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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

LA REPUBBLICA VENTI DIALOGHI POLITICO-POPOLARI

DEL PROFESSORE LEOPOLDO PEREZ DE VERA

NAPOLI

TIPOGRAFIA

DELL’UNIONE

Strada Nuova Pizzofalcone, 2

1869

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

AGL’ITALIANI DI BUON SENSO

Camminare ai lembi della via è sempre pericoloso; eppure ordinariamente l'uomo, avido di farsi distinguere, coll'incontrare avventure e sfidare pericoli, abborrisce di tenersi nel giusto mezzo.

Così avviene in tutto; ma segnatamente in politica, dove ciascuno ha fiducia di aspirare a celebrità. Lo spingersi ad oltranza alletta le menti fervide; e spesso le abbaglia, a non vedere, che l'attuazione inconsulta distrugge il principio stesso, che intendesi di attuare. Se alcuno gridi a costoro: guarda di non traviare, è preso in contrario, e spesso lo si rimprovera di stare al termine opposto; appunto come a chi guardi di traverso un lume, posto nel mezzo, esso apparisce situato dal lato avverso. Così ognuno, che tenga la via mediana, incontra di essere malviso ad entrambi gli estremi, e mentre di vantaggiare tutti si argomenta, da tutti è tenuto svantaggioso.

Toccherà la stessa sorte a questi miei venti dialoghi? Presso i partiti estremi lo credo; presso gli uomini di buon senso non voglio temerlo. Col mio scritto intesi, ad istruire i popolani, facili ad impressionare per le cose speciose, e proclivi a ritenere per astri i fuochi fatui dell’aria.

Altronde il nostro popolo non ha fin qui una pubblica opinione da consultare; giacché presso noi non se n’è formata completamente alcuna. La stampa, sacerdozio di questa Dea civile, essendo tutta smembrala in partiti, e attendendo più alle mene di casta, che alla religione dei principii, trae di qua e di là i neofiti, che non sanno oramai, a qual tempio debban recarsi. Una voce quindi, che ai principii il popolo richiami, e il faccia con istile piano dialogico, senza atrabile e senza partigianesimo, può giovargli; e se gli uomini di buon senso le faranno eco, certamente gli gioverà.

Dunque a questi Italiani di buon senso, cui mi giova credere in maggioranza, domando approvazione dei principii e risonanza di eco: confido di ottenerla, non pel merito del lavoro, ma per l’altezza del fine, a cui aspiro.

Napoli Novembre 1869

Leopoldo Perez de Vera.


DIALOGO I

La sovranità del popolo

SOR BEPP, TONIO

Bep. E credi tu, che questa sperticala novella, che mi rechi, debba farmi saltare per allegrezza?

Ton. Lo credo di certo; se pur non avete smesso da quel liberalismo, che sempre mi predicaste. Come? La repubblica non è il più liberale governo di tutti? E adesso, che si matura la pera, ed ogni cosa fa prevedere di doverla presto raccogliere, non dovrei consolarmi?

Bep. Senti, Tonio: Né io ho rinnegato i puri sentimenti liberali, che nutrii per mezzo secolo di vita, né posso non compatire a voi poveri illusi, cui un branco di nemici della patria usa di presente agitare con queste promesse di sedicente repubblica. Molli di costoro, o fanatici che sieno o egoisti, sotto la larva di un bene apparente ed impossibile nascondono, credi a me, private e riprovevoli tendenze.

Ton. Io non ci capisco più nulla. Ma dunque non mi dicevate voi stesso, nove anni indietro, di aspirare alla repubblica? Non asserivate, che il vero sovrano è il popolo? Non dimostravate, che esso, e non altri, deve provvedere alle faccende sue? E se adesso questo popolo non vuol saperne altrimenti della pappolata, ch’è lo Statuto, e cerca di fare i falli suoi da sé medesimo, sarà illuso, agitatore, fanatico, egoista? Ohimè, sor Beppo! Mi pare impossibile, che anche voi abbiate intascato qualche quieto vivere di lassù, che vi stravolga dalle vostre opinioni. Ma... ma... a sentirvi....

S. Bep. Te la perdono, Tonio; perché mi è noto il tuo cuore, e non mi tengo adontato di questa scappatina, che mi facesti. Dimmi però: Vedesti mai pendermi ciondoli dal petto o commende dal collo? Sentisti, che io comprassi rendite, terreni e case al pari di altri, anche di partito repubblicano? Andai a caccia per avventura di grassi e lucrosi uffici dal Governo? o non anzi sei testimonio della mia estrema povertà, onde neanche ho potuto finora satisfare a tutte le obbligazioni, che m’impose la persecuzione dei tempi borbonici? Ton. Questo Tè vero; e perciò è, che vi stimo e vi ascolto. Ma il sentirvi parlare adesso quasi da partigiano del Governo e quasi da rinnegato a quello, che era' vale prima... perdonate....

S. Bep. Non son rinnegato, mio caro; né cesso di sostenere, che il vero sovrano sia il popolo. Ciò però non arguisce, che debba distruggersi Fattuale Governo, come la danno ad intendere a te i suoi nemici. Il Governo sai, come va trattato da un vero liberale? Come appunto il pavimento della casa, su cui cammina. Il pavimento si appiana, si lustra, si netta; ma per posarvi i piedi e non più. Leccarlo, la è cosa degradante, e da lasciarsi a quei

pinzoccheri, che cercano la remission dei peccati nello strascicare la lingua per terra. Si calpesta insomma senz’astio e con dignità. Ma se altri venga con l’azza e con la scure, a dare sul solaio, che li sostiene, te ne potrai tu stare, senza respingere l’inconsulto distruttore e senza, difendere quel qualunque sostegno, caduto il quale, ti avverrebbe di andare in giù, con pericolo dell’esistenza? Così il Governo io non lo lecco, come fanno taluni, anche arruffapopoli, che se potessero averne favore, smetterebbero di fingersi repubblicani. Cerco all’uopo di appianarlo, di forbirlo,per poterlo agiatamente calpestare. Ma distruggere le sue basi, indebolirne la solidità, attentare alla forma senza mandato del popolo, è opera da guastatore non da costruttore; e chi a tali distruttori contrasta, non deve dirsi ligio del governo, ma prudente per la sua propria esistenza. M’intendi bene?

Ton. Non v’intento né bene né male. Intendo più facilmente chi mi parla senza tante similitudini, e mi dice come quattro e quattro fanno otto: Tonio, il Governo attuale va pessimamente; dunque bisogna rovesciarlo. Tornare indietro all'assolutismo non si può né si vuole da un vero liberale. Dunque? dunque non ci resta altro, che andare innanzi alla repubblica: Ecco quello, che intendo io.

Bep. Ovvero quello, che credi di capire, e che ti soffiano nell’orecchio con un bisticcio di equivoci, nati fatti ad accalappiare i sempliciani, pari tuoi.

Ton. Come mai?

Bep. E non ti accorgi, che tu confondi tante cose disparate, come Governo con Forma governativa?Progresso con Repubblica? Riforma con Distruzione? Non vedi, che a ragionare, come fan costoro, dovrebbe succedere una rivoluzione all’anno? Giacché certamente qualunque nuova forma di governo s’introduca, essa scompigliando il vecchio, per riordinarlo informa nuova, non può non cagionare gravi mali; e dopo quel primo entusiasmo rivoluzionario, che attutiva il dolore della ferita, questa,finché col tempo non si rimargini,dovrà pungere con acuti dolori, e cercare farmachi novelli. Amico mio, ogni Stato sociale, specialmente dopo le rivoluzioni, è un ammalato o un convalescente. Dimanda al ; l’ammalato, come si senta? e quanto più aggraverà il malore, più ti dirà di sentirsi meglio; dimandato ad un j convalescente, e sentirai tanti più malanni raccontare, quanto più alla guarigione completa si avvicina.

Ton. Voi mi dite tante cose, alle quali non so rispondere, perché non ho la vostra scienza. Stimo altronde? la onestà del vostro cuore, per cui son sicuro, che non vorreste ingannarmi. Ma bramo però, signor Beppo, di esser chiarito su tanti dubi, che il vostro favellare mi solleva nell’animo, a dileguare i quali non so, se vi sia scienza, che basti. Giacché, dico io: È o non è un bene la repubblica? Se non lo è, perché la si decanta? perché in molti luoghi fu accettata e se ne trasse vantaggio? Se lo è, perché uomini assennati, come voi, sconsigliano di procacciarla adesso? Fa o non fa male l’attuale Governo? Se noi fa, com'è dunque, che tanto ne risentiamo lutti? ed anche voi, mi credo, che comunque meritevole di molto, pure traete stentatamente la vita? Se poi il fa, e non dovrà dirsi opera onesta rimuovere la pietra d’inciampo al piede di tanta gente, che vuol caminare, e va ad urtare contro di quella? Sor Beppo mio, non sono io solo a muovere questi lamenti; son tutti, tutti. Con chiunque v’imbattete, fa un piagnisteo dello stato infelice, a cui siamo ridotti. Ed in tali condizioni quando venga un Tizio, e vi dica: Olà son finiti i malanni; tutto è pronto pel mese venturo; e dopo un poco di parapiglia, avremo finalmente la repubblica,la uguaglianza per tutti, la giustizia, la libertà, il benessere, sfido io a non sentirsi formicolare mani spiedi, per prendere uno schioppo alla buona di Dio,e andare avanti.

S. Bep; Va dunque, se li piace, e Dio ti assista; ma sappi, che pon andrai per la vera repubblica, ma per servire a tutti altri fini di chi ti seduce.

Ton. In buon’ora adesso cominciate a dir qualche cosa pratica, che vorrei mi spiegaste. Com'è dunque che asserite, non andarsi da noi per la vera repubblica? V’ è forse una repubblica vera ed un’altra falsa?

Bep. Ascoltami, Tonio; e poiché ti scorgo di animo sincero e non travolto da passioni, voglio metterli in chiaro molte di quelle cose, che i falsi repubblicani studiano ad occultarvi. Repubblica, nella significazione nuda del vocabolo, altro non verrebbe ad esprimere, che cosa pubblica. Cose pubbliche, come puoi capire, ve n ha in tutti i governi, teocratici, assoluti, aristocratici, misti e democratici. Però, quando si parla di forma governativa, al nome Repubblica si dà un senso particolare, ad indicare quel regime, in cui tutti prendono parte al governo, perché tutti costituiscono la sovranità, ch'è inerente al popolo.

Ton. Voi dunque persistete a sostenere, che la sovranità risieda presso del popolo.

S. Bep. E chi potrebbe mai dubitarne?La sovranità vuol dire star di sovra; e ciascuno intende, che ciò non è materialmente, ma moralmente, in quanto s’impone, come da sopra, la propria volontà a qualcuno. Ora è chiaro, che nessun individuo, siccome tale, può aver naturalmente un diritto verso degli altri,se pure il diritto non si riponesse barbaramente, come una volta,nel vigore della forza. L’individuo nel composto sociale è, come una molecola, un atomo; e nessuna molecola può dire di esser qualche cosa da più di un’altra. Donde trarrebbero gli individui la loro pretesa sovranità, se tutti naturalmente nascono, crescono e muoiono allo stesso modo? Il figlio. del re e il figlio del proletario,guardali nudi e senza corredo di accessori, e li presentano una stessa forma; anzi talora questi è più vispo, più avvenente, più morigerato, di quello. In conseguenza essendovi una perfetta uguaglianza naturale, non vi può essere dritto insilo di sovranità, se pur non fosse quel supposto dritto divino, che per tanti secoli si volle dare ad intendere.

Ton. Ma toglietemi uno scrupolo: Dio, da cui lutto dipende, non ha parte alcuna nella sovranità? non c’ è in essa alcun che di divino?

S. Bep. Ce l’ha sicuramente, come l’ha in tutti i fatti della vita e della natura, come l’ha in questo tuo dubiare e in questo mio rispondere. Non è però, che vi fosse una legge, una volontà speciale della Divinità a riguardo dei sovrani, a sanzionare un loro dritto esclusivo, come se essi fossero di altra pasta dalla nostra. Se Dio avesse lor concesso peculiarmente alcun dritto, correrebbe loro il dovere di autenticarlo appo noi con qualche titolo, con, qualche diploma, con qualche segno imprescindibile, a. cui fosse necessità acquietarsi. Dov'è però questo indizio di una sovranità individuale superiormente conceduta? e perché essi non nascono, a mò di esempio, o con sette dita alla mano o con tre braccia al corpo?

Ton. Questo mi ha sempre persuaso, e pure non veggo chiaro, come poi pel popolo non valga la stessa ragione, e perché in lui dobbiamo riconoscere la sovranità.

S. Bep. Pel popolo, Tonio mio, è cosa diversa; e il suo dritto lo ha dalla morale preponderanza del tutto, a fronte delle sue parti. Vedi: un popolo tuttoché grande, per esempio il francese, non ha dritto alcuno di imporsi ad altro popolo qualunque; perché in ragion di popolo, sono due individui indipendenti, e se l’uno volesse sovrastare con la forza, sarebbe né più né meno, che effettivo despota, da scuotersi potendo con la riscossa. Ma un popolo relativamente all'individuo ha lo stesso dritto, che ha, per esempio, tutta la terra con questo mio suggello. Se lo lascio cadere, è il suggello, che si slancia verso la terra, non questa su di quello. E in un corpo qualunque, sebben composto di particelle, l’una particella deve necessariamente seguire il moto e lo andamento di tutto il composto. Fa, che quel corpo si muova, e vedrai che la particella deve seguirlo, e precisamente per quella direzione, che al tutto è conveniente. Essa non potrà mai ostare alle tendenze del complessivo; e se tentasse di farlo, ne ricaverebbe di restarsi staccata, ossia in esilio dal rimanente, ne ricaverebbe di essere condannala a morte, cioè di perdere quella vita morale, che in tutto il corpo si aveva. Dunque il tutto può e deve imprimere il suo molo alle parli, e simigliantemente il popolo può e deve imporre la sua volontà a ciascuno degl'individui; onde nasce la sua unica e naturale sovranità.

Ton. Avete ragione. Non aveva mai capito così bene la faccenda, come adesso, sebbene ricordo, che me l’abbiate altre volle esposta.

S. Bep. É, che adesso sei più svolto di mente in questa specie di temi, e vedi più, che non vedevi prima.

Ton. Ma s’è cosi, il popolo dovrebbe tutto e sempre disbrigare le sue faccende da sé, nel che mi avviso che consista la forma repubblicana.

S. Bep. Eppur dovresti capire,cheto stesso dritto di sovranità, quanto ad esercizio, dà la facoltà di poter con| fidare a cui si voglia più ampie o più ristrette attribuzioni, anche sovrane, le quali però emanano sempre dalla radicale sovranità dell'ente collettivo. Dimmi, Tonio: Sentisti mai, che un sovrano, appunto perché sovrano, debba tulio fare da sé, fino alla sentinella di notte, fino all'atto di citazione dell'usciere? No certa; mente; anzi perché investito della sovranità, perché costituito sugli altri individui, riserva per sé di badare soltanto alle faccende comuni e di ordine superiore; sancisce le leggi, sceglie gli alti funzionari, veglia alla loro condotta,li chiama a sindacato, e determina il contributo, che dovrà pagarsi dagl'individui pei bisogni comuni.

Ton. Ciò che dite, vale tanto oro. Io comprendo, che della esecuzione il popolo può disfarsi, e comprendo, che conservi per se queste alte prerogative, che gli appartengono per sovranità. Ma da ciò deduco,con vostro buon permesso, che dovendole esercitare da se, non potrà farlo liberamente, se non nel pretto governo repubblicano.

S. Bep. Adagio,Tonio mio, non andar di furia alle tue conseguenze repubblicane; io non aveva ancora finito. Queste prerogative, quanto ad esecuzione rimota, come ti dissi, richieggono sempre individui diversi dal sovrano; quanto poi ad esercizio prossimo, non v'è popolo, che più o meno non le eserciti in qualche modo da se. Potrà essere diversa la struttura dell’albero, ma la radice della sovranità è unica. Qualche popolo ritiene a suo carico il suffragio universale in tutti gli affari di momento e nella elezione dei suoi capi: eccoli la repubblica. Qualche altro, contento di eleggere a quando a quando i suoi rappresentanti, a questi commette, come a procuratori, la difesa dei suoi dritti presso il monarca: eccoli la monarchia temperata. Un altro, scelti che abbia i più insigni, lascia fissamente in mano loro la tutela propria: ciò è l’aristocrazia. Un altro si contenta di affidarla ad un solo,che chiama da una parola greca monarca, ciò è la monarchia. Infine può esservi chi scelga un arbitro delle sue sorti sociali, il quale diventa autocrata o signore assoluto. La sovranità dunque non devi ravvisarla nell'esercizio, che può essere affidato in diversi modi, ma nel diritto e nell'uso di affidarlo a cui più piacerà, e nello scegliere la forma di governo, che più convenga.

Ton. L’avete detta finalmente: il governo, che più convenga! Or chi non vede, che il governo più conveniente al popolo è il repubblicano, quello cioè, in cui si decide dei sommi affari col suffragio universale? Dunque la sovranità popolare ne conduce direttamente alla repubblica. Ci siete caduto.

S. Bep. Sì? E chi ti ha riferito, che questa forma sia quella, che sempre ed a tutti meglio convenga?

Ton. Oh bella! Lo dice Mazzini, lo dice Garibaldi, lo dicono i Mille di Marsala, il Dovere di Genova, l’ Unità italiana, il Popolo d'Italia.

S. Bep. Cioè lo dicono alcuni individui, rispettabili se vuoi e liberali, ma pure individui, che da se non costituiscono, se non una frazione del popolò. Ma il popolo, il vero popolo sovrano, dov'è che abbia dichiarato di voler codesta repubblica? Anzi dov'è, che la sua maggioranza non mostri avversione ad averla? E se esso, ch'è il sovrano, la rifiuta, almen per ora, chi è, che si arroghi di volerlo costringere ad accettarla?

Ton. Rifiuta no, non posso persuadermene. V’è del!( ) ritegno, del timore, della preoccupazione, ne convengo. Convengo pure, che la maggioranza, spaventata dalla trista idea, che le ficcarono in capo sulla repubblica, non la vede troppo bene. Ma, sor Beppo mio, quando le si desse bella e fatta a via di schioppettate, quando la scorgesse in vita e funzionante, vi so dire, che smetterebbe per benino dal suo orrore; appresso le si acconcerebbe, ed in fine le diverrebbe abbastanza familiare.

S. Bep. Ed io ti so dire, che se a Aia delle stesse. schioppettate si desse alla maggioranza bello e fatto l’assolutismo, se essa lo vedesse in vita e funzionante, smetterebbe per benino dall'abborrirlo; in seguito si acconcerebbe a sopportarlo, ed infine cercherebbe di averlo amico. Hai che opporre?

Ton. Questo è vero; ma....

S. Bep. Ma la sovranità del popolo in tal caso sarebbe ita. Ma allora non più il popolo dovrebbe dirsi il sovrano, ma quelle schioppettate, che lo avessero costretto a volere. Ma sarebbe una forma di governo imposta; e quegli, a cui si può imporre, non è sovrano. M’intendi? Ne convieni?

Ton. V’intendo si e no. Perché sentite, senza infastidirvi: Imporre una cosa, che si sa esser buona, finalmente non è un malanno; come se costringessero voi ad esser ricco, e me à mangiar bene e senza fatica. Se dunque la repubblica 'in sé è l’ottimo fra i governi, chi vieta, che lo si possa imporre ad un popolo ignorante e pigro, che non conosce né cerca il suo vero bene?

S. Bep. Oh quante risposte,Tonio,mi suggerisce questo sofisma, che ti hanno insegnato, le quali converrà riservare ad altro colloquio. Per ora ti dirò solamente, Ohe ogni bene, anche massimo, quando venga imposto, si converte in male, essendo sempre un male, specialmente per chi possiede la sovranità, non esser libero nelle sue determinazioni. Rispondimi: Se ti s’imponga di adagiarti in commodo e soffice letto, quando hai voglia di andare a spasso e di correre, lo stimerai un bene? E se hai ansietà di cibi solidi e duri, e ti si metta l’obbligo di mangiar solamente le delicate vivande di stomachi infermicci, ti crederai fortunato? Nientemeno. Perciocché il bene ed il male son cose relative; e ciò che è bene per un corpo sano, sarà male per un infermo, e quel che conviene ad un adulto, danneggerebbe un fanciullo. Su via: v’è di meglio, che camminare da sé con piena libertà e senza indiscrete balie, che guidino il passò? Ebbene imponi questo meglio ad un bambino, mettilo per terra, e costringilo ad usare della sua piena libertà di moto; vedrai s’egli piangerà, strepiterà, tenderà le manina chi sei rechi in collo, o gli adatti i tiranti per sostenerlo!

Ton. A questo modo il nostro popolo, secondo voi, l’è un bambino, un infermo, un inetto a quella piena libertà, che gli si vorrebbe dare con la repubblica.

S. Bep. Adesso non è il momento di entrare in questa nuova discussione, che può fornirci materia per altre conferenze. Dico soltanto, che la libertà non s’impone, perché non è cosa avventizia, ma è il risultato delle forze naturali, che niuno conosce e sente meglio di chi le possiede. Dico, che la maggioranza di una nazione è dessa, che dovrà decidere del grado di libertà, che può e vuole esercitare. Dico, che il costringerla altrimenti, come si pretende da voi, non è un affrancarla, ma un opprimer' la. Dico, che chiunque ha fede sincera nella sovranità del popolo, chi è vero repubblicano, e non cerca sotto pretesto del ben comune la propria utilità, deve mostrare la sua sudditanza verace a questo Sovrano, acconciandosi al suo volere, anche quando sia contrario ai propri desiderii ed alle proprie convinzioni. Ecco ciò che distingue a parer mio il vero repubblicano dal falso. Quegli accetta la legge dall’arbitrio popolare, questi la impone da despota con le schioppettate. E adesso, che l’ho dichiaralo i miei sentimenti, pensi, che abbia io rinnegalo le mie antiche tendenze repubblicane?

Ton. Vi fo giustizia, che siete un uomo a modo, ed amante del popolo. Ma voi mi farete altresì ragione, che le cose delle, esigano di esser chiarite, e per potersi ammettere, debbono soddisfare a molti dubbi. Confesso, che finora nessuno mi aveva esposto la faccenda così, come voi, e parrai di vederci per dentro un fondo di verità. Infine anch’io bramo, che le cose succedano col beneplacito del popolo, a cui appartengo, e mi graverebbe di fargli danno, mentre ne studio il vantaggio. Consentireste dunque, ch’io tornassi giornalmente da voi per qualche conferenza su questo importante affare? Se il permettete, ci verrò io, e condurrò ancora Carlino,Cecco, Filiberto ed altri popolani, che ne sanno più di me, cui mi piacerebbe di veder da voi persuasi.

S. Bep. Ci consento di tutto cuore, e non veggo l’ora di spendere gli ultimi anni di questa mia vita infermiccia a vantaggio di quella patria, a cui fur sempre rivolti i miei pensieri. Potrà trattare d’importanti argomenti: per esempio della volontà nazionale, come si manifesti; delle repubbliche della storia e delle attuali in America; dell’Italia presente, cora' è disposta ed a che aspira; degli ostacoli alla repubblica; del progresso; dei partiti; della verace libertà, e di tante altre materie utili e piacevoli insieme. Vieni dunque tu, venite quanti vi piace, e discuteremo, non a via di strepiti, d’improntitudini, d’ingiurie, come si suole, ma con logica pacala e popolare.

Ton. Vi ringrazio e vi saluto. Ci vedremo domani.


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DIALOGO II

La volontà del popolo

SOR BEPPO, TONIO, CARLINO

Ton. I miei ossequi, sor Beppo.

S. Bep. Venite avanti, cari miei; giungete aspettali. E mi consolo, Tonio, che abbi condotto teco questa buona pasta di Carlino.

Carl. Non credo, che vi consoli tanto; giacché corpo di mille bombe! vi confesso, che venni con lingua alquanto affilata contro di voi.

S. Bep. E perché?

Carl. Perché Tonio mi raccontò le fandonie, che gli diceste contro la Repubblica, ed io mi recai a sbugiardarle.

Ton. Carlino! non cominciar con le tue.

Carl. Eh! corpo di mille diavoli! per me non porto riguardi a nissuno; son repubblicano io, e tanto basta; e ne direi anche a Domenedio.

Ton. Ma pure il rispetto all'onestà, al sapere...

S. Bep. Lascia, Tonio; e tu,Carlino mio,parla senza riguardi, persuadendoti, che ad ogni modo sei sempre il benvenuto. Che hai dunque da rimbeccarmi?

Carl. Per diancine, debbo rimbeccarvi, che colla vo. stra tiritera del popolo sovrano, pretendereste, come mi diceva costui, di ricondurci nientemeno, che dieci secoli indietro ai tempi delle beate tirannie. Il popolo è sovrano, sissignore; ma per andare all'urna a dare il proprio voto, quando le faccende del governo saranno assestate. Però ad assestarle, corpo di mille schioppettate! se si aspetterà, che lo faccia il popolo, questo momento non giungerà mai. E come potrebbe avvenire, che tutto il popolo preventivamente si accordasse a ciò,che vada fatto? Così non vi sarebbero mai rivoluzioni; le cose resterebbero stazionarie in mano agl'infami e tiranni, e questi scialacquerebbero alla barba dei poveri gonzi. E noi quindi, per non allentare alla sovranità del signor Popolo, saremmo tenuti mai sempre schiavi ed ammiseriti. Eh! per Diana! la sbagliate.

S. Bep. Da bravo. Ma chi dunque dovrà assestare le faccende del popolo sovrano, per poi mandarlo all’urna?

Carl. Chi? Per mille diavoli! il dovranno quei pochi, che son capaci di agire; che han coraggio, che hanno occhi da vedere il meglio, e braccio da procacciarlo. Di questi, non dubitate, sor Beppo, ve n’ha in Italia più migliaia che non crediate, e bastano. Siamo organizzati per Dio! disciplinati, anelanti di menar le mani. Vadano avanti la bandiera rossa e quattro buoni proclami; seguitino le grida, e per chi vorrà opporsi le schioppettate; si faccia uso delle buone relazioni, che abbiamo all’estero, donde ci si forniranno uomini, armi e danari. In caso che questi manchino, si mettano in libertà i carceratasi sequestrino le casse comunali e le proprietà mal acquistate degli aristocratici. Eh, per mille accidenti! con un poco di mano larga alla plebe, con un poco di timore ai renitenti, con un poco di promesse agli esitanti, siate sicuro, che il popolo sovrano farà a senno nostro, e in tre settimane sarà proclamala la Repubblica.

