlo Pisacane

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - I tentativi per far evadere Luigi Settembrini

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RISORGIMENTO ITALIANO - La spedizione di Sapri narrata dal capitano Daneri

1912

 MATTEO MAZZIOTTI reazione borbonica regno di Napoli

1914

RISORGIMENTO ITALIANO - Nuovi Documenti sulla spedizione di Sapri

1919

ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

1923

MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

1927

NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano





Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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