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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

CARLO PISACANE

SAGGI STORICI POLITICI MILITARI SULL’ITALIA

SECONDO SAGGIO - DELL'ARTE BELLICA IN ITALIA
GENOVA

STABILIMENTO TIPOGRAFICO NAZIONALE

1858

CAPITOLO PRIMO - I. La guerra. — IL Rudimento della tattica italiana CAPITOLO II -  V. Battaglia d'Aniene. — VI. Del lago Regillo CAPITOLO III - X. Battaglia del Gaurus. Combattimento di Satinila CAPITOLO IV - XIV. Battaglia di Eraclea. — XV. Battaglia di Benevento
CAPITOLO V - XVII. Prima guerra Punica — XVIII. Guerra Gallica CAPITOLO VI - XX. Annibale passa le Alpi — XXI. Battaglia della Trebbia CAPITOLO VII - XXVI. Battaglia di Tor(osa — XXVII. Presa di Cartagine Nuova CAPITOLO VIII - XXXII. Istituzioni militari dell’Impero
CAPITOLO IX - XXIV. I guerrieri feudali — XXV. Le milizie cittadine CAPITOLO X - XXXVII. Le compagnie di ventura CAPITOLO XI - XLVII. Progresso dell'arte bellica da Carlo VIII a Gustavo Adolfo NOTE

CAPITOLO PRIMO

I. La guerra. — IL Rudimento della tattica italiana. — III. Istituzioni militari de' Romani. — IV. Evoluzioni ed accampamenti.

I. Sarebbe cosa strana farsi a distendere l'apologia della guerra in tempo che tutti scrivono contro. Di recente ne parlò distesa mente il Macchi ne’ suoi studi politici, con quella fede ed amore per la causa dell'umanità che lo hanno sempre distinto. Ma gridare contro la guerra e contro i rigori del verno sembra la medesima cosa. E se la mente non pena a figurarsi un’era in cui il perfetto equilibrio degl'interessi mondiali farà sparire un tal flagello, si può eziandio, senza notare la ragione, supporre la terra raddrizzata nella sua ecclitica, e ritornata ad una perenne primavera. Ma come un tal fenomeno non potrebbe verificarsi senza un cataclisma, così quell'era fortunata non sarà che la conquista di una gran guerra lunga e terribile. E discorrendo in questo libro di guerre e di battaglie, e volendo convincere noi italiani della superiorità che abbiamo sugli stranieri, come guerrieri, e giusto, mentre gridano contro la guerra, rammentare, che senza la guerra z la civiltà non sarebbesi sparsa sul mondo romano. I paesi settentrionali sarebbero rimasti tartari senza conquistare il decrepiti impero; e forse gli ultramontani non avrebbero quella civiltà di cui si vantano senza le incursioni in Italia? La civiltà tenta livellarsi come le acque; la guerra non sa che abbattere le dighe, distruggere città e nazioni; ma in ognuna di queste vicende l’umanità progredisce d’un secolo verso la civiltà mondiale, perciò non dovrebbero schifare la guerra coloro che la grandezza patria e quella dell’umanità sacrificano volentieri. Ma utile o nociva che sia la guerra, pur n’è forza accettarla. L’Italia deve ad essa le glorie passate, e la schiavitù presente, e da essa solamente può sperare giorni migliori. I propugnatori della pace dovrebbero dimostrare che tutti gli interessi di diversi popoli, e delle varie classi ih un popolo medesimo, sono in un perfetto equilibrio, oppure se non ci è equilibrio, dimostrare come possa esso stabilirsi senza la guerra, cioè come possa mutarsi l'umana natura. Ma finché l’Europa è in balia di tre o quattro despota sostenuti da una selva di baionette, finché in Europa la decima parte degli abitanti vive eziandio nell’opulenza, mentre nove decimi vivono producendo nella miseria, parlare di pace perpetua (parlo ai signori del comitato della pace) è inutile ipocrisia.

Gli eserciti permanenti non si distruggono con impedire che l'Austria contragga prestiti in Inghilterra, costringendola cosi a farli con maggior suo profitto in Italia mediante la forza delle. baionette; ma con argomenti che dimostrano a quelle stupide masse i vantaggi che la libertà promette e ove non vogliano intenderla colle buone, combattendogli con la forza della disperazione e col coraggio di un profondo convincimento.

II. Il primo errore che ci faremo a combattere è la credenza quasi universale che i greci furono nell’arte bellica nostri maestri; né la cosa sarà difficile, perché nessuno ha cercato dimostrarlo, ma tutti Phanno ripetuto con la petulanza dell’oca che ripete i pezzi d’un discorso.

Il modo di vivere, la natura del suolo, i rapporti sociali, e Pendole dei popoli, modificano ed infermano Parte bellica. Ciò nulla ostante, essa presentasi quasi sotto aspetto uniforme ne’ suoi primi rudimenti, i quali corrispondono al sorgerò delle umane società. I selvaggi sparsi in tribù, combattono a drappelli; le armi da getto prevalgono, come quelle più adatte a un combattere d’imboscate e di fughe, che può dirsi caccia più che guerra, o Panello che questa unisce a quella.

Dalle tribù, ovvero da vichi o paghi passando all’epoca della

colleganza di questi che formano numerose naziona le quali tutte insieme combattono, la guerra non è più 4’ imboscate, ma cangia d’aspetto. I molti combattenti vogliono spazio al camminare, al combattere, sussidi per vivere, e quindi, un certo ordine è indispensabile, la scelta del campo di battaglia diventa cosa importante. Nel momento 0ella battaglia f istinto guerriero spinge ognuno a cercare il nemico, e quindi pi disporranno naturalmente in una fropte irregolare ed estesa, e questa fronte sarà continua perché alPavvicinarstdel periglio, dall'istinto medesimo sospinti i guerrieri si serreranno spalla a spalla. Non può l'uomo così disposto nella folla adoperare Parma da getto, né godrebbe della vista inebbrìante del nemico spento dal partito colpo; se nqu che la turba formidabile in. cui la forza collettiva centuplica il coraggio individuale, è spinta innanzi da proprio impulso; il campo sparisce, la mischia decide della vittoria, e le armi da mano prevalgono. Anche oggigiorno, che le armi da getto sono perfettissime, vediamo le moltitudini irregolari o correre sul nemico, o fuggire; e ciò avviene poiché per bene adoperare, le armi da fuoco, si richiede un ordinamento, una tattica, un comando. —Fin qui la guerra non è un’arte.

Ma, quando una nazione si ferma su di un, suolo, e ha una patria, con la patria sorgono le istituzioni militari e civili. Allora si procura di rendere appropri guerrieri più facile il sconoscere ed il combattere, primi rudimenti di tattica, se hai un paese da difendere, un altro da attaccare e quindi una base ed un obbietto, primi rudimenti di strategia. La tattica si va perfezionando, gli ordini folti o sottili, continui o radi, secondo le armi, Pindole de' guerrieri, il terreno ove cohnbattono.

Quelle guerre primitive delle picciole tribù sparse fra alpestre balze delle alpi e degli appennini, le quali poi riunitesi in più numerose nazioni dal guerreggiare per bande passarono alle invasioni ed alle guerre in tumultuanti e numerose turbe, si perdono nell’oscurità de' secoli che furono. Nel tempo da cui la storia prende le mosse, l’Italia è adulta, la guerra è già un’arte, non così per la Grecia.

Omero, o i poemi omerici, cantano le geste de' greci all'assedio di Troia, Liskenae e Sauvan da que’ versi che narrano del muovere de' Greci, misurato, silenzioso sotto i loro capi, l’addensarsi di guerrieri presentando al nemico una muraglia di ferro irta di picche, ne conchiudono, che sin d’allora pe’ Greci la guerra era un’arte. Per condurre tanti guerrieri, nutrirli in terra straniera, disporli e muoverli nel combattere, erano indispensabili ordini, provvedimenti per cui ne’ capi, oltre il valore si richiedeva senno. Ma riflettiamo sulle battaglie in quel medesimo poema descritte, e vedremo il combattere delle schiere perdere qualunque, importanza incontro alle splendide prodezze degli Achilli, degli Ettori, degli Enea, degli Aiaci, che per tutti i versi scorrendo il campo su velocissimi carri, duellando scompongono gli ordini, e sono essi che vincono le battaglie, e non già la dispositura delle schiere, e le evoluzioni. Allora il valore individuale prevale agli ordini, e quel poema è una prova, che non ancora in quel tempo il combattere era un’arte pe’ Greci.

La prima battaglia in cui devesi all’arte la vittoria, fu quella di Timbrea combattuta fra Ciro e Creso, quasi ducente anni dopo la fondazione di Roma. Mentre nelle narrazioni che abbiamo da Livio delle battaglie combattute da' Romani, leggiamo i provvedimenti, il disegno di chi imperava sulle schiere, e quindi il muovere di esse, di un’ala, del centro, non già d’individui. Quelle battaglie non sono una mischia confusa, nella quale altro non havvi di notevole che il duellare de' più prodi, come quelle descritte da Omero, dal Berni e dall’Ariosto, durante la barbarie ricorsa. Non erano in Roma i capi delle tribù che venivano coi loro chenti ad arruolarsi sotto una comune bandiera, ma erano tutti i cittadini ripartiti secondo gli ordini; non era lo scompartimento delle schiere sottoposto all’autorità più o meno estesa dei capi, ma il comando di questi esteedevasi secondo che richiedeva il comune ordinamento. E questi ordini già esistevano cento settantasei anni dopo la fondazione, perché conforme ad essi venne regolata la classifica de' cittadini, quando fu instituito il censo. Adunque il guerreggiare fu sempre un’arte presso i Romani, e lo fu molto prima che noi fosse pe’Greci. Nè queste sole sono le ragioni.

Testé dicemmo che gli uomini, per combattere in grandi masse, naturalmente si addensano in una sola e continua fronte, la cui profondità varia secondo l'ampiezza del campo, e l’animosità dei guerrieri. Armate costoro con lunghe lancie, difendeteli con solidi scudi, con elmi e loriche adattate all’arma, la profondità degli ordini, dividete la estesa fronte in grandi parti, onde renderla più mobile, ed eccoci alla falange, eccoci già innanzi nella tattica de' greci.

La falange non fu che imitazione dei grossi battaglioni persiani, e degli immensi quadrati egizi, ordinamento naturale a' numerosi guerrieri asiatici, ed adattato alle pianure ove combattevano. Suddividete ancora la falange arrestandovi alla fila, ed essa diverrà flessibilissima e suscettibile di prendere le forme più vantaggiose al combattere, e la tattica greca è già perfezionata. Una seconda linea è inutile, la densità degli ordini non permette che essa si costituisca alla prima, la sostenga, la raccolga; questa seconda fronte verrebbe rovesciata dall’urto de' fuggenti.

I guerrieri romani non si schieravano l’uno accanto all’altro, ma ognuno, per esser abile ad armeggiare, occupava cinque o sei piedi quadrati. La ragione avea corretto l’errore dell’istinto, aveva dimostrato più utile restar libero ne’ movimenti che serrarsi insieme. Non fu una grande e pesante parte di un’intera fronte che formò l’unità dell’ordine di battaglia romano, ma il mobilissimo manipolo, e le tre fronti, su cui schieravano i manipoli, non erano continue, ma rotta la prima, poteva questa ritirarsi per la radità degli ordini della seconda, e queste due unite incastrarsi nella radità degli ordini della terza; e cosi in una battaglia tre volte si rifacevano. Quale delle due tattiche, la greca o la romana, scostavasi più dalla barbarie? Che cosa potettero i Romani apprendere da' Greci che diversamente combattevano? Già di troppo abbiamo anticipato sulle cose che avremo a dire, ma ci è stata forza distruggere questo primo errore, onde dal ragionamento venir condotti ad altra importantissima conseguenza.

Tutti gli storici, ed eziandio l’esattissimo Polibio, concordano nel dire spagnuola la spada che usavano i Romani, ma tale opinione è erronea; i Greci e propriamente gli Eoli e gli Achei incalzati dalle invasioni doriche, furono i primi in contatto cogli Spagnuoli. intanto fra i Greci prevalse la larissa: Annibale compose nelle Spagne il suo esercito, ed in Italia dopo la battaglia del Trasimeno armò i suoi guerrieri con le armi romane, che dovette perciò trovarle migliori delle sue. La Spagna trovavasi a quel tempo in completa barbarie; i Romani erano già dottissimi guerrieri; eglino dalia fondazione di Roma ovvero prima di venire in contatto cogli Spagnuoli, usavano quella strada, chi dunque rie introdusse l’uso fra essi? Se i Romani non combattevano mai da barbari, né potettero adottare la tattica greca perché la loro fu anteriormente perfezionata e fu da quella differentissima, da chi vennero addottrinati nel combattere? da chi imitarono le armi? fu il sommo Giove forse che ispirò il loro padre Quirino? non è difficile rispondere a questa domanda.

Gli Etruschi erano civilissimi, ed avevano già sostenute lunghissime guerre con gli Umbri e co’ Liguri, i Campani sono descritti da Livio, allorché vengono in contatto co’ Romani, come un popolo ammollito dal lusso, ma un tempo guerriero in Sicilia combattevasi con guerrieri mercenarii, quindi doveanvi essere ordini e capi per comporre e capitanare cotesti eserciti di soldati. Dionisio sbarcò a Locri con 20 mila fanti e 3 mila cavalli. I Lucani suoi alleati scesero da' monti con 3 mila fanti e 3 mila cavalli. Livio ci descrive cosi gli eserciti sanniti: «Erano due gli eserciti, dice l’autore, l’uno aveva gli scudi cesellati d’oro, l’altro li aveva cesellati d’argento. La forma degli scudi era cosi; la parte superiore con cui si copre il petto e le spalle, più larga, con la sommità eguale, l’inferiore stringeva a guisa di cuneo per facilità di maneggio. Avevano il petto difeso da una specie di feltro; la gamba sinistra vestita di gambiera; l’elmo con cresta che aggiungeva alla grandezza della statura. I militi cogli scudi aurati avevano tuniche di rari colori; quelli cogli scudi di argento, le avevano di candido pannolino». — Ed in altro luogo allorché descrive il numero de' Sanniti contro i Campani, che per cavalleria prevalevano, dice; «che scesero da' monti Tifati, ove erano accampati, in ordinanza quadrata». Tutto ciò prova che presso i popoli italiani il combattere era arte, anzi fra alcuni quest’arte era già decadente.

Stabilito questo fatto, se s i pone mente alla narrazione delle battaglie combattute dai Romani contro i Galli, i Cartaginesi, i Greci, tosto si rileva la grande differenza che passava fra gli ordini di quelli, ed il tumultuario combattere de' Galli, e l'ordine continuo de' Cartaginesi e la falange greca. Ma quando i Romani pugnano con gli altri Italiani, don è possibile scorgere differenza di sorte alcuna. Livio numera le loro schiere, come ne’ Romani, in sezioni; parla di gambiera che corriva la sinistra gamba de' Sanniti; e l’altro passo, allorché descrivendo una battaglia co’ Volsci dice: «si urtano cogli scudi, lampeggiano i brandi» mostra che le armi eziandio erano le medesime. E di più allorché dalla cima di un monte il tribuno Pubblio Decio osserva le schiere sfinite, esclama: «come sono incerti, come affollano le insegne» il che altro non può significare che l’un su l’altro serravano i manipoli, non potendo per l’incertezza dell’evoluzioni serbare la debita distanza. In altra battaglia i Romani presero a' Sanniti 170 bandiere, adunque i Sanniti dividevano le loro schiere per insegne, ed ognuna di queste raccoglieva un picciol numero di guerrieri, che è dire manipoli: quindi la tattica de' Romani era la medesima che quella degli altri popoli d’Italia.

Da,quanto sinora dicemmo siamo condotti alle seguenti conclusioni: 4. I Romani non poterono apprender nulla da' Greci, né
adottare la spada degli Spagnuoli: 2. Dalla fondazione di Roma
essi non combatterono mai da barbari; 3. In tale epoca presso
gli altri popoli d’Italia il guerreggiare era un’arte, e per molti
fra essi un’arte già decadente: 4. Le armi e gli ordini con cui
combattevano e rischiavano i Romani erano gli stessi degli altri
popoli d’Italia. Or dunque che cosa può derivare da cotesti fatti?
0 che gli altri popoli italiani, che spregiavano da principio i Romani, avessero adottato tutti una nuova tattica da questi inventata, o che i Romani, fuorusciti delle altre parti d’Italia, donde
trassero le istituzioni civili, adottarono eziandio le armi e gli ordini di quei popoli da cui essi originavano; opinione che Cesare
conferma dicendo, che i Romani gran parte della guerra l’appresero da' Sanniti; opinione confermata eziandio dal naturale procedere degli avvenimenti. Infatti un popolo che insorge, adotta per
combattere gli ordini medesimi che sono di uso nel proprio paese,
e però que’ gruppi di pastori che Romolo conduce contro di Amulio, ripartiti in drappelli, ognuno alzando per insegna un gomitolo
di Aedo alla punta di un’asta, ò l’imitazione dell’ordinario manipolare degl'Italiani, nella guisa che ad imitazione delle milizie permanenti oggi i ribelli si affrettano per combattere, a dividersi in battaglioni. Dunque la breve spada fu un’arma di origine affatto italiana, e quale si conveniva alla bravura di que’ popoli, e l’ordine manipolare fu principio e base della tattica italiana, come il più adatto all’arme in uso, come quello che abilitava que’ popoli, soliti di combattere in oste numerosissima, a facilmente schierarsi a battaglia sul suolo d’Italia, frastagliato per ostacoli, e la più parte tortuoso. Sola cosa, forse, che potrebbe dirsi esclusivamente romana, fu la legione.

III. Stabilito e dimostrato che l’ordine manipolare e la spada son di origine italiana, ci faremo a svolgere la tattica e le istituzioni militari de' Romani, per trarne poi altre importanti conclusioni, e meglio scorgere nelle loro gesto il progredire dell’arte.

Ogni cittadino romano da' 47 a 50 anni era obbligato, se chiamato, a prendere le armi a difesa della, patria. Ma ordinariamente il servizio militare durava sedici anni pe fanti e dieci per i cavalieri.

Niuno in Roma poteva aspirare a magistrature civili, se non avesse servito dieci anni come fante, o cinque come cavaliere. Quindi in ogni romana famiglia v’erano guerrieri, e le prime sensazioni che modificavano l’istinto d’un Romano fanciullo erano di cose guerresche. Guerriero il padre, i fratelli, i congiunti, di guerra i primi suoni che udiva, il brillar d’un elmo, d’una spada, e le spoglie nemiche, trofei di cui fregiavano le domestiche pareti, i primi oggetti che fissavano l’incerta sua vista. La guerra, la politica, le gesto presenti o passate dell’esercito, la disciplina dei campi, i primi ragionamenti di cui esso cominciava a raccogliere il senso. Usciva dalle domestiche mura, e vedeva i cittadini occuparsi di milizia più che d’altro. I tempi, i monumenti che illustravano la città, non rammentavano che fatti egregi di guerra, e di guerra parlavano i voti consacrati ne' tempi. Spettacolo magnifico il trionfi», ripetute volte durante i suoi primi anni, ne colpiva l’immaginazione; e fra i guerrieri cheprecedevano il carro il fanciullo riconosceva i suoi parenti, forse il console stesso eragli congiunto, era suo padre, ed in tal caso, ammesso nel carro cominciava da si tenera età ad assaporare la gloria. Appena adulto correva in Campo Marzio, ed ivi la lotta, la corsa, il nuoto, ne preparavano le tenere membra a ludi più marziali. Venivangli consegnate le armi, la spada curia, larga, a doppio taglio, e di punta aguzza, ed il pilo, arma astata, lunga poco più che sei piedi, ad offesa. A difesa l’elmo crestato, lo scudo, la lorica, e solo un guardacuore, piastra di bronzo spaziosa che adattavano sul petto, un gambiere per la sinistra gamba che avanzavano nel combattere e finalmente tre piume nere o rosse sormontavano il cimiero, pendendo cosi più marziale l’aspetto, e più grande la persona.

Con armi di legno, pesanti il doppio che le ordinarie, si addestravano i giovani a maneggiarle. Un palo alto tre braccia, solidamente conficcato in terra, simboleggiava il nemico. Contro ad esso lanciavano il pilo, che brandivano con la destra all’altezza dell’orecchio, ed avanzando il piè sinistro di poco, si poggiavano sul destro quasi puntello al corpo così atteggiato. Si addestravano poi con la spada, vibrando colpi contro di esso palo e nel tempo medesimo covrendosi con lo scudo. Essi avanzavano la gamba sinistra ed il corpo insieme, sicché appoggiato su di essa s’inclinava alquanto; piegavano il sinistro braccio con lo scudo portando il gomito all’altezza della spalla. Per tale modo il gambiere, le scudo e l’elmo presentavano al nemico una difesa impenetrabile; si col medesimo sinistro lato lo serravano, l’urtavano, mentre eoi destro, coperto e difeso dall’altro, e libero da ogni impaccio, facendo la gamba sinistra perno de' loro movimenti, stoccheggiando sempre vibravano colpi. Tito Livio descrivendo il duello di Manlio, detto poi Torquato, con un Gallo, dice: Il gallo di forme gigantesche «e rilucente di fregi, sorrise nel vedersi incontro il giovane Romano di mezzana statura, non d’altro ornato che d’armi ben adatte e forbite. Alza il Gallo con gran fracasso la sua curva sciabola, e cala un fendente, lasciandosi perciò indifeso il corpo, riceve il Romano il colpo sullo scudo, e con questo urtando la t parte inferiore dello scudo nemico lo scrolla, mentre con rapido movimento, passando il lato destro innanzi, vibra due colpi di punta e l’uccide».

Il Tevere che scorreva lungh’esso il campo, invitavali al bagno e li addestrava al nuoto. E finalmente carichi più che non dovessero in guerra s’avvezzavano i fanti a lunghissime manciate.

I passatempi della gioventù romana non erano altro che simulacri di combattimenti. Nel Circo i gladiatori si azzuffavano, ed erano maestri nell’armeggiare. Alcune volte numerosi armati erano introdotti che eseguivano l'evoluzioni usate in guerra, ed altre più eleganti e difficili. Tra queste una specialmente merita menzione. Stretti in ordinanza quadrata, s'inginocchiava la prima fila, si abbassava la seconda, la terza meno di questa, ancor meno la quarta, l'ultima alzando gli scudi sulla testa, rimanevasi ritta, e formavano così una testuggine su cui due guerrieri saltavano, e duellandosi ora nel mezzo di essa, ora sui lembi, si governavano su tale superficie non altrimenti che su di stabile terreno. Un tal giuoco servi all’assedio di Tradea. Sulla testuggine che si avvicinò alle mura;salirono gli armati, che messi così al livello de' difensori, li cacciarono, e saltarono nella città.

L'elmo ed un piccolo scudo erano le sole armi a difesa de' cavalieri. La lancia, e una lunga spada a offesa. Non sella, non staffe, una semplice pelle covriva il dorso del destriero, sul quale montavano saltando dal destro al manco lato. Correvano gli avversari con le lance basse, Puno addosso dell’altro, e rotte queste, o ito il colpo a vuoto, s’investivano con la spada. Modo di combattere, che chiaro si scorge negl’incontri parziali. Arante figliuolo di Tarquinio, precedeva l'esercito de' Veienti co’ cavalli esplorando, mentre Bruto precedeva il Romano. Allo scorgersi i due nemici, escono entrambi di stuolo e corrono ad affrontarsi. È troppa l’ira per poter pensare alla difesa, non mirano che all’offesa, e conia lancio trapassati gli scudi cadono entrambi trafitti.

Dall’infanzia dunque cominciava la militare educazione de' Romani, ed ogni cittadino, quando raccoglievasi intorno alle insegne, era già disciplinato, addestrato alle armi ed avido di gloria. Come ivi si ordinavano, come combattevano in oste, verremo ora accennando.

Ogni legione componevasi di quattromila o cinquemila fanti, e trecento cavalli; l’insegna era un’aquila, per la quale i militi avevano religioso rispetto. Il Questore distribuiva le aquile alle legioni, ed ogni legione, secondo il suo numero, aveva sempre la medesima insegna. I fanti della legione venivano divisi in quattro parti, Astati, Principi, Triarii, che nell’ordine di battaglia formavano tre linee, e Veliti che distribuiti fra le radità degli ordini, appiedavano la zuffa, o inseguivano il nemico. Erano armati i Veliti solamente di elmo, picciolo scudo, spada, e cinque o sei pili meno grandi degli ordinarli, e fionde e frecce, ed altre armi da trarre. Gli altri tre ordini presso a poco erano armati nel modo stesso; solamente gli Astati portavano pili, ed il pilo de' Triarii era più lungo e solido, da servir meglio come picca o arma da piano, e non già come arma da getto. I Triarii, quasi riscossa della legione, erano sempre 600; ì rimanenti militi, divisi in tre parti eguali formavano i tre ordini, eccetto i Veliti, o meglio ognuna di queste fronti veniva divisa in dieci manipoli, o insegne, la cui forza, costante pe’ Triarii (60) — variava per gli Astati e pe’ Principi, da 120 a 140 militi. Tre manipoli, uno per ogni ordine, componevano la coorte. Ogni manipolo aveva due centurioni; e due insegne, che gli Astati collocavano alla dritta dell'ultima riga, gli altri alla dritta della prima, però quelli si dicevano antesegnani. «Amano essi che i centurioni, dice Polibio, siano non tanto audaci ed avidi di pugna, quanto buoni condottieri ed imperturbabili, di alto animo non per assaltare il nemico intatto, o per appiccar la zuffa, ma perché, vinti ed oppressi, non cedono, ma muoiono sul luogo». Oltre i centurioni, ogni dieci militi avevano un capo, che poteva dirsi raccoglitore. I Veliti venivano distribuiti nei manipoli de' legionarii.