Ton. Carlino, più di prudenza e restringi.

S. Bep. Lascialo dire, quanto gli aggrada.

Carl. Ho detto.

S. Bep. Se dunque hai detto tu, rispondi adesso a qualche mia domanda. Codeste migliaia, che si arrogano di dover fare quel poco di ben di Dio, chi le ha scelte? chi le ha in caricate, di tale missione? in nome di chi esercitano questo mandato?

Carl. Chi le abbia scelte di fatto, per tutti li diavoli! non lo so, né debbo saperlo;perché scelto anch’io, mi reputo onorato di esserlo, e non vò inquirendo, chi mi abbia fatto l’onore. Ma a parlare così in aria, potrebbe essere un Giuseppe Mazzini, un Giuseppe Garibaldi o alcuno dei loro. Che ne dite? Innanzi a questi nomi non dovremo fare di cappello ed io e Voi, signor Beppo?

S. Bep. Si c’ intende, che li venero. Ma pur tu dicesti un potrebb’essere, che mi mette sfiducia. Giacché se personalmente non vi han chiamato, chi guarentisce, che altri non impronti il loro nome, come fanno tutti i raggiratori di poco conto, che meccano autorità dalla fama altrui?

Carl. Eh, corpo della guigliottina! per me ci metto la testa, che in tal faccenda la mano di quei due non può mancare.

Ton. Ed io ne son sicuro del pari.

Bep. E sia pure; poiché non è improbabile. Ammettiamo adunque noli e sicuri i Capi arruolatori. Dimmi, Carlino: Essi poi chi li ha nominati ed insigniti della dittatura, per eseguire si importante impresa?

Carl. Oh corpo di mille bombe! Si parla di Mazzini e Garibaldi, di due uomini così celebri e mondiali, e si ha coraggio di dimandare, chi li abbia prescelti?

Bep. Ma sicuro; non ti scaldare, mio caro. Celebri e mondiali quanto si voglia, son sempre due individui italiani, i quali se hanno diritto di agire al modo, che dicesti, han dovuto ricevere questo dritto da qualcuno. Spiegami dunque da chi.

Carl. Per Bacco; da chi? Dalla natura, dalla giustizia, dal dritto, dalla ragione, dall’Italia intera.

Bep. Di cinque cose, che hai nominato, natura, dritto, giustizia e ragione mettiamole da banda per ora; perché essendo vocaboli astratti, anche un tristo potrebbe chiamarli in sussidio alle sue tristizie. Veniamo al concreto: Nominasti l'Italia; e non credo, che volessi intendere le zolle o le pietre italiane; ma si certamente gli uomini, che Tahitano. Dicendo dunque, che i Capi repubblicani furono invitati dall'Italia, ossia dalla maggioranza degl’italiani, già divieni ad ammettere l’autorità di quel popolo sovrano, che poc'anzi in siffatte cose volesti escludere. Come potrebbero essi innalzare la bandiera democratica, come levare il grido di Dio e popolo, come minacciare, combattere, distruggere, riformare in nome di quella nazione, che non avesse dato loro alcun mandato? Se ritenete, che il popolo non debba da sé decidere sulla forma di governo, e perché ad introdurla prendete il nome di esso, quasi per coonestare le vostre azioni? Se poi deve entrarci, perché osate dire, che non debba aspettarsene la decisione? Allora io rispetterei l’operato anche di pochi, anche di due soli individui, quando costasse, che in loro si concentri il volere della maggioranza. Ma finché ciò sia dubio, finché anzi la maggioranza del popolo dà indizio del contrario, io non veggo in nome di chi agiscano questi grandi, e quindi non riconosco in essi alcun diritto di sommuovere e di riformare.

Ton. Mi pare, Carlino, che sor Beppo ragioni bene.

Carl. Taci là: corpo di mille accidenti! Ti pare, perché non intendi un’acca di queste cose, perché non ti senti in cuore il vero amore di patria. Sor Beppo mio, voi non m’ingarbugliate un fico. Voi vi fate forte sulla pretesa maggioranza, e non vi avvedete, che con ciò la date vinta a me. Le maggioranze, corpo di mille granale! sono in tutti i paesi la parte peggiore; giacché gl’ingegni eletti e le anime generose son poche. Volete, che la plebe s’intenda di governi e di libertà? Ohibò! bisd|na lasciarla vegetare, come i cavoli. Fra gl’intelligenti, per Dio! tra i cordati, tra' grandi bisogna riconoscere la parte eletta della nazione; e questa, per diascoli! è tutta favorevole alla repubblica. Si.

S. Bep. Da vero? Fra gl’ intelligenti, fra i cordati, fra i grandi, dicesti? Dunque tutti i senatori, i deputali, i professori universitari, gl’istitutori delle scuole, i ricchi banchieri, i negozianti industriosi, i generali di armala, i comandanti della Guardia nazionale, i sindaci, i prefetti, Falla Magistratura, la Nobiltà, gl'impiegati civili e militari, i ministri del Culto, gli ufficiali dell’Esercito, son tutti repubblicani! E lo dici da senno?

Carl. Questi no, corpo delle barricate! e chi ne tiene conio? Tranne rare eccezioni, la son tutta genie corrotta, gente venduta al Potere, ci s’intende: Ma io parlo... non mi capile?.... parlo....

S. Bep. D’intelligenti, di cordati, di grandi: e chi sono?

Carl. Parlo... corpo delle cannonate! parlo... dei giovani ardenti... di quelli, che non hanno né ricchezze a perdere né posti distinti ad abbandonare. Parlo di coloro, che domani ad un cenno di Mazzini e di Garibaldi son pronti a prendere lo schioppo ed a rinnovare i prodigi di Marsala, di un popolo, che gloriosamente assorge a vera libertà. Questi sono il cuore, questi l'anima della nazione.

S. Bep. Ma non son la mente, Carlino mio; e per determinare la forma di governo più confacente al popolo, ci vuole anche un pò di mente, mi sembra. E poi potresti asserire, che codesti giovani ardenti, senza ricchezze e senza posti distinti, sieno stati da voi reclutati tra i migliori? Sostieni, che sieno tutta gente animata dal puro fine dei vantaggi comuni?

Carl. Tutti no; corpo di Bacco! Ma tali sono certamente i Capi, che ci guidano, i quali pur troppo debbon valersi talora del legno secco, per battere gli altri, e poi gittarlo ad ardere.

S. Bep. Ci siamo adunque, amico; e vedi, a che conduce il tuo ragionamento. I vostri Capi repubblicani son chiamati dall’Italia, e sta bene. L’Italia è rappresentata dagl’intelligenti, cordati e grandi: vada. Chi sono costoro? I giovani ardenti, pronti a menar le mani; sia pure. Ma il sono tutti? Nò: solamente i Capi repubblicani. Che vai quanto dire: Tutta la nazione, tutta l’Italia, che chiama i vostri Capi a costituirla, in sostanza non si riduce ad altro, che ai vostri Capi medesimi; e costoro (cosa ridicola!) da una parte sono il popolo, che invoca,. dall'altra i liberatori invocali, o sia sono e vogliono essere tutto; e ridendosi d’Italia e d’italiani, dicono: L’Italia siam noi, e venticinque milioni di uomini, nel cui nome agiamo, debbono subirò la nostra volontà! È così, che si rispetta la volontà del popolo?

Ton. Ohi, Carlino, che rispondi?

Carl. Caro sor Beppo, se mi parlaste della volontà di un cotale, la capirei, perché so, che ciascuno ha una volontà. Ma questa volontà del popolo non la capisco,, perché, corpo dei musalmani! non veggo, in chi sia riposta. S’incollano forse tutte le volontà, come tante carte, a formarne un cartone?

S. Bep. Ma sì, che s’incollano; e il glutine è l’unità di fine, a cui molli aspirano. Il popolo ha realmente una volontà, quando tutti o gran parie di esso s’incontrano, a volere una medesima cosa. Parlasti poc'anzi delle vostre migliaia di giovani arditi, senza beni di fortuna e senza occupazione, e dicesti che sono organizzali. Come si formò questo organamento, e perché non ci han preso parte anche altre migliaia? Perché voi avete in fatto di rivoluzione una sola volontà, non accettala dagli altri; e questa vi lega, v’induce, ad accogliere volentieri la direzione di alcuni capi, e a cospirare con essi verso uno scopo comune. Voi insomma formate un piccolo popolo nel gran popolo, ed avete una piccola volontà a fronte della gran volontà popolare. Questa gran volontà popolare è ciò, che deve rispettarsi, perché infine alquanti milioni, che si accordino, a volere uniformemente, han diritto, mi sembra, che poche migliaia non osino disturbarli. Che fareste mai, se una cinquantina dei vostri cominciassero a dissentire da voi?

Carl. Corpo di cento streghe! li cacceremmo.

S. Bep. E se non volessero ritirarsi, ma vi minacciassero con la forza?

Carl. Allora, per l’anima mia! si sarebbero tediali di mangiar pane.

S. Bep. Fa conto dunque, che questo dritto medesimo, anzi maggiore, ha la pluralità nazionale, per essere ubbidita dagli altri. E chi si oppone con la forza, chi vuol trarla ad ogni modo dalla sua, lede il dritto di natura, si oppone alla società, ed è ribelle alla volontà del suo sovrano legittimo.

Carl. Sovrano legittimo!... Volontà!... Ma così, corpo di mille alabarde! voi non ammettete più alcuna rivo. lozione; giacché tutte le rivoluzioni si fanno sempre da un branco d’uomini, che agiscono in nome comune; né mai è possibile che l’intero popolo si riunisca sotto l’antecedente regime, per discutere del nuovo regime da adottare. Come potrà dunque scegliere gli esecutori della sua volontà, ed affidarne loro il mandato? Chi spedì Garibaldi a Marsala? Chi fece l’unità italiana, che adesso i Consorti studiansi di disfare? Corpo di mille mannaie! vi ebbe forse allora un plebiscito, che autorizzassi alla grande impresa?

S. Bep. Quà ti aspettava, Carlo mio. In ogni cambiamento politico vi ha sempre da essere il plebiscito,senza cui la rivoluzione è illegittima e dannosa.

Ton. Il plebiscito delle schede sì e no?

Bep. Tutt’altrimenti. Quello delle schede può chiamarsi il plebiscito legale, necessario a concretare ciò, che la rivoluzione ha già fatto, e ad assicurare, che sulla volontà popolare non vi fu pressione. Ma io parlo di altro plebiscito, naturalmente insilo alla stessa rivoluzione, il quale ha tre stati, antecedente, concomitante e conseguente ad essa.

Car. Corpo di tutti i malanni! sento una cosa nuova. Ton. Anch’io son curioso di averne la spiegazione.

Bep. Sii ma l'ascolterete altra volta, se non vi spiace; giacche va un poco in lungo, e non vorrei per oggi stancarvi di soverchio.

Carl. Quanto a stanchezza, corpo di mille tritoni! noi repubblicani non ne conoscemmo mai: ma consento a seguitare domani.

Ton. Siamo sempre ai vostri ordini, e vi lasciamo il buon giorno.

Bep. A rivederci, e il Ciel vi assista.


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DIALOGO III

I plebisciti delle rivoluzioni

SOR BEPPO, TONIO, CARLINO

Carl. Eccoci a voi, sor Beppo, per la quistione dei plebisciti. Corpo di mille sassaie! ho pensalo tutta stanotte, che vi vogliate intendere, e non ne raccapezzo una maledetta.

Ton. E neppur io per verità. So, che plebiscito significa sentenza della plebe, ed accennata quella formalità legale del sì e no, non veggo, in che altro modo la plebe possa sentenziare. Sgraziatamente non abbiamo segreterie noi per distendere, né banditori per promulgare i nostri decreti.

S. Bep. Qui sta il male, miei cari, che il popolo non sa di potere,quanto può nei limiti dell’onesto; ond’è, che lascia fare, e molli nel nome suo disonestamente bisticciamo. Sì: voi avete e segreterie e banditori, e fate i vostri plebisciti tanto autorevoli, da imporre a qualunque potenza umana. Io vi dissi, che in ogni rivoluzione, perché sia legittima, ve n’ha bisogno di tre, l’antecedente, il concomitante e il susseguente; e son pronto a sostenerlo.

Carl. Ma corpo di mille galere! Qualunque cosa siano codesti plebisciti, il susseguente che ci fa? A rivoluzione già compiuta, che cosa entra il popolo a sentenziare?

S. Bep. Vuoi dunque cominciare dal terzo? Ti contenterò. Il plebiscito conseguente sta nell'acquiescenza del popolo ai fatti compiuti, e nell’acconciarsi, di buona o di mala voglia che sia, alle innovazioni introdotte. Questo plebiscito, aggiunto agli altri due, come vedremo, rende legalissima la rivoluzione, e dimostra che non errore o sorpresa, ma piena e spontanea volontà del popolo la produsse. Da sé solo però non arguisce approvazione, ma senno pratico. Dicesti ieri, Carlino mio, che a via di schioppettate avreste imposto al popolo la repubblica. Ebbene facciamo, che ci riusciate. Mettiamo, che in un momento di panico universale la vostra minoranza prevalga, e la bandiera rossa sventoli invece della tricolore. Mettiamo, che per imprevedute defezioni, per intreccio di circostanze inopinate venga a cadere il governo in mano dei vostri Capi. Il popolo per certo non lo avrà voluto, perché non aveva emesso i plebisciti antecedenti. Purtuttavia, succeduto il fatto, come gli converrà di comportarsi? Se si sentirà in forze, da scuotere il giogo imposto, ne succederà la controrivoluzione, e voi ne anderete a gambe levale: ecco il plebiscito conseguente negativo. Ma se questa forza sarà dubbia, se non avrà sicurezza a disfarsi dei tirannelli, che osarono di dominarlo, riputerà miglior consiglio di accettare in silenzio il fatto compiuto, non perché lo approvi, ma perché sa, che il distruggerlo costerebbe altrettanto sangue quanto il compierlo ne costò. Lungi da essere annuenza, sarà voglia di scansare novelli eccessi, dietro quelli, che ha sofferto per la già fatta rivoluzione. Subirà tacendo, come necessità ciò, a cui forse non avrebbe mai pensalo: ecco il plebiscito permissimo. Rare volte succede, che questa maniera

di plebisciti col tempo si trasformino in positivi, e riescano a bene; il più delle volte, le rivoluzioni, sanzionate da questa sola connivenza, recano gravi danni; ond’è che si vide qualche popolo, dopo alquanti anni, respingere lo stesso governo, che aveva prima accettato, e cercare con novelli plebisciti nuovi cambiamenti. È insomma lo stesso caso dell’inferma male adagiato nel letto, il quale cambia cento posture, finché non trovi quella, che più gli fa.

Carl. Mi sembra, corpo di mille sciabolate! che abbiate proprio citato il caso nostro.

S. Bep. Come mai?

Car. Perché quel maledetto plebiscito del 60... fu... fu una maledetta acquiescenza.... di un maledettissimo entusiasmo, che produsse un’arcimaledetta smania a questo povero infermo, che si volge e rivolge nel suo letto di spine. Ma corpo di mille baionette! Noi…

S. Bep. Voi con tutti i corpi di baionette confondete ciambella con focaccia. Al 60, mio caro, vi furono tutti i plebisciti; e questo terzo non fu soltanto consenziente, ma come tu stesso dicesti, avvenne per entusiasmo, per acclamazione, per una specie di furore. All’opposto il vostro, quando mai succedesse, chi ci dice, quale, sarebbe?

Ton. Dunque se non si può presagire, non potrà neanche trarsene norma di operazione.

S. Bep. Così è; e perciò dissi, che da sò solo non arguisce approvazione. Ma ve ne sono altri due, da dover consultare per la chiara investigazione del voler popolare: parliamo prima dell’antecedente. Esso è sito in un cotal malumore generale, perenne, torbido, uniforme…

Carl. Oh, per cento forche! ci siamo: seguitate.

S. Bep.. .. il quale, sebben velato, pure si ravvisa ab bastanza, e non nei soli giovani ardenti, che non pos i seggono nulla, e che son pronti a menar le mani, ma in tutti le classi sociali. Ciascuna lo esprime alla sua maniera, in modi più 0 meno colli, più 0 meno indiscreti; ma tutte si veggono cospirare ad uno scopo comune, rivelando con esso la volontà uniforme della nazione. Dotti ed ignoranti, magistrali e militari, ricchi e poveri, ognuno è inquieto, ognuno mostra di appetir qualche cosa, che non sia lo stato attuale, e che si ritenga, come il solo rimedio ai mali, che soffre. E siccome chi appetisce, fa capire di volere il cibo, cosi un popolo che si trovi in tale stato, dà manifesto indizio e promulga il suo plebiscito, di volere quel tale cambiamento, e di aspettare, che sorga l’uomo, atto ad iniziare la esecuzione del comun voto.

Ton. Con vostra buona pace, questo plebiscito v'è intero nelle condizioni attuali d’Italia.

Carl. Per Baccone! e come vi è! Sor Beppo mio, questa volta parlaste proprio da angiolo. Chi v'ha attualmente, che non sia scontento? chi v’ha, che non si lamenti, che non brami una mutazione? E quale più certa pruova, che la nazione vuole la repubblica, e non aspetta altro, che l’uomo iniziatore di sì grand'opra?

S. Bep. Oh come v’ingannate! Come vi seduce lo spirito di partito, adattandovi le lenti colorate, a mostrar tutto tinto del vostro colore! Spiacemi, che m'abbiate interrotto, prima che potessi esporvi l’altro plebiscito; ma pure, poiché mi ci chiamaste, debbo prima ribattere codeste false conseguenze. Il malcontento, ch'io nominai plebiscito, convien che sia positivo e determinalo, mentre questo, che voi scambiaste con l’altro, è solamente indeterminato e negativo. Mi spiego: Ogni sentenza, perché sia tale, non può chiudersi in un ambito negativo di ciò, che non si voglia, ma deve discendere al positivo ed al pratico. Ed anche il non costa dei giudici, che par negativo, ha per risultato pratico la escarcerazione dell'imputato, ed il conservarsi i processi in archivio, che son cose pratiche e positive. Cosi dev'essere della sentenza popolare, che chiamasi plebiscito. Tutti, voi diceste, sono scontenti: sta bene. Ma qual è il comun motivo della scontentezza? quale il comune scopo a cui si aspira? Non si sa,,o a dir meglio non v'è: ciascuno n’ha uno diverso. Si cerca generalmente il benessere, si ripruova generalmente il malessere; è cosa naturale! Quanto poi al mezzo di curar questo ed ottener quello, non troverete due teste, che si accordino insieme. Sono scontenti gli ex-garibaldini, e perché? perché furono disciolti. E gli ex-ufficiali? perché venner posti da banda. E gli ex-impiegati? perché furon tolti di ufficio. E gli ex-magistrali?. perché veggono altri al loro posto. È scontenta la Consorteria, perché non è lasciata in pace dai progressisti; ed invece sono scontenti i progressisti, perché non giungono a smontare la Consorteria. Sono scontente la Autorità, perché il popolo non paga le tasse; ma sono scontenti i contribuenti, perché oppressi da tasse gravose. Scontento chi ottenne e chi non ottenne, questi perché restò sul lastrico, quegli perché non si appagò del poco. Scontenti i retrivi, i repubblicani, i monarchici, ma gli uni perché devoti agli antichi governi, gli altri perché bramosi della loro forma prediletta, gli ultimi perché non facoltati ad opprimere gli avversari, come vorrebbero. Che più? Eccovene di scontenti per la poca libertà, e di scontenti per la soverchia; di scontenti pinzoccheri per la franchigia data ai razionalisti, e di scontenti razionalisti per la protezione accordata ai pinzoccheri; di scontenti proprietari per la vendita delle loro derrate, che reputano a basso prezzo, e di scontenti consumatori, perla compera, che lamentano a prezzo altissimo. Ma dov’è, che tutti questi scontenti abbiano un motivo comune di scontentezza, un rimedio da tutti comunemente vagheggiato, un segno comune di mira? È vero, che la maggioranza della nazione dice: si va male; ma potrete asserire coscienziosamente, che la maggioranza medesima definisca: Per andare bene, non ci vuole che la repubblica? Al più lo diranno taluni di equivoco liberalismo, lo diranno i retrivi con la speranza, che la repubblica sfasci lo stato attuale delle cose, e possa quindi condurli alle loro vagheggiate ristorazioni. Ma è un fatto, miei cari, e dovete convenirne, che il plebiscito antecedente del popolo per la repubblica attualmente non vi è. Anzi v'è comune opinione, che quella tra noi non possa attecchire, e generalmente si teme solo a sentirla nominare.

Ton. Questa poi la è verità.

Carl. Ma corpo di cento coltellate! Codesto plebiscito antecedente, che voi pretendete, vi fu poi nelle altre rivoluzioni? Per esempio in quest'ultima della rigenerazione italiana chi di. noi pensava all'unità d’Italia?

S. Bep. Oh! a quante riflessioni mi chiameresti con questa domanda, le quali convienmi differire per non uscir di quistione. Sì, Carlino; questo plebiscito v’ha da essere sempre in tutte rivoluzioni. Se esse sono autenticate da un tal decreto popolare, saranno legittime, e diverranno poi consistenti, avvalorale dal plebiscito concomitante; se non lo hanno, guai alla Nazione, che avrà a deplorarne mali assai, finché dal fatto non sieno forse in qualche modo legittimate! Mi parlasti della rivoluzione italiana? E puoi disconoscere il gran plebiscito, che la precedette? Ma spieghiamoci: essa ebbe due scopi distinti, libertà ed indipendenza. Del secondo passi: ché in verità non era tanto uniformemente e chiaramente bramato, sebbene implicitamente si contenesse nell'altro. Forse dalla prematura attuazione di esso deriva buona parte dei mali, che tuttora soffriamo. Ma quanto al primo scopo, della libertà costituzionale, chi ignora, che fino al 60 una fu la voce di tutti, a chiederla, mentre non se ne poteva più di soprusi polizieschi e di assolutismo? Fu un plebiscito cosi chiaro ed esplicito, che tutte le nazioni europee da un pezzo lo avevano sanzionalo. E se venne alquanto ampliato nell’applicazione dei falli, nel principio non poteva ignorarsi da chiunque avesse percorsa la Penisola dall'un capo all'altro. Se dunque Garibaldi levò il suo grido, che implicitamente conteneva la promessa dello Statuto piemontese, non fece altro, che veramente ubbidire alla volontà nazionale, chiaramente espressa, la quale per l’esecuzione venne ad incarnarsi in lui. Di qui in seguito il sollenne plebiscito concomitante, che destò rumore in Europa e nel mondo, e sentenziò il legittimismo della nostra rivoluzione, la quale nata dalla nazionale sovranità, divenne a costituire la nazione libera ed indipendente.

Ton. E qual fu quest’altro plebiscito?

S. Bep. Vel dichiarerò per via di esempi. Come si spiega,che nel 1857 il prode ed infelice Pisacane, sbarcando a Sapri con pochi ardimentosi, levò un grido di rivolta, a cui nessun eco rispose, e invece poco dopo nel 1860 Garibaldi sbarcando a Marsala, ne levò un altro, che valse alenargli dietro nove milioni di persone?

Carl. Oh per diancine! si spiega subito. Pisacane fu tradito, e Garibaldi no. Pisacane non ebbe aiuto dal Piemonte, come ebbe Garibaldi. Per Pisacane non vi fu corruzione dei regi, non comitati intestini, non danaro sonante, come vi fu per Garibaldi; e quindi...

S. Bep. E quindi... adesso mi vieni a ripetere tu stesso quello, che la consorteria clericale va propalando, per attenuare il merito dell’Eroe nizzardo! Non è il numero dei combattenti, non gli aiuti, non il danaro, non il tradimento, che rende forte una rivoluzione; è il principio, è l’adesione del popolo. Io poi, a dirla francamente, di valor personale e di coraggio reputo Pisacane più fornito di Garibaldi; poiché con pochi uomini, senza una sommossa già iniziata e senza aiuto di alcun potente, sfidò nel cuore del regno le truppe del Borbone, e le tenne a scacco per qualche giorno. Sicché se i popoli avessero risposto al suo appello, la causa dei regi era fin da allora spacciata.

Carl. Ma dunque, per tutti i malanni! donde derivate voi la differenza?

S. Bep. La è chiara. Ma prima di risponderti, un’altra domanda: Come avvenne, che lo stesso Garibaldi, già insigne ed idolatralo per le antecedenti prodezze, due anni appresso sbarcò alla stessa Marsala, si uni agli stessi valorosi, attraversò la stessa Sicilia, e senza incontrare né eserciti né cannoni nemici, senza abbattersi in flotte avverse ed in cittadelle ostili, passò lo stesso Faro, e giunse nella stessa Calabria; e con tante simiglianze, anzi con tanti vantaggi, non destò lo stesso entusiasmo, e invece fu così poco curato, cosi maltrattato, da divenire all’infelice Aspromonte?

Carl. Vergogna d’Italia, corpo dell’inferno! Anzi vergogna di un infame Governo, che premiò col piombo, chi gli avea regalato metà della Nazione!

Ton. Fu certo una crudeltà, un tradimento!

Carl. E l’esercito italiano, corpo di mille diavoli! che fece fuoco contro volontari italiani?

Ton. E il generale, che tanto crudelmente eseguì gl’ingiustissimi comandi?

Carl. E il Ministro traditore...

S. Bep. Ma voi con tanti corpi di diavoli non rispondete al quesito. Ministero avverso a Garibaldi, e generali, e sflldati, e tradimenti, ve n’erano anche nella prima' spedizione, in cui, tuttoché il governo borbonico tanta cura vi mettesse, non ebbero effetto, perché i popoli rispondendo al grido di Garibaldi, ne snervarono la forza.. Come fu dunque, che nella seconda questi medesimi po' poli, tanto obbligali al loro liberatore, non si commossero, e quasi quasi restarono indolenti alla sua sciagura? Come fu?

Ton. Fu per una fatalità!

Carl. Per una ingratitudine diabolica.

S. Bep. Fu, che mancò il plebiscito concomitante, essendosi malamente interpretato l’antecedente.

Ton. Come, come?

S. Bep. Eccomi a spiegarvi il come. Quando un popolo è malcontento, i suoi lamenti sono confusi, le sue domande equivoche, come quelle del muto, che non può esprimersi, se non a cenni. Esso è sovrano sì; ha diritto di essere ubbidito; ma si ha da trovare, chi comprenda bene i suoi ordini. Se al muto vi sia chi indovini la domanda, e glie la formoli nettamente, lo vedrete lietissimo correr dietro al suo interprete, e felicitandosi con lui, dargli coraggio ad eseguire. Se poi non è ben capito, e gli si reca fuoco invece di acqua, metterà da parte con corruccio quello, che gli offerite, e resterà smanioso, sconsento. Intendete la similitudine?

Ton. Non troppo.

S. Bep. dunque esemplifichiamo. Pisacane era un valoroso, un patriota; ma fu ingannato sulle disposizioni del popolo, e sbagliò il grido di rivolta. Propose al mulo sovrano Dio e il popolo; ma il popolo, che pur era scontento del governo assoluto, che già anelava a libertà, non la voleva sotto quella forma, e perciò rimase inerte. Commisero, se volete, la infelice fine del suo campione, ma non si commosse per una proposta, che non era la sua, che non lo appagava, ed a cui non si sentiva di annuire. All’opposto nel 1860 Garibaldi cangiò grido e bandiera, e propose: Italia e Vittorio Ema nuele. Oh! allora fu una commozione generale, una furia, una tempesta, un finimondo. Il muto si vedeva bene interpretato; ed esultante approvò e diè braccio forte. Poco appresso ascoltò: Roma o morte; e comunque Roma gli fosse a cuore, e la bramasse anche a costo della morte, pure il senno pratico gli suggerì, che non era né quella l’ora, né quello il mezzo da ottenerla. Il muto, anche fremendo per la sciagura del suo liberatore, però non annuì a ciò, che nomerà suo volere. E adesso, credete a me, se lo stesso Garibaldi venisse avanti a gridare: Mazzini e la ripubblica, vi sarebbe della commozione nei pochi affiliali, nei giovani ardenti, che non hanno cosa alcuna da perdere: questi farebbero baccano; ma il muto non si scuoterebbe più che tanto. Ecco la forza del plebiscito concomitante! Ecco in che maniera il popolo sovrano dichiara la sua volontà, e decide delle sue sorti future! Felice quella nazione, in cui vi sia, chi sappia intendere questa volontà nazionale! infelicissima, se alcuni avventati ed avventurieri scambino il loro dispotismo con la volontà della maggioranza, e s’intestino a voler imporre al popolo, in cambio di farsi imporre da esso!

Carl. Corpo di mille diavoli! non nego, che diciate qualche cosa di vero, che però mi disturba e non vorrei ascoltarlo. Spiegatemi solo una cosa adesso: Perché vi fate profeta, a presagire, che L’Italia non risponderebbe al grido: Mazzini e la repubblica? Come lo sapete voi?

Ton. Ed io, sor Beppo, insisto in ciò, che ieri vi domandava: Qual bisogno v’è di consultare il plebiscito del popolo, nel dargli la repubblica, se pur essa è l’ottimo dei governi, e se l’ottimo non può spiacere a nessuno?

S. Bep. Ebbene riserviamo a domani tali quistioni, per trattarle più diffusamente. Vi piace? Ritornerete?

Carl. Per diamine! ritornerò; giacche mi par difficile, che possiate dare buona ragione della profezia.

Ton. Ed io procaccerò di condurre con noi altri compagni.


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DIALOGO IV

Il governo perfetto

SOR BEPPO, TONIO, FILIBERTO, CECCO

Ton. Eccomi qua, sor Beppo, secondo la promessa. Ma Carlino non venne, poiché sgraziatamente s’è infermato. Egli vi domanda di differire il suo tema.

Bep. Sarà contentato per questo. Però mi spiace di cuore, che il corpo dei suoi mille diavoli gli abbia prodotto infermità. Invece godo, che oggi sia sostituito da queste mie vecchie conoscenze... Filiberto. e Cecco?... o m’inganno?

Fil. Appunto noi, a servirvi.

Cec. E ricordiamo, quando ci facevate bevere ad uffa, e c’istruivate sull’Italia una, sulla nazionalità ed indipendenza. Che tempi allora! e col vino in testa!

Bep. Ah! ve ne ricordate? Bei tempi invero di nazionale entusiasmo, e che formavano quel tale plebiscito conseguente, di cui parlai ieri con Tonio!

Ton. Ma ieri prometteste altresì, di dichiarare, perché trattandosi di repubblica, vi fosse bisogno di codesti plebisciti, mentre non v’ha dubio, che un governo sì perfetto non sia da essere accettato. Per me non veggo, che vi sia da scegliere a preferenza del perfetto.

Fil. É impossibile, che sor Beppo abbia detto questa castroneria. Egli è maestro in istoria, e sa, che tutti i popoli negli slanci sublimi di loro emancipazione aspirarono sempre al governo repubblicano, e non a questi pasticci di governi misti, che senza dare niente di bene, lasciano tutto il male del dispotismo.

Cec. E aggiungi pure,che l’Italia nostra,come mi dicono, fu costantemente tagliata a questo governo, cui vagheggiò mai sempre, e che non potrebbe rifiutare, quando le venisse offerto. Potrei io contentarmi del vin di Marano, quando mi si offra il vin di Puglia? Così se vi fossero uomini arditi, che interpretassero le tendenze d’Italia, ne son certissimo, ella non potrebbe rifiutare.

Bep. Son contento, miei cari, che da voi stessi abbiate segnato i confini di questo argomento. Esso può riguardarsi da tre parti, per definire, se la repubblica, qual governo perfettissimo, possa o debba imporsi all’Italia. Tonio la considera in se medesima, Filiberto dalle umane tendenze, Cecco dagli antecedenti italiani. Or io vi sostengo, che ad ogni modo non v’è ragione da imporre al popolo un governo, ch'esso attualmente non chiede.

Divideremo però la materia, come troppo copiosa, e per ordine mi rivolgerò successivamente a ciascun di voi.

Fil. Ben detto: Ci piace.

Cec. Ottimamente! Appunto come gira il fiasco al tocco del vino.

Ton. Comincia il turno da me.

S. Bep. Però innanzi tratto, debbo protestarmi, che non limitando io la sovranità del popolo, non intendo mica, ch’esso in un tempo non possa disvolere quello, che volle in un altro. Non so dunque, se il popolo italiano fra cinquanta, trentanni, fra dieci ancora o più presto, voglia e possa emettere imo di quei tali plebisciti, che cangiano le sorti di una nazione. Ammetto pure, che quando quelli saranno veramente e regolarmente emanati, qualunque governo, ed anche il repubblicano, sarà un bene per quello Stato, che si sente in forze di sostenerlo; e ne inferisco, che in tal caso possa aver merito chi si studi di obbedire e di secondare. Come potrei negar questo? Son repubblicano anch’io di buona lega, e tutto attribuisco alla sovranità popolare. Ma ciò che sostengo è, che quando questa volontà nella maggioranza della nazione non esiste, non v’è argomento, che tenga, a volervela obbligare.

Ton. Ma dico io mo: Che male ci sarebbe, obbligarla a ciò? Sarebbe, come costringere un amico restio, che si assida a lauto banchetto, come far pressa al musico, per che canti una cavatina.

Cec. Sarebbe, come quando mi si obbliga a bere, dal Padrone o dal Sotto.

S. Bep. Eppure non è così. Se obbligate l’amico restio ed il musico schifiltoso, l’è perché in fondo sapete, che l’uno effettivamente brama di pranzare e l’altro di cantare, e che entrambi godono ad esservi obbligati. Ma se il primo seriamente vi dicesse d’essere indigesto, e l’altro d’aver male alla gola, sareste scortesi ad obbligarli; e facendolo, ve li rendereste nemici. Tonio mio, già tel dissi altra volta: Togli a chicchessia la libertà della scelta, e qualunque cosa potrai proporgli sarà una tirannia. Costringi taluno, a dover sempre abitare una stanza, anche regia, anche comodissima, eccola per lui divenuta un carcere. Costringi un ghiottone, a mangiar sempre e a contro voglia qualunque manicaretto, anche saporoso, e con ciò solo lo convertirai per esso in veleno. Costringi chi abbia voglia di dormire, che assista ad una festa, comunque splendida, e gli darai un tormento. E per simil guisa se vorrai costringere un popolo contro sua tendenza, a subire un governo, anche perfettissimo, lo renderai infelice, e diventerai, senza volerlo, il suo tiranno.

Ton. Questa poi non mi entra. Come può un popolo rifuggire da quel governo, in cui possa far tutto da sé, in cui amministri senza timore di furti le sue entrate, e decida senza pericolo d’inganno sulle sue sorti?

S. Bep. A quel modo stesso, che tu, o Tonio, brami, che altri talora li meni in carrozza, invece di lasciarti caminare tutto da te; a quel modo, che Filiberto abbandona alla moglie l’amministrazione di casa sua, invece di condannarsi a portarla esso stesso; a quella guisa, che Cecco recasi a consultare il cerusico e l’avvocato, e non si attenta da sé a difendere le sue cause, a curare le sue piaghe.

Cec. Io non ho piaghe, io...

Bep. Se un popolo si avvede (e per avvedersene non monta, che,altri gliel dica, poiché sente le sue forze), se si avvede, dicea, che non abbia ancor lauta vigoria, da provvedere per sé stesso ai propri bisogni, ecco come fa esso: Riserva a sé qualche più importante faccenda, qualche sorveglianza superiore, qualche esercizio diretto della sua alla sovranità; ed il rimanente lo lascia amministrare ai suoi. eletti, ch’è appunto il governo costituzionale. Volerlo obbligare alla repubblica sarebbe, come spingere chi è stanco, a camminare a piedi; come ritenere in casa chi è affaccendalo di fuori, perché badi a menta e prezzemolo da far la zuppa; come costringere un infermo a farsi l’operazione con le sue mani, senza opera del cerusico.

Fil. Così voi ci descrivete codesto povero popolo italiano, come un cionco, uno scioperalo, un infermo; e pure la storia....

Ton. Anch'io l’altra volta il dissi, che mi pareva contro la storia.

Bep. Di storia non ne parliamo ancora, alla quale verremo più tardi; e restiamo lì a considerare sulle generali, se per ogni popolo debba sempre dirsi un bene la repubblica: questo è il punto della quistione. E que ( sto è, che non può asserirsi; come non può sostenersi, essere un bene al fanciullo vedersi abbandonato a se stesso, un bene al vecchio sentirsi spingere a caminare di lena, un bene al viandante trovarsi senza una guida.

Ton. Ah, sor Beppo mio, non ci siamo. Veggo, che anche voi entraste nella schiera di coloro, che vorrei)bero prima perfezionare il popolo, per poi dargli un governo perfetto, mentre a noi più d’un uomo valente ha dimostralo, che senza un governo perfetto il popolo non mai diverrà a perfezionarsi. È un proverbio, che la libertà educa sé stessa. Volete addestrare un bambino a camminare, e non lo mettete mai per terra? Convengo, che sulle prime inciamperà, barcollerà, caderà: caggia pure; ma dalle cadute imparerà a tenersi fermo sulle gambe, e con l’esercizio rinforzando i muscoli, tra poco tempo lo avrete vigoroso al molo.

Bep. Il proverbio è giusto, che la libertà educa sé stessa;e ciò vuol dire,che una discreta libertà educa a sostenere successivamente la più ampia. È verissimo, che il muoversi rinforza al moto, nel senso che un moto graduale e progressivo dà lena a poi correre senza tema di cadute mortali. Ma in fè di Dio, dimmi, Tonio: potresti tu consentire, che il tuo figliolino di otto mesi, posto per terra, fosse spinto alla corsa a paro dei nostri bersaglieri? Eh! finiamola con queste utopie, e guardiamo l’uomo qual’è, e non quale vorremmo, che fosse. Ogni popolo ha i suoi istinti, le sue tendenze, la coscienza del proprio potere, come l’ha un individuo. Quando è giunto a tale, da non sopportar più le fasce del dispotismo, le rompe come fili, ancorché non glie le leviate di dosso. Quando si sente di potersi spingere al corso, correrà, comunque gli leghiate i piedi. La repubblica è la manifestazione spontanea di una nazione adulta, che non vuole né tutore né curatore; sicché se la nazione è veramente adulta, non avrà mestieri di chi gliel dica, di chi glie lo imponga; e da sé cercherà quella forma di governo, e procaccerallasi, come cerca e procaccia il cibo chi ha fame. Potrete però mai imporre ad un infermo disapparente, che abbiasi fame ad ogni costo? Certo che no. Potrete correggere i suoi malori con le medicine; potrete riattivargli le forze con ricostituenti; potrete insemina mettergli in corpo la cagione della fame, non già l'effetto. Cosi se voi siete veri repubblicani, e perché non cercale d’illuminare ed educare il popolo, anziché eccitarlo? Mettetegli in corpo il senti mento dei suoi dritti e dei suoi doveri, anzi più di questi, che di quelli, perché i doveri son più difficili a realizzarsi, che i dritti. Ditegli, che deve ubbidire alle leggi sancite dai suoi rappresentanti, che deve rispettare la volontà dei più, comunque gravosa. E quando lo avrete istruito, quando gli avrete fatto comprendere, in che consista la vera libertà, quando lo avrete incoraggiato alla operosità, alla onestà, a svezzarsi dell’egoismo e dell’inerzia, a procacciare i comuni interessi, ad essere insomma adulto ed a sentire il bisogno di operosa attività, allora non il ticchio di scimiottare gli altri popoli, ma la coscienza del proprio potere gli farà gridare repubblica; ed il dirlo ed il farlo sarà una cosa medesima.

Ton. Mi resta un altro dubio. Voi diceste, che il popolo essenzialmente è sovrano; ed io non comprendo, com'esso essendo sovrano, possa svestirsi della sua sovranità, con rinunziare a governarsi da sé medesimo. È forse un’abdicazione?

S. Bep. Non comprendi? Eppure il dovresti. E tu non rinunziasti al diritto di farti da per te stesso, e vesti, e calzari, e abitazione, e masserizie? Non avviene spesso, che ti annoi, se in casa li si domandi permesso per ogni inezia? Né con ciò abdicasti alla balìa, che hai su di le stesso, e la eserciti coll’indavare, coll'esaminare, col dare il tuo consenso o la tua riprovazione. La sovranità, mio caro (convien ripeterlo, finché vi entri in testa), la sovranità, non istà nell'esecuzione, ma nel principio di autorità. Questa autorità è inerente al popolo collettivo, eternamente radicata in esso, e da esso emanante: sicché l'attribuirsela senza il suo beneplacito è delitto di lesa sovranità. La forma poi di governo, che il popolo assume, è mutabile, è accidentale, secondo i diversi stati, in cui esso si trova; onde nacque l'adagio, che quale è il popolo, tale è il suo governo. La forma insomma emana essenzialmente dalla materia, e secondo che dicono i filosofi, è il costitutivo della materia medesima.

Fil. Qui poi, scusatemi, ci veggo un paradosso. Noi non c’intendiamo di filosofia, è vero, e ci piace piuttosto di guidarci con la storia. Ma quanto a forma e materia,vediamo tuttodì, che lavorando anche un marmo durissimo, a poco a poco gli si dà quella forma, che si vuole. E il marmo ha fatto forse il suo plebiscito, per decidere della forma, che voglia assumere?

Cec. Bella similitudine! Ed io so, che anche al vino con certe droghe e con certe miscele si dà qualunque sapore, senza alcun suo plebiscito.

Ton. Anch’io ne ho fatto tante volte l’esperimento nel mio mestiere d’incisore ebanista; e vi so dire, sor Beppo, che arte ci vuole, ma infine il vasaio mette i manichi, dove gli talenta.

S. Bep. Le vostre similitudini saranno belle, le esperienze saran giuste, ma non han che fare col nostro argomento. Voi parlate della forma avventizia ed artefatta, non della naturale. Eppure anche discorrendo dell’avventizia, credete che tenga assolutamente il vostro paragone? Per esempio, dimmi Tonio: sapresti incidere un dilicato disegno sulla corteccia del sovero?

Ton. Sul sovero? Ma io sono ebanista, e non sugheraio.

S. Bep. Dunque credesti, che l’ebano fosse materia più acconcia ad intagliare, che non il pioppo, il castagno, l’abete, il noce, il sughero. Dunque comprendesti, che non ogni materia può esprimere qualunque forma; e se vai osservando, nell’ebano stesso non tutti i pezzi sono acconci a tutto, e i nodosi non si prestano; e qualche parte più fragile si stacca a tuo dispetto e ti guasta il disegno. Pure io non parlava di questa forma; sibbene di quelle, che nascono dagli elementi intrinseci costitutivi, come la forma della pianta dalla sua natura, come la forma del nostro corpo dalle forze chimiche, che lo costituiscono. Chi mai può imporre queste forme? Ad uno, che sia smilzo di complessione, per quanto tu dia da mangiare, ti verrà fatto d’impinguarlo? Potrai ucciderlo d’indigestione, e nulla più. Ed a chi sia obeso, se torrai l’alimento, gli procaccerai bensì morte d’inedia, non già forme di corpo delicato. Oh come si sbaglia, a voler indurre per calcolo e per principio una forma governativa, a cui la nazione non sia ancora disposta, è che essa non risenta nell'attività della sua vita! Succede, come di quei dottori fanatici, che impressionati della utilità di qualche specifico, vogliono prescriverlo ad ogni età, in ogni stagione, a tutte le complessioni e per tutte le malattie.

Cec. Ne conobbi uno io, che prescriveva a tutti maledettissimamente dieta ed astinenza dal vino.

S. Bep. Ed io rassomiglio la repubblica di certi liberali all’olio di fegato di merluzzo nell’uso di taluni medici: tulio si cura con quella medicina. Vagheggiano irremovibilmente quel loro ideale,e poiché lo trovano consono alle proprie tendenze, giudicando tulio il mondo da sé, reputano che sia la panacea universale per ogni malore. I ministri fanno corbellerie? dunque repubblica. Le lasse sono eccessive? dunque repubblica. I furti pubblici e privati si succedono numerosi? perché non c’è la repubblica. E repubblica chiamano a squarcia gola per tutti gli abusi, per tutte le disdette, per quanto o v’è di male o si esagera da essi, appunto a poter fare spaccio del loro prediletto specifico. Ohimè! come non si avverte, che i vizi sono effetto degli uomini, e che la decantata riforma, che dovrebbe venire dalla repubblica, non si attua se non negli uomini stessi, non esiste concretamente se non in loro, e senza mutarsi quelli, non sarà altro che un cambiamento di nome alla corruzione?

Ton, Ma in fine, sor Beppo mio, poiché io son materiale', e desidero risposte rotonde, ditemi spiattellatamente: È o non è una cosa buona la repubblica?

Fil. Ed io aggiungo: Se non lo è, come mai agli altri popoli fa bene? Siamo noi forse bastardi?

Cec. Ed io ancora ripeterò il mio quesito: Se non è buona, perché gl’italiani nostri maggiori sene ubbriacarono, come di ottimo vino, e la sostennero con fortezza di stomaco? Siamo noi astemii?

S. Bep. A tante domande aggiungetene una per conto mio: E o non è una cosa buona il pan di granone, che voi pur rifiutate alla mensa? Se non lo è, come mai i contadini se ne cibano e stanno bene? Se lo è, come avviene, che voi stessi, usi in età più fresca a mangiarne saporosamente, adesso ne avreste gravatolo stomaco? Amici miei cari, le cose son buone o cattive secondo la condizione attuale, di chi le adopera. La repubblica è governo perfetto per un popolo perfetto, ovvero che vi sia nato; è governo tristissimo, e che non potrà dare altro che danni, dove campeggia l’egoismo e l’inerzia. Comprendo, che il decidere di questo stato è difficile; ma infin dei conti l’infermo è il primo a sentire la sua infermità, e per sentenziare sullo stato interno d’una persona, non v’è miglior mezzo, che consultare lui stesso, ed esaminarne la disposizione naturale. Non potrete mai dimostrare, che una cosa sia naturalmente buona, a chi non la sente per tale, e non ha desiderio di conseguirla. Ci siamo intesi?

Fil. Per ciò, che propose Tonio, sì. Ma alle nostre domande pare, che non abbiare soddisfatto.

S. Bep. É vero. Ma ricordatevi che convenimmo di dividere la materia. Domani dunque vi soddisferò, se non vi tedierete di tornare. Oh quanta roba ci cresce per le mani!

Cec. Tediarsi a sentir voi non è possibile. Ci starei altrettanto che sto alla cantina; perché avete l’arte di darla ad intendere, come vi aggrada.

S. Bep. Come mi aggrada? Dì piuttosto: Come della la ragione. Che interesse avrei io, amici cari, a dissuadervi da questi conati repubblicani, io che sono repubblicano nelle midolle, e che non vedrei il momento di morire, lasciando questa patria mia patrona di sé, e costituita perfettamente? Che vantaggi ho tratto prima dal dispotismo e poi dall’attuale Statuto, mentre conduco una vita sempre contradetta, e ricca di onorala povertà? Ma nemico acerrimo di ogni dispotismo, non posso ammettere neanche quello repubblicano, che vuole imporsi al popolo; donde, a modo mio di vedere, risulterebbero fatali conseguenze. Crediate a me: come vi sono i repubblicani veraci, che rispettano il popolo a fatti e non a parole, così v’ha dei falsi repubblicani, assai più tiranni degli stessi despoti. Quelli almeno se opprimono, lo fanno alla scoperta sotto le vere forme di oppressione; ma costoro travisano tutti i concetti, e nell’opprimere, si larvano col mantello della libertà. Indegna condotta! Ma ciò verremo dichiarando in altra conferenza; e già ne teniamo promesse tre, se non erro. Addio dunque per oggi, buoni amici, e tornale a vedermi, che vi aspetto con ansietà.

Ton. A rivederla, sor Beppo.

A due. A rivederla.


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DIALOGO IV

Le repubbliche della storia

SOR BEPPO, TONIO, FILIBERTO, CECCO

S. Bep. Finalmente, Filiberto mio, oggi darai sfogo a tutta la piena isterica, che tieni arginala in corpo, la quale pel ristagno dei giorni scorsi, m’imagino, eromperà tremendissima.

Fil. Cosi è: non veggo l’ora di apprendere, come vi caverete d’impaccio dai grandi documenti, che ci fornisce la storia, sapienza dei nostri maggiori. La storia, sor Beppo, è una passione per me; e ne debbo grazie a voi stesso, che me la eccitaste nel cuore, quando m’istruivate della nazionalità.

S. Bep. Sicché vuoi dire, che se soccomberò, non avrò che a lamentarmi di me medesimo. È giusto: e tu accingiti a questo cortese duello, al quale assisteranno da arbitri Tonio e Cecco.

Cec. Ci canzonale adesso! Se si trattasse di esser arbitri sul merito di un vino e sulla legge dei tocchi, a fé ci starei. Per tutto il rimanente apprenderò da voi e niente altro.

Ton. Ed io, che ho ancora le spalle rotte pei colpi toccati nei giorni scorsi, come volete che faccia da arbitro? Eh via, sor Beppo, istruiteci; e se non ci vedete sempre pronti, a persuaderci, di grazia, attribuitelo a tutt’altro, che a malignità di cuore.

S. Bep. Lo so; e mi compiaccio, amici cari, a discuter con voi, che non avete l’animo incallito nei pregiudizi. Esponi dunque, Filiberto, quel che li della la storia.

Fil. È un insegnamento della storia, che tutti i popoli, quando da principio si riunirono in società, non avevano né re, né imperatori, ma formavano famiglie di cittadini tutti eguali. Erano dunque in una vera repubblica. E se i primi nostri antenati possedevano questa forma di governo, perché dovrà negarsi a noi, loro discendenti?

S. Bep. Dimmi per mercé: in quale istoriografo leggesti questa tua dottrina?

Fil. In quale?.... dovreste saperlo voi; io per me so, che in tutti si trova.

S. Bep. Ed io per conseguenza non ne avrò letto nessuno; perché in nessuno ho trovato una così grossa corbelleria. Rifletti, amico mio, che delle primitive società noi non conosciamo più che tanto; giacché appunto per esser prime ed incolte, non possedevano né

stampa né monumenti, da tramandarci con esattezza le loro memorie. Invece le primissime istorie, che si son conservate, presentane! gli Stati della società già costituiti a monarchie ed imperi, e tanto più assoluti, quanto più vicini erano alla loro sorgente. E che? dunque non sentisti mai dei re pastori, e dei quattro imperi simboleggiali nella statua di Nabucco? Se quindi alcun che conosciamo delle prime riunioni di uomini, l’è piuttosto per conghiettura, per analogia, per argomentazione, non per istoria, come han dato a credere a te.

Fil. E questa analogia, questa congettura, non ci dice, che i primi nostri padri dovettero reggersi a repubblica?

Geo. Capperi! e c’era il comunismo allora, più che la repubblica; sicché tutto apparteneva a tutti, senza che le cantine vendessero il vino cattivo a caro prezzo!

Ton. Felici tempi, non funestati nò da lasse, né da uscieri, né da liti, né da sequestri, né da povertà! Chi non n’aveva, prendeva quanto gli era bisogno, e tutti la sera stendevansi a dormire comenti coi loro figli. Oh! non li pungeva nel letto l’acuta spina dei debiti, da soddisfare!

S. Bep. Felici voi, che vi fingete il mondo passato e futuro a modo vostro, e ne traete materia da arzigogolare quello, che non è mai esistilo. Senti, Filiberto: le conietture della primeva nostra origine sociale ci menano a tu II altro, che tu non pensi. E per tacerli di cento ragioni più astruse, che militano a dimostrare, essersi le forme prime di governo assomigliale più al monarchico «regime, che ad altro, le pe recherò una, che per voi deve essere incontrastabile. Lasciamo stare le tribù nomadi, anche dei tempi nostri, che tutte hanno un capo, a cui ubbidiscono. Lasciamo i Gorilli, specie animalesca più affine all'uomo, che si regge con un capo, il più forte di tutti, a cui gli altri sottostanno monarchicamente. Lasciamo pure, che in quei primi tempi di barbarie la forza, o fisica o morale, dovette avere il necessario privileggio di essere rispettala, e ditemi solamente: Voi stessi ieri non asserivate, che la forma repubblicana è la più perfetta? ed i partigiani del socialismo e del comunismo non confessano anch’essi, contenersi in quelli l’ultimo stadio della perfezione governativa? Or nessuno potrà ragionevolmente persuadersi, che la forma più perfetta, che l'ultimo stadio di perfezione potesse aver luogo in quella imperfettissima infanzia dell'umanità. Sarebbe un assurdo uguale, a chi nel primo rampollo della pianta, che sbuccia, cercasse fiori variopinti e frutti saporosi; o a chi dai bambini, teste nati, domandasse quel senno e quella prudenza, che ad età adulta si conviene. Lascia dunque i tempi primitivi, che per te non fanno, e vieni piuttosto alla vera storia, da noi conosciuta.