La cavalleria dividevasi in dieci parti, ognuna composta di trenta cavalieri, che chiamavano torma o turma. Queste torme avevano tre decurioni. Il primo centurione eletto comandava il manipolo, come il primo decurione comandava la torma; erano gli altri destinati a surrogarlo. Le forme, come i manipoli, aveano eziandio tre cavalieri detti raccoglitori.

Ogni legione avea sei tribuni, che alternativamente ne avevano il comando, e che dal comandante supremo dell'esercito, da' Romani detto Imperatore, venivano delegati alle varie incombenze della guerra, come ricognizioni militari, antiguardie, dietroguardie, disciplina, esercitazioni delle schiere, tracciato dell’accampamento, servizio de' posti; insomma i Tribuni facevano quello che oggi fanno gli uffiziali di stato maggiore.

Le armi che usavano i Romani, richiedevano perogni milite

spazio bastante per maneggiarle, perciò la distanza di fila a fila, e di riga a riga era di cinque a sei piedi. Ogni manipolo era ordinalo su dieci di fondo; quindi ordinariamente erano dodici di fronte, quelli degli Astati e de' Principi, e sei quelli de' Triarii. la turma de' cavalieri’ su tre di fondo, presentava dieci di fronte.

I dicci manipoli degli Astati si schieravano su di una fronte, con radità eguale alla loro estensione. A duecento cinquanta piedi indietro si schieravano per manipoli i Principi con pari ordinanza; dietro a questi i Triarii. Le tre linee erano disposte a scacchiera

L'aquila della legione, affidata a' Triarii, collocavasi forse alla dritta della fronte. La cavalleria egualmente ripartita sulle due ali, ed in prima linea. I Veliti innanzi la fronte, o pure nella radila degli ordini. Battevano i militi le armi sugli scudi, alzavano un grido, segno di esser pronti alla pugna e sii da mortale al nemico: i Veliti con le armi da getto appiccavano la zuffa; raccolti poi questi dietro le linee, movevano gli Astati a passo celere, con uno de' più nella mano destra, l’altro nella sinistra dietro lo scudo. Giunti a dieci o dodici passi dal nemico lanciavano il pilo, e di corsa assalivano col brando, e urlavano con lo scudo. Stavano i Principi pronti alla riscossa, e i Triarii intanto, piegato un ginocchio, alto lo scudo sulla testa, e le picche fitte in terra avanti di loro, sembravano barriere di ferro difese da palizzate. Respinti gli Astati si ritiravano negl'intervalli de' Principi, e questi assalivano ed arrestavano il vittorioso nemico. Se i Principi pure erano rotti, allora i Triarii raccogliendo ne’ loro intervalli quanti delle due prime linee potevano, a guisa di falange si facevano addosso al travagliato nemico. Cosi gli Astati, ed i Principi si succedevano nel combattimento conservando sempre la radila degli ordini, onde questi facilmente si portassero innanzi, senza che dall'urto di quelli ne venissero scomposte le ordinanze; i Triarii, riscossa o sussidio; (subsidia, o acies postrema) combattevano in falange raccogliendo tutti ne’ loro ordini, perocché quest’urto decideva la battaglia; né dietro ad essi erano altre schiere. Non sempre gli Astati assalivano il nemico, ma qualche volta ne aspettavano l’urto, ed in casi difficili i comandanti proibivano di lanciare il pilo, per conservare più intatte le ordinanze: «È nostra, o soldati, la vittoria, diceva Camillo a' Romani schierati incontro a' Volsci… piantando le picche innanzi a' vostri piedi, armiamo soltanto la destra con le spade, né mi piace che correndo usciate di fila, ma che standovi di piè fermo riceviate l’impeto de' nemici.»

La cavalleria poi, durante la mischia, scagliavasi contro quella dell’avversario, ovvero contro la già disordinata fanteria per sbaragliarla affatto. Spesso per dare alla carica il maggiore impelo possibile, toglievano le briglie, e spronando, si precipitavano all’assalto. Cosi fecero nell’anno di Roma 329, in una. battaglia contro i Veienti, e sotto il comando del dittatore Mamerco Emilio. Ma il più sovente, quando la pugna era dubbia, i cavalieri balzando in terra combattevano a piedi, ripiego che i Romani usavano perché poco pregevole era la loro cavalleria. In tal guisa operarono contro i Latini alla battaglia del Lago Regillo, ed a Canne contro i Cartaginesi.

La differenza nelle armi de' tre ordini non venne originala da ragion di guerra: ma ogni cittadino armandosi a proprie spese, né tutti possedendo uguale fortuna, si fecero di essi tre classi, che ebbero tre nomi diversi: ma quando lo stato armò i militi a spese del pubblico tesoro, quantunque i nomi di Astati, Principi, e Triarii si conservassero, tutti furono armati nel modo stesso, cioè come i Triarii. Mario compose il suo esercito di miserissima plebe, e con militi di manco nervo fu costretto a stringere la radità degli ordini; quindi al degenerare di Roma l’ordine manipolare degenerò, e venne ad esso sostituito quello per coorte, che divenne l’unità della linea di battaglia; la tattica accennava al tramonto.

Decretata dal Senato e dal popolo la guerra, i Comizi stessi che nominavano i Consoli, nominavano parte de' Tribuni militari; alti i erano nominali da' Consoli stessi, sino al compimento del numero che ne richiedeva l’esercito. Per esser Tribuno era d’uopo aver militato almeno cinque anni. Sei Tribuni rappresentavano una legione. Erano convocate le tribù, e facevasi da' Tribuni la scelta de' militi: quindi assegnando loro il giorno, il sito e l’ora che dovevano riunirsi, senz’armi li licenziavano. Al giorno prolisso i Tribuni d’ogni legione sceglievano seicento, i più vecchi e provetti guerrieri, e ne formavano i Triarii; degli altri facevano tre parli, di cui la migliore era dei Principi. seguiva quella degli Astati, e

i rimanenti erano detti in principio accenses, e come gente da poco li collocavano dietro i Triarii; ma poi migliorati, ne formarono i Veliti. Fatta questa ripartizione, procedevasi all'elezione degli ufficiali; si licenziavano di nuovo ed appuntavasi il giorno ed il luogo ove far massa; ivi tutti si presentavano armati, si arringavano ne’ prestatoti ordini, e partivasi.

IV. Con un quarto di girata a destra, per manipoli, la legione dall’ordine di battaglia passava a quello di marcia, che risultava in tre colonne, quante erano le linee. Non serravano i Romani gl intervalli, ma collocavano in essi le bagaglie, che ogni manipolo aveva innanzi di sé. Minacciati sul lato sinistro, ovvero dalla parte degli Astati, facevano tutti a sinistra, e marciavano innanzi per quanto era necessario a sbarazzarsi degl'impedimenti che sostavano; quindi con un quarto di girata a sinistra per manipoli erano in battaglia. Se minacciati dal lato destro, ovvero dalla parte de' Triarii, con una marcia pel fianco destro sortivano dalle bagaglie, e con un quarto di girata a destra fronteggiavano il nemico: allora gli Astati, che in tal caso erano gli ultimi, traversando per la radila degli ordini si facevano contro al nemico, seguivano i Principi, non muovevano i Triarii, e cosi le tre linee riprendevano l’ordine naturale. In tal guisa marciava Metello allorché Giugurta tentò di sorprenderlo.

Una catena di monti incolta e deserta innalzavasi a 20 miglia dal Mutus, fiume il cui corso alla giacitura de' monti era parallelo. Tra i monti e il fiume correva vasta pianura, deserta anch'essa. Un altissimo colle, controfforte della catena, di olivastri e di mirti vestito, inoltra vasi sul piano. Lunghesso Giugurta, in sottile ordinanza imboscato, attendeva il Console, onde piombargli sul fianco.

Metello, che vigile marciava all’avanguardia, dall'alto de' monti gli occhi infra il piano sospinse, e scorto l’incerto scintillare delle armi nemiche sostò. Era il Iato destro il minacciato, e governandosi nel modo anzidetto, fece di quel fianco fronte, e pel fianco sinistro mosse le tre linee e con l’esercito fronteggiante sul minacciato fianco scese al piano, venne assalito, e vinse.

Se poi lontani dal nemico dovevano i Romani far lungo cammino sulla calpestata, si piegavano in colonna per coorte. Ogni manipolo probabilmente disponeva» per tale evoluzione ricucendo ai terzo l’estensione di sua fronte. Incastravano nel primo terzo le file degli altri due, e quindi ordinariamente risultavano su quattro di fronte gli Astati ed i Principi, su due i Triarii; e su trenta di fondo, occupando per dritto, perché serrati gli uni contro gli altri i guerrieri, lo stesso spazio che occupavano su dieci di fondo. Quindi formavano le coorti venendo i Prìncipi ed i Triarii ad incontrarsi negli intervalli degli Astati; movimenti che potevano eziandio eseguire scegliendo per base i Principi o i Triarii. in ogni caso questi alla sinistra della coorte occupavano due file, quindi quattro erano di Principi, le altre quattro d’Astati, e cosi la coorte risultava su dieci di fronte, e trenta di profondità. Formale le coorti, si piegavano in colonna semplice sull’una delle due ali, o doppia sulle due coorti del centro. In questa dispositura marciava Flaminio allorché venne sorpreso da Annibale al Trasimeno.

Ad ogni Console affidavano i Romani un esercito: se poi la fortuna di guerra riuniva queste forze, i due capi alternavano nel comando. Il Dittatore era solo supremo capitano, e sceglieva a suo piacere up altro cittadino, come maestro de' cavalieri, dignità seconda, che in assenza di quello comandava le schiere.

Ordinariamente un esercito componevasi di due legioni Romane, e delle milizie alleate, che erano altrettanti fanti, ed il triplo de' cavalieri. Queste forze si comprendevano ne’ limiti di 20 a 25 mila uomini. Le schiere alleate erano da' Romani divise in tre parti; una di gente eletta, che era della quinta parte de' fanti, della terza de' cavalieri; questi per lo più combattevano fuori degli ordini dell’esercito, e formavano l’avanguardia; erano insomma sotto l'immediato comando del generale; gli altri due terzi delle schiere formavano le due ali dell’esercito.

Alloggiavano in un campo di cui non variavano mai il disegno ristretto e trincerato, ove dimoravano sicuri come in città. Cercavano nell'alloggiamento il comodo delle milizie, né accampavano in ordine di battaglia, perché, attesa la natura delle armi, chiusi nel vallo, era impossibile al nemico loro malgrado combattere. Un tribuno e varii centurioni, a ciò deputati, precedevano l’esercito, e tracciavano il campo: una bandiera bianca indicava il sito del pretorio, bandiere rosse segnavano i punti principali del tracciato, le, lance i minori scompartimenti. La fronte dell’alloggiamento di un esercito consolare, di due legioni Romane, era di 850 piedi. Una via larga 80 piedi perpendicolare alla fronte divideva l’accampamento in due parti uguali. Lunghesso la via, sull’un e l’altro lato, accampavano le venti torme di cavalleria delle due legioni Romane, le cui aperture delle tende, le une di rimpetto alle altre, mettevano in essa. Addossate alle tende de' cavalieri si rizzavano quelle de' Triarii di ogni legione, le cui aperture guardavano alla parte opposta, e mettevano in una via, parallela alla prima cd egualmente larga; tal via separava le tende de' Triarii da quelle de' Principi, che erano incontro, e sulla via stessa avevano le aperture. Addossali a' Principi attendevano gli Astati, che un’altra via, come le precedenti, separava da' cavalli de' socii, che stavano rimpetto, e finalmente addossati a questi erano i fanti de' soci.

Parallela alla fronte eravi altra via di 50 piedi, che separava il quinto dal sesto manipolo, detta perciò via quintana. Un’altra via larga 400 piedi separava le tende delle legioni da quelle de' Tribuni, collocate dietro ad esse in una sola linea, i Romani nel mezzo, alle ali i Legati, che tale era il nome de' Tribuni de' socii. Dietro il mezzo della linea delle tende de' Tribuni eravi il Pretorio, o padiglione del comandante supremo. Alla sinistra di esso il Questorio, amministratore dell'esercito; a destra il mercato; agli estremi di questa linea erano allocati due drappelli di scelte milizie. Chiudevano l’alloggiamento le tende degli estraordinarii.

Una spianata larga 200 piedi circondava il tutto, e separava le tende dal trinceramento, spazio ampio da garantirli dalle armi da getto, e capace a contenere il bottino e le mandre. I Veliti erano collocati sulla spianata, e veniva ad essi affidata la guardia delle quattro porte del campo. Un fosso largo di 10 o 12 piedi, e profondo sei o sette, un parapetto, sterro di quello, battuto e consolidato difendevalo. Inoltre ogni milite portava con sé uno o più {iati aguzzi e indurati al fuoco, con tre o quattro rami ad una estremità; conficcavano questi pali nella scarpa, ne intrecciavano i rami, e facevano così una solida palizzata, difficilissima a svellersi. Ma quando il nemico era lontano, e il soggiorno breve, era più semplice il trinceramento: esso consisteva in un parapetto

dì zolle palizzato, o pure di un semplice fosso ili cinque o sei piedi.

Ogni sera i Tribuni in ogni legione distribuivano il segno, scritto su tavolette, che dopò un giro internava ad essi per riscontro. La notte i cavalieri facevano la ronda. La dimane i centurioni ed i cavalieri si portavano alla tenda de' Tribuni, onde far rapporto delle novità avvenute, e ricever gli ordini. Nel modo stesso i Tribuni si governavano col Console. La tromba de' Triarii era incaricata di suonare i segnali che indicavano i servizii del campo. Un solo comandante supremo aveva il diritto di far suonare l’assembramento delle schiere, suono che i Romani dicevano classicwm. In tre segnali levavasi il campo: abbattevano le tende e raccoglievano le salmerie al primo; caricavano queste al secondo; muovevano al terzo. Un vessillo rosso sul padiglione del console indicava vicina la battaglia. Allora i militi forbivano meglio le armi, scovrivano lo scudo, si ponevano l’elmo, si fregiavano come a festa. Il questore era capo dell’amministrazione, distribuiva le paghe, i viveri, le armi, e vendeva il bottino sotto la sorveglianza de' Tribuni. Il comandante dell’esercito spartiva il bottino della parte che spettava a' militi; una metà ne veniva loro immediatamente consegnata, l’altra depositavasi presso l’insegna; ingegnoso modo da impedire che i militi l’abbandonassero. Era assai modico lo stipendio de' militi, doppio quello de' centurioni, triplo quello de' cavalieri. De’ Tribuni era compenso la parte del bottino che ad cs. ~i spettava e l’onore di occupare sì alte cariche.

Severissima la disciplina; con la morte punivano quasi tutti i falli; se una tavoletta su cui scrivevasi il segno (P U), si disperdeva, doveva esservi fallo della ronda, o di qualche sentinella; il tribuno chiamava entrambi alla sua presenza, ed al cospetto di tutta la legione discuteva, facevali disputare tra loro, interrogava i testimoni; convinto il reo, lo mostrava a' militi, ed alzava una verga; a questo segnale tutti si facevano a tempestarlo di colpi con verghe e con sassi; il più delle volte l’ammazzavano; se scampava, la sua vita era peggiore che morte, eragli proibito il ritorno in patria, ed i parenti erano obbligati a non riceverlo. I falli minori erano puniti con le multe.

Tali erano le istituzioni militari de' Romani, cosi si governavano

in battaglia, in marcia, in campo. Ora la narrazione di alcune loro guerre mostrerà il progresso seguito dall'arte per giungere a tale perfezione e farà rilucere i mirabili vantaggi della tattica italiana.


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CAPITOLO II

V. Battaglia d'Aniene. — VI. Del lago Regillo. VII. Con Volsci. — VIII. Coi Galli. — IX. Considerazioni.

V. La tenzone degli Orazii e Curiazii, secondo il patto, rese gli Albani soggetti de' Romani: accordo a praticarsi impossibile, imperocché gli Albani non vinti si dichiaravano servi, ed i Romani pretendevano una supremazia, che solo può concedere una completa vittoria, o un’utilità scambievole.

Gli Albani cercando di coglier cagione onde rompere il patto, suscitarono contro i Romani, i Fidenati, promettendo loro defezione durante la pugna. Fidenati e Vejenti mossero contro i Romani, che dal canto loro entrarono in guerra, e passarono l'Aniene.

I Vejenti si schierano ed il Tevere fa loro spalla a destra, a sinistra sono i Fidenati che si distendono verso i colli. Tulio re de' Romani fronteggia i primi col suo esercito; il Tevere difende il suo sinistro corno: incontro a' Fidenati ed a destra de' Romani colloca gli Albani.

Romani e Vejenti muovono le insegne, si mischiano, pugnano. Sperano i Fidenati nella defezione promessa loro dagli Albani. Questi, capitanati da un tal Merio Sulfezio, uomo più adatto a congiurare che a forte operare, incerti e fluttuanti ascendono i colli, si arrestano, si distendono a destra, quasi accennando quello che temevano di compiere.

I

cavalieri Romani, scorgendo per tal movimento de' Fidenati, indifeso il fianco, ne avvertono immediatamente Tulio, che tosto riconosce il pericolo, nò trovando un pronto rimedio, simulando grida al messo con tal voce che udirlo potessero i combattenti:

«Stessero fermi alla battaglia, non esservi nulla a temere, d’ordine suo farsi dagli Albani quella mossa per assalire i Fidenali scoperti a' spalle». Credono questi alle sue parole, e temendo esser tagliati fuori dalla città retrocedono: Tulio incalza, le nemiche ordinanze si confondono; ei le sbaraglia e la vittoria è de' Romani.

Il giorno seguente, per comando del re Tulio, la gioventù Albana inerme vien circondata da una legione Romana, Alba è smantellata; Mezio fatto legare a due quadrighe, tratte in opposta distanza, è squartato. Così gli Albani furono puniti dell’errore commesso nel darsi servi, e della poca energia nel francarsi; ed i Romani confermarono di fatto que’ diritti che il caso e la fede, deboli ausiliari, avevano loro conceduti.

Nell'anno di Roma 200 per la prima volta troviamo menzionata la riscossa, ossia un corpo di riserva, nell’esercito Romano. Combattevano Romani e Latini quella famosa battaglia presso il lago Regillo, che fece de' due popoli un popolo solo. Fu incerta la pugna finché una coorte di fuorusciti Romani, seguaci del vecchio Tarquinio, diedero dentro nella mischia, e volsero a fuga i Romani. Allora il dittatore Aulo Postumio, ordinò ad una coorte ch’eragli accanto, ovvero alla riscossa , di arrestare i fuggenti e trattarli da nemici. Questi prodi si oppongono alla fuga, e quindi assalgono e rompono il nemico ch’era vittorioso ma stanco.

Seguono i Romani il loro fato che li conduce di guerra in guerra, e muovono Panno di Roma 332 contro i Volsci, nemici più volte vinti, e sempre risorti più terribili. Conduce i Romani il Console Cajo Sempronio, a cui soverchia fiducia nelle proprie armi, malinteso disprezzo del nemico, o imperizia, gli fanno negligere quelle avvertenze che davano a' Romani la superiorità in guerra. Alzano i Voteci un sonoro e concorde grido, è incerto quello de' Romani; urlano i Voteci con lo scudo, lampeggiano co brandi, vacillano i Romani, e le celate tremano loro sul capo; incalzano quelli, cedono questi, si raggruppano intorno alle insegne, fuggono In tal periglio Sesto Teroponio, decurione de' cavalieri, li esorta ad appiedare, e

formando tutti un serrato drappello, si caccino nel mezzo de' nemici. Si aprono le file dei Volsci, si lasciano trascorrere, poi li circondano separandoli dall’esercito, che visto il loro periglio torna, esortato dal console, alla battaglia che la sopraggiunta notte lascia indecisa. L’esercito Romano ed il Volsco, affranti dalia pugna del giorno e presi da panico terrore durante la notte, si ritirano ciascuno a sua volta: cosi Sesto Temponio ed i cavalieri furono salvi. In Roma è accusato il console da un tribuno della plebe che esclama. «A te, disse, domando Sesto Temponio, se stimi che Cajo Sempronio abbia appiccata la battaglia in tempo opportuno, abbia munito l’esercito di rinforzo, ed abbia compiuto tutti gli uffici che a buon Console si appartengono». — E quegli «quanta sia la scienza di Cajo Sempronio nelle cose di guerra, non tocca, lui comandante, a semplice soldato giudicare, ma toccava al popolo Romano quando l’elesse Console».

VIII. Nell'anno di Roma 405 furono Consoli Lucio Cornelio Scipione, patrizio, e Marco Popillio Lenate plebeo. Quest’ultimo muove contro i Galli. Sosta il Console su di un poggio, donde tutta scorgeva l’oste nemica, ed ivi giovandosi del terreno comincia ad elevar ripari. La sapienza guerriera del Console è presa da' barbari nemici per segno di paura, sicché imbaldanziti assalgono gli Astati e gli altri della prima fronte. Sostengono i Romani l’urto e respingono il nemico, mentre i Triarii continuano il lavoro. Vede Popillio precipitare i Galli già per la china, e da provetto capitano afferra l’occasione, gl’incalza, gl’insegue e scende al piano. Ivi i Galli si arrestano, e riutegrati da' loro soccorsi volgono la fronte al nemico e ne sostengono l’urto, ma i Romani rompono il centro, li sbaragliano, e ne fanno sterminio.

IX. Le quattro battaglie che abbiamo in succinto narrate, conservando del testo quei ino li e quelle espressioni che davano luogo ad importanti conseguenze, ci offrono copiosa materia a riflettere. Nella prima di esse, combattuta ottantadue anni dopo la fondazione di Roma, osserviamo come i Romani si giovarono degli ostacoli naturali onde far spalla al loro esercito, come non solo il capo, ma i cavalieri furono costernati nello scorgere privo di difesa il

loro fianco; onde s’ha a dire che queste regole della tattica erano già popolari presso di loro. Scorgiamo come i guerrieri si ressi curarono alle parole di Tulio, il che prova che essi speravano di conseguire la vittoria mediante l’evoluzioni ordinate dal generale. Dunque non combattono da barbari in turbe tumultuanti, ma hanno ordini, tattica, e disciplina, insomma guerreggiano con arte, che non potendo essere una loro immediata creazione, era per fermo quell'arte militare de' popoli Italiani da cui essi originavano.

Da questa medesima battaglia risulta che i Romani erano disposti in una sola fronte, imperocché un capo prode e chiaroveggente come Tulio non avrebbe dubitato di occupare immediatamente lo spazio vuoto, rimasto dagli Albani, con le schiere; se ve ne fossero state, riserbate alla riscossa. Ma su questa fronte i guerrieri erano collocati a spalla l’uno dell’altro, a modo di falange, come molti scrittori pretendono? Pare di no. I Romani combattevano con lo scudo e la spada, e per maneggiare tali armi richiedevasi il debito intervallo fra un guerriero e l’altro; ed inoltre perché essi avrebbero rinunziato a' manipoli che formarono dal primo istante che si raccolsero sotto il comando di Romolo? Eglino adunque si schierarono, ne’ primi anni della fondazione di Roma, su di una sola fronte, ma per manipoli e non già in linea continua. La conferma che essi si disponevano in tale ordinanza, e che nella guisa medesima combattevano gli altri popoli Italiani, la troviamo nella battaglia combattuta contro i Volsci. Sesto Temponio fa appiedare i cavalieri, e con essi assale il nemico: ma i cavalieri sono armati di lunghe lance e piccoli scudi; quindi Temponio ne compone un drappello in cui sono serrati l'uno accanto dell'altro, e cosi urta i fanti nemici. Questi per contro, siccome combattono con la spada, e non sono disposti in ordine continuo, non ricevono l'urto di questi cavalieri, ma si aprono innanzi ad essi, li lasciano trascorrere, e tornano ad incalzare i Romani col brando, mentre ciò sarebbe stato impossibile se i Volsci avessero costumato di schierarsi a modo di falange.

I principii su cui si fondano questi due modi, Greco e Romano, di schierarsi a battaglia, sono affatto diversi. L’ordinanza Greca fidava tutta nel primo urto della falange; che rovesciava le schiere nemiche; la Romana per contro nell'ostinato combattere che aveva luogo dopo che si erano già incastrati col nemico, combattimento in cui i militi si succedevano con non interrotta vicenda.

Al lago Regillo per la prima volta è menzionata la riscossa. Nella battaglia contro i Galli la prima volta i Triarii. Ma Livio non diffondesi mai sui particolari delle battaglie, e in tutta la sua storia solo poche volte troviamo distinte le tre fronti; l’anno di Roma 409, come narrammo, ed it 415 come vedremo in seguito: e però il non trovare menzionati da Livio i tre ordini prima di tal epoca non è una ragione per argomentare che essi non esistessero, mentre il censo, stabilito da Servio Tullio l’anno 176, a cui questi ordini servirono di base, non ci fa dubitare che essi esistessero fin da quell’epoca. Inoltre non è possibile che ne’ quattro secoli di guerra durante i quali i Romani vinsero i Sabini, i Fidenati, i Veienti, gli Albani, respinsero gli Etruschi difensori de' Tarquinii, vinsero Volsci e Ardeati, e debellarono i Galli, avessero riportate tante vittorie schierati in una sola fronte e senza perfezionare la loro tattica.