Fil. Vengo dunque alle repubbliche greche, le quali tanto fiorirono per virtù, per sapere, per leggi, per valore, che anche adesso il grido ne rimbomba, e se ne citano gli esempi, da desiare stupore. Sparta, Atene, Bizanzio, Tebe...

S. Bep. Togli Bizanzio, che non mai appartenne, né a greci né a Ialini, né ebbe l’onore di reggersi a repubblica.

Fil. Una di più o di meno non fa nulla; ma potete negare la perfezione delle greche repubbliche, eh? Chi mai nella storia le ha potuto eguagliare? E la storia che parla, sor Beppo; la storia, fior di sapienza dei nostri maggiori.

S. Bep. Questa storia, amico mio, ci narra, che le repubbliche greche, quasi sempre si trovavano a contrastare l’una contro dell’altra; segno, se non erro, di qualche ambizioncella. Ci narra, che l'una impediva all’altra di alzar le mura per fortificarsi, e l’altra alzandole con frode ed astuzia, gabava la sua rivale. E non v’è qui nulla di antagonismo, di livore? Spesso c’imballiamo in uomini insigni, a cui la patria era tenuta delle sue vittorie, della sua esistenza, i quali per invidia o per calunnia furono sbanditi con l'ostracismo, furon ridotti a mendicità, costretti per vivere a rifuggiarsi presso i nemici; e se non riuscirono a fuggire, vennero gittati in carcere, uccisi e privati altresì di decente sepoltura. Ciò, m’immagino, si debba dire ingratitudine, ingiustizia, crudeltà;‘ovvero possiede altro nome nel vocabolario repubblicano? E un fratello,che ne uccide un altro per ambizione di regno? e un padre, che sacrifica la figlia per bramosia di potere? e un magnate, ch’è condannalo dal popolo senza alcuna colpa, ma solo perché si rese insigne? Non penso, che li leniate per fiori di virtù.

Fil. Che c’importa dei difetti parziali, di cui tutti gli uomini possono esser macchiali? Le leggi, sor Beppo, le leggi!.,..

S. Bep. Sì: quelle leggi, che assolvevano e premiavono il furto, che percuotevano i fanciulli pubblicamente, a fine d’indurarli alla sofferenza, che abbandonavano i vecchi alla morte, come peso inutile della società, che ammettevano una doppia specie di uomini, schiavi cioè e patroni, che consigliavano....

Ton. Ohimè v’era tutta questa maledizione!

Fil. E queste cose sono scritte propriamente nella storia?

S. Bep. Dunque non l’hai studiata, mio caro; e ti sei contentato di ciò, che ti raccontarono. Senti, Filiberto: le cose, che son lontane da noi, solo perché lontane, acquistano un certo contornio di perfezione, che le rende appariscenti e singolari. Guarda un albero da lungi; e ti sembrerà degno di dipingersi pel graduato verde del suo fogliame, per lo contorno rasato del suo cesto, per la simmentrica disposizione dei suoi rami. Accostati però da vicino; è troverai un albero come gli altri, con foglie ingiallite e vizze, con virgulti sporgenti, con rami spezzati, con tronco ruvido e bernoccoluto; talché non ti ci vorresti neanche adagiare di sotto un momento. Questa similitudine calza a capello con le lue repubbliche. Le repubbliche greche hanno del bello, del grande, dell’ammirabile, sai perché? Per la loro distanza da noi. Che cosa ce ne mostra la storia? L’insigne, il sublime, sia nel bene sia nel male; tutto il rimanente scomparisce o si arrotonda nella distanza dei secoli E il grande ed il sublime, guardato di lontano, sbalordisce, abbaglia; e destando nell’animo il concetto complessivo di quei pochi falli, sceverati dalla serie di tanti e tanti altri, che s’ignorano, lascia una traccia di maestà, di perfezione, secondo la quale ci avvezziamo a riguardare tutto l’antico, come maestoso e perfetto. Nell’antichità ogni cosa è grande: Alessandro il grande, il gran Ciro, il gran Sesostri, il gran Licurgo, il divin Platone, il grande Aristotele, il gran Pitagora, e va discorrendo. Ma la loro grandezza è relativa alla piccolezza dei tempi e degli uomini, coi quali convivevano. Se coloro risorgessero a tempi nostri, quali erano allora, scomparirebbe la grandezza, anche a fronte dei più piccoli fra noi. E se le greche repubbliche, che tanto ammiriamo, potessero ripetersi adesso, con lo stesso tipo e coi medesimi lineamenti di allora, credi a me, farebbero piangere per compassione, anziché destar meraviglia.

Fil. Io cado dalle nuvole! Ma l’amor di patria? le pruove di valore? e le Termopili? e i trecento di Sparla? e la fuga di Serse? e tante altre meraviglie, che ci narra la sapienza dei nostri maggiori?

S. Bep. Maraviglie sì; ma per quei tempi, non per adesso. E che? gli spagnuoli, che non vollero soggiacere alle armi napoleoniche, non operarono molto maggiori prodigi, che non attinsero certo da nessuna repubblica? E gl’inglesi in Crimea non caddero distrutti al loro posto, anziché cederlo ai russi? Ma questi son nostri coetanei, e noi non ne teniamo gran conto, come di tanti altri eroismi. Quelli invece erano antichi, e godevano il privilegio dell’antichità, l’ingrandimento, il sublime.

Ton. Comincio a persuadermi un poco.

Fil. Ed io non mi persuado un fico. Si tratta di smarrire la sapienza dei nostri maggiori! E che cosa ci resterà in seguito ad imitare, se il perfettissimo diventa comune e vizioso?

S. Bep. Imitare non è lo stesso, che copiare. Prendiamo il meglio, che la storia dei greci ci riferisce; purghiamolo dai difetti, acconciamolo al grado di coltura dei tempi nostri, ch’è mollo innoltrato; e questo sarà imitare, e ci farà prò, e ne trarremo gran profitto. Tutt'altro fanatismo sarebbe un ostinarsi, a ricopiare e trasfondere in noi la forma governativa di quei tempi; e questo, tolto di peso e senza modifiche, non ci conviene.

Fil. Ma qui sta il punto. Se noi dunque siamo più perfetti, quella forma repubblicana potrà convenire meglio a noi che a loro. Voi stesso lo diceste ieri, e per non contradirvi, dovrete accordarvi con me in riverire la sapienza dei nostri maggiori.

S. Bep. Riverenze quante ne vuoi. Ma bada però, che se è cresciuta in noi la coltura, son cresciute del pari le esigenze; sicché quello, che ad altri e in altri tempi era consono, non è sufficiente per i nostri. Indosseresti tu alla tua età con la stessa compiacenza quel bel soprabbilino che indossavi fanciullo? E ti diletteresti di cani e cavalli, come quando vi li spingeva la gioventù?... Non mi rispondi? Fa dunque l’applicazione. I nostri attuali governi, di qualunque forma si sieno, considerali senza distinzione di tempi, oh! quanto sono più perfetti delle repubbliche greche, e ci vorrebbe poco a dimostrarlo; noi però a ragione li avversiamo, perché? perché non rispondono adequatamente al bisogno. Per noi dunque ci vorrebbe una forma di repubblica. non come quelle dei greci, bensì perfettissima, couguagliatrice, giustissima, vasta, nazionale; e qui sta il difficile. Guidare una gran nazione a repubblica, è come muovere una macchina complicata a forza di vento o di acqua, senza un manubrio principale, che la diriga. Se non è congegnala a capello, e di materie solide e proporzionale, potrà agire per poco, e tosto finirà collo sfasciarsi.

Fil. Non credo però, che vorrete negare alle repubbliche greche la loro nazionalità, per cui si tennero mai sempre compatte contro i nemici esterni, che le minacciavano. La storia qui non ha alcuna eccezione.

S. Bep. Veramente su questa compattezza ci sarebbe da dire anche un poco; ma mi conviene passarmene. Ti rispondo dunque, che la forma di quelle repubbliche era piuttosto a maniera di famigliuole staccale, che raro cospiravano ad un fine comune, e spesso erano tra loro alle prese, come fanno le famiglie dei nostri popolani. Appunto perché famigliuole, le loro virtù erano naturalmente in mostra, i loro vizi restavano a lavarsi, come i panni lordi, in casa propria. Formavano, secondo la similitudine di sopra, altrettante macchinucce semplici, da un sol asse e da una ruota al più, che possono agire da sé con la mera azione dell’aria. Fate operare codeste macchine a parte, dureranno. Ma non le incastrare funa nell’altra, se non volete mandarle in brani; ovvero volendole riunire, adattale loro una guida forte sì, che possa moderarne il molo. Intendo inferire da ciò, che se le repubbliche greche si fossero allora costituite in una nazione sola, coi loro pettegolezzi, con le loro ingiustizie e primazie, credi a me, non l’avrebbero forse durata nemmeno un lustro. L’uguaglianza di sua natura porla disunione, come l’unione compatta si fa con la gerarchia e la disuguaglianza. Se le parli son molle, e ciascuna di esse non è perfettissima, tantoché stia da sé al suo posto, ne nasce i una delle due cose, o che si disgregano, e ne va della nazionalità, o che l’una infreni l'altra, e ne va della libertà repubblicana.

Ton. Qual è dunque il vostro parere sulle ampie repubbliche?

Bep. Secondo me, avuto riguardo allo stato attuale delle nostre masse, che ancor marciscono in una crassa ignoranza, una repubblica vasta, una repubblica nazionale è impossibile che alligni.

Fil. Ma pure la repubblica romana era vastissima, possedendo tutto il mondo allor conosciuto. E non lasciò esempi inimitabili di grandezza?

Cec. Quante belle cose mi si narrarono alla cantina di questa repubblica, quando era guidala da Mazzini e Garibaldi. Ho bevuto pure alla salute di Saliceli e Sterbini.

Fil. Che diancine affastelli? Non si parla dell’ultima infelice repubblica, ma dell’antica, ch’era a tempo dei consoli. Si vede, che ignori la storia, sapienza dei nostri maggiori.

Cec. Ah?

S. Bep. Quanto alla repubblica romana, è a ragionare in tutt'altra maniera. Sapresti dirmi, perché mai essa, così potente e forte, andasse a finire soggiogata dall’assolutismo?

Fil. Me lo domandate? Finì con un infame colpo di stato, come quello del 2 dicembre. Finì col passaggio del Rubicone, con la battaglia di Farsaglia. Oh quanto c’insegna la storia, sapienza de' nostri maggiori!

S. Bep. Mi congratulo, che questa volta imbroccasti nel segno. Ma saprai dunque, che quel colpo di stato era già inizialo da un pezzo, con decemviri, con guerre sociali, con guerre servili, con triumvirati, con dualismi. Comprenderai,che nel dualismo una delle due parli dovea trionfare, e vincendo conquistare tulio il potere. Ricorderai, che cominciò fra la plebe e i patrizi quella gara, che poi crescendo sempre, dovea condurre o alla vittoria del senato, che si sarebbe costituito in aristocrazia, o a quella dei voluti rappresentanti del popolo, come avvenne in Cesare. Non ignori finalmente, che questa vittoria di Cesare gli fece assumere la dittatura, ed infine distrusse la repubblica. Tutto questo, come suppongo, lo sai; e dovrebbe riattestarli col fatto ciò, che dissi poc'anzi, che in una repubblica assai estesa, se le singole parli non sono tutte perfette, da stare di per sé stesse al posto loro, tra poco tempo il congegno della macchina è disfatto.

Fil. Sì: negli ultimi tempi la repubblica romana andò male; ma prima che si eccitassero quei partiti, stelle insigne, e dette al mondo i Bruti, gli Scevola, i Cocliti, i Camini e tanti altri eroi. La storia c’insegna che allora non v’erano dissensioni.

S. Bep. E sai, perché non v’erano? La sapienza dei nostri maggiori avrebbe dovuto insegnarli, che fino allora la repubblica romana fu tale di nome e non di falli: era non altro che la cosa pubblica. Il potere realmente veniva accentralo nel senato, che potè dirsi la consorteria di quell’epoca. Tutte le cariche più cospicue spellavano ai senatori, tutte le più importanti faccende si decidevano per senatoconsulti, e l'ordine dei cavalieri, e quello della plebe, vi stavano come semplice ripieno del pasticcio, m’intendi? Servivano per pagare le imposte, per dare il volo, quando erano chiamati, e per sanzionare quello, che i senatori avevano già deciso. Era insomma vera tirannia senatoria, palliala col mantello di libertà, e ne succedevano quegli stessi abusi, che nascono nei governi di aristocratico assolutismo. Sorsero per quel tempo taluni uomini grani di: e qual meraviglia? Qual mai governo, a qualunque forma appartenga, non caccia a quando a quando degli eroi, famigerati meritevolmente dalla storia, a lode perenne dell’umanità? Ma non vi mancavano degl’insigni viziosi, dei reazionari, che parteggiassero per gli spodestati, degli insidiatori all’altrui onestà, dei ribelli alla Patria, che per ambizione militarono a danni suoi, degli ardimentosi, che senza il comun beneplacito mossero da sé guerra ai nemici e restarono distrutti. Amici miei, il mondo andò sempre ad un modo, e la storia bene studiala vel dimostra. Riscontrate quei fatti coi nostri contemporanei, e ve ne accorgerete.

Ton. È vero: mi ricordo di Mentana!

Fil. Voi quindi ammettete due repubbliche romane.

S. Bep. Non due, ma una in due periodi. Quel primo periodo di Roma, dopo la cacciata dei re, non fu propriamente repubblica, ma una specie direi così di Statuto, in cui il popolo dava il suo voto solamente in taluni falli più importanti. In seguito dopo qualche! secolo volle il popolo davvero impossessarsi della re' pubblica; e n’avea ragione, perché usando del nome, volea sperimentarne i falli. Ed ecco, che dopo taluni ammutinamenti ottenne di prender parte a tutte le magistrature, a tutti gli uffici, alla dittatura perfino, e per mezzo dei suoi tribuni dominò la pubblica cosa. Che ne avvenne? Lo dicevamo poc'anzi. Succedette la reazione del senato da una parte, dall’altra l’esigenza plebea. Sorsero i partiti, cominciò il secondo periodo, veramente repubblicano e veramente dissolutivo, cioè quello delle dissensioni, delle gare, delle guerre civili, e finalmente del nefasto assolutismo. Quali di questi due periodi romani scegliete a modello? La repubblica di nome senza realtà, o quella di realtà e di nome, che condusse alla rovina?

Ton. Ma è poi vero, sor Beppo, ciò, che asserite?

Cec. Se è veramente così, non beverò più vino con chi mi parla della repubblica romana.

S. Bep. Non sono io, amici cari, ad asserirlo; ma è la storia, che secondo il Filiberto, è la sapienza dei nostri maggiori.

Fil. Sì è la sapienza; e secondo essa, ad onta delle vostre riflessioni, mi ostino a dire, che la repubblica romana ci alletta. Almeno colà vi era gloria, almeno si esilaravano con le vittorie. L’aquila repubblicana era temuta, e non si avevano in quei tempi a deplorare le Custoze e le Lisse. Era pur qualche cosa!

Bep. Adagino, adagino, Filiberto mio. Per le Lisse n’ebbero delle solleoni i romani; e dimandane, se vuoi, a Quinto Attilio Regolo, l’eroe infelice, che finì a Cartagine fra i tormenti. Per le Custoze poi, oh! non furono poche; e basterebbe ricordare per tutte quella di Canne, quando mancò ad un filo, che Roma non finisse, come fini poi Cartagine. Vuoi dire, che i romani non si perdevano di coraggio nelle sconfitte, né vi era allora il giornalismo partigiano, che sotto aspetto di riprendere gli errori, scoraggiasse da una opportuna rivincila. Ma questo coraggio non dalla forma governativa, ma dipendeva dal sentimento nazionale. Vittorie i romani n’ebbero sotto i re, sotto i consoli, sotto gl’imperatori, e forse forse di più, guidati da costoro, finché l’impero non venne alla decadenza. Vincevano dunque perché romani; e quando nei cimenti dubi dicevasi dai duci: Qui voi dovete o vincere o morire, non dicevasi ai repubblicani, come governo, ma ai romani, come nazione. Anzi io asserisco, e con me molti dotti, che le vittorie romane lungi dall’essere effetto della lunga durata repubblicana, invece la lunga durata repubblicana fu effetto delle romane vittorie. Catone lo avea già predetto: Non distruggete Cartagine, se volete, che Roma duri. Finché vi furono nemici da vincere, e mondo da conquistare, i partiti di Roma si tennero alquanto uniti, la dissenzione non eruppe; la guerra esterna era, direi così, il cautero della repubblica già corrotta all’interno. Venne meno questo emuntoio, e la cancrena apparve; e come il fuoco, che non ha materia da consumare, consuma sé stesso, cosi la repubblica andò in fiamme, lasciando insieme con la. gran luce della sua gloria un mucchio di cenere dei suoi allori.

Fil. Ebbene non si parli più di Roma, e veniamo a Genova, a Venezia, ed alle altre gloriose repubbliche Qui la storia mi sarà favorevole.

S. Bep. Come ti piace. Ma se non mi sbaglio, la è materia riservata a Cecco, per trattare delle repubbliche italiane.

Cec. Sicuro, sicuro; m’era distratto: e come non costumo di cedere alla mia bevuta di rito, quando si fa al tocco, cosi non cederò ai mio turno in queste discussioni.

S. Bep. Riserviamo dunque questo tocco per domani, e ti soddisferò non di bevute, ma di parole.

Fil. Io però non sono soddisfatto, compare! Vi è a parlare ancora della repubblica francese, dell'americana, di quelle del nuovo mondo... Oh quanto trovo da studiare nella storia, sapienza dei nostri maggiori!.

S. Bep. Ebbene, Filiberto: studiala qualche altro giorno, ma un poco meglio di prima; e poi ne riparleremo a tuo beneplacito.

Fil. Vi prendo in parola. Addio.

Ton. e Cec. Addio.


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DIALOGO VI

L’Italia repubblicana

SOR BEPPO, FILIBERTO, CECCO

S. Bep. Buon giorno, Cecco e Filiberto. Com'è, che Tonio, non venne insieme con voi?

Fil. Non saprei: forse quest’oggi dovea essere affaccendato, giacché ieri ci pose in dubio la sua venuta.

Cec. Venni io però, sor Beppo, e basta: la faccenda è con me.

Fil. Ed io ti aiuterò, quanto posso, dove ti venga meno la storia, ch’è....

S. Bep la sapienza dei nostri maggiori. Benissimo. Entriamo dunque in materia, che ci larda mollo' di farlo. Che hai a dir dell Italia?

Cec. Ho da dire tante cose io, che non saprei davvero donde cominciare. Perché noi fate voi, sor Beppo?

Bep. Ma se le obbiezioni son tue? Su via, che ti han detto di queste repubbliche?

Cec. Quello che mi han detto, quello che ricordo, si è, che tutta l’antichità italiana spira repubblica. Filiberto, suggeriscimi tu il principio.

Fil. Volentieri, poiché la storia...

Bep. Aspetta. Per mettervi in via, e per aiutare la memoria di Cecco, voglio stuzzicarla con una tesi tutta contraria, la quale a primo aspetto vi sembrerà un paradosso: sentitelo. Io dico, che l'Italia dalla caduta dell’impero in poi non è stata mai repubblicana.

A due. Orrore! Che dite?

Fil. Che vi fate fuggir di bocca contro l’evidenza della storia?

S. Bep. Dico, che col tempo, con l’istruzione, con la vita nazionale l’Italia potrà perfezionarsi, potrà rendersi atta alla repubblica, ciò che bramo e di cui ho piena fiducia. Ma quanto a tutti i secoli trascorsi, checché si dica in contrario, sostengo, ch'essa non ebbe mai questa fisionomia.

Fil. Ciò è un incredibile.

Cec. Incredibile per ogni verso.

S. Bep. Ascoltatene le ragioni, e poi mi opporrete quello, che vi detterà la sapienza dei nostri maggiori. Un popolo essenzialmente repubblicano, almen di tendenze, se non ancora di efficace cooperazione, deve esser fornito di questi caratteri: 1° indipendenza da altri governi stranieri di forma assoluta, 2° abbonimento a tutto ciò, che dice sopruso ed arbitrio, 3° operosità energica nelle faccende comuni, 4° coscienza della propria dignità, 5° deferenza all’autorità delle leggi. Potete negarlo? Senza questo la repubblica è una fandonia. Or bene consultiamo la sapienza dei maggiori, e troveremo, che Italia (non per sua colpa s’intende, ma per. coincidenza di circostanze) nel medio evo ed appresso fu priva di questi caratteri. Se i forti partili di Guelfi e Ghibellini dimostrano, che fin d’allora v’era tendenza alla nazionalità, dimostrano altresì, che gl'italiani non rifuggivano di appoggiarsi al potere assoluto; poiché Papa ed Imperatore erano infine due facce di una stessa medaglia assolutista. Bianchi e Neri, Piagnoni e Palleschi, che altro al postutto significavano, che il trionfo di un partito, il quale ottenuto il potere, tirannicamente voleva esercitarlo a distruzione dell’altro? Quindi leghe segrete e perenni, per abbattere emuli; quindi soldati di ventura, pronti a sguainare la spada pel primo pretendente, che li assoldasse; quindi tirannelli e despoti in diciottesimo, che con le loro corti alla reale, con le loro regie sovercherie, con i consueti tradimenti, con avvelenamenti, con uccisioni, da caratterizzarne più l’epoca della barbarie, che il sentimento della dignità, succedevansi l’un l’altro e disputavansi il primato nel dispotismo. Non serve poi riandare quella secolare rivalità, che ci ha reso proverbiali, e che sgraziatamente non è ancora totalmente estinta; né ricordare, come i conati parziali di operosità, sia commerciale sia militare, andavano mai sempre perduti, perché come prima si avviavano a bene, trovavano ostacolo insormontabile nella invida malevolenza dei vicini connazionali. E quale dignità in un popolo, che a tutti stranieri si sottomette, e da tutti cerca aiuto, per averne braccio forte a disfarsi dei propri concittadini? Qual legge in quel tempo di mezzo fu davvero rispettala, tranne quella della spada, e l'altra barbara del fuoco, accettalo come giudizio di Dio? Non son io, che lo dico, che pure vorrei parlare tutt'altrimenti della cara Italia. Basla leggere i nostri classici scrittori, e specialmente l'Alighieri, per vedere quai rimproveri mordaci facessero ai costumi dei tempi loro; per comprendere, che il tipo italiano di quell’epoca era tutt'altro, che repubblicano. E direte, che questo popolo, tanto ligio alla monarchia,da applaudire ad ogni nuovo signore, e da cercarselo, non avendolo, con la lanterna di Diogene, direte, che sia nato fatto per la repubblica?

Cec. Ohimè! non raccapezzo più la testa, come se lussi ubbriaco!

Fil. Ma per carità, sor Beppo, non ci fate di si brutti quadri, che offendono la storia, sapienza dei nostri maggiori. Voi con poche pennellate venite ad oscurare lutto l’onor nazionale, di che andavamo superbi. A sentire voi, in Italia non vi fu nulla di buono, nulla di eroico; e questa terra maestra delle nazioni, non era neanche da paragonarsi alla più incolta barbarie delle altre. In verità che ciò la offende.

S. Bep. Questo lo dici tu, perché ti sei ficcato in testa, che lutto il buono ed eroico sia il preteso spirito repubblicano. Io non lo dico certo, che niegando, all’Italia questo spirito, che mai non ebbe, riconosco però, che se aveva difetti, inseparabili da una nazione non costituita, infestala, sfruttala dall’altrui ambizione, aveva però virtù di lunga mano maggiori, che non gli altri popoli di quel tempo. Ma da queste virtù, da questo eroismo, dalle prodezze di Legnano, dalla lega lombarda, fino allo spirito repubblicano, che tu le attribuisci, v’è gran distanza; e tal disianza non ti verrà fatto di raccorciare.

Cec. Sentile, sor Beppo: io so, che quando. taluno ha bevuto, e va in istranezze, e loda il vino, e ne lascia una qualità per chiederne un’altra, e vuole e disvuole, e ride e piange, segno è che non sostiene il liquore ed è presso a rigettarlo. Cosi io penso, che l’irrequietezza italiana di cangiar signori, di ordir congiure, di chiedere l’altrui aiuto, e di disvolere quel che volle, era appunto indizio, che non volesse sapere di signorie, che tendesse a gittarsele di dosso, per aspirare a libertà.

S. Bep. Se questo costituisse lo spirito repubblicano, ti posso dire, Cecco, che i repubblicani più ardenti sarebbero stati i pretoriani del romano impero, i quali ad ogni terzo giorno assassinavano un imperatore e ad ogni quarto ne creavano un altro. Gittare il basto, che pesa, sa farlo anche il mulo; e a rompere i cancelli, si trovan bene anche i galeotti. Costoro però dopo la fuga son peggiori di prima, tanto da essere posti in ferri nuovamente; e il mulo libero del basto, scorrazza all’impazzata, finché non venga imbriglialo un’altra volta. Questa era, mio caro, la condizione d’Italia, da non arguire repubblicanismo di sorta. Lo spirito repubblicano non è distruttivo, ma costitutivo di un potere democratico, forte, energico, vendicatore dei dritti, osservatore dei doveri. E dové, che questa imagine presentassero i popoli italiani dei secoli decorsi? Ah! Cecco mio, quante illusioni cadono, a guardare in faccia con occhio limpido e senza traveggole la storia, quale veramente fu.

Cec. Resterebbe dunque....

Fil. Taci là; non hai detto nulla di buono; perché tu non conosci la storia, ch’è il fior di senno dei nostri maggiori. Sor Beppo, rispondete adesso a me, e finiamola: L’Italia non si organizzò essa a Comuni indipendenti? non ebbe le due celebri repubbliche di Venezia e di Genova? non ha in seguilo accollo con entusiasmo la repubblica cisalpina, la romana e la partenopea, fondate dalla Francia? non ha ricostituito a nostri giorni le repubbliche romana e veneziana? non conserva ancora, come suo palladio, la secolare repubblica di S. Marino? Ecco la dimostrazione dello spirito repubblicano d’Italia, che Cecco non seppe abbastanza ritrarre dall’alta sapienza dei nostri maggiori.

S. Bep. Caro Filiberto, con tanta sapienza dei nostri maggiori tu mi sbalordiresti, se non fossero per buona sorte cose fritte e rifritte quelle che dici. L'amministrazione comunale, che vanti, lungi dal dimostrare sentimenti repubblicani, dimostrava tutto all’apposto divisione di animi, incapaci di amalgamarsi. Ciò che allora risaltava, era la cosa comunale la cosa privata, non la cosa pubblica, di cui a quei tempi non trovi un vestigio nella storia. Che poi i Comuni dovendosi amministrare separati, si dovessero costituire a forma elettiva, era naturale; perché chi avrebbe deciso dei Capi governativi, da imporsi loro, se non vi era un’autorità superiore, riconosciuta dai singoli Comuni? Non ammessa reiezione, sarebbero surli tanti tirannelli, quanti erano gruppi d’italiani, sicché quella forma di governo fu dettala dalla necessità, non dalla tendenza 4 nazionale. Eppure i tirannelli non mancarono; e se non di nome, di fatti certamente vi furono, a bistrattare la pubblica cosa, ad agire in nome del Comune, per faro solamente il loro interesse. Come dunque da quella accidentale e precaria istituzione puoi tu dedurne la repubblica? Credi a me, Filiberto: partigianeria, egoismo, separazione da una parte, e democrazia, amor della comunanza, repubblica dall’altra, sono i due poli opposti di una calamita; che se l’uno è positivo, l’altro è negativo. Ond’è, che noi troviamo in maggior numero i conati italiani verso un governo democratico, dopoché i Comuni sparirono, per fondersi nelle monarchie, anziché quando facilmente e legittimamente avriano potuto mostrare tali aspirazioni, se da vero vi fossero state. Io non so, come si trovino menti istruite, che dalla istituzione dei Comuni voglian dedurre l’Italia repubblicana, che mai noi sognò.

Cec. Vi fu però Venezia, vi fu Genova, vi fu la repubblica fiorentina, di cui alla cantina tante cose mi diceva Tore, che ha letto per bene il Guerrazzi ed altri.

S. Bep. E sì, che a darci materia di romanzi e tragedie, queste repubbliche, che motivasti, valgono molto; e specialmente per le misteriose sentenze dei Dieci, e per le violente stragi di uomini insigni, sacrificati alla ferocia dei partili. Dimanda però nella cantina al tuo lettor di Guerrazzi, che sorta di libertà si avesse il popolo in quelle tali repubbliche, e vieni a riferirmi ciò, che ti sappia rispondere. Una campana, che suona a stormo, un consiglio, che si aduna, una sentenza, che si emette, una formalità di chiedere l’approvazione del popolo, che con l’astuzia s’è già preparala, e con la violenza si punirebbe, se non accedesse, non daranno certamente il nome di governo democratico. Potran chiamarsi repubblica, e chi lo niega? Appunto come si direbbe repubblica il governo dei gesuiti, perché in esso il sommo potere è elettivo, come lo si direbbe il Papato, che dipende dall’elezione dei cardinali, come un altro Stato qualunque, cui potrete, se vi piace, appellare repubblica per esempio la repubblica inglese, la prussiana, la moscovita. Ma quanto a libertà legale, a libertà cioè di ben fare, ne abbiamo a centi doppi più noi nella nostra monarchia costituzionale, che non quelle nominali repubbliche, divenute palestra di ferocia e sentina di vizi, tanto più perniciosi, quanto più occulti e camuffali da rigidezza repubblicana. Cecco mio, se avessi tu allora bevuto alle cantine di Venezia, di Genova o di Firenze, siine certo, o non avresti parlato con quella libertà, che suoli adesso, o avresti dovuto temere pel giorno appresso, sia un bando di esilio, sia un occulto pugnale.

Cec. Nientedimeno? Alla lontana dunque!

Fil. Oh calunniala sapienza dei nostri maggiori! E come dunque ressero tanto tempo quelle repubbliche, se erano così viziose? Come?

S. Bep. Come reggono le fabbriche sdrucite, che s’incatenano mercé un sistema di forze contrarie, di scarpe e di puntelli. Allora, invece di un solo uomo, che avesse braccio come mille, da mettersi in mano la cosa pubblica e riordinarla a suo modo, ve n’erano cento, che avevano forza ciascuno come dieci; e quindi quei cento si equilibravano tra loro, studiando ognuno, non ad impossessarsi del potere assoluto, che non poteva raggiungere, ma a contrastare agli altri, che non se ne impossessassero. Erano perciò repubbliche di despoti negativi, ai quali il popolo, vero sovrano, faceva le spese della sovranità. Ti piacerebbe, Filiberto, una repubblica di queste? E vorresti riconoscere in essa lo spirito repubblicano delle popolazioni d’Italia?

Cec. Non so più a chi credere? Uno la conta in un modo, l’altro in un altro. Ma per me tra acqua e vino scelgo sempre vino, perché almeno mi esilara, mi ravviva, e sembra, che mi faccia rinascere. L’è un fatto, che quante volte gl’italiani insorsero per un motivo qualunque, la prima aspirazione, che loro si presentò, fu di proclamar repubblica: e testimonii ne sono Masaniello, Cola da Arienzo ed altri. Io dunque sarò uno sciocco, ma non posso capacitarmi, che questo non sia stato il loro desiderio.

Fil. Hai detto adesso la prima cosa da saggio! E ne fan fede l’’entusiasmo, con cui furono accolte le proclamazioni repubblicane, che al principio di questo secolo ci recò la gloriosa aquila francese, non ancora corrotta dal dispotismo napoleonico.

S. Bep. Adesso ti sbagli, Filiberto. E non ricordi, che quelle repubbliche furonci regalale appunto da Napoleone, il quale volendo concitare i popoli, e renderli servi della dominazione francese, non poteva far di meglio, che gittare loro in bocca l’offa di una sedicente democrazia, la quale sfrenasse le passioni, sollevasse i più ardimentosi, eccitasse l’entusiasmo dei prodi verso i trionfi francesi, e formasse eserciti alleali, da spargere il sangue per le galliche ambizioni. Appresso poi, si sa, dovevano essere abbandonati nel più bello, per subire le sciagure dell’altrui improntitudine. Ah! trasanda, Filiberto mio, quelle malaugurate repubbliche,. merce non nostra, ma importala dall’estero, e quindi non adequata, perché né omogenea né spontanea. Venivano e scomparivano, come l’ombra, dietro il bagliore delle armi conquistatrici; venivano per apportare sciagura, e sparivano per lasciarne delle altre. Bastò appena un mezzo secolo di sosta per rinfrancare la povera Italia dalla scossa violenta ed esterna, che allora subì, e noi piangiamo ancora i figli nostri uccisi in Ispagna, in Italia, ad Austerlitz, a Vaterloo, a Marengo, e le nostre ricchezze artistiche portate ad arricchire la capitale della Francia. Per ciò poi che spetta al tipo repubblicano, che han preso le italiane insurrezioni, la è cosa naturale a spiegarsi, e non induce la conseguenza da voi pretesa. Ogni rivoluzione, anche dinastica, anche monarchica che sia, ha per suo primo effetto, di distruggere il potere costituito; e finché non ne ricostituisca un altro, deve momentaneamente restituire la sovranità al popolo,donde in origine emana. Succede così, che in un punto di passaggio, o in un punto doppio, come direbbero i matematici, il popolo trovasi al vertice dell’angolo, e in conseguenza non può non presentare la forma repubblicana. Di qui le allegrezze, le feste, le baldorie, e spesso le escandescenze e i soprusi, finché la maggioranza, librando le sue forze, ed accorgendosi di quanta libertà possa sostenere, non si avvia per mezzo dei suoi plebisciti verso il nuovo lato dell’angolo, accettando altro potere, e spesso invitandolo a costituirla. V’è ancora un’altra ragione; ed è, che in ogni passo, anche primo, che si faccia in qualunque direzione, chi lo fa, sempre si propone l’ultimo termine di essa, ch’è come l'obbiettivo e l’ideale della sua mossa; resta poi a vedere in pratica, se avrà le forte da fornire l’intero viaggio, o se dovrà fermarsi a mezza strada e anche prima. Cosi in una mossa di popolo, che scuote un giogo qualunque, il suo obbiettivo è sempre il più ampio termine, l’ultimo termine della libertà, cioè la repubblica; ma ciò non vuol dire, né che abbia forze da conseguirla, né che veramente intenda di giungere fino al termine. É, né più né meno, che il convalescente, il quale, come si sente aperto lo stomaco ad appetire, lamenta ogni pietanza, che sia scarsa, e pare voglia inghiottire una montagna; ma dopo pochi bocconi, le forze non gli bastano, e ricusa quello stesso, che gli parve poco. Mi capisci? Cosi si spiega, che le rivoluzioni sogliono essere sempre di forma repubblicana, mentre pure non v’è nel popolo effettivamente un’indole da repubblica..

Cec. Voi con la vostra facondia trovate ragioni da opporre ad ogni argomento, e sembrale di quei cantinieri, che ad ogni costo vogliono vendervi il proprio vino.

Fil. E così troverete da screditare, m’immagino, anche la repubblica romana e veneziana del 48, anche la celebre e storica repubblica di S’. Marino, che la sapienza dei nostri maggiori ci ha lasciato per tanti secoli in Italia, come un faro acceso, a dirigere il nostro corso.

S. Bep. Del quarantotto non sarebbe oggi opportuno di parlare. Ma contro il fatto della Repubblica di S. Marino non ho niente da opporre, e convengo teco, che sia veramente il faro di direzione.

Fil. Finalmente siamo d'accordo in una cosa!

Cec. Ne convenite?

S. Bep. Che sì, vi dico; e non so, come voi altri repubblicani precipitosi non sappiate ricopiare l'esempio proposto, e raggiungere quella felicità, che i nostri fratelli posseggono.

Fil. Appunto questo intendiamo; e perciò è, che si preparano danari ed armi, come vi dissi.

S. Bep. Pei danari fate bene; ma per le armi ohibò! a che servono?

Fil. Come? E si farà una repubblica così bonariamente e senza combattere?

S. Bep. Ma sentite, cari miei: la cosa mi sembra molto più facile, che non pensiate; A quanto mi diceste, voi siete un quattromila persone, che con donne e ragazzi giungerete alle 10 migliaia. Ebbene con quei danari, che vorreste spendere a fucili e cannoni, comperate dovechesia tanto di suolo, che abbia otto chilometri di circuito, quanti ne ha S. Marino. Riunitevi là dentro in casa vostra, separatevi da tutti gli altri, mettetevi a coltivare la terra. Uno dei coltivatori, eletto a suffragio universale, sia ciascun anno il presidente, il consolo della repubblica; cinque sieno impiegati, otto facciano da guardie repubblicane, munite di un buon cannone di legno. Formate il vostro codice, sancite, se vi piace, il socialismo perfetto e la comunanza dei beni; e senza una scossa al mondo avrete fatto la copia alla repubblica di S. Marino.

Fil. Voi dunque ci canzonate!

Cec. Ritiro la bevuta, che vi aveva offerto.

S. Bep. Ma in che modo canzonarvi, se vi offro quello stesso, che voi bramale? Secondo voi non è il numero, ma la forma sociale, che determina la società; ond’è che costituiste, come tipo di repubblica, quella di S. Marino. Ma dunque perché imporre con la forza questo governo all’Italia, che non lo vuole, e non ritenerlo per voi, mentre facilmente il potreste? Sareste come un orlo botanico di modello alla coltura dei campi altrui, e servireste da nuovo faro, a chi volesse salvarsi dal naufragio costituzionale. M’intendete?

Fil. Intendo, che siete in vena di celiare.

S. Bep. Ma se voi ne dite delle grosse? Quello stesso sacro rispetto, ovvero piuttosto quella indifferentissima noncuranza, con cui lutto un popolo guarda un rudero di antichità, che dicesi San Marino, dovrebbe dimostrarvi abbastanza, che la foggia di tali repubbliche non talenta a nessuno. E nemmeno (sia detto in confidenza) ai più ardenti repubblicani vostri Capi, ai quali niuno impedirebbe di ritirarsi colà, a fare il mestiere di contadini liberi, uguali ed indipendenti. Perché non ci vanno? Questo sarebbe il vero indizio d’indole repubblicana in Italia, accrescere a poco a poco i Sanmarinesi; non già che in tanti secoli sieno rimasti, quanti erano prima. Amici miei: la sapienza non pur dei maggiori, ma anche dei minori e degli uguali, è la logica, la quale dalla storia trae, non passionate e false, ma legittime e pacate conseguenze. Con questa logica alla mano dovrete convincervi, che l’Italia non potette avere e non ebbe una tendenza, che fosse in opposizione coi suoi costumi e col grado di coltura, a cui era arrivata, l'Italia non fu altro mai, che monarchica, acconciandosi anche un poco al dispotismo; perché l'indole rilasciala degl’italiani rendeva loro desiderabile quel governo, che se li togliesse in braccio, e facesse tulio da sé, per recarli dove che fosse. Furono sempre inchinali a deplorare il male, a chiedere il meglio; è naturale: e da ciò le continue rivolture. Ma non avviene altrettanto a chi viaggia senza stanchezza trasportato da un carro, che trova da lamentarsi per le scosse, e da sferzare i cavalli, che vanno lenti? Mettetelo però in terra, a camminare da sé, e dopo pochi passi rimonterà sul carro, che aveva maledetto, e seguiterà a maledirlo senza volerlo abbandonare.

Fil. E cosi dalla storia, sapienza dei nostri maggiori, che cosa trarremo?

Bep. Trarremo, che si cangino a poco a poco i costumi, che si curi l'attività, che con moderata libertà si educhi chi non v’era assuefatto, e la si renda tanto connaturale, finché sentasi il bisogno di ampliarla. Certo è, che l'Italia di adesso è qualche cosa di meglio politicamente e socialmente, che non era prima, di che dobbiamo rallegrarci. Ma è poca cosa ancora, e la miglioria deve confermarsi. Avanti, avanti, miei cari, nel progresso, nell’istruzione, nella moralità, nell’attività, nell’ubbidienza alle leggi, nel commercio, nelle invenzioni; avanti. Dove arriveremo? Il termine ultimo è noto; è l’obbiettivo, l’ideale, cioè la perfetta libertà. Quando arriveremo? Non giova né è possibile saperlo: arriveremo, quando avrem fornito il camino e quando la lena ci avrà assistito. Non le schioppettate dei sedicenti repubblicani, non le fisime di una storia stravolta, ma i nostri passi, il nostro progresso efficace ci dovran condurre. Voglia Dio, che tutti i popolani la capiscano, perché non abbiano a subire un tardo pentimento!

Cec. Sicché, sor Beppo mio, questo per voi è un vino grosso, che deve purificarsi, e non può essere per ora bevuto.

Bep. L’hai indovinata; e l’Italia lo sa, e non vuole introdurlo ancora, per non averne a soffrire mal di stomaco ed alterazione al cervello. Ma questo argomento da Carlino fu riservalo per sé, e non conviene defraudamelo. A proposito, come sta egli?

Cec. È guarito perfettamente, e verrà forse domani.

Bep. Dunque domani tratteremo anche di questo; e spero vi convincerete meco, che imporre adesso la repubblica all'Italia sarebbe la più sconvenevole, la più esiziale tirannia.

Fil. Ebbene vi ringraziamo per oggi, e domani ci rivedremo.

S. Bep. Ma siete persuasi?

Cec. Per me quasi quasi lo sono.

Fil. Per me, non ancora. Debbo più maturamente riflettere sulla sapienza dei nostri maggiori.

S. Bep. Rifletti adunque quanto ti piace, e comincia dalla sapienza dei nostri coetanei, i quali quanto al bisogno attuale, ne sanno più dei maggiori e dei posteri. Questi ti diranno, che non sono peranco in lena da agognare a repubblica, mentre si senton deboli per quella stessa libertà, che han conseguita: e se adesso è così, che lena potevansi avere, allorché erano men nutriti? Ti diranno, che pochi uomini forti ed entusiasti non bastano, a cangiare di un tratto le condizioni di una moltitudine; come pochi pedagoghi non riescono, a trasformare subitamente in uomini un popolo di fanciulli. Ti diranno, che il dispotismo sofferto dagl’italiani non è stato propriamente cagione della loro lassitudine, ma questa di quello; il dispotismo non si tollera a lungo dai forti, come gli adulti non soffrono tutore; sicché se gl’italiani il soffrirono, indicarono di non essere adulti a libertà. Ti diranno infine, che non, è tempo adesso di sfruttare le poche forze acquisiate in conati imprudenti e prematuri, ma di corroborarle con discreto esercizio e con opportuno riposo.

Fil. Son ragioni, a cui veramente non ho da opporre. Mi chiamo dunque per metà persuaso, e vi ringrazio.

S. Bep. Vanne pertanto, e ti auguro felicità.

Cec. Altrettanta a voi, sor Beppo.


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DIALOGO VII

Il numero dei repubblicani

SOR BEPPO, CARLINO, FILIBERTO, CECCO

S. Bep. Amici miei, siate i benvenuti. E tu finalmente, Carlino, ci hai rallegrato di tua presenza. Come ti senti?

Carl. Corpo d’un cannone a mitraglia! La febbre m’avea colpito a dovere; ma io l’ho fatta stare a suo posto, e l’ho licenziala bruscamente.

Cec. Se avesse dato retta a me, con un litro del poderoso si sarebbe più presto liberato.

Fil. Ma intanto sta bene, ed io ne godo, anche perché potremo trattare il suo tema, che farà seguito al nostro.

Car. Si, sor Beppo; dice bene Filiberto. Essi m’han riferito gli altri colloqui, ed io, corpo di una bomba all’Orsini! non vedeva l’ora di tornare all’assalto.

S. Bep. Ahimè! tieni un cannone carico, mi sembra! Eccomi dunque a te: smaschera le tue batterie, ed apri il fuoco.

Cor. Anzi tocca a voi a cominciare, corpo della Luna! Non diceste, che l’Italia d’adesso non è disposta a secondare il grido di repubblica? Dimostratelo dunque, se il potete; corpo dei fucili ad ago!

S. Bep. Eccomi a farlo; e cominciamo la dimostrazione dalla stampa, ch'è la voce della nazione. La voce è certo un grande indizio dell’interna disposizione, della genuina vitalità. Ditemi, amici miei: leggete giornalmente il Popolo d'Italia?

Carl. Giornalmente io no; perché quelle tali cose già le so tutte a memoria. Lo prendo qualche volta, per leggere i dispacci, e anche, corpo dei tartufi! perché bisogna sostenerlo, come giornale del nostro colore. Ma poi mi diletto più a leggere il notiziario del Pungolo, e le scappale del Roma, che tanto mi divertono.

Cec. Noi leggiamo II Popolo d'Italia alla cantina, quando siamo grulli, e ci vogliamo eccitare con quelle frasi. vibrate repubblicane, a cui sogliamo far plauso.

Fil. Io leggo invece la storia....

S. Bep.... sapienza dei nostri maggiori: s’intendeva. Or capile, miei cari, che la domanda tendeva a farvi comprendere quanti poi fra noi sieno i lettori di quel giornale, che pure in Napoli è il Nestore degli altri, che non ha cangiato mai di bandiera, e che si fa distinguere per incisione di concetti ed acrimonia di frasi, le quali sogliono tenersi forte stuzzichino della lettura. Come dunque può ammettersi, che in Napoli vi sia, non dirò una maggioranza, ma nemmeno un forte partito repubblicano, quando il giornale, che n’è la voce, non ha se non un mediocre spaccio, assorbito forse più dalle altre provincie, che dalla nostra? La voce languida è segno di scarsa vitalità: voi m’intendete. E se i lettori di quel giornale stanno al complesso di tutti i lettori degli altri, come uno a cento, capite che il partito repubblicano può ben tenersi tra noi, come la centesima parte. Altrettanti n’ha in proporzione l’Italia.

Carl. Corpo di tutte le sassate! E come potrebbe quel povero Popolo d'Italia, uno com’è, far concorrenza a tanti giornalacci sussidiati e protetti, mentr’esso ha più sequestri, che non numeri, e mentre deve navigare a contr’acqua, per inoltrarsi di un metro?

S. Bep. Di sussidi non parliamo, perché vi sono altri giornali, che neppur ne hanno. I sequestri poi, lo sapete, ad un giornale, che sia veramente in credito, fanno bene anziché male; ed è nolo, qual alto prezzo abbian fatto le copie dei giornali sequestrali, quando clandestinamente si vendettero. Anzi, se io fossi il Fisco, o se potessi fare la legge a modo mio, non ammetterei né sequestri né incriminazioni, e làscerei che l'acqua corresse pel suo pendio.

Cec. Questo ci vorrebbe, sor Beppo! Allora si spillerebbero tutte le bolli, e succederebbe una vera cuccagna repubblicana.

S. Bep. Niente di tutto ciò. La pubblica opinione è acqua, che quando non sia arginata, si fa strada da sé.

Sorgano pure cento giornali arrabbiati, facciano quanto furore si voglia per qualche tempo; se la maggioranza non ha quelle opinioni, li leggerà da principio per curiosità, per avere un eccitamento nell’apatia, per quel gusto, che si prova alla caustica mordacità contro il presente, come si condisce talora con senapa il lesso a stuzzicare il palato. Ma mangiar sempre senapa non si può; e cosi quei tali giornaletti o giornaloni a poco a poco perderanno di avventori, resteranno come libri di biblioteca, per chi voglia consultarli alcuna volta ad erudizione, ed infine dovranno cadere per asfisia o per inedia.

Fil. Ma il Fisco, sor Beppo mio, ha naso più lungo. Egli sa dalla storia, che la stampa è il primo mezzo, usato dalle rivoluzioni, per ispingersi avanti; e conosce, che la luce, se non chiudete le porte, penetra da per tutto, e le mele, poste a contatto, si maturano l’una con l’altra.

Bep. Mi spiace, Filiberto, che qui digrediamo un poco dal tema; ma vale la pena di farlo. Io non penso, che il Fisco si regoli saggiamente nel suo intento. Se chiudi le porte alla luce, quel poco, che sempre n’entra per gli spiragli, dopo qualche tempo basterà, a farti scorgere tutto, com’è; e la stampa, ch’è mezzo di rivoluzione, è anche di conservazione, quando questa e non quella dalle masse del popolo si desideri. Infine chi è, che deve fare le rivoluzioni, se non gli uomini? 0 dunque questi in vera maggioranza chiedono la repubblica, e non v’è né Fisco né Cannone, che possa impedirla; o non la chiedono, ed allora le diatribe giornalistiche giungeranno alle loro orecchie, come il segno della sveglia alle orecchie dell’assonnato. Dirà taluno, che il male si ammette e si crede più facilmente del bene? Ma già osservammo, che la forma di. governo non è né bene, né male, se non relativamente alle condizioni del popolo. Il popolo è desso il giudice sincero delle sue forze, più che noi sia il Fisco; ed il popolo saprà condannare alla morte quei giornali, in cui s’insinuino risoluzioni, da lui non ammesse. Badi i solamente il Governo, che una minoranza fanatica non s’imponga con la forza alla pacifica maggioranza del popolo, questo sì; e quanto poi a libertà di stampa, non ne tema, la dia intera, e tenga certo, che non travolgerà la pubblica coscienza. Volete sentirla? Per me tengo, che nello stato attuale d’Italia se sorgessero ogni giorno cento giornali repubblicani, altrettanti ne cederebbero giornalmente dopo un mese..

Carl. Ma, corpo di mille accidenti! donde lo argomentale?

S. Bep. Da quelli che ci abbiamo, che son pochissimi e appena letti da un numero scarsissimo, più ad indicare, che viva tra noi qualche anima repubblicana, più per far eco a quei di oltremonti ed oltremare, anziché a dichiarazione di un vero partito, che esista. Lo argomento pure dallo stesso loro stile acre e veemente, ciò che indica il corruccio di non vedersi secondati dal popolo. A voi certamente è avvenuto di assistere a qualche riunione, dove vi fossero disputanti in tutti i tuoni. Ebbene che ne pensaste? Se l’uno parlava pacatamente, con dignità, senza paroloni e parolacce, diceste subito, che colui si sentiva forte, e conosceva d’essere accetto a' suoi uditori. Se poi un altro si scalmava, e strepitava, e gridava, e mandava il canchero a costui e a colui, lo teneste indizio di poca approvazione, e difatti vi accorgeste, che in ascoltarlo, o si rideva o si facevano le boccacce. Quando dunque i giornali repubblicani sono pochissimi, quando son letti da pochi, e da quei pochi medesimi non son bene accolti, qual più certa dimostrazione, che la pluralità del popolo non ne vuol sentire la voce, e quindi non aspira al loro intento?

Cec. È la verità. Un vino rifiutato da tutti, o è acetoso, o annacquato, o misturato.

Carl. Io, per Satanasso! non ci posso stare. Ma il popolo non legge nemmeno gli schifosissimi giornali del Governo, come sono per esempio la Patria, la Nazione, l’ Opinione. E perché non ne inferite, che non voglia neanche l’attuale Governo?

S. Bep. Quanto al titolo di schifosi, che adoperasti, ne inferisco, che ogni partito estremo, non sa far altro, che regalarne a' suoi avversari; non dovete quindi adontarvi, quando altri in ricambio chiami schifosi i giornali del vostro colore. Quanto al fatto, ecco come va la faccenda. I giornali repubblicani almeno han questo pregio, di essersi elevati alla quistion di principii, poco o nulla curandosi delle personalità. Essi non ripruovano i falli, ma la forma governativa, di cui tengono come necessario effetto tutto ciò, che hanno a ripruovare. Al contrario i giornali di partito moderato, o conservatori, per lo più hanno il torto di attaccarsi a sostenere i fatti e le persone, anziché la forma. Avviene quindi, che per difendere questa, credono di poterlo fare lodando sempre i ministri attuali e il loro operato. Il popolo però, che riprova i falli, che ravvisa. gli errori del Governo, non sa applaudire a chi scambia governanti con forma governativa, a chi crede di esaltare l’una, millantando le intemperanze degli altri. Abborre perciò da quei giornali, e se ne aliena, non pel principio che sostengono, ma pel modo, onde lo sostengono. Se però fosse sorto in Italia un giornale a modo, che avesse saputo trattare per alti principii la quistione costituzionale, senza infangarsi nella melma del partegianesimo, allora secondo me si sarebbe veduta la gran maggioranza del popolo fargli buon viso, e si sarebbe scorto, quanto impercettibile frazione sia quella dei repubblicani.

Fil. Approvo. La storia mette le quistioni di principii innanzi a quelle delle persone.

Carl. Ed io disapprovo;perché il fatto m’insegna, che i il Governo ha una maledettissima paura di noi. Di qui ne deduco, che dobbiamo esser molti, perché, corpo: delle frustale! se ci sapesse così pochi, non avrebbe di che temere.