Dopo l’esposto possiamo conchindere che assai del vero toccheremo affermando che i Romani serbarono una riscossa appena furono al caso di farlo senza troppo restringere, per difetto di numero de' guerrieri, l'estensione della loro fronte, e questa schiera eletta, ingrossandosi, fu de' Triarii, i quali si schieravano dietro la prima fronte composta da' Prìncipi. Inoltre la gioventù nuova alla guerra, non bene armata, combatteva innanzi la fronte quasi alla spicciolata, col pilo ed altre armi da trarre, detti perciò Astati, ed anche Antesignani. Dietro a' Triarii poi si collocavano gli Accenti, ribaldaglia atta più a predare che a combattere. In tale stato dovettero meglio armarsi, ed allora anch’essi combatterono come i Principi, con la spada in ordinanza e formarono la prima fronte; mentre che degli Accensi si composero i Veliti. Quest’ultimo perfezionamento ebbe luogo nel corso del quinto secolo, durante la guerra co’ Sanniti, imperocché nell’anno 415 gli Accensi esistevano ancora.

Finalmente l’interrogazione del Tribuno a Sesto Temponio, se il Console avesse appiccata la battaglia in tempo opportuno, e munito l’esercito di sussidio, e la risposta di Temponio, mostrano chiaramente come non solo i Romani pregiassero Farte nel combattere, ma l’avessero per le mani, e fosse cosa popolare, e mo

stra eziandio che dalla saggezza e dalla scienza del capitano si aspettasse la vittoria, ed in quanto pregio fosse tenuta la disciplina: e tanto la saggezza del capitano, quanto la disciplina dell’esercito la vediamo rilucere nella battaglia co’ Galli. In tale circostanza il Console nulla trascurò delle precauzioni che valgono ad assicurare la vittoria: attentamente osserva il nemico, giovasi del terreno, eleva ripari, e quindi, scorta propizia l’occasione, passa rapidamente dalla difesa ad un impetuoso e decisivo assalto, e l’esercito seconda mirabilmente i disegni del capo, prima con imperturbabile pazienza, poi con terribile impeto.

Dopo tali considerazioni possiamo stabilire, che i Romani dopo quattro secoli di guerra signoreggiavano appena il bacino del Tevere, ed al meriggio si estendevano fino al Liri. Tra i limiti di un teatro così ristretto, la strategia, l’arte di eseguire lunghe marciate, il vettovagliarsi, non poterono progredire, ma la loro tattica, l’adattamento di essa al terreno, comeché non contasse ancora le splendide applicazioni che ne fece Scipione, avevano raggiunto un certo grado di perfezione. I loro ordini erano per manipoli, su tre fronti, in ordinanza saltata, co’ cavalieri alle ali. I capitani erano espertissimi nel maneggiare le schiere; perfetta la disciplina; e già universale sentimento quella costanza che li rese padroni del mondo, e che nell’anno 352 faceva pronunciare nel Senato ad Appio quelle parole che chiaramente lo qualificano: «altro termine non conosciamo nella guerra che la vittoria e non guerreggiamo tanto con l’impeto, quanto con la perseveranza».


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CAPITOLO III

X. Battaglia del Gaurus. Combattimento di Satinila. Sorpresa di Suessola. XI. Battaglia del Vesuvio. — XII. Imboscala della valle Caudina. XIII. Considerazioni.

X. I Campani assaliti da' Sanniti, dichiarandosi sudditi de' Romani, furono la cagione di quella guerra lunghissima combattuta fra i due più forti popoli Italiani; premio al vincitore era la signoria d’Italia; il fato si compiva all’istante che il brando sannita s’incrociò col romano, l’Unità Italiana divenne immancabile.

Due eserciti romani l’anno 412 muovono a guerra. L’uno condotto da Valerio Corvino entra nel territorio Campano; l’altro da Cornelio Cosso nel Sannio. Valerio presso una collina detta Gaurus scontra il nemico, ed appicca con esso fiera battaglia: si mischiano pugnando ostinatamente i fanti, e nessuna delle due parti accennai piegare, o cedere. Scaglia Valerio i cavalieri nella battaglia, ma essi si dimenano invano in angustissimo spazio; saldo il Sannita conserva gli ordini; rinnovano i fanti l’attacco, ma non cangiano per ciò le sorti della pugna; già il sole accenna all'occaso, già sembra che a' Romani mancassero le forze, quando» accesi d’ira, «scrive Livio, si lanciano in mezzo de' nemici. Allora |er la prima «volta fu visto il Sannita ritrarre il piede e piegare a fuga». La costanza, l’ostinazione nella pugna diede a' Romani la vittoria, ma le armi, gli ordini, il valore de' due popoli si pareggiano in questa battaglia.

Cornelio entrò nei Sannio, e per la prima volta i Romani furono costretti ad eseguire marciate lunghe e faticose attraverso un terreno d'asprissimi monti interciso. Incauto egli s’inoltra con l’esercito in ignota e profonda valle presso Saticola, e tardi s’accorse di esser dominato da' nemici sovrastanti. Era estremo il periglio, quando it tribuno Pubblio Decio si accostò al console, e gli disse: «Vedi tu, Aulo Cornelio, quell’altura, là, sopra il capo de' nemici? Quella è la rocca della speranza e della salvezza nostra se, negletta da' malaccorti Sanniti, in breve l’occupiamo. Non ti chieggo che i Principi e gli Astati di una legione: come sarò giunto con essi alla cima, tu esci di qua senza tema, e te metti in salvo e l’esercito; perciocché il nemico sottoposto a tutti i nostri colpi non potrà muoversi senza sua rovina. Quanto a noi ci trarrà d’impaccio la fortuna del popolo romano ed il valor nostro». L’esercito fu salvo; Decio la notte sorprese i Sanniti, e si apri il passo col brando.

Intanto nuovo e poderoso esercito Sannita entra in campo, ed accampa a Suessola. Marco Aurelio, lasciando in ben difeso luogo gl'impedimenti e la gente non atta al combattere, celeremente gli muove contro, e giunto ad esso propinquo, sosta e chiudesi in ristretto e trincerato campo. Allo scorgere il breve spazio occupato da' Romani, inorgoglisce il Sannita, e già con temerario valore vuol colmare le fosse ed assaltare gli alloggiamenti. Lo impediscono i capi, ne frenano l’impeto, ed invece per vettovagliare inviano dappertutto drappelli. Valerio ghermisce l’opportunità, esce dal campo, assale gli alloggiamenti de' Sanniti, trucida le guardie e i pochi che vi si trovano, lascia un presidio, scorre i campi ed opprime, lui concentrato, tutti gl’isolati drappelli. Quaranta mila scudi e centosessanta bandiere furono i trofei raccolti da' Romani in questa battaglia, ultima della prima guerra co’ Sanniti. È la prima volta che questi due popoli vengono al paragone. Dalla prima battaglia non può giudicarsi quale de' due prevalesse in guerra, ma nel secondo e terzo fatto, per saggezza de' capì e disciplina dell’esercito, la superiorità delle armi romane è manifesta.

Terminata la prima campagna, fuvvi pace co Sanniti. I Latini, soggetti col nome di socii, chiesero che uno de' consoli e parte de' senatori fossero tratti dal loro seno: altiero rifiuto fu la risposta: si corse alle armi, i consoli Deciti Mure e Tito Manlio Torquato con le legioni mossero pel paese de' Morsi e Peligni, onde raccogliere il contingente di questi alleati, e pel Sannio Caudino entrarono in Campania; mentre, dall’altra parte.,vi entravano i Latini uniti ai Volsci, Campani e Sidicini. Alle falde del Vesuvio si scontrarono, e combatterono una memorabile battaglia, in cui l’eccellenze degli ordini, l'avvedutezza ed eroismo de' consoli, la disciplina degli eserciti, grandemente rilucono, e ne rendono di somma importanza la narrazione. Pari di lingua, d'armi, e d’ordini i due eserciti, maestrevolmente l'uno incontro all'altro si schierano: Manlio reggeva il destro corno de' Romani, Decio il manco. I Veliti appiccano la battaglia e sibilando volano dardi e pietre. Muovono le insegne delle prime fronti, si raccolgono i Veliti nelle radila degli ordini, gli Astati si mischiano, scintillano i brandi. Cede l’ala sinistra de' Romani; Decio s’offre in sacrifizio agli Dei, scagliasi fra' nemici, e cade trafitto. Muovono i Principi, e più terribile si fa la pugna. Stannosi i Triarii d’ambo le parti immobili come rupe, il destro ginocchio piegato, coverti dallo scudo, e le picche fitte in terra innanzi ad ossi. Prevalgono intanto i Latini, più pel numero che pel valore: Manlio allora ordina all’ultima schiera, gli Accensi, gente di poco valore, di passare, traversando gl’intervalli de' Triarii, nella prima fronte. Il nemico crede i Triarii Romani già impegnati, che incontrano breve, ma terribile resistenza. I Romani piegano su tutti i punti, e i Latini si stimano vittoriosi. É questo il momento che Manlio deve cogliere il frutto del suo strattagemma. Dà il segnale a' Triarii: questi sorgono, traversano gli ordini, e vengono a ferir nella faccia il nemico, già stanco, e dippiù attonito al vederli, credendoli già nella prima mischia rotti. Cosi fu de' Romani la vittoria, dovuta più all'accortezza del capo che al valore de' militi.

I Sanniti rifatti provocano di nuovo i Romani, molestandone gli alleati; chiedono i Romani giustizia, e la sperano pacificamente, ma invano. — «A che tanta perplessità?» rispondono i feroci Sanniti: «Termineranno le nostre liti, o Romani, non le parole de' legati, non altro qualunque disputatore, ma bensì la pianura campana in cui debbono venire a paragone e le armi e la sorte della guerra. Mettiamoci dunque fra Capua e Suessa, campo contro rampo, e deridiamo se il Sannita o il Romano debba signoreggiare l'Italia». Ed i legati romani: «Si anderemo, ma non dove ci chiama il nemico, ma dove ci condurli ranno i nostri comandanti». — Feroce fu la sfida de' Sanniti, somma saggezza e scienza di guerra mostrava la risposta. Era il 433, e durava da forse quattro anni la sosta che segui tale sfidali esercito romano era a Calizia; alcuni pastori nemici, sotto mentite spoglie, narrano loro che i Sanniti assediavano Lucerà, città collegata de' Romani. Muovono questi a soccorrerla, e scelgono la via montana, la più breve, pel Sannio Caudino. Entra l’esercito in una selvosa stretta, s apre quindi la valle, e presenta spaziosa pianura a cui fanno corona le cime de' monti circostanti. Si esce dall'altro estremo per un calle simile al precedente; vi giungono i Romani e lo trovano sbarrato: tornano indietro, ma è chiuso anche il primo, e l’esercito nemico, condotto da Cajo Ponzio, li circonda e li domina. Giubilanti del buon effetto i Sanniti chiedono ad Erennio, padre del loro generale, che cosa fare de' Romani così vinti e presi. «Si lasciassero andar liberi,» rispose il saggio. Ma non accettano il consiglio, e ripetono la domanda. «Che tutti si mettano a fil di spada», fu la risposta; e richiesto della cagione di sì discordi consigli, disse: «Seguendo il primo otterrete salda pace per l’atto generoso; seguendo il secondo, avrete lunga tregua perché distruggerete numerosissimo esercito». Ma tali ragioni non vennero pregiate: si attennero i Sanniti ad una mezzana misura; obbligarono i Romani a passar seminudi sotto il giogo; insultarono senza distruggere un nemico possente, che poi vendicossi con quella costanza e fermezza impareggiabile di cui non difettava mai ne’ perigli.

Facciamoci ora a studiare su queste narrate imprese, per conoscere quale progresso fece, durante questo tempo, l’arte bellica. Nella prima battaglia, quella del Gaurus, leggiamo come per tre volte rinnovano i Romani la pugna, e la terza volta vincono, quantunque nelle due prime quasi perdenti; il che dimostra chiaramente il vicendevole succedersi delle tre schiere, e come l’ultimo sforzo fosse il più terribile, perché eseguifo dai Triarii insieme alle due precedenti che si raccoglievano nelle radila degli ordini loro. A Saticola è chiaramente menzionata la distinzione de' tre ordini, quando il tribuno Decio chiede di spiccarsi dell'esercito con gli Astati ed i Principi di una legione. Finalmente alla ritaglia del Vesuvio rilucono tutti i vantaggi di questi mirabili maneggiamene di schiere che gl'Italiani costumavano. Inoltre i due eserciti i quali combattono in questa battaglia, non erano composti di soli Romani e Latini, ma vi erano eziandio Marsi, Veligni, Voteci, Campani, Sidicini; quindi troviamo sempre fatti che confermano la nostra opinione, cioè che lo schieramento per manipoli era un’ordinanza comune a tutti i popoli italiani, ed in tale epoca già perfezionata l’arte di combattere una battaglia.

Se noi consideriamo il pericolo da cui i Romani scamparono a Saticola per l’avvedutezza ed il valore del tribuno Decio, dobbiamo conchiudere che essi erano novizi, e conoscevano poco le precauzioni da prendersi nelle lunghe marciate. Infatti fu gravissimo errore introdursi in una stretta valle senza rendersi padroni delle colline circostanti. Dopo vent'anni il medesimo errore. riesce loro fatale alla valle Caudina: li vediamo introdursi in essa sfilando allo stretto, e trascurando di convenevolmente occuparlo. Ma dopo questi fatti, essi trascorrono tutto il montuoso Sannio, la Lucania sino all’Apulia, senza incorrere in simili negligenze; e però possiamo conchiudere, che durante la metà del quinto secolo avendo a maestra l’esperienza, si addottrinarono e si accostumarono a tutte quelle precauzioni e provvedimenti indispensabili nelle lunghe marciate.

Ai Sanniti si aggiungono altri avversarli: Toscani, Umbri, Galli, e la vittoria resta a' Romani, i quali, caldi ancora da questa lotta di sessant’anni, si veggono un altro nemico incontro, Pirro re dell'Epiro. Questo re che molti di quegli scrittori che vogliono negare un’origine italiana alle glorie nostre è giudicato come maestro a' Romani nell’arte bellica, i fatti che testà narrammo basterebbero soli a dimostrare l’assurdità di tale opinione; ma per maggiormente porta in evidenza scorreremo sulle guerre da esso combattute in Italia.


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CAPITOLO IV

XIV. Battaglia di Eraclea. — XV. Battaglia di Benevento. — XVI. I Romani nulla appresero da Pirro.

XIV. Pirro sbarcò in Italia con ventidue mila fanti e tremila cavalli e venti elefanti, l’anno di Roma 472. Come a re si conviene, comeché d’animo grande, al libero reggimento dei suoi collegati sostituì il suo assoluto potere, e ogni libertà de' costumi soppresse; pena dovuta alla vigliacca baldanza de' Tarantini che insultarono i legati romani e tremarono poi all'approssimarsi dell’oste nemica. Il console Pubblio Valerio Levino mosse da Roma con un esercito contro al re, e giunse in Lucania. Il re o per indugiarlo, o per naturale superbia, scrisse al console: «Il re Pirro invia salute a Levino. Sento che vieni con un esercito contro i Tarantini. Ma licenziato, e vieni a me con pochi de' tuoi, perocché, intese le ragioni, per quello sarà giusto che una parte conceda all’altra, obbligherò a consentire eziandio chi ricusasse». E Levino a Pirro: «Noi né ti prendiamo arbitro delle nostre controversie, né ti paventiamo nemico. Tu poi mi sembri diportarti assai stranamente, bramando giudicare le differenze altrui, mentre che reo tu stesso, non ci hai ancora pagato il fio di aver messo piede in Italia senza nostra licenza. «Vengo adunque con esercito bene agguerrito non meno contro di te che contro i Tarantini a disputare le nostre ragion: al

tribunale di Marte, nostro progenitore». Si venne a battaglia sulle sponde del Liri. La superiorità della cavalleria tessala, i cavalli romani spaventati dall'aspetto, dalle grida e dal puzzo degli elefanti, per gli italiani strana e nuova belva; e, Pirro capitano forse superiore, o più fortunato di Levino, diedero la vittoria al re; che immediatamente accennò verso Capua. Ma Levino tosto rifecesi, molestò la marcia del nemico, e lo prevenne a Capua. Pirro accenna Napoli, ma eziandio invano; la dotta guerra di marciate con cui Levino lo travaglia, glielo impedisce. Muove quegli alta volta di Roma, giunge a Preneste a venti miglia dalla città, ed allora un nuovo esercito consolare esce ad incontrarlo, mentre Levino gli minaccia le spalle. Pirro ritirasi ed incontra Levino pronto ad accettar battaglia; i due eserciti si schierano: leva un grido quello di Pirro reso più terribile dal barrito degli elefanti; risponde l’esercito di Levino con grido non meno concorde e sonoro. Il re ritorna a Taranto. Pubblio Valerio Levino è il primo generale romano che siasi mostrato strategico. Pirro vinse una battaglia, ma non cangiò la guerra; esso venne costretto a ritornare al punto donde erasi partito.

Durante la seconda campagna il cui risultato fu dubbio, combattesi una sanguinosa battaglia, ma dopo questa Pirro ritorna in Taranto, i Romani svernano nella Puglia, quindi la campagna è decisa in loro favore. Pirro invia legati a chiedere l’amicizia del popolo romano, e la richiesta accompagna con ricchi doni. Ma trovò salda la virtù quanto il valore de' Romani. Ritornano i legati, riportano i doni, e questa risposta: Sino a che Pirro non «uscisse d’Italia si riterrebbe come nemico del popolo romano». Il re a trarsi d'impaccio deliberò di passare in Sicilia, ed il fatto segui il pensiero.

XV. L’anno 477 il re ritornò; il 478 entrò in guerra Manio Curio console capitanando l'esercito romano gli mosse contro, e giunto a Benevento accampò in terreno frastagliato, ove gli sciolti e mobili ordini romani avevano vantaggio sulle gravi ordinanze del nemico. Pirro sicuro della vittoria pel numero delle sue soldatesche, triplo di guerrieri nemici, quasi a corsa mosse per assalire. Albeggiava e i Romani si videro osteggiati da presso. I veliti di Pirro ascesero l’erta sulla quale stava il campo del console. I Romani li assaltano, e li volgono a foga; quelli si rovesciano sul grosso del loro esercito che schierato era nel piano, e quasi ne scompongono gli ordini che privi d’intervalli non porgono loro il varco. Incalzano i Romani i

fuggiaschi, che intromettendosi fra le file amiche spariscono dietro la battaglia. Un breve spazio separa i due eserciti. Curio allora discende dal suo campo, e preferendo al vantaggio che offrivagli il terreno, la superiorità morale acquistata in questo primo scontro, assale. Già un’ala dell’esercito nemico piega, mentre l'altra mediante il soccorso degli elefanti respinge i Romani. Curio ha pronta la riscossa: sostiene questa l’urto, mentre i veliti assalgono le belve non già con gli stocchi ma con fiaccole, modo che l’esperienza aveva mostrato efficacissimo: onde quelle atterrite, arse, ferite, con orridi barriti fuggono, scompigliano le ordinanze che da esse speravano difesa. La battaglia si cangiò in una strage che i Romani fecero dei fuggenti Epiroti. Seguito da fiochi il re s’involò al pericolo, e i Romani ne occuparono gli alloggiamenti.

Pirro combatté in Italia tre guerre: dubbia la prima, perdè la seconda e la terza. Combatté tre battaglie, una ne vinse, incerta la seconda, nella terza fu disfatto. Nella prima vinse Levino, più per fortuna che per virtù, il quale, ricomposti gli ordini, In travagliò nella sua marcia, e gli offri una seconda battaglia, ma il re evitò il paragone. Combatterono nella seconda i consoli P. Decio e P. Sulpicio; la notte separò i combattenti; nella terza Curio Con esercito minore lo debella. Quali sono adunque gli ammaestramenti guerrieri dati da Pirro a' Romani? Alcuni asseriscono che Pirrò perfezionò lo spiegamento della falange, e diede cosi a' Romani l’idea dell’ordine a scacchiere. Strana congettura e codesta, giacché quale rapporto havvi fra lo spiegamento della falange greca e l'ordine manipolare de' Romani? Veruno; e posto che vi fosse, abbiamo già dimostrato diffusamente, come al tempo in cui Pirro venne in Italia, i Romani erano perfettamente addottrinati nelle marce e nelle battaglie, e i loro ordini avevano raggiunto la perfezione. Durante tale guerra i Romani fecero un progresso; le marce di Levino sono maree strategiche, sono i primi rudimenti di strategia; né può dirsi che le imparavano da Pirro, perché le marce di questo re non furono altro che semplice trasferimento.

«Dìcesi, scrive Tito Livio, che il campo di Pirro caduto in mano ai vincitori fosse di grande ammirazione, ed in appresso di utile istruzione, perciocché i Romani ed altri popoli solevano anticamente accampare distribuendo qua e là i corpi delle coorti quasi «in altrettante capanne. Primo, dicesi, che fosse Pirro a rinserrare tutto l’esercito nello stesso steccato, tra questo spazio misurato...»

Un tale supposto non pare vero, poiché a Suessola l’anno 412 siccome sopra è detto, l’esercito romano accampava tutto rinchiuso in un solo steccato: nell’anno 405 furono i Romani assaliti da' Galli mentre circondavano di ripari il loro campo. E finalmente se non bastassero questi due fatti, citeremo l’autorità di Polibio greco: — «Nella qual cosa (dice l’esatto scrittore militare parlando degli accampamenti) mi sembrano i Romani andar per la via opposta a quella dei Greci. Imperciocché i Greci nell'accamparsi reputano cosa principale seguir luoghi forti per natura, schivando la fatica di tirar fossi. Ma i Romani preferiscono di tollerar la fatica di cavar tossi e sostenere altri stenti & che ne sono inseparabili».

Quindi non solo i Romani diversamente che i Greci accampavano, ma secondo Polibio era migliore il loro modo: infatti essi costruirono un campo inespugnabile per le armi in uso; ed incomparabilmente più acconcio di quello de Greci. Adunque possiamo credere dr avere abbastanza dimostrato, che i Romani nulla impararono, e nulla avevano da imparare da Pirro.


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CAPITOLO V

XVII. Prima guerra Punica — XVIII. Guerra Gallica — XIX. Progressi della strategia.

XVII. Sono scorsi cinque secoli dalla fondazione di Roma: l’Italia è unita dal Rubicone al mare. Gl'italiani sotto il largo reggimento del patriziato romano vanno a lanciarsi a traverso i mari contro popoli stranieri. Il dominio della Sicilia è il pomo della discordia che suscita la prima guerra punica. Vaste possessioni, ricchezze ammassate da prospero commercio, astuzia molta avevano i Cartaginesi. Stato non vasto, ricchezze poche, animo grande, audacia e costanza impareggiabili nelle imprese erano le qualità de' Romani. 

Quelli a loro difesa esperta e formidabile marina, esercito mercenario, questi di niuna potenza in mare, ma tutto un popolo libero e guerriero rifornisce gli eserciti. Già il fato accennava il vincitore.

I Romani occupano Messina; i primi vantaggi procacciano loro l’amicizia di Gerone re di Siracusa e un trattato con quel re assicura le vettovaglie, prima incerte giacché padroneggiava il mare il nemico. I Cartaginesi avevano munito Agrigento, destinata ad esser base della guerra, e i Romani la scelsero come primo loro obbietto e la bloccarono: un solido trinceramento li difende da qualunque attacco. Erbesso, città poco discosta da Siracusa, viene indicata ai Siciliani come il punto ove riporre le vettovaglie: e così difesi e muniti i maestri di guerra si prepararono a combattere con la loro indomabile costanza. Dopo cinque mesi di blocco, e una battaglia, Agrigento è in loro potere. Padroni della Sicilia i Romani pensano di assalire il nemico sul mare: non posseggono molte navi da guerra, né marinari; né cercano assoldarne, sprezzano i mercenari; a tutto provvede la loro energica perseveranza: in meno di due anni cento navi da cinque ordini, e venti da tre, solcano le onde, ognuna fornita di una macchina detta Corno di Duilio , dal console Duilio inventore, la quale aggrappa la nave nemica, la ferma e l’impedisce di vantaggiarsi col moto; getta un ponte di comunicazione, e riduce la navale battaglia a combattimento manesco.

Dopo quattro anni di lotta sul mare i Romani si assicurano la supremazia eziandio su questo elemento, passano in Africa. Attilio Regolo, console, combatte due battaglie, vince la prima, perde la seconda; il nemico chiede la pace, i Romani ricusano: per essi non eravi altra fine alla guerra che la vittoria. La lotta continua con vicende varie e in Sicilia e in mare, finché in una grande battaglia navale debellano il nemico, ne distruggono l’armata, e si assicurano il possesso della Sicilia e della Sardegna — Durò la guerra ventiquattro anni: perdettero i Romani 700 navi da cinque ordini, 500 i Cartaginesi.

XVIII. Meditavano i Romani grandi imprese nella Spagna: ma un nemico vicino richiamò la loro attenzione. I Galli abitavano il settentrione d’Italia, barbari, bellicosi, intolleranti del continuo spandersi de' Romani verso il Po. Queste orde venute dalle foreste della Gallia, che altra volta abbiamo menzionate, ed appartenenti alle numerose popolazioni celtiche, passarono le Alpi sotto la condotta di Bellovese loro re nel tempo che regnava in Roma Tarquinio Prisco, e si sparsero lungo la valle dell'Eridano. I Senoni e i Boi, tribù che abitavano la sponda destra del fiume, presero parte come mercenarii in alcune guerre contro i Romani, e nel 470 Senoni e Boi furono quasi distrutti dal console Dolabella. Impotenti dopo

tanta disfatta a novelle imprese, non osarono per quarantacinque anni provocare il nemico; ma ora all’annunzio di una colonia romana inviata nel Piceno sorgevano in armi. L’Italia si commosse alla minaccia di tal guerra. I Romani decisero finirla con tale nemico e spiegarono tutte le loro forze.

Un esercito di 40 mila combattenti, Cenomani, Veneti, Umbri, e Sarsinati, collegato de' Romani, rimase alla frontiera orientale de' Galli, affine di operare una diversione ed opporsi a nuovo torrente di barbari che calasse dalle Alpi. I due eserciti consolari più che 50 mila uomini, guardavano le due pendici degli Appennini, l’uno oltre il Metauro sotto il comando di Lucio Emilio; l’altro sotto Caio Attilio, chiamato dalla Sardegna in Toscana, doveva difendere il versante occidentale di questi monti: a sostenere questo un Pretore entrò in Toscana con altro esercito di 30 mila fanti e 4 mila cavalli. I Galli potevano valicare il Po in due punti onde irrompere per uno o per entrambi i versanti. Era disegno che l’esercito di Caio Attilio ed il Pretore, meglio che 30,000 combattenti, osteggiassero in Toscana, mentre se i nemici sceglievano, contro ogni probabilità, l’altra via, Lucio Emilio, fronteggiandoli gl’indugiava, e l’esercito maggiore portavasi a Roma prima del nemico, ove serbati alla riscossa erano altri SO mila combattenti: cosi più di 150 mila guerrieri, de' quali circa 50 mila romani erano in operazione nel tronco d’Italia compreso fra l’Arno ed il Tevere. Tutto il resto della Penisola si apprestò alle armi nelle seguenti proporzioni:

Latini

80,000

fanti 5,000 cavalli

Sanniti

70,000

» 7,000 »

Lucani

30,000

» 3,000 »

Marsi, Morrucini Terentini e Vestini

20,000

» 4,000 »

Plebe

250,000

» 23,000 »

A Taranto e in Sicilia due legioni

8,400

» 400 »

Totale

458,400

fanti 42,400 cavalli

A queste forze aggiunti i 150 mila guerrieri entrati in guerra, si ebbero oltre 640 mila combattenti tutti italiani. Ma questi particolari non raggiungono forse l’effettiva cifra, giacché lo stesso Polibio, d'onde queste notizie sono tratte, dice che il numero degli Italiani guerrieri era di 700 mila fanti e 70 mila cavalli. E Tito Livio citando lo storico Quinto Fabio Pittore, presente a' fatti, asserisce che 800 mila Italiani si armarono per quella guerra, dei quali solo 248,200 fanti e 26,000 cavalli erano Romani e Campani.

Scesero i Galli per la Toscana. Non ancora pravi giunto Caio Attilio. Il Pretore evita la battaglia destreggiando, ma poi ingannato, credendoli dispersi a depredare, avido di gloria, li assale ed è vinto. Raccoglie gli avanzi dell’esercito sui colli che serrano l’odierna val di Chiana, e quivi in sito forte chiudesi nel vallo. Intanto il Console Lucio Emilio, assicurato del cammino preso dal nemico, passava l'Appennino per congiungersi col suo collega, e trovò il Pretore vinto e assediato nel campo. I Galli, carichi di preda, al suo avvicinarsi si allontanarono, volendo, secondo il loro costume, porre in salvo il bottino. Lucio Emilio si unisce al Pretore, e amendue inseguono i nemici. Continuano quelli la ritirata, e lungo il corso de' fiumi giungono alla pianura, e proseguono per la Maremma Tirrena. Durante questa marcia i loro cavalli incontrano cavalli romani; dapprima li credono appartenenti all'esercito che l'insegue; ma ben presto li riconoscono come esploratori di Caio Attilio, il quale essendo sbarcato alle foci dell’Arno, saputo della vicinanza del nemico, movevagli contro in ordine di battaglia. Stretti fra due eserciti, non vedendo i Galli scampo veruno al periglio, si apprestarono ad ostinatissima pugna, disponendosi in una ferrata falange che presentava doppia fronte. I Taurini e i Boi volgono la fronte ad Attilio, gl'Insubri e i Pesati ad Emilio. Dier fiato i Galli a' numerosi loro corni, e tutta l’oste salmeggiando s’animava alla battaglia: ed il rauco suono delle trombe ed il grido de' guerrieri ripercosso da' monti intronava, eccheggiando, l’orecchio de' romani che attoniti miravano la clamorosa turba, nudi per baldanza, e cospicui per robustezza di membra. Segui la mischia, terribile, feroce; i Galli furono distrutti; 40 mila morti, 10 mila presi.

I Romani invasero il territorio nemico, combatterono con gli Insubri altra terribile battaglia, devastarono il paese, e cosi finì la prima guerra. L’anno seguente si prepararono ad assoggettarli del tutto. Scelsero Voghera come emporio de' loro munimenti di guerra, e l’assediarono. I Galli mossero ad assalirli, furono vinti nelle vicinanze di Casteggio, e Voghera presa. I Romani passarono il Po non senza contrasto, e presero Milano capitale dell’Insubria. Così terminò la guerra gallica.

XIX. Abbiamo adombrato la prima guerra punica e la guerra gallica, per mostrare e la potenza romana enumerando Iq sue forze, ed il progresso dell’arte bellica allargandosi il campo d’azione. Nuovi al mare in poco tempo combattono e vincono una nazione padrona di formidabile naviglio in guerre lontane da Roma; non procedono se prima non assicuralo le vettovaglie all’esercito. Erbesso è il loro emporio in Sicilia, Voghera per l’invasione dell’Insubria: dispositura di tre eserciti contro l’invasione de' Galli, il destreggiare del pretore per evitar battaglia, la marcia immediata di Lucio Emilio attraverso l’Appennino, e l’arrivo opportuno d’Attilio mostrano ad evidenza come tutte queste operazioni fossero legate da un comune disegno strategico, che era far massa in Toscana o innanzi Roma, secondo che il nemico per la via occidentale o per l’orientale scendesse. Quindi possiamo conchiudere che la strategia, parte importantissima dell’arte bellica, di cui appena scorgemmo i rudimenti nelle marce di Levino, fece grandissimi progressi durante il quanto secolo, e con essa il modo di vettovagliarsi in paese nemico. I Romani sino a tanto che poco si allontanarono da Roma, né temevano d’essere tagliati fuori dalla loro città, tenevano i loro alloggiamenti a guisa di piazze forti momentanee, basi temporanee, ove raccoglievano le vettovaglie, si riposavano, si rifacevano; ma quando la comunicazione con Roma èra minacciata, in tal caso non procedevano senza costituire a base della guerra una città con cui erano sicuri di comunicare, d’onde, come già da Roma, con successivi alloggiamenti avanzavano.

Le memorabili imprese di cui appena demmo un cenno, e Firnponente apparecchio militare spiegato contro i Galli, non ritraggono che debolmente la Romana potenza, ma tanto che basti a provare evidentemente che alla fine del quinto secolo l’arte bellica in Italia aveva raggiunto la perfezione in tutti i suoi varii rami, e quindi i Romani non avevano bisogno degli ammaestramenti dell'Africano Annibale, come, giudicando troppo leggermente le cose, affermano tutti gli scrittori militari. E noi, a maggiormente distruggere questa falsa opinione, senza farsi troppo da lungi, è senza molto distenderci, discorreremo della seconda guerra punica, e cosi i fatti saranno di sostegno al nostro ragionare.


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CAPITOLO VI

XX. Annibale passa le Alpi — XXI. Battaglia della Trebbia. — XXII. Del Trasimeno. — XXIII. Operazioni di Fabio. — XXIV. Battaglia di Canne. — XXV. Battaglia del Metauro.

XX. I vantaggi ottenuti da' Cartaginesi nelle Spagne, le loro forze rifatte e accresciute, l’insistere d’un partito detto Barrino, perché capo si era Amilcare Barca, capitano abilissimo e padre d’Annibale, sospingevano la nazione, la quale ora forte mal pativa un trattato impostole da una disfatta, a dichiarar guerra a' Romani: mancava solo un pretesto. L’Ebro segnava i limiti imposti in quel trattato a' Cartaginesi nelle Spagne; questa condizione piuttosto dubbia che recisamente espressa, ed il non esservi forze romane in quella penisola, furono occasioni propizie a provocare la guerra. Annibale espugnò dopo memorabile assedio Sagunto, città protetta da' Romani; cosi la guerra ricominciò.

Fu disegno d’Annibale valicare i Pirenei e le Alpi, e portar la guerra in Italia, vasto e mirabile concetto. Evitò di venire alle prese col naviglio romano, poiché i Romani al termine della prima guerra di molto prevalsero sul mare, e cosi anche potè rendere disponibile la sua flotta a difesa dell'Africa e della Spagna. Scese nella Gallia Cisalpina onde sperava numerosi ausiliarii; sbalordiva il nemico con impresa quasi incredibile; rovesciava sull’Italia il flagello della guerra. Mosse da Cartagine-Nuova l’anno di Roma 536. Molto si è scritto, molto si è discusso su questa famosa marcia.

Qualche passo in Polibio, non abbastanza chiaro', ha dato luogo a discrepanti conghietture; il discutere mi svierebbe dal proposito, quindi fra le diverse opinioni, dopo ma torti riflessione, ho adottato questa che più si accorda col testo, e con le ragioni militari.

Voleva Annibale piombare inaspettato in Italia; sperava ingrossare il suo esercito nella Gallia Cisalpina, ore odiato era il giogo romano; quindi bisognava che evitasse ogni scontro durante l’ardita marcia dirigendosi verso le Alpi marittime, avrebbe potuto esser prevenuto o raggiunto da' Romani, e perciò si diresse sul Rodano, al disopra dell’imboccatura della Duranza,e cosi movendo lunghesso il fiume addentrarsi fra le Alpi. Delle due sponde la dritta è alpestre, perché una catena di monti si protende da Lione al confluente dell'Ardeche, la sinistra è piana. Annibale per guadagnarla operò di forza il passaggio dei fiume nel tronco compreso fra i due confluenti dell'Ardeche e della Duranza, e vinti i barbari che gli opposero resistenza sulla detta sponda accampò sulla sinistra del fiume con trenta mila fanti ed otto mila cavalli, ed ivi trovossi a quattro alloggiamenti dal mare. Erano scorsi quattro mesi e mezzo ch’era partito da Cartagine-Nuova.

Erano allora consoli in Roma Pubblio Scipione e Tiberio Sempronio, entrambi con due eserciti pronti ad entrare in guerra. Questi destinato per l'Africa, riunì le forze a Lilibeo, ed apprestassi a salpare con 460 vascelli, a cinque ordini. Scipione sciolse da Pisa, ’e costeggiando la Liguria si diresse verso Spagna; in Italia il Pretore Manlio con un esercito era a Piacenza. Pubblio Scipione approdò in Marsiglia, ed inviò esplorando lungo il Rodano una partita di cavalli nel tempo che Annibale accampata alle sponde di questa fiume inviava del pari i suoi speculando verso il mare. Scontrandosi i due drappelli s’azzuffarono, e ciascuno de' due capi ebbe certezza della vicinanza del nemico. Pubblio, come doveva, senza por tempo in mezzo mosse ad assalire. Annibale fermo nel suo disegno, levò il campo, e prosegui la marcia; cosi i Romani trovarono vuoti gli alloggiamenti. Due partiti si presentavano al Console, muovere a corsa per raggiungere Annibale, o prevenirlo in Italia. Fortunoso era il

primo poiché Annibale aveva già il vantaggio di due o tre marciate, e poteva, giovandosi degli alpestri siti, dargli indugio, prevenirlo in Italia, ed attaccarlo con vantaggio allo sbocco de' monti. Pubblio scelse l!altro che poteva menarsi ad effetto in due modi: o ritornare per mare in Italia, o dirigersi verso le Tonti della Duranza, congiungersi col Pretore Manlio al colle d’Argentiere, ed attaccare Annibale appena scendesse dalle Alpi. Questa operazione non sarebbe stato, di dubbio, risultamento, se le popolazioni bellicose ed ostili i attraverso le. quali Pubblio avrebbe dovuto marciare, non l'avessero resa impossibile Quindi il console s’appigliò al solo partito che stavagli, più lungo, ma sicuro, ei s’imbarcò e ritornò in Italia.

Annibale marciò quattro giorni. Giunto al confluente dell'Iser col Rodano, sostò un giorno, compose una differenza surta fra due fratelli che si disputavano il dominio di quei popoli; si forai di, vesti e viveri, e continuò per dieci giorni la marcia o. lungo il. Rodano, come è più probabile, o attraverso gli ubertosi piani del Delfinato, e trasportassi a Vemie. Da Venne cominciò ad ascendere i monti Venne attaccato dagli Allobrogi; li vinse e prese la loro principale città, Bourget o Chambery. Sostò un giorno, riprese la marcia; a Montemeliano entrò nella valle dell'Iser, quindi sali alle fanti del fiumicello Dorane, sostenendo in questa marcia altro terribile attacco di quelli Alpigiani, e giunse alla roccia bianca, menzionata da Polibio; indi con immensa fatica ascese il Cenisio. Giunto sulla cima sospinse lo sguardo infra le pianure d’Italia. Da nove giorni era partito da Venne; un sol giorno aveva riposato. Dopo due giorni di sosta, cominciò la discesa; in quattro giorni fu. al piano, de' quali imo fu speso a rendere meno dirupato lo scendere. In quindici giorni aveva valicato le Alpi, e metà del suo esercito era perito. Giunse in Italia con dodici mila africani, otto mila spagnuoli, e sei mila cavalli fra spagnuoli e numidi. Richiese ai Taurini la loro colleganza; quelli ricusarono, ed egli li attaccò e. prese la loro città principale: sparse il terrore, ma non ottenne Il amicizia de' barbari. Gl’Insubri dubitavano; attesero i suoi primi vantaggi sulle armi romane per dichiararsi.

XXI. In questo mentre. Pubblio Scipione era giunto in Italia, aveva passato il Po, e saliva, lungo il fiume, facendosene spalla a sinistra, preceduto dalla cavalleria. Con pari ordinanza, ma avendo il fiume a destra discendevano i Cartaginesi. Annibale aveva conseguito la vittoria strategica, egli era in Italia; ma bisognava confermarsene il possesso almeno con una battaglia. Le cavallerie de' duo eserciti scontrandosi si azzuffano: i Cartaginesi più numerosi distendono la fronte, e i Numidi alle ali inviluppano il nemico o vincono. Pubblio, dopo il combattimento si ritirò a Piacenza, ove giunse eziandio: l’altro esercito consolare capitanato da Tiberio Sempronio, che rapidamente era ritornato da Sicilia all’annunzio dell’ardita marcia di Annibale. I due eserciti congiunti si accamparono sulla destra della Trebbia. Annibale collocossi sulla sponda sinistra, e da questa imminente battaglia, la prima campagna rimaneva decisa, perché essendogli forza svernare fra quei barbari, bisognava assicurarne la dubbia fede con un vantaggio bellico. I Romani superiori al nemico per numero e per valore dovevano anch'essi desiderarla onde atterrire i barbari vacillanti e privare il nemico de' loro soccorsi. Ma il temporeggiare era più dannoso a' Cartaginesi; ond’è che non dovevano i Romani, come fece Tiberio Sempronio, cercar la battaglia, né evitarla, come pretendeva Pubblio, ma accettarla con vantaggio.

Annibale provoca il nemico co’ Numidi, e si azzuffano i fanti leggieri: Sempronio da inesperto capitano schiera l’esercito, guada il fiume, gonfio da recenti pioggie e. nevi liquefatte, (era il solstizio d’inverno) e s’avanza nei piano, lasciando non esplorato dietro la sua destra un sito folto di cespugli. Annibale che in quel sito aveva imboscato forte mano di guerrieri, schierò il suo esercito minore per numero, ma gente riscaldata a' fuochi dei campo, ed invigorita dal cibo, mentre i Romani digiuni ed assiderati dal freddo mal reggevano le armi con le intirizzite membra. I fanti romani rompono il centro del nemico, ma alle ali, la cavalleria cartaginese, fugata ia romana, li ferisce di cesta, mentre gl’imboscati gli assalgono alle spaile. Cosi Annibale vinse Sempronio. La campagna si decise in favore dell’africano. Frutti della vittoria l'immediata sommessione de' barbari, i quartieri d’inverno assicurati.

XXII. Alla primavera dei 537 gli eserciti ritornarono alle mosse. Brano consoli Caio Flaminio e Gneo Servilio. L’uno col suo esercito campeggiava verso Arezzo, l’altro verso Arimino, pronti a concentrarsi appena tosse palese il disegno, del nemico che il montuoso terreno obbligava larghi movimenti. Annibale evitò le due via eccentriche, scelse l’intermedia che menava dritto ad Arezzo. Questa presentava nella marcia le. maggiori difficoltà, ma era la più breve e facevagli abilità di giungere a Flaminio prima del concentramento, e giungervi, ciò che più rilevava, inaspettato, perocché era creduta tal via impraticabile. Per quattro giorni e tre notti attraversarono paludi ove i guerrieri furono quasi immersi nell’acqua; Annibale, quantunque viaggiasse sull'unico elefante rimastogli pel prolungato ingommo e le pestifere esalazioni vi perde un occhio. Le dissertazioni del Guazzese su tale marcia dimostrano come in Toscana non vi fossero paludi in quel tempo, mentre paludoso era il terreno di una gran parte del Parmigiano, del Modenese e del Bolognese, e però questa fu la via che dovette tenere Annibale, aggiungi che tale opinione accordasi con la ragion militare. L’esercito di Annibale era poco numeroso perché potesse essere diviso, se ciò avesse fatto, avrebbe commesso follo gravissimo. Costretto dunque a muovere con tutte le forze riunite, e le vie non essendo che due, il suo disegno tosto sarebbesi palesato, ed i due consoli con tutto l’agio potevano concentrarsi ed attenderle ove meglio loro piacesse, Annibale non poteva sperar la vittoria che attaccandoli separati; e a questo mirò la sua mente, strategica. Egli intraprese attraverso le paludi la faticosa marcia fra il Po e l'Appennino, che celandone i movimenti, fece dubbiare i Romani, venuto fuori dalle paludi, accennò ad Arimino: Gneo Servilio credette averlo sopra; forse ne avverti Flaminio ed apparecchiassi. a battaglia, mentre Annibale volgendo a destra le insegne, valicando i monti si pose per la strada che va fino ad Arezzo. Quivi alla vista dell’attonito Flaminio raccolse i guerrieri e ricompose gli ordini. La vittoria strategica era già sua.

Era disegno d’Annibale, non già di muovere su Roma, altrimenti l’avrebbe fatto dopo la vittoria del Trasimeno, ma aprirsi, guadagnando le Puglie, una breve comunicazione con la sua patria. Flaminio dapprima evitò la pugna, ed Annibale temette di non più; raccogliere, i frutti delle durate fatiche. Avrebbe potuto proseguire la marcia ed attuare il suo disegno;, ma generale abilissimo quale egli era comprendeva che non combattendo ora con Flaminio, avrebbe poi dovuto combattere i due consoli Uniti; perciò decise tenersi pronto nell’impedirne' il concentramento, e nel tempo stesso provocare il nemico. A passo lento, devastando le terre, mosse fra là città di Cortona e il Trasimeno. Inorgoglisce Flaminio, piega l’esercito in doppia colonna sulle due coorti del centro, lo segue, ed incauto marcia lungo le sponde del Trasimeno, stretto fra il lago e le rupi che accerchiandolo sovrastano. Ivi Annibale, che spiava ogni opportunità, aveva imboscato l’esercito, ed inaspettato è sopra al nemico e lo assale. L’angustia del luogo non permise a' Romani di schierarsi, là voce de' capi è tronca dal ferro nemico, superata dal fragor della battaglia; una densa nebbia nasconde gli assalitori, ed accresce la strage occultandola. Così per imperizia di Flaminio, morto nella pugna, fu sconfitto l’esercito romano, ed Annibale ottenne una seconda vittoria. La sua condotta come generale fu senza dubbio, dal momento che mosse da Cartagine, nuova, incomparabile; ma la fortuna molto lo favori; i Cartaginesi non vinsero aHa Trebbia ed al Trasimeno i Romani, ma l’incapacità di Sempronio e di Flaminio diede loro la vittoria. Raccolse Annibale le armi romane, migliori che le sue, ne armò i suoi africani, e quasi costeggiando l’Adriatico, passò nelle Puglie, ed in quel paese, di ogni cosa abbondante, ristorò lo stanco esercito e si apparecchiò a nuove imprese.

XXIII. Attonita Roma da tali disastri nominò dittatore Quinto Fabio Massimo, e questi Marco Minucio a maestro de' cavalli. Fabio avendo inviata la flotta ad impedire che soccorsi dall’Africa giungessero al nemico, condusse l’esercito incontro ad esso. Annibale mosse ad attaccarlo, ma Fabio destreggiando si ritirò, ed osservando il nemico da vantaggiosi luoghi temporeggiava. Annibale devastò il Sannio, valicò i monti, entrò in Campania, e carico di preda li ripassò. Un distaccamento di Fabio che ne avea occupato lo sbocco venne fugato mediante uno stratagemma. Religiose cure chiamarono a Roma il dittatore. Tutti biasimavano la sua condotta, e più che ogni altro il maestro de' cavalieri, a cui di dritto rimase il comando dell’esercito. Ma Fabio non si sgomentava per questo, l Cartaginesi escono a foraggiare; Marco Minucio coglie l’occasione, li attacca, li fuga, ne assale gli alloggiamenti, li spinge quasi ad ultima ruina. La novella piacque a tutti eccetto che a Fabio. Marco Minucio è proclamato dittatore: doveva o alternare con Fabio nel comando, o dividersi l’esercito. Fabio scelse dividerlo. Minucio insuperbito dell'ottenuto vantaggio, tratto in inganno dall’astuto Annibale, l’attacca. credendo di sorprenderlo, mentre quegli era parato a difesa; è vinto, ma è soccorso e salvato da Fabio. Roma, Minucio stesso, dichiarano riconoscere la saggezza di Fabio, l’esercito intero ritorna sotto il suo comando. La campagna termina.

Facciamoci ora alquanto a riflettere se Fabio fu meritevolmente degno di sua fama. Egli fidava nella flotta e non temeva l’arrivo di soccorsi al nemico; ciò bastava pei non precipitare gli avvenimenti; pur nondimeno il temporeggiare aveva un limite. Fabio non attendeva da Roma nuove forze; le sue erano più numerose del nemico, e con esse bisognava terminar la campagna. Le disfatte della Trebbia e del Trasimeno, certo non poterono privar di guerrieri una potenza come la romana. Annibale per contro era giunto in Italia con dodici mila africani ed ottomila spagnuoli, i primi soli erano degni di stare a petto a' Romani; né quel numero poteva essere intatto dopo le due sanguinose battaglie, e la disastrosa marcia attraverso le paludi. Il suo esercito erasi reintegrato co’ Galli Cisalpini, tutt’altro che veterani. Fabio adunque era superiore al nemico in numero ed in valore; non sperava soccorsi; perché dunque evitar la battaglia? Per vincere il nemico senza combattere, dicono i suoi apologisti. Se ciò avesse potuto conseguirsi, non vi sarebbe stato luogo a replica; ma le cose stavano diversamente. Anni baie con un sol mezzo sparava di vincere Roma sollevando tutti i popoli italiani contro di essa. Il pensiero era volto a stancarne la pazienza con le sue continue scorrerie, e Fabio col suo modo di governarsi prolungava, con danno manifesto di cotesti popoli, il flagello della guerra. Inoltre evitando studiosamente ogni scontro, avvezzava il suo esercito a temere il nemico, e quel suo indefinito temporeggiare senza pro, imperocché egli non aspettava nuove forze da Roma, la poneva a rischio, se mai la flotta Romana. avesse toccato un disastro, di

avere. il

suo nemico rafforzato da nuove soldatesche. Né Fabio osteggiò l’avversario con dotte guerre di marcite di stratagemmi; egli non padroneggiò mai le operazioni, e non fece altro che seguire a breve distanza il nemico, che forse avrebbe operato nella medesima guisa se non avesse avuto a fronte nessun esercito romano. Folard, uno degli apologisti di Fabio, censurando la condotta di Annibale esclama: «come non temeva egli, traversando i monti del Sannio, la sorte medesima che toccò a Flaminio al Trasimeno? E contro Fabio che ritorce tale argomento: abilissimo Annibale nel conoscere il carattere dell’avversario, intraprese certamente la Spedizione in Campania, sicuro con tal nemico di trarsi d’ogni periglio». Fabio impedì ad Annibale, riprende Folard, di assediare città; ma non procedeva Annibale per assedii allora lunghissimi, egli sperava vincer Roma con l’aiuto dei popoli Italiani, e con nuove forze inviate da Cartagine: il tempo e la libertà di osteggiare l'Italia erano i mezzi che ad esso bisognavano; né questi gli vennero contesi da Fabio. Finalmente un fatto innegabile renderà la cosa evidente. Annibale presentossi a Canne, rifatto e con forze maggiori che non aveva quando Fabio gli mosse contro; dunque il temporeggiare del dittatore, senza recar vantaggio ai romani, lasciò al nemico tutto l’agio di depredare l'Italia, e reintegrare ed accrescere il suo esercito, e cosi evitando studiosamente la battaglia, si rese la vittoria più difficile.