S. Bep. Carlino mio, la tua conseguenza non tiene.; Tu hai paura di un fiammifero, che non ti mandi in; fuoco la casa, eppure tutta la casa insieme con te siete immensamente più di un fiammifero. Ma a distruggere anche i maestosi templi di Diana basta un solo Ero£ strato e un’ora sola, mentre ad edificarli ci vogliono anni con centinaia di opere. L’azione non è come la stampa, e specialmente l'azione repubblicana, tanto più energica, quanto più ristretta a pochi. Mi dicevi giorni indietro, che eravate delle migliaia, tutta gioventù, non tutta morigerata ed onesta, e senza ricchezze da perdere, senza posti lucrosi da abbandonare. E sai, che vuol dire ciò? Vuol dire, che ad una occasione voi soli, comeché tremila o quattromila, potreste imporvi a tutta Napoli, che conta più di mezzo milione. Slanciati che siate una volta a capo in giù nella mischia, non potendo più ritrarvi, dovreste o vincere o morire; e quindi ne varreste almeno il quadruplo di quanti siete; equivarreste cioè a sedici mila. Vi assisterebbe inoltre l’entusiasmo, il fanatismo, la monomania di chi si spinge alla creazione di qualche cosa; e questa vi triplicherebbe a quarantotto mila. Scevri poi del codazzo e dei ritegni di fanciulli, di donne, di vecchi, di uomini attempati, di timidi, di esitanti, d'infermi, di solleciti a custodire il proprio, di addetti a lavorare per vivere, e di ritenuti indietro per ragioni di ufficio, varreste dieci volle tanto, cioè quattrocentottantamila; e questo numero morale, bene armato, impetuoso, secondato da adepti al di dentro e da aiuti al di fuori, non dovrebbe necessariamente superare il mezzo milione dei napolitani? Però spieghiamoci: supererebbe con un colpo di roano, con la forza, con l’impelo, non conia ragion del numero effettivo; e quindi il loro trionfo sarebbe a danno della sovranità popolare, come altra volta dicemmo. Il timore quindi, che si ha di voi, non pur dal Governo, ma altresì da tutte le classi di cittadini, e l’acquiescenza di molti alle vostre insinuazioni, non dovete prenderle, come moneta contante di maggioranza, o materiale o morale, ma come voglia di non compromettersi con voi, i quali all’occasione potreste punire, chi vi fosse stato restio. Persuadetevi, che se i repubblicani non arrivassero ad altro, che ad un decimo dell’intera popolazione italiana, a quest’ora sarebbero già usciti mille volte in campo, e cento volte avrebbero obbligalo gli altri a cingere il berretto rosso e a piantare l’albero della libertà. Ma voi non vi moveste finora? E non vedete, dunque che siete pochissimi?

Carl. Pochissimi a muoverci sì; ma a desiderare, corpo di mille tempeste! non siamo tanto pochi.

Cec. Se vedeste la sera, sor Beppo, quanti repubblicani vengono a bere e bevono di cuore alla proclamazione della repubblica!

S. Bep. Sì, repubblicani da osteria!

Fil. E che volete dire con ciò? Non ci andiamo anche noi, che pure siamo repubblicani di buona fede?

S. Bep. Filiberto mio, oh quanti gridano repubblica, e non sanno altro di essa, che il nudo vocabolo! Repubblica per mollissimi è la manna degli ebrei, che dicevasi forgila di tutti i sapori. I detenuti in carcere la prendono come sinonimo di escarcerazione, i facinorosi come impunità, i poveri come ricchezza, gli ambiziosi come dominio, i libertini come libertinaggio. Fra tutti quelli, che bevono e fanno brindisi, la più parte beve alla proprie passioni, pochissimi ad onore della vera repubblica. E questi stessi pochi non tutti sono convinti della opportunità, della utilità sua, ma il fanno per la smania delle cose nuove e non ancora sperimentate. Diceva un cotal frate: qual è in un refettorio di monaci la miglior pietanza? e rispondeva: Quella del compagno vicino; e quale la miglior cella? Quella, ove non si è mai abitato.

Cec. È lo stesso, che diciamo noi: Il miglior vino è quello di una cantina lontana....

Fil. Dì piuttosto la frase proverbiale: La moglie dell’amico è la più bella.

S. Bep. Or sapete tutto questo, e non capite, che molti dei repubblicofili sono quelli, che vorrebbero la repubblica solo per un giorno, per appagare la voglia di averla saggiata, e poi ritornare allo stato attuale?

Carl. Di questi, per la malora! non ne conosco. Ma sì di molti disperati, che poveracci sono repubblicani per calcolo, e non hanno altre speranze che la repubblica. Corpo di mille diavoli! che hanno a fare costoro? Essi la ragionano così: Nello stato attuale per noi non v’è ad aspettare altro, che debiti, angustie, disprezzo, umiliazione. Di lavoro non vogliamo sentirne, perché non ne traggiamo quanto ci bisogna. Di aiuti e di fortune non v’è donde aspettarne. La nostra è una vita di morte; e a che protrarla in questo modo? Dunque gittiamoci nel nuovo; e se non altro ci renderemo importanti, e dai nuovi correligionari potremo avere soccorso. Riuscendo, si arriverà in quel posto, a cui altre rivoluzioni condussero gli attuali gaudenti. Non riuscendo, una palla in petto e felice notte; almeno non soffriremo più, ed avremo la gloria di esser morti per un principio. Corpo della miseria! la sbagliano essi?

S. Bep. Non so, se la sbaglino. So però, che questi non sono repubblicani, da tenerne conto. Che diresti tu di quegli americani, che per simiglianti motivi di disperazione bramassero la monarchia? Eh! dei disperati, degli scontenti, degli ambiziosi, dei pretensori ve n’ha per tutto; ma la disperazione e lo scontento Don son repubblica. Or togline questi, togline i vagheggiatori del nuovo, togline i compromessi, che non possono più retrocedere senza smacco, togline i pochi entusiasti, che vagheggiano un mero ideale, pupi dire, che tutto il rimanente tanto numeroso approvi nella maggior parte la repubblica?

Carl. Non posso dirlo; e neanche voi potete dire, che la disapprovi.

S. Bep. E perché? Nel caso nostro v’è forse un mezzo tra l’approvare e il disapprovare?

Fil. Oh in quanto a questo poi do ragione a sor Beppo. La storia dice: Chi non è meco è contro di me.

Carl. Dai ragione alla maledizione, che ti piglia! Corpo di mille sanguisughe! non capisci, che nella pretesa maggioranza ci son l’esercito, gl'impiegati, gli affiliati al Governo, la cui ripruovazione non conta per nulla, perché a ripruovare fan la causa loro? Tutti questi, che sono i nove decimi, corpo di Bacco! s’hanno da escludere.

S. Bep. Ma perché escluderli? Non sono essi cittadini? Non hanno dritto a dare il loro volo, come ogni altro? Ed ogni governo, anche repubblicano, non ha i suoi militi, i suoi impiegati?

Carl. Sì: ma per la Befana! non sono cosi accentrati al potere, come i nostri, ai quali a rigore non saprei dare il titolo di cittadini!!

S. Bep. Davvero? Carlino, dammi in prestito uno dei tuoi corpi di bombe, perché qui si assesta a capello. È curiosa questa! L’esercito, quando era da voi sospinto al Quadrilatero, per pigliarsi addosso un corpo di mille bombe e di centomila baionette, allora era composto di cittadini, di patrioti, di eroi; e quando ha da dire la sua opinione riguardo alla forma di governo, le sue bombe e le sue baionette sono vendute! Ti sembra? La burocrazia, quando deve tutto il giorno sfiacchirsi, a portare innanzi amministrazione e contabilità, fa il suo dovere; e quando ha da esprimere il suo parere sulla comune bisogna, non n’ha dritto! E se questo esercito e se questa burocrazia, tutto in acconcio ai vostri desideri, si dichiarasse per la repubblica, allora sarebbero applauditi e ne avrebbero il dritto? se agiranno invece in altro senso, saranno schiavi del potere? Un poco di logica, cari miei, e scorgerete la futilità di tali obbiezioni. Il fatto è, e non potrete negarlo, che la maggioranza, chi per un motivo e chi per un altro, non vuol sentirne di repubblicanismo,e per quanto vi sbraitiate a predicarlo, fa orecchi di mercante. L’esercito per disciplina, gl'impiegali per interesse, i negozianti per paura, gli artigiani per sospetto di peggio, gl’intelligenti perché manodotti dalla storia e dalla logica, gl'ignoranti perché atterriti dalle esorbitanze dell’89, alcuni per lassitudine, altri per calcolo, parecchi per corruzione, non pochi per indolenza; ma infatti, Carlino mio, il plebiscito antecedente, non. è favorevole, è contrario; e per conseguenza il concomitante effettivamente non vi sarebbe; sicché una repubblica adesso sarebbe un’imposizione tirannica, dispotica, non un compimento di legittime aspirazioni.

Carl. Corpo del diluvio universale! vi concedo il fatto. Ma voi in cambio concedetemi almeno la possibilità. Potrebbe l’Italia sostenere la repubblica, se le si desse?

S. Bep. Mi dispiace, che neanche in questo posso appagarti; perché ritengo, che l’Italia, com’è di presente, non potrebbe sostenerla. Tu ne vorrai la dimostrazione, ed è giusto: ma dobbiamo differirla a un altro giorno, che ci darà più agio di trattarne. Per oggi ci ho una faccenduola, e non potrei più indugiare. Mi date permesso?

Carl. Corpo della repubblica! libertà per tutti, sor Beppo.

Fil. Torneremo di bel nuovo, dopo aver consultata la sapienza dei nostri maggiori.

Cec. E ci rinfrancheremo frattanto da tante parole con qualche goccio di Gragnano.


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DIALOGO VIII

Lo spirito repubblicano d'Italia

SOR BEPPO, TOMO, CARLINO, FILIBERTO, CECCO

Ton. Eccoci tutti a voi, ser Beppo: sicché quest’oggi avrete seduta piena. Vi chieggo poi scusa della mia assenza, alla quale mi costrinse un certo domestico affare.

S. Bep. Non hai, di che scusarli, Tonio. Da bravi, prendete posto, e torniamo alle nostre discussioni. Sapete, che cosa in questo punto leggeva io?

Fil. Qualche storia?

S. Bep. Appunto; ed è quella di Giannone; che asserisce dell’Italia meridionale ciò, che potrebbe proporzionatamente adattarsi anche alla settentrionale.

Carl. Corpo di cento Giannoni! che cosa dice di noi?

S. Bep. Quello, che anche giornali inglesi accreditatissimi testé han ripetuto, e che disgraziatamente è vero: Udite: Tanto sono facili a cercar cambiamenti politici, quanto difficili a mantenerli. Indecorosa sentenza; che non depone per noi troppo bene in riguardo all’altitudine per la libertà!

Ton. Non ci veggo poi nulla di strano in questa nostra condotta. Il cambiamento cercasi, per aver di meglio; e se invece si trova il peggio, cerio non si può aver gusto a conservarlo.

Carl. Corpo di mille diavoli! Ecco approvato da Giannone il mio argomento a favore della repubblica. Qualunque cambiamento ci abbiamo, non saracci mai gradito, finché non giungeremo là.... mi capite?... là.

Cec. Là, veh!... non al Marsala di Garibaldi, ma a qualche altro emporio di vini più poderosi.

S. Bep. Io per me la penso diversamente. Mi avviso, che cambiare strada cento volle per dirigersi sempre ad un punto, vale altrettanto, che mai non arrivare. E da questa irresolutezza, che hanno gl'italiani i deduco, ch'essi in effetti non possono sostenere la repubblica, anche volendo.

Tutti. Oh, Oh!

Carl. Corpo di mille, fulmini! questa la è grossa!

Fil. La storia contemporanea ci mostra coi fatti di Turino, di Palermo, di S. Donnino, di Milano e di altrove, che lo spirito repubblicano vi è; e tutto al più manca ancora dell'energia necessaria ad essere attuato.

S. Bep. Non mi parlate di spirito vi prego; perché vi risponderei con Cecco, che uno spirito, si presto svaporante, potrà essere buono solamente ad ardere ed a destare incendio distruttore. Veniamo piuttosto alla pruova dei fatti. Io non so intendere altrimenti la repubblica, che per la più ampia, e maschia, e sentita libertà; né so definire la libertà, se non in quel senso, in cui gl'italiani attualmente la schivano.

Ton. La schivano? Questo mi par troppo.

Carl. Corpo di mille frustale! e si dirà, che schivino la libertà coloro, che la cercano così ardentemente nella stampa, nei meeting, nelle dimostrazioni, nelle radunanze, nel commercio, nella magistratura, nella inviolabilità domestica, nella rettitudine del governo? Per mille anatemi! se non sono gl’italiani a procacciare la libertà, non so veramente, chi altri la procacci.

S. Bep. Ed io invece ho tre indizi chiarissimi,che non la si cerchi, che anzi si eviti, almeno in tanta ampiezza, quanta dev’esservene in una repubblica. Eccovi il primo indizio. Le cose enumerate da Carlino, a ben pensarne, non sono proprio il fine della libertà, ma taluni dei mezzi, adoperali a conseguirla. Supponiamo, che ad un carcerato si permetta di dire tutto ciò, che voglia, di rivolgersi a cui gli piaccia, di non introdurre in corpo suo se non quello, che gli aggrada, e di maledire chi lo tiene incatenato, a cui possa dare dell’oppressore e del tiranno; con tutto questo finché non gli si consenta, di provvedere da sé ai propri bisogni liberamente e senza ostacoli, lo direte voi libero? j

Fil. Nò da vero: ma a che mira codesto?

Cec. Anch’io non sarò mai padrone assoluto del vino, finché non ne disponga a senno mio.

S. Bep. Bravo, Cecco, col tuo perenne vino! Or fa conto, che il popolo non può essere mai padrone assoluto di sé, finché non sia buono a disporre a senno suo delle sue sorti, ciò che succede per via dell' Urna. La libertà di stampa è la voce; la libertà della magistratura è il diritto; la libertà di domicilio e di riunione è l’indipendenza personale; la libertà di commercio è l'alimento; ma voce, diritto, indipendenza, alimento, tornano a nulla per la libertà se non vi sia il mezzo, che dà l'urna a decidere popolarmente sull’andamento delle faccende comuni.

Ton. E chi mai nega, che in questo esercizio cittadino consista la vera libertà, che noi abbiamo in cima ai pensieri?

S. Bep. Lo nega tuttodì il popolo italiano, Che per indolenza e per apatia, non si accosta all’urna, e con ciò mostra, di non intendere, quale sia il vero, il potissimo dritto di un popolo libero. Oh! come deploriamo tuttodì la scarsezza dei volanti alle elezioni. È una vergogna, che i nostri deputali risultino eletti tutto al più con un centinaio di voti! È un orrore, che in questa città di mezzo milione, i consiglieri del Comune per lo più non raggiungano il migliaio e mezzo di voti! E questo si chiama aver la libertà in cima ai pensieri? o non piuttosto metterla sotto dei piedi?

Cec. Bisogna però tener conto delle occupazioni, delle faccende domestiche.... Anch’io per esempio....

S. Bep. Anche tu sei affaccendato, è vero? Ma le faccende domestiche, a quel che sento, non ti vietano di spendere giornalmente qualche ora e qualche soldo alla bettola; ti ritraggono solamente dal cittadino dovere di votare ogni tanto tempo una volta in giorno di festa! E non è questo un segnale, che l'urna per le valga meno del fiasco, e la bettola più della repubblica? Sei tu, elettore, Cecco?

Cec. Questo voleva dirvi. Due anni indietro, lo era; ma da che mi vidi per errore scancellato dalle liste, pensai, che tornasse meglio risparmiare tempo ed impicci, e non curai di reclamare per la correzione.

S. Bep. E voi altri lo siete?

Ton. Io si; ma confesso di non essere mai andato a votare, perché mi fa tedio.

Fil. Ci andai due volle, e vedendo, che risultavano sempre gli stessi eletti, pensai all’adagio, che dice: Lavar la testa all’asino, è sciupare ranno e sapone.

Car. Ed io, corpo della forca! fui per compromettermi una volta con taluni, che non vollero volare meco per Mazzini, e così pensai meglio di lasciarli perdere e di ritrarmi.

S. Bep. Voi dunque siete quattro elettori, che non votale; e nella repubblica, credete a me, neanche votereste, tuttoché fieri repubblicani.

Ton. E perché?

S. Bep. Perché anche nella repubblica potreste essere per errore stralciati, potreste veder risultare sempre gli stessi, potreste farvi prendere dal tedio, potreste compromettervi con chi non votasse a senso vostro. E poi direte mai veramente affamalo colui, che rifiuta il discreto cibo offertogli, sol perché è poco?

Ton. Ma, sor Beppo mio, tenete conto dei bisogni privat i,...

S. Bep. Così è appunto: voi mettete i bisogni privati avanti ai pubblici, mentre nella repubblica il bene pubblico deve anteporsi al privato: voi ai fatti vi sconfessate repubblicani. E se ciò può dirsi dei più convinti, dei più ardenti per la libertà, quali voi siete, che avverrà degli altri, ai quali il vero ideale è il ventre, e la vera repubblica è la propria comodità? Sicché noi ci abbiamo un popolo, che non conosce il valore dell’urna, e quindi non intende, che cosa sia in verità il libero vivere. Se ne deduce dunque, mi sembra, che non può aspirare alla repubblica. È questo un fatto costante, evidentissimo, apodittico, al quale, se ben riflettete, non v’è, che opporre.

Car. V’è, che opporre sicuro; corpo della California! Il popolo è nausealo dell’attuale Governo, che tante e poi tante ne ha falle. È affamato inoltre per le tasse, che gli piovvero addosso alla dirotta, ed è indispettito pei soprusi, che soffre contro la libertà. Nauseato, affamato, indispettito, corpo di una cometa! non pensa più che tanto ad elezioni e ad urna; c’è altro a che pensare.

S. Bep. Ma (voglio dirla anch’io), corpo di tutti i sofismi! Comprendi tu, che ti avvolgi in un circolo di contradizioni? 11 nauseato degli errori governativi dovrebbe cercare il mezzo, da torsi la nausea, mandando migliori uomini al governo. L’affamato per le tasse dovrebbe scegliere migliori deputati, che ne lo sgravino. L’indispettito pei soprusi sarebbe spinto, a cercare nell’elezione uomini capaci di cessarli. Com’è dunque, se non per indolenza, che questo popolo, voluto repubblicano, scansi l’urna, nella quale sola dovrebbe ravvisare il mezzo legale per difendersi dagli aggravi? Mi sembra proprio il caso di quella tale barocca decisione: Il pane s’è arso nel forno, dunque chiudansi i forni, e non si faccia più pane. Che metodo di slogizzare è codesto?

Fil. Voi però sapete, che da pochi non si decide dei molli, e la storia ce n’è maestra. Gli elettori attualmente sono pochissimi, mentre nelle repubbliche sarebbero lutti; fra' quali è da credere, che moltissimi vincerebbero la pigrizia, per recarsi all’urna.

Cec. E poi che sappiamo noi attualmente dei deputati da eleggersi, se ci presentano le note belle e compilale? Se si trattasse di carichi di vino si, darei il mio voto; me sugli onorevoli, uffh! Voterò senza consultar le note? Tant’è, che non vada: il mio voto è perduto. Le consulterò? Sarà lo stesso ad andare o non andare, sempre quelli risulteranno.

Car. Mettete altresì, corpo della grancassa! che un voto di più o di meno non influisce nell’elezione.

Ton. Aggiungete pure, sor Beppo, che il Governo nella elezione adopera tutte le arti corruttive, con pressioni, con minacce, con promesse, con cabale; e perciò chi si sente onesto, tiene per più dignitoso l’astenersi dal volare.

S. Bep. Ragioni frivole, scuse mendicate, che non valgono nulla a giustificare l’astinenza degli elettori, e quindi non depongono in favore dello spirito repubblicano! Se gli elettori adesso son pochi, son certamente i più istruiti, i più colli, quelli che più accuratamente dovriano custodire il palladio della libertà. Quando dunque questi disertano dall'urna, quando uomini, come voi quattro, non sentono il bisogno di affermare la libertà col loro volo, dagli altri di minor conto, oh! dovrebbe aspettarsene peggio. Su via, siamo sinceri: sono altri i veri motivi di tanto male. Voi stessi confessaste testé la pigrizia, il tedio; e pigrizia e tedio, se non erro, succedono per le cose non desiderate, non importanti, [delle quali tiensi di poter fare a meno. Dunque conchiudiamo, che per gl’italiani in questo numero viene a ritenersi la libertà. Voi medesimi vi dichiarate inetti a votare su persone ignote; e ciò dimostra, non esservi spirito di vita pubblica, poiché non si cerca d’investigare le persone, più atte a sostenerla. Parlate delle note? Ebbene le note si fanno in doppia e tripla versione, secondo i diversi colori politici: perché non ne scegliete una a votare? Queste note si compilano nelle sessioni preparatorie, aperte a lutti: perché non v’interveniste in molti, per chiudere l’adito ai pochi mestatori? Che se ogni volo è un solo, ogni popolo libero deve capire, che delle unità si formano le migliaia. Quanto poi al Governo, che briga nelle elezioni, o la obbiettata corruzione è una invenzione dei suoi avversari, e allora non avreste ragione di astenervi; o è vera, e allora dovrem confessare vergognosi, di avere una maggioranza di elettori corruttibili, i quali se sono tali nell’attuale costituzione, non è a pensare, che sarebbero diversi in un governo repubblicano. Com’è, dico io, che niuno si arrischiò mai di corrompere il miò voto? e in che modo, tranne che per marcia ignoranza dei votanti, potrebbe il Governo incutere timori o destare speranze? La votazione è occulta, e non potran mai sapersene i veri autori, se ciascuno noi dica. Quindi ognuno, anche timido o speranzoso, ha il mezzo per cavarsi d’impaccio, con promettere tutto ciò, che si vuole, e dare poi il volo secondo coscienza. Sicché comunque raggiriate la cosa, non potrete uscire da questo dilemma:, 0 il popolo italiano non pregia ancora la libertà dell’urna, ond’è, che se ne astiene, ed egli non è maturo all’assoluta libertà; o non comprende, che in quella è sita la sua condizione di libero popolo, ond’è, che non la cura, ed anche per questa ignoranza non può veramente aspirare alla repubblica.

Car. La vera colpa è dei maledetti partiti, corpo dell’inferno! Essi sono, che intorbidano la faccenda delle elezioni; ed io la farei finita in una volta. Olà; accordatevi tutti a promuovere la libertà nel popolo, ovvero, corpo delle Furie! tutti avanti alla bocca di un cannone.

S. Bep. Bello espediente!

Cec. Senza cannoni, se fosse a me, raggiusterei più presto. Nel vino naufragano gli sdegni; dunque tutti insieme a bere, e tutti saranno amici.

S. Bep. Anche questa è una felice idea. Ma sappiate, che non è mestieri incomodarsi con cannoni e vino, mentre i partiti da sé non sono dannosi, ed anzi possono divenire vantaggiosi allo Stato. Il malanno sta nella loro intolleranza, ch'è appunto il secondo indizio di un popolo, inetto a sostenere la repubblica.

Fil. E in che mettete voi questa intolleranza?

Ton. Siamo tanto tolleranti noi delle busse, che neanche un somiere ne porterebbe altrettante.

S. Bep. Non parlo di questo; ma della tolleranza politica, anzi del rispetto, che si ha da avere nei governi liberi all’opinione altrui, e che malauguratamente Ira noi poco si conosce. V’è per esempio chi parteggi per la repubblica? ebbene gli altri gli danno addosso, e lo caricano d’ingiurie, chiamandolo questo e quello, e mettendolo in voce di tristo furfante, di uom da galera. V’è poi, chi sta per la costituzione? ed ecco i repubblicani ad arrabbiarsi contro di lui, a dargli dello schifoso, del venduto, del corrotto, e a cercare tutti i mezzi da screditarlo. Né ciò solamente avviene d’individuo contro individuo, ma di intero partito contro partito, fino ad alti tali d’intrigo e di calunnia, da emulare le più indegne trame del dispotismo. Questa è intolleranza, miei cari, nemica acerrima della libertà, e sicuro indizio, che un popolo non abbia forze da sostenerla in sè, poiché non sa rispettarla in altri.

Car. Eppure io credeva, corpo delle mignatte! che quel calore di partito fosse argomento di sentilo amore pel libero governo; e che la stessa libertà aiutasse ad impugnare il partito avverso..

S. Bep. Calore non è incendio; sentir amore non è monomania; impugnare non è distruggere. Dunque impugnare, non è vietalo; ma nel farlo s’ha da comprendere, che l'avversario politico sta nel proprio dritto, e quella libertà, che a voi permette di parlare a vostro modo, la stessa permette a lui di sostenere altrimenti. Quindi una tale intolleranza, che spinga fino alla maldicenza, alla rabbia per l’altrui dissentire, è un negare asfalti la libertà del concittadino, ovvero il volerla distruggere. Negarla a lui, per asserirla a voi, sa del dispotismo; volerla distruggere è pretta tirannia. Nell’uno o nell'altro caso l’intolleranle è nemico della libertà, e mostra, che quanta più ne avesse, più egli crescerebbe nel suo difetto.

Ton. Dite, sor Beppo; e l’è poi così, che in Italia si sia generalmente intolleranti?

S. Bep. Così non fosse! Basta leggere sette od olio giornali di colori diversi; basta rammentarsi di molle e molle tempestose sedule del nostro Parlamento, basta assistere ad una qualunque discussione in materia politica, anche tra pochi, anche tra due persone, per convincersi, che lo spirito d’intolleranza ci sta profondamente dentro delle ossa. Il vocabolario delle ingiurie giornalistiche s’è aumentalo vergognosamente. Le trame ordinale a discredito pubblico dell’uno e dell’altro sono notorie. Province contro province, scrittori contro scrittori, capipartito alle prese fra loro, l’è una miseria!

Fil. E in che rifondete voi la colpa di questa intolleranza?

S. Bep. La colpa sta un poco nell’indole italiana, finché non si modifichi col lungo uso della libertà, un poco nell’eredità lasciataci dal dispotismo dei caduti governi. L’indole degl’italiani è veemente, impetuosa, entusiastica; e quindi attaccala che abbia una quistione qualunque, non si ritrae, finché non la spinga all’ultimo; e lo fa con tale ardore, che per lo contrasto si commuove, e per la resistenza inveisce. Altronde avvezzi per tanti secoli al dispotismo, usi a tenere col fatto, che quelli fossero uomini da qualche cosa, ai quali non si osava di opporre, e se ne accettavano, come oracoli, le asserzioni, non sappiamo rinunziare a mostrarci anche noi da qualche cosa, e quésto scopo cerchiamo ottenere, con sopraffare in ogni modo possibile chi pensa, altrimenti. Ma checchessia delle cagioni, l’effetto v’è; e l’effetto dichiara da se abbastanza, quanto siamo lontani da quella equanimità, che deve aver luogo nelle repubbliche.