Vedemmo come Minucio, maestro dei cavalieri, rimasto a capitanare l’esercito, colse l'opportunità, ruppe Annibale e rinfrancò gli animi abbattuti. Ma egli infranse la disciplina, fallo che non è punto adonestato dal felice risultamento della sua impresa; nondimeno un tale avvenimento provò che il dittatore avrebbe fatto molto meglio operando come Minucio: un altro di tali disastri, ed Annibale sarebbe stato vinto.

Dipoi Fabio volle diviso l’esercito in due, |arti, l’una per sé, l’altra per Minucio, con pari autorità; cosi facendo tolse a sé e al collega la possibilità d’intraprendere qualche operazione di rilievo. A difesa di Fabio nella bisogna, dicono gli storici, che egli volle serbare sempre salva almeno la metà dell’esercito, e non esporlo ad essere tutto distrutto. Ma donde originava il suo convincimento che la disfatta fosse indubitata pe’ romani? Dividendo l'esercito espose il giovane collega a certa ruina: e Minucio errò nell’accettare tale disposizione. La vittoria e l’aura popolare avevano esaltato Minucio; ma tosto ei fu punito della sua imprudenza, avendo oscurato col secondo fatto la riputazione acquistala col primo: e venne lodata a cielo la prudenza di Fabio. Ma se Minucio avesse disposto di tutto l’esercito, senza forze avrebbe vinto, perocché l’esercito intero vinse. Minucio avrebbe potuto benissimo, disponendo di tutte le forze, operare come si operò, attaccare cioè con metà di esse,e serbare l'altra metà alla riscossa. Un tal fatto chiarisce Minucio avventato e poco accorto, ma non giustifica il convincimento di Fabio, che i romani combattendo dovessero esser vinti.

Conchiudiamo: la fama fu maggiore di Fabio, e Minucio fu meno cattivo di sua fama. Né pare esatto il giudizio del Machiavelli che ha veduto in Fabio l’uomo adatto alle circostanze. Se Annibale avesse avuto incontro un M. Popillio Lenate, il quale si bene si munì contro i Galli, e poi opportunamente li attaccò e li ruppe, ovvero un Marco Valerio Corvo, che eon tanta saggezza ed ardire sorprese i Sanniti a Suessola, o un Levino che si dottamente osteggiò Pirro, i suoi progressi non avrebbero avuto lunga durata. Cautela contro le astuzie puniche, abilità nel contrariare i disegni. del nemico e distruggere i suoi empori!, prontezza nell’attaccarlo in propizia occasione, in una parola, non evitare la battaglia, ma darla con proprio vantaggio, ecco le qualità che faceva d’uopo si riscontrassero nel Generale dei romani. Ma la fortuna militava sotto le bandiere del Cartaginese: l’imperizia di due Consoli ingiganti la fama di sue forze, sparse il terrore fra i romani, scrollò la fede de' collegati; il temporeggiare di Fabio procacciò il tempo di rifarsi, e finalmente l’errore di Varrone, come diremo, produsse la vittoria a Canne. Niun capitano fu in ciò più fortunato di Annibale, e niuno seppe meglio di lui con sagacia ed ardire giovarsi de' favori dell'instabile dea.

XXIV. Lucio Emilio e Caio Terenzio Varrone forano consoli nella terza campagna l'anno 538. Annibale aveva svernato in Puglia, nei dintorni di Geranio; ben munito era il suo esercito, ed i popoli d’Italia già titubavano. La fronteggiavano i Romani che avevano fatto a Canne, rocca da cui dominavasi la campagna, grande riposta,di vettovaglie. Annibale per sorpresa se ne impadronì, e cosi dopo lungo temporeggiare, dopo tonte favorevoli occasioni, perdute, i Romani a videro costretti, a foro malgrado di venire a. battaglia in vasta pianura, vantaggiosa di certe alla numerosa cavalleria di Annibale. Lucio Emilio saggiamente, per nen concedere al nemico un tanto vantaggio, voleva, destreggiando, evitare la pugna, per poi appiccarla in più favorevoli circostanze; Vairone invece volendo con l'audacia mascherare la sua ignoranza, il giorno che gli spettò il comando dell’esercito senza più accettò la battaglia. Collocando al centro i fanti, alle ali i cavalieri, si schierarono l’uno incontro all’altro i due eserciti. I cavalieri Romani erano alla destra, alla sinistra i cavalieri dei Soci: incontro a' primi erano la cavalleria de' Galli e degli Spagnuoli; i Numidi fronteggiavano i secondi. L’Ofanto scorrendo quasi perpendicolare alle due linee di battaglia, difendeva la destra dei Romani e la sinistra de' Cartaginesi; le forze di questi sommavano a 50 mila fanti e 10 mila cavalli; ed 80 mila tanti a 3700 cavalli eran quelle dei Romani ((

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). Annibale dispose i suoi fanti com’era suo costume, cioè in una sola fronte, collocando nel mezzo i Galli e gli Spagnuoli, a destra ed a manca di questi i suoi Africani, veterani dell’esercito. Vairone capitanando l’esercito maggiore avrebbe dovuto rinforzare la sua sinistra, minacciata da' numerosi e velocissimi Numidi, i cui larghi movimenti favoreggiava la pianura; ma egli al contrario adattò l’estensione della sua fronte, restringendola, a quella del nimico, sicché alìoltale le insegne, fece tornare a discapito dell'esercito la sua numerica superiorità, rendendo non solo inutile parte delle sue forze, ma altresì impacciando le libere evoluzioni delle altre.

«Primo Annibale mosse il centro, ed assottigliando gli ordini formò un convesso a guisa d’una mezzaluna.» Così Polibio. Ma bisogna credere che i traduttori, non militari, male abbiano interpretato il testo; essendo cosa difficile e dannosa il disporre un grande stuolo di combattenti in tal forma, che ogni guerriero essendo obbligato di avanzare la spalla più prossima al centro, presentasse il fianco al nemico. Anni baie piuttosto dovette, scatenandosi sulle ali, portare innanzi il centro, facendo gli scaloni di ristrettissima fronte ed a brevissima distanza, forse eguale alla lunghezza delle armi da mane. L’attaccò l'Annibale fu respinto: ei già l’aveva preveduto: gli Spagnuoli e i Galli piegarono innanzi ai Romani che rincalzavano il centro dei Cartaginesi perdè terreno, e l’esercito si trovò in una linea retta con le ali; urtati ancora retrocederono, e la linea, intera prese un ordine inverso al primitivo, cioè il centro scatenato indietro sulle ali. I Romani incalzando il nimico che rifiatava il centro e stava fermo con le ali, dovettero spingere innanzi il mezzo delle loro schiere. Ogni guerriero cartaginese, o ciascun drappello di guerrieri, avanzando per combattere, volgeva una spalla al centro, sicché tutta la linea ne divenne in forma concava. Allora i Romani avrebbero dovuto spiegarsi a ventaglio; ma il modo vizioso onde Varrone aveva collocato le schiere impediva tale evoluzione; e perciò le ordinanze si confusero nel tempo stesso che la cavalleria nemica, vincitrice in ambo le ali, investendo i Romani alle spalle riportò la vittoria.

Peri il console Emilio; con 370 cavalli si salvò Terenzio Varrone, 10 mila rimasti negli alloggiamenti furono fatti prigioni; il resto trucidati. Memorabile battaglia, che procacciò ad Annibale la colleganza di molti popoli italiani, e la gran città di Capua, prima dopo Roma, gli fu consegnata dai cittadini medesimi.

Annibale forse, osservando che le nemiche ordinanze facevano mossa, e rammentandosi come alla Trebbia i Romani sfondarono il centro della sua linea e l’oltrepassarono, credette che anche quivi fosse questo il loro disegno, e pensò opporvisi, praticando ciò che poi il Machiavelli sagacemente ridusse ad un principio: «fare volontario quello che il nemico disegna che tu faccia per forza.» Ma quantunque tale principio sia giusto, Annibale malamente te praticò; né il successo, né le lodi di tasti scrittori bastano a giustificarlo. Se le armi dei Cartaginesi erano intatte, te erano del pari quelle dei Romani, i quali, sfondato il centro della linea nemica avrebbero potato attaccare alle spalle gli Africani, fronteggiati da forze pari se non superiori. Ma anche tralasciando di parlare della battaglia di Canne, di due eserciti cosi antichi come moderni, che fossero nella dispositura in cui erano i Romani ed i Cartaginesi, nel secondo periodo della battaglia, la vittoria sarebbe indubitata per quello che occupasse la linea interna.

Annibale vinse per gli errori di Varrone, e per la superiorità della sua cavalleria. Nel capitolo decimoquarto di questa prima parte ritorneremo su tale argomento, adducendo fatti diaper non anticipare sugli avvenimenti ora tariamo, i quali renderanno evidentissima questa opinione. Perde Annibale 40 mila nomini. Egli avrebbe dovuto con le rimanenti forze muovere immediata mente su Roma atterrita da tanta catastrofe. Alcuni scrivono che le delizie di Capua lo trattennero, altri ch'egli non sapeva giovarsi della vittoria; altri finalmente che l’ambizione gli suggeri di salvar Roma e rendersi così necessario alla sua patria, Strane ed erronee congetture. Annibale non mosse su Roma perché ora troppo abile e sagace. Il noto valore del popolo romano, le tante e memorabili prove di fermezza del Senato, certo non gli presentavano l’impresa, non dico facile, ma probabile. Olfatti nel tempo medesimo gli venivano rimandati dai Romani i 10 mila prigioni, dichiarati dal Senato indegni di riscatto. Tentò, per aprirsi una comunicazione col mare di sotto, prender Napoli; ma fu da' Napoletani respinto. Marciò su Noto, e fu battuto dall'impetuoso Marcello, che ivi aveva raccolti i pochi resti di Canne e la legione di marina venuta da Ostia. Assaltò Casalino, piccola città, infruttuosamente, ed in questo mentre sortiva da Roma il Dittatore alla testa di 25 mila soldati.

Tale fu Roma, e tali furono le sue forze e la sua energia, anche dopo la disfatta di Canne e la contemporanea perdita di un esercito nella Gallia Cisalpina! Come adunque Fabio ed i suoi apologisti dichiararono Roma incapace di combattere Annibale, prima di coteste due disfatte? Le forze e l'indole delle due repubbliche rivali determinavano fatalmente il termine della guerra. Roma non poteva che vincere, eziandio perdendo battaglie: il fato è superiore a questi particolari. Annibale era profondamente convinto di questa verità, dal momento che mosse contro ai Romani, e sperò di vincerli inducendo gli Italiani a ribellarsi contro di loro, e non mai pretese con le sole forze dei Cartaginesi di conquistare l'Italia. Annibale dopo le accennate mosse si ritirò a Capua, e cessò dal campeggiare.

XXV. Nella quarta campagna Cartagine inviò un soccorso di 12 mila fanti, 1800 cavalli e 20 elefanti sotto il comando di Magene, che già approdava all'Italia, quando le vittorie dei Romani nelle Spagne l'obbligarono a volgere da quella parte le prue. Annibale, perduta questa speranza, decise di marciare a Cume, e guadagnare la desiderata comunicazione col mare di sotto; ma ne venne respinto dal console Sempronio Gracco.

Finalmente un valido soccorso sbarcò in Calabria. Annibale, congiuntosi a quello, mosse su Nola; ma fu vinto ancora questa volta da Marcello.

Durante due altre campagne conservò Annibale l'offensiva. Tentò sempre invano di impadronirsi di un altro punto d'appoggio per stringere Roma più da vicino. I Romani sulla difensiva non cedettero un palmo di terreno. Sempronio Gracco batté nelle vicinanze di Benevento una seconda volta Annibale.

Nella settima campagna, che fu nell’anno 541, Annibale marciò su Taranto, sperando di avere quella città per tradimento, e l'ebbe. I Romani in questo mezzo dalle difese passarono alle offese, debellarono i Campani, assediarono Capua, primo obbietto delle loro operazioni. Annibale accorse in aiuto de' collegati, e fu respinto. Tentò una diversione, ed accennando a Roma accampossi a poche miglia dalla città. L’assedio di Capua continuò. Quell’esercito sulla sua linea di operazione minacciava impedirgli le vettovaglie, mentre da Roma ne usciva un altro e gli offriva battaglia. La sua vicinanza a Roma non ritardò neppur di un’ora, la partenza delle truppe per le Spagne; salparono come in tempi tranquilli. Annibale s’affrettò a ritirarsi in Calabria. I consoli Quinto Fulvio ed Appio Claudio presero Capua: i Senatori Campani furono legati al palo, e battuti con verghe, e decapitati. Tremendo esempio di cui gl'Italiani collegati d’Annibale rimasero atterriti, e vacillarono. Annibale venne costretto a raccogliere le sue forze e difendersi da' Romani, i quali impadronitisi della Campania e degli sbocchi dei monti, si resero padroni degli avvenimenti, e acquistarono l'iniziativa strategica. Ebbero luogo varie fazioni. Taranto, anche per tradimento, ritornò in potere dei Romani vincitori in varii scontri; Annibale fu vinto in altri combattimenti, e travagliato dall'impetuoso Marcella Era reduce da Sicilia quest’illustre guerriero, e ne aveva assicurato il possesso a' Romani mediante il memorabile assedio di Siracusa.

Seguono altre quattro campagne, Annibale continua a difendersi e conserva sempre le sue posizioni, attendendo la venuta di Asdrubale per ripigliare le offese.

Caio Claudio Nerone e Marco Livio furono consoli nell’anno di Roma 547. Guerreggiavano essi la duodecima campagna, famosissima. Asdrubale, fratello d’Annibale, aveva, valicato le Alpi, ed a grandi giornate con fiorente esercito scendeva costeggiando l’Adriatico. Scelse al certo questa via. per tenersi lontano il più che potesse dal nemico, e congiungersi a suo fratello, al quale spedi messi avvisandolo della sua venuta, e dandogli nell'Umbria la posta. Durante la marcia scontrassi, col Pretore Lucio Porcio, forse nelle vicinanze di Rimini; che destreggiando cercò indugiarlo. Intanto il console Livio con. l’esercito giunse, raccolse il Pretore, ed accampò alle foci del Metauro: incontro ad essi stava Asdrubale. Nella bassa Italia Claudio Nerone con 40 mila fanti e 2 mila cavalli osteggiava Annibale. Venne con esso a battaglia presso Grumento; in Lucani vinse, lo inseguì, lo raggiunse presso Venosa,e quivi lo costrinse ancora a retrocedere. Annibale rincalzato da alcune schiere di Bruzi, ritornò a Venosa, e accampossi a poca distanza dal console. Le partite di Claudio fecero prigionieri due Numidi; erano appunto i messi spediti d’Asdrubale; il disegno dei nemici fu palese. Claudio Nerone, senza por tempo io mezzo, scrisse a Roma di riunire subito a Narni tutte le forze ch’erano in città, e la legione che trovavasi in Capua; consegnò il suo campo al legato Quinto Tazio ed egli con 6 mila fanti e 1000 cavalli, i migliori, celando abilmente il suo movimento partì; raccolse tutte le forze che trovò sul suo cammino, e con rapidissima marcia raggiunse l’altro Console. Così non solo non potè Asdrubale congiugnersi impunemente con Annibale, ma con marce convergenti, il Pretore e i due Consoli si trovarono innanzi ad esso. Mirabili operazioni, colle quali i Romani guadagnarono la vittoria strategica. Asdrubale dubitava. Aveva scorto qualche milite ancora polveroso e brutto da lunga marcia; ma i due campi del Pretore e del Console, per nulla mutati. Claudio Nerone erasi congiunto a quello senza allargare gli alloggiamenti; il milite aveva accolto il milite nella sua tenda, il cavaliere il cavaliere, il centurione il centurione. Asdrubale osservando attentamente il nemico, intese nel campo del Console che il segnale per assembrare le schiere suonava due volte; onde conobbe due essere colà i Consoli, essendo privilegio consolare far suonare il Classicum. Sicuro di ciò levò il campo, cominciò a risalire la valle lungo il Metauro per evitare la battaglia. Il fratto delle splendide operazioni de' Romani andava perduto se Asdrubale sfuggiva e il legato di Claudio Nerone non era certo troppo sicuro vicino ad un nemico come Annibale. I Romani lo inseguono, i cavalieri comandati dal Console Claudio fanno testa alle schiere, il Pretore Porcio con i veliti vien dopo, da ultimò il console Livio conduce i fanti in ordine di battaglia. Asdrubale volendo porre il fiume fra sé è il nemico, cerca un guado, ma i Romani gli sono addosso e la battaglia è inevitabile. Egli si arresta, volge loro la fronte e si schiera. A manca su di un sito forte per natura colloca i Galli, nel centrai Liguri, alla destra le sue migliori schiere, Africani e Spagnuoli, ed egli con esse. Incontra a questi trovasi il console Livio; era Porcio al centro, reggeva Claudio la destra fronteggiando i Galli. Cosi la battaglia si appicca. Alla sinistra de' Romani la fu sanguinosissima, ove combattono di persona Asdrubale e Livio con le migliori schiere,sopra terreno aperto, che non impedisce in nessun modo la mischia. Intanto alla destra Claudio Nerone scorgendo tra sé è il nemico un terreno impraticabile, lascia la sua prima linea incontro ad esso e con le altre due muove verso la sinistra del proprio esercito, l’oltrepassa e corre a circuire la destra del nemico, rinveste di costa e alle spalle, e la vittoria è decisa.

L’esercito di Asdrubale è rotto, uccisi tutti quelli che resistono. Muore Asdrubale sul campo da prode guerriero come erasi mostrato abile capitano. Claudio Nerone riparte a corsa, e giunse al suo campo presso Venosa dopo un’assenza di 15 giorni. Due prigionieri sono inviati ad Annibale, e gli narrano l’ardita marcia del Console, la battaglia, la disfatta, e la morte del fratello, di cui mostrano il sanguinoso teschio. Ne stupisce il gran capitano.

Il suo astro nella massima ascensione sfolgorò a Canne, ora accenna al tramonto: la fortuna già troppo aveva ritardato l’immancabile e fatale trionfo di Roma. Allora egli raccolse le sue forze, si ritrasse ne’ Bruziie Vi rimase per tre o quattro anni. Poi richiamalo in patria, ripassò in Africa, ove lo rivedremo a fronte di un avversario. assai più che Claudio Nerone formidabile.


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CAPITOLO VII

XXVI. Battaglia di Tor(osa — XXVII. Presa di Cartagine Nuova — XXVIII. Battaglia d’Ilinga — XXIX. di Zuma XX. Considerazioni — XXI. Epilogo.

XXVI. Mentre in Italia osteggiava Annibale, nelle Spagne le armi romane, capitanate da Gneo e Publio Scipione, dopo varie vicende trionfarono. I due Scipioni appena seppero del disegno di Asdrubale, che voleva passare in Italia in soccorso dei fratello, congiunsero i loro eserciti, e Io costrinsero a battaglia nelle vicinanze di Tortosa. Asdrubale imitò le evoluzioni di Annibale a Canne, sperandone la medesima riescita; e collocò alle ali le più esperte e valorose schiere, le fiacche al centro, rifiutò questo, e ricevé quasi nel grembo della sua linea di battaglia il nemico. Ma il suo avvera sano non era Vairone; i romani avanzando il centro, gradatamente si spiegarono a ventaglio. Non furono i loro ordini affollati come a Canne, e conservarono mirabile mobilità: onde i cartaginesi, fronteggiati alle ali da pari forze, furono rotti al centro e perciò vinti. Cosi il fatto dopo circa otto anni dimostrava viziosa la mossa d’Annibale a Canne. Nonpertanto gli storici, lutti ripetendosi l’un l’altro, hanno creduto non mai lodare abbastanza quella battaglia di Annibale: tanto può l'autorità de' nomi, peste sociale che travisa fatti e giudizi! Dopo la battaglia di Tortosa, pur erano rimasti ai cartaginesi tre eserciti che il disastro congiunse mentre gli Scipioni si divisero. I quali, combattuti l'un dopo l’altro dal prepotente nemico, furono vinti e morti: e gli avanzi dai loro eserciti, 25 mila fanti e 2 mila cavalli, elessero a condottiero Marcio, cavaliere romano; e questi meditante alquanti splendidi combattimenti, abilmente diretti, rinfrancò gli abbattuti spiriti.

Publio Cornelio Scipione, figliuolo dei morto Publio, chiese al popolo il comando di coteste forze ch’erano riunite in Tarragona e l’ottenne.

XXVII. Dopo la disfatta degli Scipioni, i tre eserciti cartaginesi eransi di nuovo divisi; Asdrubale figlio di Amilcare, guardava con un esercito la valle del Baetis (Guadalquivir); Magone quella dell’Anas (Guadiana); un altro Asdrubale, ch’era figlio di Giascone, campeggiava Fatto Tago. Cadice e Cartagine Nuova (Cartagine) erano gli estremi della loro base, «la loro fronte. di operazione risultava perpendicolare ad. essa, estendendosi dal mare all'atto Tago. Cartagine Nuova, loro emporio principale, sporgeva innanzi a questa fronte, ed era distante dal nemico sette giornata, e dieci dal più prossimo esercito cartaginese. Non isfuggi al giovine Scipione il vizio di tale dispositura; sorprese Cartagine Nuova, e se ne impadronì.

L’inaspettato e splendido fatto, e la sua generosa condotta verso gli abitanti gli guadagnarono l’animo degli spagnuoli; e le sue file ben presto furono ingrossate da numerosi collegati. Cosi nella prima campagna ingrandì la sua base e rafforzò l’esercito. L’anno seguente mosse verso l’estrema destra della fronte dell’operazione nemica; ivi, sulle sponde del Baetis attaccò Asdrubale, figlio di Amilcare, e lo sbaragliò. Questo rovescio decise i cartaginesi a limitarsi alle difese nelle Spagne, e rafforzare Annibale per ripigliare le offese in Italia. De tre eserciti se ne composero due: l’uno con Asdrubale, figlio di Amilcare, difilato partì per l’Italia; l'altro con Asdrubale, figlio di Giascone, rimase nelle Spagne sull’alto Tago. Scorse un anno, durante il quale questo Asdrubale e Scipione temporeggiarono l’uno e l’altro per crescere di forze e di potere nel paese. Ma Scipione, guadagnava sempre più 4’ affette degli spagnuoli, e Asdrubale, vedendo che molti popoli abbracciavano la causa romana, si decise. alle offese. Con 60 mila fanti, 4 mila cavalli e 32 elefanti marciò alle rive del Baetis, Massinissa con esso. Scipione con esercito minore, 45 mila fanti e 3 mila cavalli, destreggiava per staccarlo da Cadice, unica sua

base; Asdrubale non cercava altro che la battaglia. I due campi, erano l'uno incontro dell'altro, Asdrubale tutt'i giorni traeva l'esercito dallo steccato, e lo schierava, gli Africani al centro, a destra ed a manca di questi gli Spagnuoli; alle ali la cavalleria, innanzi a questa gli elefanti. Scipione imitandolo in ciò, opponeva i Romani agli Africani, gli Spagnuoli agli Spagnuoli; per varii giorni senza combattere cosi pompeggiarono; primo a schierarsi e primo a rientrare nello steccato era Asdrubale. Scipione, avendo bene osservati gli ordini nemici, decise finalmente di venire a battaglia. Formato il suo disegno di battaglia, la sera spedi gli ordini: ca valli e fanti leggieri fossero pronti la dimane a uscire dallo steccato; l'esercito tutto, per tempissimo, prendesse nutrimento. All'alba infatti i cavalli e i veliti assalgono il campo nemico, mentre da essi celato e protetto, Scipione schierasi in battaglia, avendo gli Spagnuoli al centro, e a destra e a manca le legioni romane, in somma in ordine del tutto contrario a quello usato nei giorni precedenti e cosi sorprese i nemici, i Cartaginesi spiccato dallo steccato cavalieri e lanciatori colla dispositura medesima dei giorni antecedenti, e vengono al combattere. Niuna delle due parti accenna a piegare, continuando tuttavia la pugna fra i Veliti. Sci pione suona a raccolta; si ritirano gli scaramuccianti per la radità degli ordini e si bipartiscono dietro le ali, collocandosi a tergo delle legioni romane i veliti, e dietro a questi i cavalieri. Ne di venne angustissima la fronte dell'esercito di Scipione, e perchè avea minor gente e perchè i cavalieri ed i Veliti si nascondevano dietro le ali de' fanti.

Per contro Asdrubale quanto più poteva distendevasi, minacciando con le sue ali di circondare il nemico. Muove Scipione le sue genti lentamente, mentre a passo celere viene incontro il nemico. Sci pione dà il segnale, e la evoluzione comincia. Egli regge l'ala dritta, la sinistra G. Silano. Gli Spagnuoli di Scipione, i quali forma vano il centro della sua battaglia, continuano lenti a marciare innanzi dirittamente, ma le ali raddoppiano il passo, e si che ogni manipolo di fanti, ogni drappello di veliti, ogni turma di cavalieri eseguiscono una mezza girata a sinistra o a destra, secondo che si trovano al manco o al destro corno, e movendo su di una linea parallela alla fronte nemica guadagnano esteriormente terreno: in tal guisa mentre le ali si scalonano avanti, sul centro distendesi la fronte: e non appena questa con tal movimento diventa eguale a quella del nemico, la marcia obliqua delle ali cangiasi in marcia diretta pe’ manipoli dei fanti, mentre i drappelli de' veliti e le tarme dei cavalieri compiono la girata e si spiegano arringandosi co' lauti, quelli dell'ala destra sulla sinistra in battaglia, e quelli della sinistra sulla destra in battaglia, alternando un drappello di Veliti ed una tarma di cavalieri. Così i Romani spuntano le ali del nemico, che d’inviluppante diviene inviluppato. I fanti romani allora attaccano gli spagnuoli; i veliti fugano gli elefanti che scompigliano gli ordini cartaginesi, e i cavalieri feriscono in fronte e da costa i cavalieri nemici, i Cartaginesi vennero sconfitti; le loro migliori schiere, gli Africani, rimaste inoperose al centro della battaglia, protessero la ritirata. Questa fu la famosa battaglia d’Ilissa o di Ilinga, presso la moderna Siviglia; con essa terminò Scipione le sue famose gesto nelle Spagne, ed assicurò in quelle regioni il dominio romano.

XXVIII. Tornato a Roma Scipione, venne eletto console, e propose al Senato si portasse la guerra in Africa. Surse a dirgli contro il temporeggiator Fabio con lunga diceria, e per dare maggiore autorità alle parole, esaltò le proprie geste. Scipione rispose, tolse ogni dubbio, e parti. Riunì in Sicilia l’esercito: e mentre colà era, fece uno sbarco ne’ Bruzi, fugò Annibale e prese Lacri. Giunto poi il momento opportuno, riunita la gente, ed armata con grande diligenza la flotta, sciolse da Sicilia, e a golfo lanciato passò in Africa.

Debellò due eserciti, e finalmente a Zama si trovò a fronte del formidabile suo avversario, di Annibale, Zama era a cinque alloggiamenti da Cartagine, verso l’occaso. Quivi Annibale erasi accampato. Scipione alloggiò à breve distanza da esso. Quegli capitanava esercito maggiore ma di manco nerbo, i Galli, i Liguri, i Baleari, i Morì, i Cartaginesi di nuova leva, valevano poco, i soli veterani venuti con esso d’Italia potevano paragonarsi agl'Italiani capitanati da Scipione. E questi era eziandio superiore per cavalleria, perocché Massinissa da nemico gli divenne collegato. Annibale schierò in prima fronte i mercenari stranieri, gente atta a ferir da lungi più che da presso; io seconda Cartaginesi di nuova lava; in terza, alla riscossa i suoi veterani; difendeva le ali la cavalleria; la fronte coprivano ottanta elefanti.

Scipione schierò il suo esercito nel consueto ordine manipolare; in tre schiere, Astati, Principi, e Triarii, e non già a scacchiere, ma mise le insegne luna dietro l’altra, affinché fossero sgomberi gli intervalli dalla prima fronte al tergo e si facesse abilità ai drappelli dei veliti, posti fra la radità degli astati, di attaccare gli elefanti, e cacciare senza scompigliare gli ordini dietro l'esercito quelle belve che sarebbero riusciti a fugare. All'ala sinistra collocò Massinissa co' suoi cavalieri; Lelio alla destra con la cavalleria italiana. I lanciatori romani attaccano gli elefanti, volgono in fuga quelli dell’ala destra che si gettano spaventati sulla cavalleria di Annibale; gli altri, i veliti, travagliandoli, li conducono attraverso gli ordini e li ritengono lontani dalla mischia. Muovono gli astati; fanno testa i mercenari stranieri in prima, ma tosto vinti si volgono a fuga, ed accusando di tradimento la seconda schiera che immobile aveva assistito alla loro disfatta, rivolgono contro di essa le armi.

Dietro ai fuggenti furiando sovraggiungono gli astati, danno dentro a quell'orrendo tumulto, e la prima e la seconda schiera sbaragliano. Annibale vide il disastro da lui quasi presentito, ed a' suoi veterani conservati lontani dalla mischia, ne' quali riponeva la somma delle cose, comanda di abbassare le picche e presentare le punte a' fuggiaschi, i quali solleciti scorrendo per le ali ombrano la fronte.

Scipione intanto crasi avanzato coi principi, e aveva ricomposti gli ordini degli astati dalla vittoria stessa confusi. Non altro che mucchi di cadaveri separavano i due avversari. Ma comeché vittoriosi i Romani in questi primi scontri, pur tuttavolta le sorti della battaglia pendevano tuttora incertissime. I veterani di Annibale quasi pareggiavano tutti i fanti romani. Gli astati erano stracchi, soli o uniti a' principi non potevano resistere all'urto delle superiori schiere di Annibale: quindi dall'urto delle tre schiere riunito dipendevano le serti della battaglia.

Perciò Scipione con ottimo consiglio decise di non attendere la certa disfatta delle prime per raccoglierle nella terza. ma urtare dal primo momento con tutt’i suoi fanti, e librata così so giusta lance le loro forze, sperava la vittoria dalla superiorità della sua cavalleria. Fa serrare i manipoli ai Prìncipi e Triarii verso l’una e l’altra ala, ed ordina loro di spiegarsi sugli Astati, che però divennero base e centro dello spiegamento, nel modo stesso che i moderni spiegano la colonna doppia: così a destra ed a manca degli Astati si collocarono i Principi, e terminavano la linea, ovvero de parti più deboli, le due metà dei Triarii. I Veliti tolgono di mezzo i cadaveri; le due falangi si urtano, si mischiano, e la pugna ostinatissima pende incerta; ma Lelio e Massinissa, poiché ebbero fugata la cavalleria nemica, tornano a corsa, colgono alle spalle i fanti di Annibale, e decidono la vittoria.

Con questa battaglia terminò la seconda famosissima guerra panica, che comprende quasi tutte le geste de' due più illustri capitani di quel tempo, Annibale e Scipione: poiché si può dire che a Zama i loro ingegni si provarono come a duello, la quale battaglia per vero fu piena di concetti strategici vastissimi, e di splendide evoluzioni; e bene può servire come esempio memorabile di costanza e di valore; grandissima ne fu la fine e degna affatto di quelle geste, la ruina cioè di Cartagine e la signoria di Roma. Nè si può negare che cotesta guerra segni l'apogeo dell’arte bellica in Italia, i cui fatti bene rag guagliati e accuratamente studiati dimostrano quanto sia falso il credere che i guerrieri romani si fossero educati alla scuoia di Annibale.

XXIX. Annibale combatté in Italia quindici o sedici campagne. Le prime sei furono di offesa; tre di queste, le prime, furono decise in suo favore, perché chiuse i Romani in un cerchio di azione sempre più angusto; nelle seguenti non perdettero i Romani un palmo di terreno, quindi nelle difese vinsero. La settima campagna venne decisa eziandio in favore de' Romani che presero Capua. Nelle quattro seguenti Annibale difendendosi conservò le sue posizioni. e però vinse. Nella dodicesima fu battuto completamente: nelle ultime, ne’ Bruzi, anche ebbe la vittoria, perché essendo nelle difese non venne spostato. Quindi fu superiore in dieci, vinto in cinque. Combatté di persona sedici fra battaglie e fazioni ih minor conto: nella metà di esse ottenne la vittoria, fu battuto nelle altre. Decisive sempre le sue vittorie, poco disastrose le sue disfatte: segno cerio della sua valentia.

Fu Annibale maestro ai Romani in strategia? Le operazioni di Levino contro Pirro, la guerra Gallica, la condotta di Publio Scipione allorché Annibale passò le Alpi, la posizione de' due consoli, nella seconda campagna, e il disegno che doveva unirli, il concentramento de' due Scipioni contro Asdrubale nelle Spagne; quello di Claudio Nerone e Levino in Italia, la campagna di Scipione l’Africano, sono operazioni strategiche, tutte anteriori o contemporanee alla guerra contro Annibale, e tutte mostrano i Romani maestri in strategia. E in tattica? Annibale armò i suoi con. le armi raccolte al Trasimeno; erano perciò superiori le armi romane: Annibale schierava il suo esercito in una sola fronte senza intervallo, i Romani non abbandonarono mai il loro ordine manipolare su tre linee. Alla Trebbia e al Trasimeno deve Annibale la vittoria ad un’imboscata; i principii della scienza e la ragione dichiarano viziosa l’evoluzione di Canne, e il tetto conferma la teorica a Tortosa, ove i due Scipioni fanno rilucere la superiorità e lo sviluppo in cui era la tattica romana; verità maggiormente chiarita se faremo paragone della battaglia d’Ilinga con quella di Canne.

Ad Ilinga Scipione, come Annibale a Canne, pone nel centro le schiere di minor nerbo, ma le difende spingendo innanzi le ali, ed assicurando ad esse con abili evoluzioni la vittoria; mentre. Annibale azzuffasi col centro, suo punto debole, ed entra in azione con le ali quando questo era già rotto. Vinte le ali dell’esercito di Scipione nella battaglia d’Ilinga sarebbonsi ripiegate sul centro, e cosi sarebbesi riformata la linea, ed arrestato il nemico; ma rotto il centro dell’esercito di Annibale a Canne, ne sarebbe seguita rotta tutta quanta la linea, e la battaglia sarebbe stata perduta. Chi non scorge nell’evoluzione a Canne uno stratagemma suggerito dal fortuito avvenimento della Trebbia, e in quella di Ilinga e in quella di Tortosa l’applicazione de' principii di un’arte?

A Zama Annibale imita i Romani, si dispone su tre fronti, ma non osserva alcuna radità ne’ suoi ordini onde l’ultima schiera per non essere rovesciata da' fuggenti è obbligata ad abbassare contro ad essi le picche: Scipione lo vince, ed è la vittoria dovute più al suo ingegno che al valore delle schiere. Quali ammaestramenti ebbero dunque i Romani da Annibale? Quali riforme avvennero

in cotesto spazio di tempo negli eserciti romani? Forse le aste de' Cavalieri più solide, ed i drappelli di Veliti misti con essi nel combattere? ma cotesto ripiego, acconcio a ricalzare la cavalleria, venne suggerito, durante la guerra contro i Campani valentissimi in cavalleria, da un Centurione romano. Ma veniamo ormai al paragone degli uomini.

Marcello e Claudio Nerone sono i primi generali che vincono Annibale; sebbene superiori in quelle speciali circostanze, pur non sono da agguagliare al capitano cartaginese; poiché né l'uno né l’altro sarebbero stati capaci di concepire e mandare ad effetto i vasti disegni di Annibale, li solo Scipione lo supera. Annibale porta la guerra in Italia, e Scipione in Africa; per vastità sono pari i disegni. Quegli prima; ma pur prima ch'ei fosse disceso in Mafia, era Attilio Regolo andato in Africa per conquistar la Sicilia; se dunque Scipione imitò Annibale, questi imitò Attilio. A ogni modo non scemano le date la grandezza delle imprese. Un comune guerriero, messo nelle identiche circostanze di Scipione, di Annibale, di Cesare, non farebbe mai quello che questi fecero, quantunque altro non dovesse fare che ricalcare le loro orme; chi fosse da tanto, non sarebbe da meno di Scipione, di Annibale, di Cesare. Assai più ostacoli presentò la marcia di Annibale che il navigare di Scipione: ma tali differenze non sono di verun peso, poiché gli ostacoli superati da Annibale durante la marcia, non avrebbero di certo arrestato Scipione.

Fin qui si pareggiano entrambi. Annibale in Italia, Scipione nelle Spagne, compiono tre campagne consecutive, ed ottengono sul nemico vittoria strategica e tattica; debellano tre eserciti. Ma ad Annibale i tre eserciti vengono opposti successivamente, a Scipione contemporaneamente sul teatro della guerra. Annibale debella il nemico alla Trebbia; indi muove, e batte un altro esercito al Trasimeno, campeggia depredando e devastando, fronteggiato sempre dai nemico, che da ultimo fu vinto a Canne. Scipione prende Cartagine-Nuova, poi muove e sbaraglia un esercito; esce una seconda volta dal suo campo per debellarne un altro. Annibale fa una marcia per saccheggiare un borgo; Scipione non muove che per prendere una piazza, o vincere una battaglia; e conseguito rapidamente il fine, ritorna al campo ed esercita le sue schiere: Annibale è più irrequieto ed operoso, Scipione più calmo è più splendido. Quegli qualche volta si governa quasi come tu. capo di orda barbara che intenda solo a rapina e a devastazione; questi come gran capitano di un gran popolo, il cui esercito non. muove che per una grande impresa. Nelle battaglie entrambi debbono la vittoria più al loro genio che al valore degli eserciti. Annibale è fecondo di stratagemmi, e fida nella incapacità del nemico, vince Sempronio, Flaminio, Varrone, non già Martello e Claudio Nerone e non Scipione; Scipione fida solo ne’ principii dell’arte, applicati dal suo ingegno, e vince sempre; vince i due Asdrubali, e vince Annibale stesso. L’uno crudele ed avaro; l’altro generoso e magnanimo: questi in cinque anni sottomette le Spagne a Roma, passa in Africa, vince, o dovunque acquista collegati alla sua patria; quegli in quindici anni non fermò in Italia mai una stabile colleganza. Annibale, capo di violenta fazione, trascinò la patria a secondare i suoi odii personali; Scipione fu braccio e scudo della patria sua. Quindi chiara apparo la superiorità di Scipione come capitano, come cittadino, come eroe. Annibale e Scipione ebbero dalla natura pari forza d’ingegno, pari energia e costanza nell’esecuzione de' disegni, ma le loro facoltà si svilupparono in uno fra la società cartaginese, nell’altro fra la romana; pari furono come uomini della natura, ma considerati come uomini sociali, fu superiore il romano: forse se Annibale fosse nato romano sarebbe stato grande quanto Scipione.

XXX. Or riassumiamo il fin qui detto. L’ordine manipolare fu l’ordine di combattere di quasi tutti i popoli Italiani, e presso di loro; come presso tutti i popoli civili, il guerreggiare era già un’arte avanti ia fondazione di Roma. I Romani imitandoli si ordinarono in manipoli poco numerosi; si schierarono nelle prime guerre su di una sola fronte, non già a modo di falange, ma con intervalli: serbarono poi alcune schiere alla riscossa, e quindi raggiunsero, forse ai tempo di Servio-Tullio, l’ordinamento. manipolare su tre fronti per manipoli. Nella battaglia del Vesuvio troviamo diffusamente narrato come questi tre schierosi succedevano nella pugna. (

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Pei Romani durante quattrocento anni il teatro della guerra è ristretto nella vallata del Tevere, quindi l’arte bellica, limitata

alle battaglie schierarsi incontro ai nemico. giovarsi della giacitura del terreno, difendersi i fianchi e le sfalle, e minacciare quelle dell'avversario, sono cose da essi perfettamente conosciute. Poscia il campo dell’azione si allarga, i paesi che hanno da traversare sono alpestri, le marcie divengono lunghe, difficili; e i Romani pagano caro allo stretto Caudino la loro ignoranza di cotesto ramo dell’arte. Imparando a proprie spese, traversano l’Italia dall’un mare all’altro, valicano gli Appennini, muovono incontro a Pirro.

Le marcie di Levino hanno un altro carattere, non sono semplice traslazione di luogo a luogo, ma studiata combinazione coi movimenti del nemico; sono marcie strategiche. La prima guerra punica, e la gallica, hanno mostrato tutta la potenza romana; in esse troviamo disegni strategici, accurata scelta della base e dell’obbietto delle operazioni. Nella seconda guerra punica la scienza bellica, in tutti i rami, presenta le più splendide applicazioni; le evoluzioni a llinga, a Tortosa, a Zama, le marcie strategiche de' due Scipioni nelle Spagne, di Claudio Nerone in Italia; l’assalto tatto Ma Scipione Africano alla base del nemico, e il formarsi una base propria mediante la presa di Cartagine-Nuova, le evoluzioni strategiche del medesimo contro i tre eserciti nemici, infine la discesa in Africa, che richiese ordine perfetto e spedito, massime nel modo di vettovagliarsi, conseguono in cotesta guerra, l’apogeo della scienza bellica.

Sono cinque secoli e mezzo di continuo progresso. Da questo tempo la vastità delle imprese cresce a dismisura; la Grecia, l’Asia, l'Africa, fe Gallie, ne sono il teatro, e Roma si mostra ogni di più feconda, nel creare grandi guerrieri, Mario, Silla, Cuculio, Pompeo, Cesare tutti superanti i loro predecessori, non però mai superato Scipione. I greci stretti in falange, i numerosi armati dell’Asia, gl’impetuosi assalti degli Elvezii e de' Belgi, sono vinti e dispersi da' buoni ordini militari di Roma.

La legione, esclama Vegezio, fu ispirazione divina; quindi nella legione ei riconosce tutti i vantaggi della tattica romana, e con essi altri scrittori ripetono un tale errore. Non fu la proporzione de' fanti co' cavalli, e de' Veliti con entrambi, che fece il vantaggio della loro tattica, proporzioni spesso variate a seconda delle circostanze la legione deve considerarsi non come muta combattimento, o elemento dell’evoluzioni, ma come unità amministrativa; e tutto al più utile ripartitone nelle marcie e negli alloggiamenti, ma qualunque fosse stato il numero delle legioni, e la forza di esse, l’ordine di battaglia era sempre it medesimo; la legione spariva appena che l'esercito era schierato per combattere; era invariabile l’ordine manipolare, mutato poi in quello per coorti. Il manipolo, e pei la coorte, furono l'unità dr combattimento de' Romani, originato dalla breve spada, che procacciò loro la vittoria su tutti i popoli del mondo conosciuto: era quest'ordine, e non già la legione, che faceva loro abilita di rifarsi tre volte, senza che l’una schiera scompigliasse l’altra. Possiamo dire, che la tattica di tutti i popoli attendeva il successo dall'impeto, o dalla resistenza; quella degl’italiani l’attendeva solamente dalla mobilità, e da uno sforzo continuato e successivo. I Greci presentano gli Italiani una barriera di ferro, irta di picche, e questi sottentrano alla lunghezza delle loro picche, e trafiggono stoccheggiando i nemici sbalorditi.

Se è intricato o calpestre il terreno, cresce il vantaggio dell'ordine manipolare sulla falange: supera gli ostacoli il manipolo, e facilmente si raccoglie alle insegne e ricompone gli ordini: non così il greco gravemente armato, e serrato nelle file, a cui dava fastidio eziandio la più picciola piegatura di terreno. Gli elefanti sono fugati da' Veliti, e gl'intervalli dell'ordine manipolare tanno loro abilità di cacciare le belve, e ritenerle fuori del combattimento. Lanciano gli Asiatici i loro carri falciati, e l’ordine manipolare spalancasi e lascia passar oltre i carri inoffensivi, fra le risa de' legionari. Quattordici mila Italiani comandati da Lucullo, fugano sulle sponde del Tigri, un’armata di dugentoventicinque mila combattenti, fra' quali diciassette mila cavalieri coperti di ferro dal capo alle piante, che all’aspetto, alte lunghe picche, alle lucide armature, sembravano invincibili. Solamente i Parti rintuzzano i Romani; ma non sono perciò le loro ordinanze superiori, essi non ne hanno alcuna; le sterminate pianure, la velocità de' loro cavalli, un’arma da getto superiore alle ordinarie, gli errori di Grasso, fruttano loro un vantaggio momentaneo: battuti poi da Vendicio sono ricacciati nella Mesopotamia. Cosi gl’italiani con la loro spada corta, e con l’ordine manipolare, raccolti intorno alle aquile dei Romani, popolo cotesto che rappresentava quanto eravi di comune e di migliore fra i diversi popoli d’Italia, signoreggiano il mondo, e l’impero creato dalle. loro virtù crolla minato da' vizii della loro civile costituzione, e dalle ricchezze, e molli costumanze delle nazioni conquistate, che in Roma e in tutta l’Italia s'introdussero.


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CAPITOLO VIII

XXXII. Istituzioni militari dell’Impero — XXXIII. Scrittori militari.

XXXII. Le guerre lontane, e i bisognosi armati da Mario, avevano di già cangiato la moralità delle legioni romane. Intiepidiva la prolungata assenza l'amor di patria, per cui stranieri al paese diventavano guerrieri, e stranieri i cittadini all'esercito. Inoltre «cotesti bisognosi, a cui il paese negava gli alimenti, consideravano loro patria il campo ove erano lungamente nutriti. Augusto dichiarò permanente l’esercito: non ordini, non armi, non evoluzioni ei riformò, ma rifece le leggi dei congedi, rimunerò i lunghi servizi, staccò in una parola il soldato dal cittadino. La guerra combattuta da volontari ai primi tempi di Roma, concorde con l'utilità personale de' cittadini, che spingevali a difendere la patria, le famiglie, le proprietà e accrescere queste con la parte del bottino, divenne sotto Augusto degradante commercio di pochi, dei meno legati alle sorti del paese. La fortuna e l’avvenire dei soldati più non dipendeva dalla prosperità e grandezza di Roma, ma dalle sorti di quel campo o frontiera che difendevano; di guisa che a quella disciplina che prima germogliava nel cuore di ogni cittadino romano e bene stringeva le file dell’esercito, venne sostituito l’onor militare, l’amor proprio di corpo, diverso per ogni campo e in ogni campo un capo che riassumeva l’espressione di tutti fu come idolo, e però onnipotente. Creò Augusto i pretoriani, corpo di ventimila soldati, italiani tutti, destinati a presidio delle varie città d’Italia;, due coorti in Roma per difendere, diceva lo scaltro tiranno, Roma, il Senato; il Popolo e l’Imperatore; ma da chi? La corruzione avea indotto il popolo ad abbandonare i proprii diritti e delegarli ad un solo; la corruzione fece perdere il prestigio al principio, di autorità; il divino Angusto non si vide sicuro circondato solamente da ventiquattro littori, ma ebbe bisogno, lui divino, di un esercito per guardarsi; il principio di autorità decadeva, e venivagli a poco a poco sostituito il dominio della forza. Sotto pretesto di sgravare dai pretoriani le altre città d’Italia e migliorarne la disciplina, Tiberio li raccolse tutti in Roma, dove in munito e fortificato campo, quei divennero arbitri delle sorti di Roma, e per lunga pezza dell’impero, finché la magica potenza dell’eterna città non venne spenta nella corruzione della mostruosa unità che pesava su di essa. La disciplina militare non era più l’effetto di un comune sentimento e dell’universale volontà, ma essa oscillava trasformandosi a seconda dei capi. Scrollata dalla guerra civile che segui la morte di Nerone, venne ristaurato da Vespasiano, da Tito e da Adriano. Quest’ultimo modificò eziandio il tracciamento del campo, né già per quello che riguardava la difesa contro il nemico, ma la sicurezza interna, e poco fidandosi dei soldati ausiliarii, li collocò nel mezzo, e in giro presso lo steccato le legioni italiane. Crescendo i mali, la corruzione e l’indisciplina diventarono concetti dominanti e sentimenti universali, e perciò qualunque forza umana incapace a frenarli. Pertinace, Tacito, Proto, tentarono di riporre in essere la militar disciplina, e ne furono vittime; assassinati il primo e l’ultimo, ne mori di dolore e d’amarezza il secondo. Settimio Severo vendicò la morte del primo: gridato imperatore dalle legioni di Pannonia, vinse i suoi avversarii, vinse i pretoriani, li disarmò e disfece. Vittorioso accrebbe il male; ai 20 mila pretoriani sostituì con grandi privilegii 50 mila veterani scelti fra le legioni: così Roma fu atterrita da cotesti 50 mila barbari Sulle frontiere donò ai soldati e a famiglie di barbari, con l’obbligo del militare servizio, terre sottratte al diritto civile, dando così principio al diritto feudale, sotto il quale doveva sparire l’impero. Per affezionarsi vieppiù l’esercito fa prodigo smoderatamente, e fornì perciò la depravazione dei costumi.

Scadute le virtù manuali e la disciplina, sparì eziandio il flessibile ordine manipolare, e furono le milizie schierate in una parte continua. Troppo gravi a corpi infiacchiti da viali le armi difensive venivano dietro l’esercito trasportate sopra carri e con riluttanza indossate dai soldati net momento di combattere. Venuto meno il. valore, prevalsero le armi da getto e crebbero in numero fe baliste, macchine, da combattere il nemico da lungi, colle quali si slanciavano pesanti pietre con fa forza di torsione di canapi, resero grave e lenta la marcia delle legioni; ogni centuria possedeva una piccola balista, ogni coorte una grande. Severo aveva introdotto i barbari sul suolo romano, concedendo loro terre ed obbligandoli a difenderle. Probo gli ammise nelle file, ma dispersi fra le legioni, in piccioli drappelli. Crebbe sempre il numero di essi, che volenterosi si arruolarono, e diminuì rapidamente quello dei soldati italiani. Vennero poi ammesse come ausiliarie intere nazioni, le quali conservarono accanto alle legioni romane le loro armi, i loro ordini ed i loro modi da barbari. Ogni legione, e romana e di ausiliarii. quella armata alla romana, questa con le proprie armi, ascendeva a più di dodici mila fanti: incerto e vario il numero dei cavalli. Tre legioni erano in Brettagna, due nella bassa e tre nell'alta Germania, una in Rezia, una in Norica, quattro in Pannonia, tre in Mesia, due in Daria, sei in Siria, due in Cappadocia, una in Egitto, una in Ispagna: i pretoriani, 50 mila come dicemmo, erano in Roma. Compivano le forze dell'Impero due flotte, una nell’Adriatico a Ravenna, l’altra nel mar Tusco a Miseno, e padroneggiavano il Mediterraneo divenuto come lago romano. Finalmente le file di cotesti barbari raccolti intorno alle aquile romane, cominciarono a diradarsi, trovando meglio il loro pro nell'irrompere da nemici dell'impero che nel difenderlo. Dopo aver distrutto Ira i Romani la disciplina e gli ordini, ne introdussero qualche resto fra le loro nazioni, onde le armi dell’Europa colta e decadente quasi si assimigliarono alle armi della Europa barbara. Prevalse in esse la cavalleria catafratta, ed erano già numerosissimi cotesti cavalieri nell'esercito di Costantino, ultimo imperatore di Roma pagana e primo imperatore cristiana Egli divise il potere militare dal civile, distinse le soldatesche paladine da quelle messe a guardia delle frontiere, ed in queste ed in quelle ammollò ogni spirito guerriero: le paladine destinate a presidiare le più floride città dell’impero furono dì enorme gravezza a' cittadini; non curando le marziali esercitazioni acquistarono della vita civile i soli vizi, terrore degli abitanti, che tremavano all’ostile avvicinarsi dei barbari. Le soldatesche di frontiera sempre in pericoli, vedendosi in paragone delle altre malamente ricompensate, disertavano, e venivano surrogate dai barbari: così della fanteria romana restarono solamente alquante migliaia di uomini disporsi in vari posti. Costantino rese impossibile le terribili rivolte militari quali già furono sotto i suoi antecessori, ma disarmò l'Impero. Trasportò in Oriente il seggio imperiale, e al paludamento romano sostituì il piviale e le gemme di Persia.