Ton. Questo appunto è, che non ancora ho compreso, perché faccia tanto male alle repubbliche un poco d’intolleranza.

Bep. Eccolo detto in due parole: Nelle repubbliche la volontà della maggioranza ha da essere la volontà di tatti; senza di che in ogni decisione si diverrebbe alla guerra civile. Or se non v’è tolleranza perfettissima, il minor numero, che fu sopraffatto dal maggiore, dopo aver contrastato, quanto legalmente poteva, non accetterà di buon grado e con sommessione il risolvimento dei più. Protesterà, brigherà, armerà cabale, e rifiuterà di ubbidire ad una legge, che non è la sua, o almeno screditandola, metterà ostacoli all’osservanza, all’ordine, alla pace cittadina. E non vedete, che con ciò solo la repubblica è andata in fasci, e la libertà diventa un’illusione?

Car. E in tal maniera un poveraccio, che fosse della minoranza, dovrebbe nelle repubbliche subir sempre la legge! Dunque non sarebbe, né più né meno, che schiavo! Corpo delle Furie! e non mi fuggirei io di là?

Bep. E chi ti proibirebbe di appartenere invece alla maggioranza? 0 chi potrebbe obbligare codesta maggioranza a pensare con te?

Car. Chi? Le schioppettate diancine! se non camminassero a dovere.

S. Bep. E saremmo giunti anche nella repubblica alle tue predilette schioppettate, con le quali volevi imporre la repubblica al popolo sovrano! Carlino mio, amici cari, ricordatevi queste mie parole: Senza tolleranza mollissima non si conserva dovechesia, né libertà né repubblica. E di questa tolleranza in Italia.... ve n’è assai poca.

Cec. Poveri di noi; si sta troppo indietro!... E il terzo indizio, che dicevate?

Bep. Oh quello poi è qualche cosa di difficile ad esporsi; e vorrei proprio astenermene, affinché non doveste pigliarlo per traverso.

Car. No, no: corpo di mille bombe! vogliamo sentire tutto.

Ton. Vi conviene di esaurire l’argomento.

Cec. Ci lascereste assetati, come chi va all’olmo.

Fil. Ci torna di udirlo: Sarà qualche documento della storia, e non può trasandarsi la sapienza dei nostri maggiori!

S. Bep. Ebbene vi appagherò, ma non per oggi, perché a quel tema è meglio, che veniale freschi; ed a me stesso giova riflettere un pochino, come si possa dire la verità senza però far onta alla coscienza di chicchessia.

Carl. Si tratta dunque di coscienza, corpo di un pulpito! vorrete farci una predica?

Fil. Ho capito io!.... Ogni popolo ha la coscienza nazionale.

Ton. Cec. — Eh! che dici!

S. Bep. Un pò di pazienza; lo sentirete domani.


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DIALOGO IX

Il cattolicesimo e la repubblica

SOR BEPPO, TONIO, CARLINO, FILIBERTO, CECCO, DON TELLI

Ton. Sor Beppo, vi presentiamo, il reverendo don Telli, uno dei nostri a tutta pruova, che desidero di conoscervi, e di trattare con voi.

S. Bep. Son cento volte fortunato, don Telli, dell’onore, che mi fa, e grato a questi buoni amici, che m§l procacciarono.

D. Tel. Anzi all’opposto mi reputo io felice di passar qualche ora con Lei, la cui fama di uomo dotto ed onesto, nonché di cordatissimo patriota, e diffusa per tutto.

S. Bep. Grazie molle della gentilezza. Si accomodi; e voi, amici cari, prendete posto.

Carl. Altronde, sor Beppo mio, voi avevate annunzialo per oggi un tema, che riferivasi alla coscienza; sicché pensammo, corpo di tutte le stelle! che un abate (ma dei nostri repubblicani) ci stesse bene. La coscienza, per Dio! la mettiamo in mano agli abati.

S. Bep. La coscienza veramente dovrebbe stare in mano a ciascuno. Ma mi piace, che ci abbiamo oggi anche i lumi di don Telli, sicché a persona, ch'è, direi così, della professione, possa io parlare con maggior fiducia.

Fil. Intendete dunque di parlare a lui solo?

S. Bep. Niente affatto: sono con tutti, e non vi turo certo le orecchie. Purtuttavia, poiché l’argomento è importante, pregherei voi altri, di prendere piuttosto la parte di ascoltatori. Tonio rifletterà, Carlino per un poco farà divorzio dai suoi mille corpi, Filiberto lascerà da banda la storia, e Cecco diventerà astemio del vino. Consentite a farlo per amore della repubblica?

Cec. Consentiamo. Ma se il gorgozzule si disseccasse, e dimandasse almeno un goccio ogni tanto, non potremo fiatare?

S. Bep. Per qualche più urgente difficoltà fate come in Parlamento; dimandate la parola.

Ton. Sì, sì: Accettalo all’unanimità.

D. Tel. Di che dunque si tratta, sor Beppo?

S. Bep. Ecco, don Telli: Abbiamo nei giorni scorsi esposto un doppio carattere degl'italiani attuali, che li mostra poco disposti per ora alla repubblica, cioè l’astensione dall’urna e l’intolleranza politica.

D. Tel. Caratteri pur troppo veri e deplorevoli!

Bep. Resta il terzo, cioè il cattolicesimo, ch’è la religione di quasi tutta la nazione.

D. Tel. Ed Ella crede di scorgere nel cattolicesimo un ostacolo al governo repubblicano? Non è possibile, che la pensi così.

S. Bep. Eppure così son convinto, tenendo anche in senso opposto, che la repubblica sia un ostacolo al cattolicesimo.

Carl. Domando la parola. Perché, corpo dei confessionali!....

Bep. Aspetta però, che ti si conceda quello, che domandi.

Carl. E che cosa?

Bep. La parola. Resta fisso, che parlerai in primo luogo; ma quando ne sarà tempo, verrai avvertilo.

Carl. Ah? Corpo di....

Fil. Si! all’ordine.

Bep. Don Telli mio, intendiamoci bene. L’Italia, a parlare della pluralità, è cattolica, e sentitamente cattolica. Tali nascono e si educano i bambini, tali crescono artigiani e borghesia, tali sono o vogliono apparire i nobili, a cui la religione è un bel commodino a conservare il loro posto agiato e cospicuo. E di questi elementi no non si costruisce repubblica, se pur non venga imposta, sicché torni a vantaggio dell’assolutismo.

D. Tel. Mi spiace di pensarla diversamente da Lei; ma senta, come io la diviso: Nessuno fu più repubblicano di Gesù Cristo, che predicò l’uguaglianza di tutti come fratelli sotto un solo padre, ch’è Dio, e i poveri predilesse a preferenza, ed ai poveri di spirito promise la beatitudine. Ciò ella non può negare. S. Paolo si sa, come scrivesse in favore di uno schiavo fuggitivo, e come non ammettesse distinzione di giudeo e di greco; egli precorse di diciotto secoli alla abolizione della schiavitù in America. La primitiva Chiesa, con la sua interna pulizia, per cui i sacerdoti erano eletti dal popolo, ed i vescovi dal presbiterio, abbastanza portava il tipo repubblicano. I Concili, nei quali a pluralità di voti si decide sul dogma e sulla disciplina, ne sono un’altra pruova luminosissima. Sicché io non veggo, in che possa o la repubblica urtare con la religione, o questa con quella. È vero, che attualmente osta alquanto alla conciliazione la quistione del poter temporale del Pontefice; ma ciò non tocca la sostanza del cattolicesimo, e posso assicurarla, che molti preti liberali, la pensano come me in questo fatto, ritenendo che sia quistione di tempo, e che presto o tardi sarà purgata la cattedra di S. Pietro da tanta profanità. Quale è dunque l’ostacolo, ch’Ella paventa?

Bep. Signor Telli, io non mi fermerò né alla disciplina dell'antico cristianesimo, né all’indole dei Concili eucumenici, né alla quistione del poter temporale, considerato ecclesiasticamente. Non son teologo; e perciò non oso d’immischiarmi in tema sì astruso. Nemmeno discuterò, se possano esservi nello stato attuale uomini, che accoppino al carattere di sacerdoti cattolici quello di veri liberali. Questi uomini se si presentano alla libertà, essa li accoglie ad esempio delle masse, ma in fondo non li stima gran fatto, e non ritiene, che possano essere coscienziosamente l’una e l’altra cosa insieme. Da ultimo neppur ardisco parlare di Gesù Cristo, il cui repubblicanismo, anche ammesso, Don ha che fare coi tempi nostri e con le forme attuali di repubblica. Io, da filosofo osservatore, considero soltanto lo stato attuale, qual’è, e ne deduco le conseguenze. Considero non in astrailo la religione, ma in concreto il cattolicismo, siccome esiste; non un generico paese, ma l’Italia; non un tempo qualunque, ma il presente; e sostengo, che Italia cattolica e repubblicana insieme, è un assurdo.

D. Tel. Rechi dunque le pruove.

S. Bep. Eccole.

Fil. Romando la parola.

S. Bep. Hai da opporre qualche cosa ad eccole? Lo farai a suo tempo. La prima pruova è nel fatto. Vedete se il sacerdozio, se Roma, si può acconciare perfettamente anche con Fattuale meno ampia libertà! vedete se i liberali più ardenti possono amicarsi con Roma! È una guerra a morte dichiarala, in cui ciascuna fazione adopera tutte le proprie arti per abbattere l’altra. Il chiericato usa di pergami, di giornali, di operette, di sacri riti, di confessionali, di insinuazioni, di scuole, in quanto può; e dove non può, eccita la compassione nelle donne, la largizione nei ricchi, esige ritrattazioni, proibisce libri, priva dei sacramenti, fulmina scomuniche. Dall’altra parte la rivoluzione non lascia di spargere nella pubblica opinione ciò, che reputa acconcio a deviarla dal cattolicesimo: insinuazioni, racconti, comenli, massime, invettive, e per arma potentissima il ridicolo ed il disprezzo. Sorveglia tutti gli alti, aggrava tutti i trascorsi, spoglia il clero della possessione dei beni, gl'interdice il libero insegnamento, minaccia nuove restrizioni. Sono due inconciliabili avversari, attenti ciascuno a mettere il piede, donde l’altro retrocedendo, ritrae il suo, e prontissimi, potendo, a vibrare il colpo mortale. E se tali sono adesso, che la libertà è mollo ristretta, il potranno essere meno nello stato di repubblica?

D. Tel. Con questo metodo Ella dimostrerebbe altresì, che l’attuale forma costituzionale neanche sia conciliabile col cattolicismo.

. S. Bep. Conciliabile perfettamente non lo è (e dove mai il cattolicesimo si conciliò sinceramente con la libertà?); ma è però tollerabile. I preti, che sono sì gran parte degli scarsi elettori, sperano sempre di potere quandochesia col loro volo diventare maggioranza, e di imporre alla libertà, col fine di poterla distruggere in altri, per usufruirla tutta a sé soli: ecco perché ne tolerano l’esercizio costituzionale. Ma nello stesso tempo scaltri, libero com’è, va a volare in favore d’increduli e razionalisti, essi non risparmiano querimonie; se si dà libertà alla stampa di parlar contro di loro, ne strabiliano; se si vola dal Parlamento qualche legge a k loro danno, ne strepitano come di persecuzione; se si concede libertà a' protestanti, lo attribuiscono ad empietà, e predicano il finimondo. La rivoluzione poi accarezza qualche volta i preti, finché spera di averli compagni a scalzare il potere, con ottenerne i voli a prò dei suoi affiliati. Ma quando sia smentita o esaurita quella speranza, non cessa di gridare ai quattro venti, che bisogna sbarazzarsi del pretismo, nemico acerrimo della libertà. Guardiamo lo stesso Garibaldi. Egli giungendo in Napoli al 7 Settembre, per non avere avverso il cattolicismo, andò ad adorare nel Duomo, e il giorno: appresso recossi in treno alla Madonna di Piedigrotta. Egli medesimo però in che modo scrive adesso delle cattoliche credenze, e dei sacerdoti, che le insegnano? È noto. Or se non vogliamo illuderci, potremo mai persuaderci, che un popolo così radicalmente cattolico, come il nostro, che tanto dipende dalla dominazione spirituale dei preti, che appena ritiene possibile nella sua maniera di sentire qualche esteriore corteccia di libertà, credendo effetto di questa tutto il diavolerio d’immoralità, esageralo ad arte dai preti per screditarla, possa questo popolo veramente bramare e sostenere di buona fede una repubblica? No, cento volte no. La abborrisce, perché è cattolico, e pensa di essere stato cattolico, avanti di divenire repubblicano. La abborrisce, perché la vede abborrita dai suoi direttori spirituali, in cui mette illimitata fiducia. La abborrisce, perché ve lo spinge l’argomento dal meno al più, cioè dallo Stato costituzionale presente allo Stato futuro repubblicano.

D. Tel. Posso però assicurarla, signor Beppo, che questa pressione cattolica non è più di presente tale, quale una volta. Io per far proseliti, soglio recarmi talora nelle bettole e nelle cantine...

Cec. Domando la parola cantina... Tutti. Ah... Ah... Ah...

D. Tel.... e in esse trovo sentimenti mollo migliorati. Il numero dei liberali cresce, i pregiudizi diminuiscono... Insomma si cammina.

S. Bep. Ed Ella crede, che i liberali, essi i primi, non sottostiano alla forza trapotente del cattolicesimo? Illusione! Forse in fondo del loro cuore miscredono: sei sanno essi. Ma oh come alle masse hanno cura di mostrare il contrario! Si crederebbe, che persone, note per forte avversione al pretismo, pure trattandosi di ammettere all’insegnamento municipale un uomo, che io conosco, assai riputato per dottrina, furono di sentimento contrario? E perché? perché troppo notoriamente egli era un ex- prete ammogliato. Creda pure, don Telli: i repubblicani medesimi, se dovessero promuovere in Napoli o costui o altri di simil fatta, con tutti i loro principii di libertà, non lo farebbero; perché verrebbe loro meno il coraggio di affrontare il cattolicesimo delle masse, e si schermirebbero col dover usare prudenza.

Ton. Ma codesti liberali...

Fil. All’ordine.

Carl. Hai domandato la parola? corpo dei Parlamenti!

Ton. Non flato più...

D. Tel. Debbo concederle, che lo stato attuale di esacerbazione tra cattolici e liberali sia molto innoltrato, ed io medesimo posso offerirne una pruova. Presso colleghi sacerdoti, tranne pochi, sono in uggia, perché repubblicano; il Vescovo. mi vede assai male, ed a Roma come sia dipinto non so, ma comprendo, che non potrei aspettarmene né mantellette, mantelloni. Dai liberali medesimi nulla mi ebbi e nulla spero; e quando abbia servito al loro intento, se il mio prelato vorrà sospendermi a divinis, la liberà chiesa in libero stato del gran Cavour glie ne darà ampia balìa, e nessun ministro di Stato verrà a difendermi, tantoché dovrò morire liberalmente di fame. Sua Eminenza il Cardinal D’Andrea provò a costo della sua umiliazione, e forse a costo della vita, che cosa fruiti il gittarsi dalle parte liberale, mettendosi in opposizione col cattolicismo. Tutto questo è vero. Ma che ha che fare, dico io, col principio cattolico? che ha che fare con la libertà, che anche amplissima, come si ottiene nella repubblica, potrebbe affiatarsi con quello? Anche un gatto e un cane se si educano insieme, smetteranno della loro antipatia. Io quindi ritengo lo stato attuale di avversione qual effetto della novità, delle circostanze, degli uomini, che non seppero sulle prime avvicinarsi, anziché di insita contrarietà nei principii. Reputo infine, che come gli uomini mancano, e restano i principii, cosi verrà un tempo, che Italia cattolica ed Italia repubblicana si accosteranno.

S. Bep. E che direbbe Ella, se Le mostrassi, che appunto nei principii è la divergenza?

D. Tel. Ascolto.

Bep. La libertà ha per principio la libera discussione di lutto; ed il cattolicesimo invece vuole l'autorità infallibile, contro i cui asserii è eresia il lottare, è colpa il discutere. La libertà parte dal dritto umano,; come da suo fondamento, mentre il cattolicesimo poggia, come su piedistallo, sul dritto divino. La libertà ritiene, che ciascuno possa pensare ed agire a modo suo, purché solamente non si renda immorale, facendo onta all’altrui libertà; il cattolicismo sostiene, che il pensare e l’operare debbono essere guidali, non dal dritto dei terzi, ma da un codice fondato in volontà superiore, che lo delta. La libertà attribuisce tutto al naturale, il cattolicismo tulio al soprannaturale. La libertà infine determina, come solo bene, sé stessa, e tulio il rimanerne, anche la religione, come mezzo da conseguirla; il cattolicismo insegna, come necessario bene, sé stesso, e ogni altra cosa, anche la libertà, come accessorio istrumento da ottenerlo. Con avversari di questa natura, che stanno l’uno agli antipodi dell’altro, si può sperare un ravvicinamento, una transazione? Una transazione può esservi, se transiga la libertà, perché il cattolicesimo non transige mai. Il dissi già: si ammette, si subisce tutto al più dal cattolicesimo un qualche Statuto, perché in esso son limitali i principii di libertà. Si tollera, perché sotto il suo regime è circoscritta la discussione religiosa, è conservata qualche cosa del dritto divino, è difesa la libertà del clero, e si fa mostra di rispettare il soprannaturale. A questi patti Roma può soffrire in Italia la monarchia costituzionale; sempre però malvedendola, sempre procurando di restringerla, sempre cedendole il terreno a palmo a palmo. Ma che possa acconciarsi di cuore con una libertà pura e nella, con un governo repubblicano, è un assurdo tale, che chi lo ammette, si mostra ignaro della cattolica religione.

D. Tel. Scusi, sor Beppo, se essendo materia mia, oso dirgliene in questa parte. La religione è posta essenzialmente nel dogma, e non potrebbe a ragione immischiarsi di ciò, che a politica appartiene. San Paolo insinuava, di obbedire ai sovrani, anche discoli, né solo per timore, ma anche per coscienza. I Padri della Chiesa han sempre inculcato l'ubbidienza alle autorità costituite, e queste nei primi secoli erano tutt'altro che favorevoli ai sentimenti cristiani. Roma dunque non può a dritto ingerirsi nell’affare della libertà; e perciò facendolo, non è quistion di principii, ma di fatto, che col tempo può scomparire.

S. Bep. Se Roma possa o non possa ingerirsi di dritto, non intendo indagare. Ma sul fatto le fo osservare, che tal quistione non però scomparve in tanti secoli scorsi finora, e nemmeno dacché lo scettro civile volle emanciparsi dal pastorale. La storia ne insegna....

Fil. Domando due parole.

Tutti. Ih, Ih....

S. Bep.... che non è scomparsa, quando i Pontefici per principii puramente politici, che risultaron contrari al loro arbitralo spirituale, sciolsero i sudditi dal giuramento verso i sovrani, o in altri termini spinsero i popoli alla ribellione. Non è scomparsa, allorché si fulminarono scomuniche ed interdetti, anche a tempi nostri, per ciò che si credette congiunto con la religione. Non è scomparsa, quando si segnalarono, come empietà d’irreligione, quei sentimenti, che la rivoluzione ritenne come figli legittimi della libertà. E se non è scomparsa finora, crede Ella, che vorrà scomparire solo a favore della repubblica? Il cattolicesimo è cosa spirituale bensì, ma che ormai s’ è infiltrata in tutti gli alti fisici, civili, morali e politici della vita: Nella nascita, nel matrimonio, nella morte, nelle feste pubbliche e private, nei giudizi, nelle leggi, nel commercio, negli ordini cavallereschi, nelle arli, nei nomi propri, nell’insegnamento, negli abili votivi, nelle campane, nelle navi, nei cannoni, nelle bandiere, nelle messi, da ottenersi con le rogazioni, nella pioggia o serenità, da conseguirsi con le collette, nell’accattonaggio, nel brigantaggio, fra viandanti, fra prostitute, nelle collane, negli anelli, nelle abitazioni, nei cibi, nell’acqua santa, e nelle uova benedette. Checche dunque sia della istituzione originaria, del che non m’immischio, certo è, che attualmente nei paesi cattolici, com’è l’ìtalia, il cattolicismo rappresenta la vita civile, la quale tutta dovrebbe abolirsi, quando si volesse richiamare il fatto ai suoi primordi. Come si pretende da un popolo, il quale fa pompa d’esser cattolico, che gridi di cuore: Viva la repubblica, mentre sa (e v’è chi gliel ricanta), che la repubblica griderà con quanta voce ha nella strozza: Morte al principio cattolico?

Ton. Domando un’importante parola. Dice bene sor Beppo!

D. Tel. Ma questo grido, attribuito alla repubblica, io non lo sento, né so capirlo. Conosco molti repubblicani, che vantansi d’esser buoni cattolici, ed al contrario ho amicizia con cattolici a tutta pruova, che gloriansi d’essere repubblicani. E se io fossi persona da coniare per qualche cosa, potrei mettere me per esempio, che sono la Dio mercé, e sacerdote cattolico, e fiero repubblicano.

S. Bep. Adagio, sor Telli mio. Che si vantino, che si glorino, può essere; perché la cosa resta nella convinzione subiettiva. Ma che lo sieno obbiettivamente, e vengano dagli altri tenuti tali, quali si vantano, è quello, che non potrà dimostrarsi. Taluni, cosi detti repubblicani, si spacciano tali alla buona, perché non considerano se non la corteccia esterna, senza lo spirito della repubblica. Quindi non indagando più in là, e discutendo sulla repubblica, non nel fatto ma in un’idea, che foggiano a Icrr modo, non ne sentono ostacolo al proprio cattolicismo. È lo stesso come di chi scorga tingersi il bianco in nero, e divisa in lesta sua di potere ugualmente tingere il nero in bianco; ei vi forma i suoi castelli in aria, e ritiene la cosa come fatta. Ma la cosa non è falla né può farsi per ragioni intime, che nel solo ideale dagl’ignoranti non si apprendono, e poi nella pratica si appalesano. All’opposto ci son dei cattolici, che si costruiscono un cattolicismo a modo loro, cattolicismo, che effettivamente non è riconosciuto, né da preti né da Papi, ma da loro stessi, e cosi essi si ostinano a chiamarsi cattolici. Con tale posticcia credenza sicuramente che credono di poter essere repubblicani; ma resta a vedere, se il cattolicismo reale, pratico, incarnato nelle masse, si comenti di seguire il loro esempio. Dica, sor Telli mio: Ella si tiene cattolico, e sta bene. Ma può asserire, che i puri puri cattolici la tengano per tale? Quest’abito nero, che veste in cambio del talare, è veduto egualmente bene dalle masse, che quell’altro? Questi suoi sentimenti, espressi sulla cattolicità, sono egualmente approvati, che le prediche della Madonna? E se si dovesse scegliere nella sua diocesi a qualche ufficio importante un sacerdote a tutta pruova, crede Ella, che i voti caderebbero su di Lei?

D. Tel. Questo non dico; perché pur troppo la superstizione è radicata.

Bep. E dall’altra parte, se i capi repubblicani in una repubblica, che supponiamo costituita, dovessero nominare un.... direttore di studi, un consigliere, un chicchessia, stima Ella, che onderebbe la scelta su di Lei, prete cattolico, comunque repubblicano?

D. Tel. Anche di questo diffido: è troppo l’abborrimento, che si ha del clero.

Bep. Ella dunque vede, che nel fatto non è tenuta, né come prete cattolico, né come repubblicano. Volle tentare un’amalgama; ma come ottenerla fra cose eterogenee? Si resta inviso ad entrambe le parli, e come dicesi, non è né acqua né vino.

Cec. Domando la parola.

D. Tel. Sventuratamente è cosi, come Ella dice. Eppure io vorrei trovar ragioni, a persuadermi in contrario. Com’è, che fra' protestanti alligna la repubblica, e la religione colà non la trova di ostacolo alle sue mire?

S. Bep. É facile a spiegarsi; perché la religione protestante, non essendo esclusiva, ma ammettendo la libera discussione e lo spirito privato, senza dogmi imposti e senza forme determinate, armonizza bene con la repubblica. A qual fine il governo repubblicano dovrebbe accipigliarsi con chi non gli è rivale, e poggia sulle sue stesse basi fondamentali? Non potrassi però dire lo stesso dello spirito cattolico, che fondandosi nell’assoluto ed immutabile, è di natura sua esclusivo, né ammette termini di transazione. Diceva un generale dei gesuiti: 0 siano come sono, o non siano...

Fil. Domando la parola: Fu il Ricci, come c’insegna la storia.

S. Bep... E similmente un Papa, se non credesse incrollabile per divina promessa l’edificio affidatogli a custodire, ripeterebbe: 0 sia com’è, o non sia; e a mò di Sansone scuoterebbe sul suo capo la fabbrica, contentandosi di perire sotto di essa, anziché di vederla alterala.

D. Tel. E non vi sono cattolici anche nelle repubbliche americane? anche in Isvizzera? Non ci vivono in buona alleanza con la piena libertà?

S. Bep. In buona alleanza sì, ma finché sono pochi, finché non acquistano qualche preponderanza nel pubblico. Quando però l’abbiano raggiunta, ecco cominciare le dissensioni, e venirsi anche al sangue, finché succeda una delle due, o che la repubblica abballa il cattolicesimo, o che il cattolicesimo cominci ad ostacolare la repubblica. Ma prescindendo da ciò, noi non siamo in America, dove il cattolicesimo è tollerato per la legge dell’eguaglianza, e da essere tollerato non può fare un salto ad arrogarsi il dominio. Siamo in Italia, dove esso ha esistenza uficiale da tanti secoli, dove ha la residenza del suo Capo, la rappresentanza mondiale, che ne forma il lustro, dove sono tutti i generali di ordini religiosi con le loro curie, tutte le congregazioni cardinalizie coi loro codazzi, dove è tanta gente, che oltre al sentimento e alla fede, è tenuta pure dall’interesse, perché vive alle spese del cattolico ministero; dove esistono tanti santuari, tante catacombe, tanti ricordi archeologici di cattolicità, tanta storia, ora trista ora gloriosa, del Papi....

Fil. Domando la storia per me.