Sotto i suoi successori le file dell’esercito si assottigliarono sempre più, ogni vestigio di ordine sparì. Nel regno di Giustiniano il generale supremo in tempo di guerra creava e ordinava l’esercito a suo capriccio.

XXXIII. Vari uomini durante 1‘ impero scrissero di cose militari, raccolsero i precetti e le massime degli antichi e si sforzarono di inculcarle, ma invano, ai loro contemporanei. Onosandre è forse il più antico di questi autori: seguono l’imperatore Maurizio, l’imperatore Leone e Vegezio, quest'ultimo il più completo ed il più pregevole. Quasi tutti cominciarono dal trattare della scelta di un generale, del deletto dei soldati, delle loro esercitazioni, enumerarono le qualità necessarie al duce supremo, e le provincie e i mestieri più adattati a fornire buoni soldati. Coteste regole gli antichi non le avevano, rag furono tolte dal tempo dell’Impero. Agli antichi esse non bisognavano; la scelta dei legionarii fra un popolo di guerrieri era facilissima; i migliori generali non li sceglieva un principe ma il suffragio del popolo, e i generali e soldati erano già destri nelle armi perché romani.

Poi quegli scrittori passano a discorrere degli ordini, ed ivi mostrano chiaramente la decadenza della scienza; l'ordine manipolare non è da essi neanche menzionato, non conoscono altro che le falangi e le evoluzioni di esse; ignorano del tutto le tre fronti e l’ordinanza a scacchiere degli antichi romani. L’imperatore Leone e Vegezio raccomandano una seconda linea, ma il modo di dire dell’imperatore dimostra come nessun capitano di quel tempo praticasse tale precetto; e si doveva essere, perocché la seconda schiera, con essendovi intervalli nell'una e nell'altra, volendo rincalzare o sostituirsi alla prima, facilmente si sarebbero ingarbugliate e rotte amendue; quindi era più sicuro usare una sola fronte, ed estenderla per prendere il nemico da costa. Dicono poco degli ordini di marcia e degli schieramenti dell’esercito. Vegezio supera di molto gli altri nel discorrere dei varii ordini di battaglia, ponendo come assioma di tattica che si debbano portare le migliori soldatesche ed il maggior numero di esse ove vogliasi operare lo sforzo maggiore. Tutti poi nulla, o quasi nulla, lasciano a desiderare riguardo alle precauzioni da prendersi nelle marcio, negli accampamenti e nelle battaglie. Questi scrittori adunque ignorano la strategia, ignorano le evoluzioni dell'ordine manipolare o per coorti; i particolari della loro tattica sono buoni solamente per la falange: ma ragionano bene e largamente di quei precetti generali applicabili ad ogni esercito cittadino o perpetuo, greco o romano. Queste dottrine militari vengono completate da una raccolta delle fazioni e degli stratagemmi di guerra de' più celebri dell’antichità, fatta da Frontino e Polieno.


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CAPITOLO IX

XXIV. I guerrieri feudali — XXV. Le milizie cittadine; loro decadenza — XXVI. Progressi dell’arte nelle tre campagne di Castracelo Castracani.

XXIV. — La miseria, la schiavitù, il cristianesimo, flagelli del mondo romano, prostrarono e divezzarono dalle armi gl’italiani. Sotto Teodorico gran re, cominciarono a sorgere alquanto dalla loro abbiettezza. La gioventù sicura nelle loro città, mirava con compiacenza gli accampamenti, lo splendore delle armi, i guerreschi lidi de' Goti: quella vista, quel contatto ne rinfrancò l’immaginazione e ne risvegliò gl’istinti guerrieri, innati nell’uomo. Sin da quel tempo in ogni città la gioventù italiana, imitando i conquistatori in spazioso campo, all'uopo destinato, nomato perciò Pratum de Battaglia, esercitavasi nelle armi. Ma la teologia seminando la discordia fra le due nazioni, ne segui quella guerra lunga, aspra, devastatrice, che accrebbe le miserie, ed umiliò ancor più gl'italiani. I Longobardi non trovarono in Italia altro che popolo vigliacco, capace solo di terrore.

Ogni longobardo dell’età di dodici anni era dalle proprie leggi dichiarato maggiore, capo di famiglia, ed arimanno, ovvero cittadino. Dodici famiglie ubbidivano ad un decano, dodici decanie ad un sculdascio; il duca era capo di dodici sculdascie; il re imperava su tutti. Erano i capi giudici e governatori in pace, comandanti in guerra. Il re bandiva la guerra; tutti erano obbligati

a seguirlo; i refrattari severamente puniti: venivano indicate le poste, la direzione delle marce, il sito dove tutto l’esercito doveva far massa. I guerrieri armavansi e nutrivansi a proprie spese; i più ricchi di completa armatura e destriero; i meno agiati porta vano lancia, ronzino e scudo; e scudo, arco, turcasso e saette i più poveri, che erano i pedoni. In queste leggi longobarde, che obbligavano tutti i sudditi alle armi, non vengono menzionati gli Italiani, ma neppure eccettuati: gli schiavi, pochi domestici de capi e i poverissimi sono le sole eccezioni che si osservano, mentre le lunghe guerre, particolarmente quelle combattute dai Beneventani, nella cui narrazione non scorgesi alcuna separazione fra i due popoli, provano abbastanza, che gl'Italiani ripigliarono coi Longobardi l’uso delle armi, massime le popolazioni delle città. Esse chiamate alla guerra eleggevano un generale; o erano condotte dal Conte o Castaldo: venivano divise in drappelli ciascuno de' quali era detto Bandus, che significava vessillo, ed era come l’ombra del manipolo romano. Il nome di ogni Bandus , d’onde venne bandiera, era il suo numero progressivo, cotesti tanti portavano spada e scudo. La lattica de' con era quella del decadente mondo Romano, l’ordine continuo, ovvero la falange, e la prevalenza della cavalleria su i fanti. Combattevano i fanti con la spada breve; i cavalieri erano quelli che tra noi furono introdotti dagli Orientali i Catafratti. Ciò nulla ostante le loro battaglie erano decise più dalle evoluzioni delle schiere, che dal valore individuale; l'ordine prevaleva sulla prodezza. Totila è Teia, ultimi re de' Goti furono eziandio gli ultimi generali che combatterono cotali battaglie. Dopo questi e Narsete l’arte ritornò alla sua infanzia all’urto di due linee parallele, decise la vittoria non dall’ordine e dispositura di esse, ma dalia bravura di ciascun guerriero. E la cavalleria, già prevalente, prevalse anche più fra i Longobardi.

Carlo Magno ed il feudalismo da lui introdotto in Italia fecero toccare alla scienza militare gli ultimi gradi di decadenza. Ogni feudatario pensò di bastare a se stesso e crearsi delle forze, obbligando i suoi dipendenti o vassalli al servizio militare. Quelli destinati particolarmente a guardia permanente, formarono la scara d’onde scherani, e questi erano i suoi famigli in armi. Elevarono dalla vanga alla spada i servi della gleba, che seguendoli in guerra formarono la masnada. Tutti combattevano a cavallo. Ad esprimere l’ordine di tale sgrano del vassallo

verso il signore si usò l’antica parola milite, che ebbe il significato di guerriero a cavallo, e di vassallo. Nel tempo in cui l’anarchia feudale prevalse maggiormente in Italia, cioè dalla morte di Carlo Magno sino ad Ottone I, i paesi furono coperti di tome di castelli, covili di tiranni; edificati in siti forti per natura, e resi inespugnabili. dall’arte. Ambizioni personali, e vendette private, erano le cagioni delle guerre, in cui i forti trascinavano i meno potenti, costretti loro malgrado a parteggiare per loro. Le spedizioni chiamavansi cavalcate. I cavalieri a difesa imbracciavano lo scudo; si covrivano di ferro dal capo alle piante; la celata e l’usbergo erano le parti principali dell'armatura, e difendevano la testa e il busto, poi si aggiunsero altri pezzi di armatura, denominati dalla parte del corpo che,difendevano, come schiniera, cervelliera, collare, cosciale ecc. A offesa brandivano poderosa lancia, e pendeva al fianco loro lunga e possente spada, e all’arcione la mazza d’arme, o mazza ferrata o accetta, armi astate terribili, le quali, se non spezzavano l'armatura, almeno pestavano ed abbattevano. Cominciavano il combattimento correndosi contro con la lancia in resta, dirizzando il colpo all’elmo o allo scudo: era quello il colpo migliore, perché più difficile ad imbroccare, più efficace a balzare, l'avversario di sella. Se valorosi erano i cavalieri, volavano in pezzi le Ignee, senza che,essi, quasi viventi cittadelle, ne fossero neppure scrollati. Poscia brandivano le spade, o altre armi, e venivano al secondo paragone. Per ore intere duravano cotesti. duelli, a' quali poneva termine sovente la fatica, piuttosto che le ferite. Era d’uopo più di forza che di destrezza al maneggio di quelle armi: un cavaliere, sicuro della tempra di sua armatura, e di sua forza fisica, puravasi poco di parare i colpi di un avversario meno forte, e studiavasi di calare un fendente, o tirare una stoccata, che spezzando o forando l’arnese dell’avversano, decideva la lotta. Palla infanzia le continue esercitazioni accrescevano le loro forze, muscolari, e gli rendevano. perfetti nell’arte equestre.

Il giuoco dalla Quintana li rendeva saldi all’urto, destri ad imbroccar con la lancia, Consisteva tale giuoco io un fantoccio coverto da solida e completa..,armatura, che sorgeva nel mezzo di ampio agone, fitto ad un paio verticale, e girevole intorno a tale asse. Le braccia del fantoccio, che impugnavano due pertiche, si distendevano lateralmente. Il milite che voleva dar prova di sua destrezza, coverto dallo scudo, raccolto in arcione, ferma la lancia al lato destro, e fissando lo sguardo sul mezzo del fantoccio, ove dirizzava la punta investendolo a galoppo serrato. Se destro e forte era il cavaliere, imbroccava nell’asse verticale, ne tremava la macchina scrollata dall'urto, volava in pezzi la lancia, e piegavasi sulle anche il destriero, e gli applausi degli spettatori erano premio di sua destrezza: se invece toccava più a destra o a sinistra, girava la macchina, ed una delle pertiche orizzontali veniva a percuotere l’inesperto cavaliere; e sovente dalla percossa rovesciato in terra, eccitava le risa e anche le fischiate degli spettatori. Oltre a questo giuoco, si esercitavano i cavalieri anche con simulacri di duelli, ove combattevano con armi di legno, oppure ottuse, che dicevansi armi cortesi. Tali esercitazioni appellavano bagordare o armeggiare, e dicevano giostre quelle ove molti cavalieri riuniti, armeggiando, facevano prova di loro destrezza.

In guerra ogni milite seguiva il pennone del suo signore; i cavalieri liberi, ma senza vassalli, seguivano i loro giunti o amici, e tutti si riunivano sotto la maggiore bandiera del re, o del principale fra i collegati, che moveva la guerra. Ogni milite o lancia, avea uno o più satelliti a cavallo, armati leggermente, e con armi da getto. I pedoni non erano che gente raccogliticcia, che seguivano l’esercito, atti a bottinare più che a combattere: erano nominati ribaldi; e si univano ad essi i famigli e i ragazzi. S’inviava al nemico il guanto sanguinoso della battaglia; le ostilità si differivano per quaranta giorni dalla sfida, per dar tempo, dicevasi pompa cavalleresca, al nemico, mentre la vera ragione era, che non minor tempo richiedevasi per convocare alle armi i vassalli. Si usciva alla campagna nel mese di maggio. Sovente sceglievasi d’accordo il campo di battaglia, che, atteso il modo di combattere, bisognava fosse sgombero da ostacoli. Per l’ufficio di capitano bisognava piccola levatura, giacché egli altro non faceva che schierare i suoi guerrieri su di una fronte, spartirsi il sole col nemico, e scegliere i più prodi che primi dovevano ferire, che erano perciò detti feritori. I satelliti si spargevano innanzi dalla fronte, appiccavano la battaglia, sinché l’un de' due capi credeva opportuno il momento ad investire. Allora egli dava il segnale: il grido di guerra echeggiava di bocca in bocca, tentavano i freni, bassavano le lance, ed il campo già sgombero dai satelliti era tutto coperto sotto le sonanti zampe de' destrieri. Le due schiere cozzavano, ed ogni cavaliere combattendo con l’avversario che aveva contro, riducevasi il combattimento a numerosi duelli. Decisa la giornata, i ribaldi, i famigli e i ragazzi correvano a spogliare i feriti egli estinti. I prigionieri, dopo averli disarmati gli rimandavano liberi, ed armi e cavalli riscattavansi con danaro. Perciò il più delle volte l’esser vinto in duello, o la perdita di una battaglia, riducevasi allo sborso di grosse somme, che venivano poi estorte ai miseri vassalli.

Nell’Italia cistiberina l’anno 810 Radelgisio duca di Benevento, e Siconolfo principe di Capua, chiamarono i Saraceni da Sicilia e da Spagna; ma dopo qualche tempo, l’anno 815, da collegati di ventati prodatori, gli italiani li cacciarono, ritenendone molti a loro servizio come cavalleggieri. Sullo scorcio di cotesto medesimo secolo gli Ungari invasero la Lombardia. Berengario re d'Italia li attacca, li addossa all’Adige, e ricusa le offerte di loro resa. La vittoria e lo spregio che sentivasi pel nemico, rilasciano la disciplina, scemano la vigilanza nel campo Italiano; mentre la disperazione raddoppia le forze degli Ungari, che inaspettati corrono ad assalire gl’italiani, e li sbaragliano, obbligandoli a comprare con l’oro la propria salvezza. Ma dopo tale avvenimento gli Ungari ripassarono le Alpi, rimanendone in Italia moltissimi assoldati da' baroni come cavalleggieri. Cosi i Saraceni nella bassa e gli Ungaresi nell’alta Italia furono i primi guerrieri mercenari.

Tra i guerrieri feudali sono da noverare gli ecclesiastici. Essi sotto le leggi Longobarde non erano esclusi dalla milizia, ma lo furono con quelle di Carlo Magno, largo in concedere loro privilegi d'ogni sorte. Ciò non ostante, avidi di possessioni e di ricchezze non meno che i baroni, cotesti ministri di pace e di umiltà continuarono ad indossare la lorica, e alla testa de' loro vassalli e de' cittadini guerreggiavano. Fra queste lotte non interrotte, come dicemmo, molti popoli delle città, seguendo l’esempio di quelle marittime già divenute libere, si emanciparono dalla prepotenza e dall’orgoglio de' baroni e de' preti; quindi alle fanterie feudali in Lombardia, in Toscana, in Roma, prevalsero le milizie cittadine schiere di popoli liberi, ma con vicenda opposta nelle città del mezzogiorno d’Italia, introdotto da’ Normanni il feudalismo, che non ancora avea infestata quella regione ed oppresse le città libere, alle milizie cittadine di Benevento' e di Napoli prevalsero le masnade catafratte de' feudali.

XXXV. Ogni città riparti vasi in quartieri, a cui le porte davano nome. Tutti i cittadini erano militi; ogni quartiere aveva il proprio confalone, e il capitano; i militi del quartiere, secondo il loro numero, si dividevano in bandiere, che tutte intorno al confalone si raccoglievano; la medesima ripartizione facevasi nel contado: vi erano eziandio altri ufficiali che avevano nella milizia incombenze amministrative più che guerriere. Numerosissimi erano gli armati: Firenze ne aveva nel suo distretto cento migliaia; in Genova le fazioni di Spinola e di Doria avevano ciascuna da' dieci a' sedici mila combattenti: Milano offriva dieci mila soldati a Federico II per inviarli in terra santa: Bologna mosse contro a’ Veneziani quaranta mila uomini: Evvelino da Romano aveva nel suo esercito, di soli Padovani, dodici mila combattenti. Avanzando poi le arti e la industria, a tali ordini sostituironsi le compagnie delle arti, per cui ogni bandiera raccolse i cittadini, non del medesimo quartiere, ma dell’arte medesima. I più ricchi, e non operai, non entravano in tali compagnie, ma ne composero altre che si dissero, delle armi. Quelli privi di lavoro e miseri, conservando la ripartizione per quartieri, erano plebaglia che col nome comune di popolo si aggruppavano sotto una sola bandiera. Cosi con riprovevole modo l’ordine di battaglia venne ad acconciarsi agli ordini civili. I nobili divenuti soggetti dei Comuni, composero la cavalleria, che nominossi anche cavallata, o, senza più, milizia, e la parola milite, che durante il feudalismo significava vassallo armato, suonò guerriero a cavallo o barone, e il cittadino guerriero a piedi si disse pedile.

Da' Normanni venne introdotto in Italia il costume di dare con pubblica cerimonia il singolo militare, ovvero, come dicevano gli oltramontani, armar cavaliere. Avrebbe la pompa di tale cerimonia Carlo a Angiò. Il costume dall'Italia cistiberina, s'introdusse nelle repubbliche, ed i cittadini che aspiravano a tale onore, ed avevano le qualità richieste dalle leggi di cavalleria, ricevevano il cingolo da qualche monarca straniero, o da qualche famoso cavaliere, o da' magistrati delegati da' Comuni a tale ufficio! I candidati si nomavano paggi , ricevuto il cingolo, prendevano il nome di militi, che fe eziandio per gl'italiani ciò ch'era fra gli stranieri il titolo di cavaliere. E così nelle città, oltre i nobili, vi furono questi altri militi, che uniti a quelli formavano la cavalcata. In ciascun quartiere eravi una o due compagnie di questi catafratti; il caso a non altro ne stabiliva la proporzione co’ fanti, ma comunemente ad ogni compagnia di cavallarmati corrispondevano due di fanti, una di grave armatura, di balestrieri l’altra, ed ognuna conteneva un numero di guerrieri doppio di quella de militi.

Il milite conservò le armi de' feudali. Il guerriero a piedi portava spada e lancia a offesa, e questa, quando era molto lunga, dicevasi gialda , d’onde gialdiniere. A difesa portavano la panciera, o corazziera con maniche di ferro, il cappello di acciaiò o bacinetto con gorgiera e lo scudo. Prendeva lo scudo vari! nomi secondo il variare della forma. Il palvese, o meglio pavese, perché in Pavia la prima volta usato, d’onde si sparse in Italia, in trancia e nella Spagna, era il più grave, quindi la pesante fanteria che l’adoperò si disse de' pavesarii. Davasi il nome di brocchiere a uno scudo, dal cui centro sporgeva in fuori una punta. Rotelle e targhe si nomarono alcuni scudi di piccole dimensioni. I dardi o giavellotti, mezze lance, presso a poco il pilo de' Romani, e l’arco, e le fionde erano le armi da trarre, ed i lanciateri ne paravano i colpi con un mantello avvolto al sinistro braccio. Usavano eziandio de' carri, su i quali i fanti combattevano uniti ai cavalieri. Gli Astigiani ne mandarono in campo sino a mille; i Milanesi ne ebbero trecento: ma furono di pochissima durata, e di veruna importanza.

Le guerre fratricide, le perpetue lotte intestine, le risse, i duelle le vendette informarono lo spirito dell’epoca: la bravura, la forza, la destrezza salirono in sommo pregio; onde te giostre di cavalieri e di fanti, comunissime, ed in gran numero. Nelle prime Carlo d’Angiò introdusse i costumi ultramontani, ed allora cangiarono il loro nome in quello di tornei. Siena, Pavia, Perugia furono famose pe’ ludi guerreschi de' loro cittadini, e segnatamente l’ultima, ove la parte alta e la bassa della città formavano due quartieri affatto separati, che in primavera combattevano in tatti i giorni di festa. Appiccavano la battaglia i Veliti, che si lanciavano pietra e ne paravano i colpi col mantello: seguivano due falangi gravemente armate, che sotto l’armatura portavano cuscinetti di cotone o di stoppa, acciocché i colpi dell’avversario in quella materia morbida s’ammorzassero. S’investivano con la lancia, a cui mancava il ferro, e la vittoria era di coloro che rimanevano padroni del mezzo della piazza. Trascorso il tempo assegnato gli araldi dividevano i combattenti. Due ore erano date alla battaglia de' fanciulli, tre ore a quella de' giovanetti, ed il rimanente del giorno a quella degli uomini fatti. Non terminavasi mai senza sparger sangue, e senza che rimanessero rancori.

Il numero degli abitanti di un quartiere e quello degli operai in un’arte determinava il numero de' guerrieri in una bandiera. Epperò fra di loro non serbavano una proporzione secondo la ragione di guerra; quindi non evoluzione, non flessibilità fra gli ordini di instabilità, che l’alternarsi delle fazioni dava a quei reggimenti, rendeva impossibile il formare stabili regolamenti che avessero spartiti ed ordinati i combattenti nelle schiere: era legge il capriccio del capitano. Dava norma al disordinato manovrare di queste schiere il carroccio, introdotto nell'undecimo secolo da Eriberto arcivescovo di Milano: era desso un carro con quattro ruote, tirato da grandi bovi, di sopra vi era un Cristo in croce, che serviva per ispirare ferocia ai combattenti; solite contraddizioni de' cristiani la bandiera del comune, che legata ad eccelsa antenna sventolava, era pe’ guerrieri segno di rannodamento nel tumulto della pugna, ed i trombettieri sul davanti del carro davano il segno della battaglia, e dell’arrestarsi. Di colore vermiglio era dipinto il carro,e vermiglie erano le gualdrappe che coprivano i bovi. Un rispetto religioso si nudriva per la pesante macchina, di cui toglievano l’andare i guerrieri dell'epoca, come i Romani per l’aquila della legione: greve il carroccio e tardo siccome la fanteria del medio evo, leggiera e spedita l’aquila de' Romani siccome le loro milizie. La campana del carroccio, quella dell’arrango, piazza ove armeggiavano e concionavano i cittadini, oppure i banditori annunciavano la guerra in tre modi distinti. Una scorreria improvvisa sul territorio nemico, dicevasi gualdrana , allorché veniva (seguita da buona mano di ribaldagli, che portava tal nome; cavalcata, se fatta da cavalli e balestrieri, ma senza cavezza; oste, se concorrevano tutti. In tal caso da' migliori cavalieri destinati a difesa del carroccio veniva questa macchina tratta in piazza, ed allorché movevano in oste collocavasi nel mezzo della battaglia. Il Governo nominava il Generale, e più comunemente era affidata al Podestà la direzione della guerra. Col suffragio de' diversi quartieri erano nominati i dodici capitani: i dodici capitani e gli anziani nominavano tutte le cariche amministrative, di cui abbisognava l’esercito, ed i costringitori, specie di serafile, destinati a tenere in ordine e serrate le schiere. Sovente una candela accesa appo la porta d’onde usciva l’esercito, affrettava i militi; perocché puniti erano coloro che non avessero oltrepassata la soglia prima che quella consumata si spegnesse, ài sorgere di tali milizie esse non combatterono diversamente da' guerrieri scudati. Schierati i due eserciti avversi l’uno incontro dell’altro, s’investivano, ed il valore individuale decideva la pugna. Progredì la tattica; i migliori cavalieri, detti feritori, appiccavano la battaglia, poi cozzavano le due falangi, mentre un’eletta schiera, riserbata alla riscossa; assalivada costa il nemico. Era eziandio loro costume collocare alle ali le grosse fanterie ed allo estremo dì queste i balestrieri, che incrociando i loro tiri difendevano il centro. E ciò fatto si lasciarono di costa ciascuna ala della schiera de' «Pavesari, e balestrieri, e di Pedoni, e lanze lunghe, e la schiera grossa dietro i feritori, (cioè il centro) similmente lasciarono di pedoni». Cosi descrive Giovanni Villani lo schierarsi de' Fiorentini contro gli Aretini nel 1289. Più tardi i capitani dividevano l’oste in più parti, collocandole l’uno dietro dell’altra, onde rimpiazzare gli sbaragliati, o rincalzare i vincitori e i vacillanti; evoluzione difficile, perché i loro ordini non avendo intervalli, la schiera precedente ingarbugliandosi con la seguente, ne nasceva confusione e disordine. Assai di raro videsi da qualche capitano rifiutare una parte della fronte ed avanzarne un’altra.