S. Bep.... il prestigio dei riti romani, che attirano fin da lontano gli stranieri ad ammirarli, gl’innumerevoli volumi scritti a difesa o alimento del cattolicesimo, e convien pure confessarlo, uomini eruditi e virtuosi, che in ogni tempo si dedicarono e si dedicano alla sua prosperità. Con questo corredo il cattolicismo d’Italia non istà per acconciarsi con un governo qualunque repubblicano; e forte com’è delle profonde radici, che sa di aver gittato, sfida l’ira dei venti, e risponde il suo consueto non possumus. Qui dunque repubblica e cattolicesimo s’avrebbero a combattere per modo, che l’un dei due dovesse restare estinto. E in tal contesa a chi crede Ella, sia per toccare il di sotto?

D. Tel. Vada a precipizio questo perenne rivale della libertà....

S. Bep. E adesso Ella non parla più da cattolico, né da sacerdote.

D. Tel. È vero; Dio mio perdoni! Fu un momentaneo traviamento; giacché infine so, che le divine promesse guarentiscono l’eternità della Chiesa.

S. Bep. E adesso Ella non parla più da repubblicano. Ecco come m’ha dimostrato in Lei stessa, non potersi mai riunire repubblica e cattolicismo.

D. Tel. Sicché Ella con tanto ingegno non ravvisa né per adesso né pel tempo futuro una soluzione qualunque a questo dilemma? Secondo Lei l’Italia per cagione del cattolicesimo non sarà mai repubblicana?

Carl. Domando un’altra parola.

S. Bep. Un momento, Carlino, e abbiam finito. Ottimo don Telli: se mi sono bene espresso, ho potuto mostrare, di non supporre quello, ch’Ella crede. Pel futuro non ho occhi così acuti, da poterlo distinguere; ma pure armalo di quel telescopio, che dicesi ragion del progresso, son convinto, che.... si arriverà. Il come, non saprei o non vorrei dire; ma ho fede repubblicana, e la fede intravede il termine, senza indicarne il modo. Pel presente poi vi sono due soli modi di conciliazione a parer mio. Vorrà Ella accettarli?

D. Tel. E quali?

Bep. Eccoli. L’uno sarebbe di costituire la repubblica così: Il Papa presidente a vita, per Ministri i Cardinali, per prefetti i Vescovi, per ufficiali tutti i sacerdoti. Le sacre chiavi foggeranno la bandiera; le decretali e l'Indice formeranno la legislazione; il voto sarà dato da tutti i fedeli liberamente, secondo un decreto dommatico del Vaticano, e le loro schede verranno affidale ai confessori. Eccole una repubblica cattolica. L’altro modo poi consisterebbe in riformare il cattolicesimo con personale diverso da quello che ha: Mazzini papa, Garibaldi vicario generale, i signori Pantaleo e Gavazzi ministri, i mille di Marsala vescovi, e tutti questi miei amici tutti sacerdoti. Eccole un cattolicesimo repubblicano. Le garbano questi mezzi?

D. Tel. Comprendo.

S. Bep. E adesso a voi, amici miei, per ordine la parola. A te, Carlino.

Carl. Voleva io dire, corpo di centomila preti! Se da vero il cattolicesimo è un ostacolo alla repubblica, distruggiamolo. Purché mi lasciate la madonna del Carmine, e la confessione in articulo mortis. del rimanente fo passo.

Bep. Provali dunque a distruggere, e comincia dai tuoi compagni. Consentile voi?

Tell. Io no: mi oppongo. E voleva appunto dir questo, che ne vada pur la repubblica a diavolo, se ci deve costare la perdila dell’anima. Ci ho le mie anime del purgatorio, le mie indulgenze, e voglio stare con loro; e mi avviso che coi preti ammogliali giustamente si usa rigore.

Fil. Io pure mi oppongo, non già per alcuno scrupolo; ma, ma... perché sappiamo dalla storia, ch’è la sapienza dei nostri maggiori, non esservi sia la miglior gloria d’Italia, che il Papato. Altronde anch’io ho le mie devozioni, fo i miei voli, accendo le mie lampade, e non mi accomoda di lasciarle.

Cec. Ed io ho dimandato la parola, per dire una sentenza, che appresi da assai, e che mi sembra importantissima: Il vino vecchio è sempre migliore del vino nuovo; perloché non intendo di scostarmi dalla santa madre Chiesa, vino poderoso della cantina di Gesù Cristo.

S. Bep. Udiste, don Telli?

D. Tel. Udii; e mi avveggo, che discorrendo. con Lei, s’ha che fare con un filosofo pratico; per cui se mel consente, tornerò qualche volta ad ascoltarla. Anzi un giorno vorrei, che mi permettesse di discutere a solo.

S. Bep. Con lutto piacere e come Le sarà comodo. E voi, amici cari, quando tornerete?

Ton. Forse.... diman l’altro; purché ci prepariate migliore argomento.

Cec. E anch’io dico lo stesso.

Carl. Però, corpo del maledetto silenzio! vogliamo un’altra volta parlare anche noi; giacché oggi a star li a bocca chiusa, mi ci è parso un accidente.

Bep. Parlerete a vostro agio. Buon di, sor Telli, buon dì, amici.


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DIALOGO X

Le repubbliche d'America

SOR BEPPO, CARLINO, FILIBERTO

S. Bep. Come mai?... Voi soli?

Fil. Per oggi soli; ma faremo, che tornino alle bandiere i momentanei disertori.

Carl. Corpo delle batoste! Ascolteranno me, ascolteranno! Credete, sor Beppo? Tonio e Carlino dopo l'ultima conferenza non ne volevano sentir altro di repubblica: e quasi, quasi davan di volta!

S. Bep. Male! Ecco perché io non voleva trattare quell’argomento. Ma voi mi ci obbligaste, mi presentaste pure don Telli, e dovetti imbarcarmi a malincuore. E può dirsi mai vero repubblicano, chi non ha fede nella riuscita del suo principio? Conduceteli domani, che ne sentiranno delle belle. Poverini! Vogliono vivere di aspirazioni senza realtà! Eccoli a vagheggiare Messico, Lima, san Salvador, Quito, Cuquisagua, Washington, e a struggersi di voglia per imitarli. Tutto rimane là, o pure si spinge fino ad un tratto di violenza, per occupare di assalto la fortezza. Ma poi? Appena s’impressionano di una difficoltà, appena si accorgono, che la non è cosa da risolversi a schioppettate, e che v’è bisogno di lungo e prudente assedio, eccoti un voltafaccia, e non li trovi più.

Fil. A proposito. Voi, sor Beppo, differiste, non so perché, il discorso sulle repubbliche americane, testé nominate; e poi sembra le abbiate dimenticate del tulio. Eppure la loro storia è veramente sapienza dei nostri maggiori, e potrebbe darci ammaestramento ad imitarle? Che floridezza! che forza! che prosperità! qual vera eguaglianza! quale libertà illimitata! Sono cose, che debbono allettare ogni anima generosa. E perché non potremmo noi altrettanto? o siamo fatti di altra creta?

Carl. Corpo della creta! Io ammiro gli americani, e sento che, se volessimo, potremmo fare lo stesso. Corpo dell'America!

S. Bep. In certe cose non basta il volere, bisogna che le circostanze, le condizioni ci aiutino a farlo. Anch’io vorrei attualmente trovarmi a NewIork, essere spetto a parlar quella lingua, aver presa l’abitudine di quei costumi. Vorrei; ma posso ottenerlo? Mi converrebbe cominciare a distruggere lutto il presente, per costruire un futuro, che per me diventa difficile, problematico e lontano. Ecco perché prescelgo di restarmene qui, migliorando quanto è possibile il mio stato attuale, e raccapezzando a brani e a spilluzzico quel poco di bene, che posso.

Carl. Ma ditemi, corpo delle granate! Se fossimo tutti di accordo a volere, non potremmo da vero far lo stesso degli americani?

S. Bep. Quella condizione impossibile, che hai posto, è appunto essa, che ti rende inattuabile il condizionalo. Essere di accordo a volere è un bel dirlo! a farlo sta la difficoltà; e non potendo per ora tra noi succedere, ci attraverserà i passi per lungo tempo. Non vedesti ieri medesimo, come due de' tuoi compagni non furono più di accordo, appena li toccasti in una delle loro convinzioni? Ciò dovrebbe istruirti.

Fil. Però gli americani, e quelli segnatamente degli Stati Uniti si accordarono. Ed io torno a dimandarlo: Erano uomini della stessa creta nostra, o pur no?

S. Bep. Sì: ma la loro creta trovavasi in un terreno vergine, umido, attuoso, non disseccato ancora dal sole ardentissimo dell’inerzia, dal vento urente delle abitudini; e così divenne creta arrendevole, a prendere la forma, che adesso ha. Tu sai certamente, di chi erano figli quei primi, che abitarono Washington, e che quindi. si costituirono in repubblica federativa degli Stati Uniti.

Fil. Lo so: erano inglesi; come c’insegna la storia.

S. Bep. Or bene: se Washington fu, a dir così, figlia di Londra per origine e per coltura, com'è, che la madre non ha potuto ancor conseguire, e nemmeno mostra di cercare quello, che i figli suoi tanto felicemente formarono e conservano? In Inghilterra' non si parla ancor di repubblica; eppure l’Inghilterra è il governo più liberale d’Europa, più colto in fatto di civiltà politica, più ben diretto al progresso e all’immegliamento. In Inghilterra non si pensò finora ad abolire la pena di morte, e a grandi stenti si è ottenuta dopo tre lunghi anni di agitazioni la perfetta uguaglianza dei Culli avanti alla legge. In Inghilterra il fenianismo poco profittò, mentre pure avea di mira il paese meno colto di quell'impero, qual'è l’Irlanda. Domando dunque, che mi spieghiate, come succedette, che la madre patria non abbia potuto giungere alla repubblica, mentre la figlia espatriala ci giunse così presto..

Car. Lo spiego io, corpo di tutte le spatriate! È lo stesso delle figlie giovinette, che si cercano un bel maritino, e a lungo andare lo trovano; mentre le madri vecchio, tuttoché ancor divote del santo matrimonio, non ne trovano per sé. Corpo della vecchiaia! l’ho detta.

Fil. Buona similitudine, concorde alla storia!

S. Bep. Anzi ottima similitudine, dico io, e della quale intendo valermi. Di fatti rifletto in prima, che quel tal maritino s’ha da cercare fuori casa della madre vecchia, e quasi sempre per vivere in pace con esso, s’ha da abbandonare l’antica dimora. Intendete l’applicazione? Altro è fondare di pianta una repubblica, altro è trasformare in quella un altro Stato antecedente. Quanta diversità ci corre, non avvertita dagli avventati repubblicani di occasione, i quali senza saperlo lavorano per mettere puntelli al dispotismo! Seguitiamo la similitudine di Carlino....

Carl. Meno male: n’ho indovinata una.

Fil. Fondandoli nella storia.

S. Bep. La giovinetta piglia marito. Supponiamo, che resti in casa del babbo, uomo discreto, si c’intende, affettuoso per la gioventù, condiscendente, ma un pò gottoso, un pò malaticcio, e con la soma indosso di una sessantina di anni ben contati. Egli senza danneggiarsi, non può smettere dalle sue semisecolari abitudini, e lo stesso è della sua dolce metà, che tutti e due formano più d’un intero secolo. Né la figlia, se ama i genitori davvero, più volere che si guastino per cagion sua dal loro consueto; né essa sa acconciarsi, a privare sé di ciò, ch’esige la sua fresca età, la nuova condizione di vita. Ecco dunque, che dopo celebrati gli sponsali, dopo le consuete allegrie, alle quali per un poco si prestano i vecchi genitori, comincia collo andar dei mesi e degli anni a risaltare la differenza. Ecco che il solo fatto del matrimonio viene a produrre una sorgente di urti, di dissapori continui, di privazioni alternative e di lamenti; — É un malanno! Jeri sera non potei dormire, figlia mia, per lo strepito delle visite, e mi sento malandato di salute. Abbattete un pò quelle impannate—Sì, papà; ma io affogo con le impannate chiuse a questo grado di caldo — Caldo? Ho io indosso un freddo, che assidera, e non so come tuo marito li permetta di vestire così spettorata — Soffriamo dunque, caro sposo, finché vuol Dio, e ci acconceremo pure a quelle vivandacce di ieri, che ci guastarono lo stomaco — Vivandacce! Ma voi, figlia amata, incaricatevi un poco di vostro padre; e considerate, che bisogna badare al suo stomaco, ed anche, se vi piace, al mio, che sono sì deboli—Permettetemi, buona suocera, che dica anch'io la mia. Se voi avete i, vostri stomachi, noi abbiamo i nostri bimbi vispi e appetitosi, che han mestieri di tutt'altro — Sì: quei bimbi, a cui date una educazione a modo vostro, tantoché sopo insofferibili! Danno nientemeno del tu anche all’avola!— E così si arma una dissenzione, un diavolerio perenne. La servitù accorgendosi dei mali umori, forma partiti, gli amici scambievoli, dando ragione alle due parli, accrescono la contrarietà; e che cosa rimane a fare, per riottenere la calma? Una delle due, o armarsi di coraggio e dividersi, o... se non si può... (è duro a dirsi, ma indispensabile)... transigere alla meglio, ed... aspettare soffrendo, che si spenga la vita di chi nacque prima.

Carl. Caro il mio sor Beppo! Come l’ha saputa descriver bene! Corpo di un Tritone! avrei voluto, che continuaste.

Fil. Eh la capisco io la battuta; perché conosco la storia. Voi dunque sostenete, che gl'inglesi di Washincton, gli spagnuoli di Messico eccetera, non potevano fare quello, che han fatto in patria loro. Dite, che vagheggiando la repubblica, dovettero andare a piantarla in altro suolo, per non trovarsi in urto con gli antichi possessori del vecchio; e quindi vorreste, che facessimo, come ci consigliavate l’altro dì, di unirci, di comperare anche noi un terreno, e di stabilirci quivi con leggi e costumi a modo nostro, senza che altri cel contrasti. Intesi tutto?

Bep. Tutto, fuorché questa conseguenza finale, che non è la mia. Ecco come la penso. Ripruovo in primo luogo, che vi siano vegliardi così fanatici, da riprovare le famiglie dei giovani, che hanno costumi da loro diversi, e non usano cuffie e sedie a ruota; e per la stessa ragione condanno quegli amanti del vecchio, che trovano da straparlare sui costumi americani, sulle leggi diverse dalle nostre, e che si affanno cosi bene a quelle giovani repubbliche. Ripruovo poi egualmente quei vecchi, che per farla da giovanetti, ridicoleggiano in casa loro con imitare i costumi delle case giovanili; e per lo stesso motivo non mi acconcio con coloro, che vorrebbero di peso introdurre fra noi tutto ciò, che fa sì bella mostra in America. Convien dunque riflettere,che in ogni popolo v'è sempre, direi così, vecchiaia e gioventù. V’ è una minoranza, che non reputa sufficiente quel di buono e di meglio, che la nazione possiede, che brama una maggior libertà, un’attività più energica, uno slancio più nazionale, una moralità più sentita, un’armonia fra' poteri dello Stato più efficace, un benessere materiale e morale più certo. Uno di costoro per esempio sarei io, che riconosco gli attuali difetti, e vorrei, che scomparissero, se si potesse, in una ben conformata repubblica. Basta però il bramarlo, a farlo riconoscere e bramare dagli altri? Ci vuol altro. V’ è la maggioranza, abituata al vecchio, che la pensa altrimenti, e non intende scommodarsi. Lusingarsi di giungere prestamente, coll'imporsi dei meno al volere dei più, crea necessariamente la reazione, e a capo di tempo si ricade nell’assolutismo. Dunque pei. più pochi vi sarebbe una doppia via: La prima, che essi, come la figliuoletta maritata, lasciassero stare in pace la casa nativa, e si recassero a celebrare gli sponsali in suolo stranio. Così fecero gl'inglesi, trapiantatisi nel paese libero americano, dove recaron seco la dote di tulio il meglio, che nella coltura, nell’indur stria, nell’istruzione, nei costumi, nelle leggi inglesi vi era. E così avvenne, che quel corredo, unito alla libertà di un suolo vuoto, non viziato da pregiudizi, non ingombralo da vecchie costumanze, produsse quella ricchezza, che sappiamo. Piantarono ogni cosa da nuovo, senza urti, senza contrasti; e per tal modo divennero a fondare la cospicua repubblica, ch’è il flore delle attuali istituzioni. Avrebbero fatto altrettanto nella loro terra natia?

Fil. Lo avrebbero fatto, se gli aristocratici inglesi, quali la storia li descrive, non si fossero opposti.

S. Bep. E questa opposizione appunto è quella, che si farà dovunque alla repubblica; perché dovunque vi sono altri governi antecedenti, che lasciarono radici, atte a germinare da sé, e a disseccare la pianta novella. Si potrà quindi a staccio, alla ventura, improvvisare con la forza una repubblica, pari a quella dell'89 in Francia, si potrà versare del sangue, sorgente perenne di rancori e di contrasti, ma non si potrà coltivare, come in America, la nuova pianta, che cresca fronzuta, e che dia tosto i suoi frutti di rigenerazione. Le maggioranze, miei cari, sono sempre pel vecchio, sono per la conservazione; e quando si veggono urtate, reagiscono o palesamento o in occulto.

Carl. E così, corpo di mille bombe! per noi, che non possiamo recarci in America, non v’è speranza?

S. Bep. V’è l’altra, della sposa, che non può uscire dalia casa paterna: Aver pazienza, guadagnare quanto si può gradatamente, innestare bel bello e senza grandi scosse il nuovo al vecchio, aspettare la trasformazione, ossia aspettare, che la minoranza diventi effettiva e non effimera maggioranza: ecco il mezzo facile per tutti. Si deve compiere in somma il lavoro degl'innesti, quando non può attuarsi quello delle piantagioni. Inserite un ramo nuovo, e lasciatelo rinforzare, finché si tagli il vecchio. Quando lo vedrete bene appreso e vegeto, innestatene un altro, e non abbiate pre mura. E poi dopo tempo un altro ed un altro; non dubitate: la pianta in fine si trasformerà. Forse non avverrà a tempi vostri; forse lo vedranno i vostri ne: poti; che importa? Le istituzioni sono fatte più per le comunanze, che per gl’individui; e l’egoista, che per: golosità di cose nuove coglie la pianta in erba e addenta il frutto acerbo, mentre cagiona danno a sé stesso, lo cagiona poi gravissimo alla generazione futura, a cui è tenuto di preparare alimento.

Carl. Adesso comprendo, corpo di Bacco! come vi possano essere ardenti repubblicani, che proibiscano ogni molo di repubblica. Fanno come i coltivatori dei giardini, non è vero? che li circondano di siepe, per non vederli manomessi. Ed io, corpo. della tarantola! che la ragionava diversamente! Diceva: Se costoro amano la libertà repubblicana, perché non fanno come Robertspier in Francia, come Mazzini a Roma, come Manin a Venezia? e mi pareva, che un moto simultaneo avrebbe tutto ottenuto.

S. Bep. Facevi i conti senza l’oste Robertspier, Mazzini, Manin, essi appunto sono coloro, che ci hanno istruito nella vera condotta da tenere. Dopo tanto sangue versato, dopo sì generosi patrioti estinti, dopo sì gran consumo di tempo e di danari, che si ricavò? Il disseccamento della pianta, senza una foglia nemmeno, che rinverdisse. Invece l’innesto giovò, oh quanto! Un solo ramo, innestalo nel Piemonte, si mantenne, e poi fruttificò, e fu lo Statuto dato da Casa Savoia. Tu ben lo sai: questa trasformazione poco per volta si insinuò nell'Italia, e poi giunse a quella stessa Venezia, che ricaduta era sotto il giogo straniero dopo tanto sciupo di eroismo. Questa stessa per me ho fiducia, che s’insinuerà anche in Roma, e che rinforzatasi una volta, si perfezionerà nella maggiore istruzione, nella. più esemplare moralità, nell'ordine, nella solerzia, nell'attività, nella tolleranza, nel concorso all’urna, nell’estensione del suffragio, nella libertà di coscienza, nel rispetto al potere costituito, nella moderazione dei partiti, nella brama di ben’intesa libertà. Ed allora?... allora succederà da sé quel che deve succedere.

Fil. Voi dunque, sor Beppo, ritenete che l'89 e il 48 furono dannosi, e che avessero fallito quei grandi, che proclamarono in quei tempi le repubbliche, abbattute ( j ) poi dal tradimento o dalla coalizione dei potenti. Ma la storia, sapienza dei nostri maggiori, non dice così, no. Essa ha predicato i grandi vantaggi della rivoluzione francese, segnale alla riscossa consecutiva di tutti i popoli, ed ha fatto l’apoteosi a Manin, e la farà quandochesia anche a Mazzini. Direte, che costoro facessero male?

S. Bep. E tu dimmi: Fanno male forse coloro, che scavano un pozzo artesiano in qualche sito, dove non si ottenga dell’acqua? No. Almeno dimostrano il loro buon volere; almeno tolgono agli altri il pericolo di lavorare inutilmente nella stessa pruova. Sono uomini grandi pel fine, grandi per l’eccitamento dato, grandi pel sacrificio, a cui si sottomisero in altrui vantaggio. Se però altri per desiderio di servile imitazione, per dirsi loro seguace, volesse andare a scavare proprio lì nelle stesse buche, dove quelli scavarono, e si arrabbattasse contro di coloro, che ricusano di seguitarlo, oh! egli sarebbe piccino, piccino, piccino. Da tutti gli errori altrui la storia ricava ammaestramenti e precetti utilissimi; ed errore grande di quei grandi fu, il non aver preveduto, che la maggioranza vecchia avrebbe dovuto, o presto o tardi, sia col tradimento sia con la coalizione, ribellarsi ad uno stato di cose, che non le tornava. Questa maggioranza, miei cari, è che deve attenuarsi, senza che c’illudiamo a volerla soggiogata. Questa maggioranza si trasformerà col progresso e non altrimenti; con un progresso però graduale, proporzionalo alle forze nazionali, non con quella corsa da asino, che dopo pochi metri rimette.

Carl. E se succedesse mò un caso straordinario, che la maggioranza si formasse di botto? Corpo d’Arlecchino! ci avrei gusto, a vedere un tal caso. Non è forse mai avvenuto in nessuna rivoluzione?

S. Bep. È avvenuto nelle rivoluzioni dinastiche, allorché qualche volta un branco di oppressori tiene in soggezione tutto il rimanente. Allora può succedere, che una felice combinazione rivolti la ruota della fortuna, e i molti, che stavan di sotto, vadano sopra senza timore di reazione. Ma nelle rivoluzioni radicali non è mai avvenuto; e tenete per fermo, che non può avvenire, perché se la radice diventa di botto cima d’albero, allora l’albero è bello e disseccato. Del rimanente questo soggetto potremo trattarlo meglio domani,. in cui vorrei che discutessimo sul progresso, a patto però, che meniate con voi i vostri compagni.

Fil. Li persuaderò io con la storia.

Carl. Ed io con cento corpi di cento bombe all’Orsini.

S. Bep. Per oggi conchiudo con questa ammonizione: Ancorché gli altrui tentativi arrischiati, per un tal concorso di circostanze riescano qualche volta felici, non vi lusingate d’imitarli e di riuscire allo stesso fine, se non ne vedete chiara la possibilità. Le cose fortuite quanto miglior esito ebbero una volta, tanto più difficilmente il possono aspettare la seconda. Persona, che io conobbi, venne da Armenia a Resina, per tentare la cura disperata degli occhi, affetti da amaurosi. Casualmente da una terrazza, alta cento palmi, dove una parte del parapetto mancava, per effetto della stessa cecità precipitò in un giardino. Mori forse sul colpo? Niente affatto; ma guari dopo 14 giorni di febbre, prodotti dall’urto tremendo. Però il credereste? quest’urto stesso, forse appunto perché scosse terribilmente i nervi, gli fece ricuperare la vista. Eppure dietro tal caso non credo, che ad un cieco consigliereste di cercar la guarigione con un simile precipizio. Mi spiego, amici miei? Dunque a rivederci.




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Pisacane e la spedizione di Sapri (1857) - Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito
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Difesa del Cagliari presso la Commissione delle Prede e de' Naufragi

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Domenico Ventimiglia - La quistione del Cagliari e la stampa piemontese

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Documenti ufficiali della corrispondenza di S. M. Siciliana con S. M. Britannica

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Ferdinando Starace - Esame critico della difesa del Cagliari

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Sulla legalità della cattura del Cagliari - Risposta dell'avvocato FerdinandoStarace al signor Roberto Phillimore

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The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

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CARLO PISACANE - Saggi storici politici militari sull'Italia

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1863

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

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Giacomo Racioppi - La spedizione di Carlo Pisacane a Sapri con documenti inediti

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NICOLA FABRIZJ - La spedizione di Sapri e il comitato di Napoli (relazione a Garibaldi)

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Giuseppe Castiglione - Martirio e Libert࠭ Racconti storici di un parroco dicampagna (XXXVIII-XL)

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Vincenzo De Leo - Un episodio sullo sbarco di Carlo Pisacane in Ponza

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BELVIGLIERI - Storia d'Italia dal 1814 al 1866 - CAP. XXVII

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Atti del ParlamentoItaliano - Sessionedel 1871-72

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Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

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Gazzetta d'Italia n.307 - Autobiografia di Giovanni Nicotera

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F. Palleschi - Giovanni Nicotera e i fatti Sapri - Risposta alla Gazzettad'Italia

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L. D. Foschini - Processo Nicotera-Gazzetta d'Italia

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Gaetano Fischetti - Cenno storico della invasione dei liberali in Sapri del 1857

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Luigi de Monte - Cronaca del comitato segreto di Napoli su la spedizione di Sapri

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Telesforo Sarti - Rappresentanti del Piemonte e d'Italia - Giovanni Nicotera

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Antonio Pizzolorusso - I martiri per la libertࠩtaliana della provincia diSalerno dall'anno 1820 al 1857

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L'ILLUSTRAZIONE POPOLARE - Le memorie di Rosolino Pilo

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Napoleone Colajanni - Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane

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Carlo Tivaroni - Storia critica del risorgimento italiano (cap-VI)

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PAOLUCCI ROSOLINO PILO memorie e documenti archivio storico siciliano

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GIUSEPPE RENSI Introduzione PISACANE Ordinamento costituzione milizie italiane

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Rivista di Roma lettere inedite Pisacane Mazzini spedizione Sapri

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LUIGI FABBRI Carlo Pisacane vita opere azione rivoluzionaria

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1914

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1919

ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

1923

MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

1927

NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano


























Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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