I primi discorsi che udivano i fanciulli, i primi racconti di geste guerriere, altro non erano che cospirazioni, i nomi di capi di partito, duelli, vendette. — Rispetto al Governo e alle leggi, nessuno. La fazione trionfante era tiranna, tiranneggiati i vinti — La forza prevalente sul diritto sulla cagione, era il risultamento inattaccabile, che osservava ogni giovinetto appena incominciava. a prender parte alle vicende della sua patria. Magnifici palagi, castelli di privali, o chiese, erano i soli monumenti pubblici, che torreggiavano nelle città, e confermavano i giovani in quelle false opinioni, onde la vile, gratta, umiliante devozione a un capo di partito, o la preferenza ad: una opinione teologica, veniva tolta in scambio del magnanimo amor di patria. I Cristi piagati, e le Madonne piagnolose, idoli del cristianesimo, non che le continue dichiarazioni di umiltà e di fratellanza co,’suoi simili, che da essi si richiedevano, in perfetta contraddizione con la pompa, con gli odii, con le risse continue di quel tempo l’accostumavano a mentire e tenere un linguaggio dalle opere affatto diverso, e per queste ragioni, la vita privata, la pubblica, i monumenti, la religione, i costumi, sostituito l’amor proprio all’amor di patria, escludevano la lealtà, ed erano contrarii alle militari discipline: quindi impossibile che una tale società, retta di tali principii, avesse mai potuto compiere grandi imprese. Un Romano aveva in pregio il proprio valore, perché consideravasi parte di quell'esercito che difendeva la sua patria: un italiano del medio evo, per contro, pregiavate come sua personale difesa. Sei secoli di continuo progresso, e la signoria del mondo, furono i frutti di que’ sentimenti romani: la libertà spenta sul nascere, e quindi la decadenza, furono l’effetto dei sentimenti del medio evo. Al tredicesimo seeolo, tutte quelle istituzioni, quelle società cosi rapidamente arricchite, accennavano già alla decadenza.

La politica di quelle repubbliche doveva necessariamente non solo arrestare ogni progresso dell’arte bellica, ma peggiorarla in brevissimo tempo. Dei vinti eglino ne facevano de' soggetti, non già de' collegati, degli amici, come i Romani; ad ogni tetta intestina Roma acquistava una nuova istituzione, e riconosceva il merito de' suoi cittadini; nel medio evo in ognuna di queste lotte la patria veniva orbata di un gran numero di famiglie cacciate in bando dalla fazione vittoriosa: quindi allargavasi il teatro della guerra, ed il numero de' difensori scemava. Inoltre i cittadini in principio volentieri accorrevano a difender le mura, e si stringavano intonò ai Carroccio, perché di quale prime guerre dipendeva l’esistenza delta loro patria; ma poi credendo che te guerre erano mezzi con cui i capi di partite li barcheggiavano da una tirannide ad un'altra, ed allettati de' rapidi e pingui guadagni dell’industria, con grandissima riluttanza, ed era naturale, intraprendevano spedizioni, di cui non riconoscevano, l’utile immediata. Cosi le file delle fanterie la cui forza venite costituita dalla gran massa, si diradavano, e ritornava in pregio la cavalleria: e poiché faceva d’uopo di somme vistose per fare acquisto di armi e cavalli, e continuo esercitazioni per addestrarsi a quel, genere di combattimento, il numero de' guerrieri riducevasi a que’ pochi ricchi che spendevano il giorno in bagordi e in giostre: la forza riducevasi in fai guisa nelle mani de' nobili, i quali sovvertivano le tendenze pacifiche de cittadini, e offrivano al servivo della repubblica il loro bracciolo le loro masnade, già soverchiamente numerose, le quali erano assoldato dal Comune, ed essi, o come Podestà, o con titoli di capitani generali, di signori, e simili ben presto si fecero tiranni.

I primi nobili, che servirono come mercenarii furono i Pallavicini e i lancia: più tardi Uguccione della Fagiuola, che poi divenne tiranno di Pisa e di Lucca, ed il famoso Castracelo Castracani, che si sostituì ad esso, di cui narreremo le gesta, venturiero, a cui la natura avea dato animo grande, svegliato ingegno, e corpo bello, e fortissimo. Oltre di questi nobili, che cominciarono a fare della guerra un mestiere, sorsero bande di fuorusciti, Guelfi e Ghibellini, che trovarono nel servire i loro collegati come mercenarii un nobile mezzo di sostentamento: quindi le masnade di Guido Guerra e di Guido Novello. Altri mercenarii furono le guardie sue ve, che i re di Sicilia, Ghibellini, mandavano dapertutto in Italia per conservare il loro ascendente, e che rimasero prive di padrone quando a Tagliacorso trionfarono gli Angioini; ed ai nobili co’ loro satelliti, ai fuorusciti, alle guardie sue ve, che composero il primo anello di mercenarii presi a soldo dai tiranni governi di quelle repubbliche, ed accettati da' cittadini indifferenti e degustati della guerra, si aggiunsero i molti vagabondi che produceva il fanatismo delle crociate, i banditi e finalmente uno sciame di stranieri, che si precipitarono in Italia cercando fortuna. In tal guisa e per tali cagioni le milizie cittadine e la libertà con esse, sparirono.

Nell’Italia cistiberina i mercenarii vi furono fin dal tempo de' Normanni, imperocché i re non potettero mai far fondamento sulle masnade do turbolenti loro baroni. Alla metà del quattordicesime secolo ve n’erano per tutta l’Italia, il loro grido era viva chi paga, e chi pagava facevasi facilmente l’oppressore degli altri cittadini.

XXVI. Se tali furono le sorti delle milizie cittadine, come istituzioni, sarà importante esporre il progresso che fece l’arte bel fica in quel tempo. Il teatro della guerra essendo stato sempre angustissimo, la strategia, l’arte di marciare e di vettovagliarsi non potettero progredire. Inoltre a quei governi di fazioni mancava quella costanza, quella ostinazione, per cui la vittoria era presso i Romani il solo fine possibile della guerra; e però mancava eziandio quel sentimento, per cui tutti si dedicano al miglioramento degli ordini militari.

Ogni guerriero si occupava nel migliorare le proprie anni, ma non mai nel perfezionare gli ordinamenti dell'esercito, e la tattica si arrestò ai primi rudimenti. Ma non appena sorsero i mercenarii, e fe guerra divenne un mestiere, di cui si occuparono esclusivamente, e con amore alcuni Italiani, l’arte progredì in un modo sorprendente. Le campagne Di Castracelo Castracani non sono seconde a quelle de' grandi capitani dell’antichità: la strategia e l’arte di maneggiare le schiere e di giovarsi della giacitura del terreno vi si trovano egregiamente praticate.

Era l’anno 1345, quando a rintuzzare l’orgoglio dei Ghibellini, cresciuti in potenza sotto il comando di Uguccione della Fagiuola, mossero i Fiorentini in val di Nievole, ed accamparono fra Montecatini e Pescia. Uguccione usci immantinente a fronteggiare il nemico, ed accampò, a due miglia da esso, in Montecarlo. Per alquanti giorni scaramucciarono i cavalieri de' due eserciti. Uguccione ammalò, e Castracelo Castracani gli successe nel comando. I Fiorentini schierarono il loro esercito, ponendo nel mezzo le migliori schiere, ed a' corni le peggiori; Castracelo, come Scipione a Ilinga, fece il contrario, mise i forti alle ali, le schiere meno

gagliarde al centro; e come quegli mosse le bandiere, avanzando celeremente le ali, ed a lento passo il centro, e vinse. I due corni facilmente debellarono il nemico che eragli incontro, ed assalendo i denudati fianchi del centro lo ruppero. Meglio che diecimila, perirono dell'esercito fiorentino, e tra questi il fratello del re di Napoli, il suo nipote Carlo, e Filippo principe di Taranto: dell'esercito di Castracelo perirono so|| trecento.

Castruccio diventato principe di Lucca, signore di Pisa, e capo de' Ghibellini, volgeva in mente la conquista della Toscana. Più che ventimila combattenti, somministrava la sola Lucca, ove egli medesimo erasi date molta cura ad ordinare questa milizia cittadina. Pistoia cadde ben presto in suo potere, con sommo rammarico de' Fiorentini, che vedevano crescere la potenza del loro vicino e nemico.

Colto il momento che Castruccio trovavasi in Roma nel 1327, i Fiorentini mossero le armi; e con 20 mila fanti e tre mila cavalli corsero in Pistoia, favoriti dal tradimento l’occuparono, scacciandone i partigiani di Castruccio. Questi n’ebbe avviso in Roma, parti a gran giornata giunse inaspettato a Pisa, vi raffermò h sua autorità già vacillante pe’ vantaggi del nemico, raccolse un esercito, e corse contro il nemico, ed occupa Montecarlo. Mossero da Pistoia i Fiorentini ad incontrarlo, fidando nel numero maggiore delle loro schiere. Il terreno che occupavano i due eserciti, era piano; non eravi che un colle tra Pescia e Pistoia, sulle cime del quale, a un trarre d’arco dal cammino sorgeva il castello di Serravalle, appartenente ad un signore neutrale in quella guerra. Castruccio volle evitare la battaglia al piano, profittare dell’ostacolo che nascondeva l’uno all’altro i due eserciti, e sorprendere il nemico nella marcia, onde non avesse potuto avvantaggiarsi col numero fece le viste di volerlo attendere a Pescia, mentre una partita delle sue truppe s’impadronì del castello di Serravate che dominava il colle al piè del quale erano accampati i Fiorentini, che dovevano valicarlo i, giorno seguente. La notte Castruccio levò il campo, ed avvicinossi alla collimi. La dimane i due eserciti, con diverso disegno e con diversa fortuna, cominciarono ad ascendere il colle per le opposte falde. Erano testa dell’esercito fiorentino 400 cavalli; seguivano i fonti; in coda marciavano le bagaglie.

Marciava Castruccio a ragion veduto con la fanteria in tasta. Alla cima il terreno capiva appena venti uomini di fronte. Quivi giunti i Fiorentini, morsero la fanteria nemica, che protetta dal sito ascendeva baldanzosa: legarsi le celate, abbassare le lance, e investirla fu un punto solo pe’ cavalli Fiorentini; ma essi urtarono invano, furono respinti e incalzati. Un nemico più forte in contro, ai due lati la rocca insormontabile, alle spalle le proprie fanteria serrate in maniera da non poter aprire il passaggio, tal era lo Stato de' mal capitati militi fiorentini; por nondimeno con bravura si difendevano. Intanto una schiere di mille fanti e quattrocento cavalli di Castracelo, valicando il colle per entro il castello investirono inaspettati, da costà l’esercito nemico, che già vacillante per l’attacco di fronte, confuse le ordinanze, sbaragliato fuggì. Castracelo vittorioso, con animo di imitare in tutto i Romani, trionfante entrò in Lucca. Pompa superba a vedersi, pe' numerosi prigioni, e vessilli nemici, fra' quali torreggiava il Carroccio. Attoniti i Fiorentini, si diedero al re di Napoli, che inviò in loro soccorso quattromila scelti cavalli. Nel 1328 intrapresero la tersa campagna con trenta mila frati e dieci mila cavalli accennarono a Pisa. Castruccio spedi un suo luogotenente con cinquemila fanti a difendere la minacciate città, ed egli con ventimila a piedi e quattromila a cavallo si appostò a Fuccecchio. Fuccecchio è sito fortissimo sulla destra sponda dell'Arno,che l’esercito di Castruccio occupò in guisa che avesm difesa la fronte dal fiume. Se procedevano i Fiorentini verso Pisa, Castruccio rimaneva padrone della linea delle loro operazioni, e se tentavano il passaggio del fiume sopra corrente, fuori la loro sfera d’azione, il movimento troppo tergo avrebbegli egualmente fatto abilità, a Castruccio d’impedir loro le vettovaglie, mentre dalle spalle del suo campo,due vie, l'un menando a Lucca, a Pistoia, l'altra assicuravano doppiamente le sue. 4 Fiorentini l'attaccarono tripartiti diecimila fanti e quattro mila cavalli si schierarono in contro ad esso e guadarono il fiume; mentre con due assalti secondari, sopra e sotto corrente, tentavano di assalirlo da oosta. Castruccio con due schiere, di mille fanti ognuna, contrastò il passaggio agli attacchi laterali, e. lasciò libero il passo a quei di mezzo, schiera principale; ma appena questa anelante approdò, cinque mila fanti e tre mila cavalli le furono addosso. Durò ostinata la lotta; erano più numerosi i Fiorentini ma più fresche è meglio in ordine le schiere di Castruccio prevalse il numero, e i Ghibellini piegaro; ma 'nuova schiera di altrettanti fanti, che stavasene pronta alla riscossa, mosse le bandiere, i fuggitivi sgomberarono ad essa la fronte, che urtando il nemico esausto di forze, lo ruppero. La vittoria fu completa, la perdita di Fiorentini immensa. Cosi tre battaglie, vinte per virtù del capo, non per fortuna, pongono glorioso fine alte tre campagne. Nella prima campagna abbiamo una pruova della somma abilità con cui Castruccio maneggiava le schiere; bella seconda si ammira la sua sagacia nel giovarsi del terreno, ed alla natura di esso adattare le mosse; nell'ultima campagna ammirasi il concetto strategico nel difendere Pisa con una posizione di fianco. Un solo rimprovero potrebbe farsi a Castruccio, cioè di non aver profittato delle sue vittorie; solo in questo si osserva quella mollezza, che impronta tutti i fatti guerreschi di quel tempo. Ma scema, anzi è quasi distrutto il fatto, ove si pensi, che altro non gli sarebbe rimasto a fare che assediar Firenze; operazione di guerra difficilissima, quasi impossibile in quei tempi, ed in quel caso, e perché la difesa era 'superiore all'attacco, e perchè le forze di Castruccio non erano tali da porre assedio ad una città come Firenze. Chi sa di quante altre gesta avrebbe Castruccio arricchita l' istoria, se una febbre non l'avesse spento al termine dell'ultima campagna. Durante la sua signoria avea egli ripristinato le milizie cittadine, che rifulsero per poco (2).

I guerrieri oltramontani, che inondarono successivamente l’Italia con Lodovico il Bavaro, con Giovanni re di Boemia, e che liceo ziate le armate francesi ed inglesi alla pace di Brittegny, furono accettati come mercenarii dai tirannelli, i quali gli stimarono più saldi degl’italiani nella fede, più facili all’obbedienza, e meno soggetti ad esser trascinati dallo spirito di parte. Tale preferenza, e le dovizie cresciute, disavvezzarono affatto dalle armi gl’italiani, e per circa mezzo secolo, eccetto qualche barone, o qualche capo con ristretta schiera, tutti i soldati in Italia furono stranieri. Largamente retribuiti durante la guerra, mal soffrivano quei soldati di esser licenziati; privi com’erano di patria e senza tetto. Odiati in pace, per quanto festeggiati in guerra, forti ed associati dallo spirito di mestiere fra popolazioni inbelli e divise, per vivere e mantenersi in Italia, la necessità additò loro la via medesima in cui venivano sospinti da naturale vaghezza e da spirito di rapina, b guerra: ecco l’origine delle compagnie di ventura. Dapprima furono tutte di genti straniere, vergogna d’Italia, taglieggiati da un branco di masnadieri, che non avevano di guerrieri che il nome: poscia furono d’Italiani; e vedremo nel seguente capitolo, come esse fossero la sola scuola di guerra in quel tempo, scuola allatto nazionale surta a confermare sempre più la supremazia del genio guerriero degl’italiani nel mondo.


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CAPITOLO X

XXXVII. Le compagnie di ventura — XXXVIII. Gl’Italiani cacciano gli stranieri dall’Italia — XXXIX. Istituzioni ed ordini delle compagnie — XL. Gesta di Jacopo del Venne — XLI. Del Carmagnola — XLII. Torneo strategico fra Francesco Sforza, e Nicolò Piccinino — XLIII. Cagioni della decadenza delle milizie italiane — XLIV. Le milizie straniere — XLV. Guerrieri famosi italiani dalla discesa di Carlo VIII alla pace di Caslel-Cambresi — XLVI. L’arte della guerra del Machiavelli.

XXVII. L’anno 1322 furono primi i Tolomei a formare una compagnia, che la penuria disperdeva. I venturieri, seguaci di Lodovico il Bavaro e di Giovanni re di Boemia; quelli nel 1319, questi l'anno seguente, a lor volta ne formarono altre due, l’una detta del Ceruglio, sito forte ove la si raccolse; l’altra della Colomba, nome della Badia, ove si riuni. Que’ della prima elessero a lor capo Marco Visconti, prode cavaliere, venuto ad essi come inviato dell’imperadore, depredarono, venderono Lucca ad un ricco signore di Genova e si dispersero. Que’ della seconda servirono Perugia contro Toscana, e si tennero uniti per cinque anni; poi si sciolsero. Nel tempo stesso le bande tedesche, che avevano servito lo scaligero contro la lega, terminata la guerra, con sommo spavento della città, ricusavano di abbandonare Vicenza, loro temporanea dimora. Lodrisio Visconti ne infiammò la cupidigia con promesse gagliarde. loro additando Milano come ricca e facile preda. Cosi questi venturieri fatti ministri di suoi odi privati, da esso capitanati sotto l'insegna di S. Giorgio, nel numero di 2500 cavalli, 800 fanti, e 200 balestrieri, mossero contro la città di Milano. Luchino Visconti andò a fronteggiarli, al quale era unito Ettore Paraigo, bolognese, capo di 700 cavalli. Appiccossi la battaglia, bilanciandosi ai principio le sorti: ma il ranigo sopraggiunse e la decise per modo, che la compagnia ne fu distrutta. Cinque anni dopo il termine della guerra dei Piloni e Fiorentini il duca Guaruieri, che avea militato nella distrutta compagnia, raccolse sotto il nome di Grande Compagnia i licenziati mercenari! stranieri, alla quale poi si aggiunsero due schiere d’Italiani, l’ona capitanata da Ettore Panigo, il medesimo che ruppe in battaglia la compagnia di S. Giorgio, l’altra da Mazzarello Cusano. Tremila erano le barbute che la componevano, numerosissimo il seguilo di ribaidaglia, fanti male armati, saccomanni, ragazzi, puttane. Duca Guaruieri signore della Gran Compagnia, nemico di Dio, di Pietà e di misericordia, fu l’epigrafe che a caratteri d’oro il duce portava scritta sul petto. Rapinò per buona pezza questa famosa banda, della quale l’Italia non Si potè altrimenti liberare che mediante loro lombardo. Poscia cotesti ladroni, passarono le Alpi, e carichi di preda si rintanarono fra i loro burroni. I due italiani, Muzzarello e Panigo, rimasero a militare in Italia: a quello, come a malfattore, fu mozzo il capo, questi venne ucciso iu una rissa. Il Guarnirci ricomparve nel mezzogiorno d’Italia, prima agli stipendi di Lodovico re d’Ungheria, poi a quelli della regina Giovanna; quindi ritornò al servizio del re. Rapine e tradimenti furono le sue favorite geste. In ultimo ruppe in battaglia i nobili napoletani, mise a prezzo le loro persone, divise la ricca preda co’ suoi seguaci e si rintanò. Rimase un fra Morreale da Narbona capo di una compagnia, la quale seguitò a dirsi Grande, composta di 5 mila cavalli, millecinquecento fanti detti masnadieri, italiani tutti, e venti mila tra femmine e ribaldi, fra Morreale fu preso e mòrto da Cola da Rienzo; mori vilmente recitando giaculatorie. Prese poscia il comando della compagnia medesima il conte Laudo, il quale nel 1360 fu rotto da contadini Toscani,

Successero altri capi e altre compagnie, Annechino Bongarden, Alberto Sterz, Giovanni Acuto, che Ja pace di Brettigny rovesciò in Italia, e finalmente una compagnia di Brettoni di seimila cavalli e quattromila fanti, che il papa chiamò in Italia nel 1375, ed erano detti inglesi, famosi per valore, e per la lucidezza delle armi, i quali quando investivano altri fanti, avevano costumedi appiedare, e serrati in schiera quasi, rotonda, ogni due guerrieri s'afferravano alla medesima lancia, ed era assai difficile suodarli. Siena in due anni fu obbligata a riscattarsi tre volte da questi venturieri. Lerapine di tali masnade non sono materia buona per chi scrive dell’arte della guerra, e di guerre combattute esclusivamente da Italiani. La ferocia, l’avarizia, la mancanza difede, furono pregi di cotali ribaldi, per nostra vergogna, durati in Italia mezzo secolo: virtù militari in que’ capi nessuna. Sieccettui Giovanni Hawhewood (falco dei bosco), nome che travisatodalia nostra favella divenne Giovanni' Acuto Epperò per continuità degli avvenimenti, abbiamo solo ridottialla memoria i nomi e i tempi in cui sursero, apprestandoci oracón animo più lietoa discorrere di Alberigo da Barbiano e della sua scuola.

XXVIII. IL terrore che i mercenarie stranieri in breve tempo sparsero in Italia, la trista esperieriza che tirannellt e repubbliche fecero della loro fede in guerra, e delle loro esorbitanti pretese nella pace, le ricchezze da essi guadagnate, e simili malanni, furono sprone a riporre in pregio i guerrieri italiani, ridestando in essi l’amore per un mestiere diventato lucroso e che apriva la via alla gloria, agli onori ed al possesso di signorie. Le bande di guerrieri Italiani crebbero in numero ed in possanza, e come era naturale, sursela tendenza di unirsi sotto la medesima insegna: e si che all'amore della propria divisa successe poco a poco il sentimento nazionale. Tale fu il concetto di Alberigo da Barbiano, il quale riunì sotto la sua' bandiera tutti gl’italiani che sparsi si (rotavano in Italia. Questo prode ed esperto guerriera migliorò l'armatura de' militi; aggiunse all’elmetto la baviera o visiera mobile che alzavasi, la quale quando era abbassata non impediva di vedere, poiché aveva una fessura attraverso; non credendo il camaglio, che scendeva dall’elmetto, sufficiente a difendere il odio da punte gagliarde, vi aggiunse il gorzarino; copri i cavalli con grandi barde di cuoio cotto. dorate e dipinte; e difese la loro testa con frontali di ferro; armati di una punta, che sporgendo in fuori nell’urto nuoceva non poco al nemico. La compagnia da esso formata si disse di S. Giorgio; non oltrepassò in prima le ottocento lance. Con tal compagnia addì 28 di aprile del 1379, combattè a Marino, dodici miglia da Roma, i Brettoni fatti nemici del papa, e quantunque fossero più numerosi ne riportò completa vittoria. Cosi crebbe la sua fama e insieme il numero delle sue genti, ed il papa, che in quel tempo, cosa rarissima, era nemico agli stranieri, fecegli dooo di una insegna su cui leggevasi: L'Italia liberata da' barbari. La sua compagnia giunse a quattromila militi ed altrettanti cavalleggieri; assoldò eziandio Ungheri e Tedeschi, non essendo il suo sentimento nazionale cosi avanzato, che gli vietasse di ricevere sotto le sue insegne altri fuori degli Italiani, come alcuni pretendono. Fu Gran Contestabile del regno di Napoli al servizio di re Ladislao; ma rotto da' Sanseverineschi, guerrieri italiani cistiberini, e fatto prigione, si riscattò con tremila fiorini, obbligandosi a più non servire nel regno. Passò allora al servizio di G. Galeazzo Visconti, sotto il quale conservò sempre e carica e fama.

Altri Italiani seguirono tosto l’esempio di Alberigo, talché i molli condottieri che presero parte alla guerra di Padova e Verona nel 1386, quasi tutti erano Italiani, G. Galeazzo gli raccolse tutti sotto la sua insegna, onde avvenne che con Alberigo si trovarono Farnese, Biondo, Broglio, Malatesta, FacinoCane. Li oppose, capitanati tutti da Jacopo del Verme, a Roberto re de' Romani, calato in Italia co’ suoi Tedeschi per difendere Venezia e Firenze. Venutosi a battaglia, l’abilità nel maneggiare il cavallo, la forza, l’impeto e le armature degl'Italiani erano tanto superiori a quelle dei Tedeschi, che pochissimi militi bastarono a disperderli; sicché il nemico non solamente fu viuto, ma disvezzato, re Roberto ripassò le Alpi più che di passo. Con tali guerrieri G. Galeazzo bene sperava di conquistare l’Italia; ma la morte troncò i suoi disegni.

Al cominciare del quindicesimo secolo successero ad Alberigo i suoi due famosi allievi, Aitandolo Sforza e Braccio da Montone, e militando co’ 'medesimi colori d’insegne e di sopravveste, furono famosi; ma l’ambizione a la superbia, sempre in loro crescente, li separò, e divennero rivali, militando l’uno contro l’altro, crebbero in fama, ed acquistarono ricchezze; non però cessarono di amarsi e stimarsi, congiunti dalla virila e leale amicizia che si contrae tra le armi; e sì che nelle tregue si stringevano con piacere la mano e discorrevano de' tempi andati; combattevano poi come due amici che giuocano una partita. Conservarono questi due amici l’impronta di loro origine; Braccio, nobile Perugino, era di portamento gentile, quantunque di corpo fortissimo; Attendolo, contadino di Castagnola, si mantenne sempre rozzo; quegli amante di pompa e di vivere lussoso, l’altro sfoggiava suo lusso solo nelle armi e nei destrieri; Braccio era culto, più astuto, più atto a concepire disegni di guerra, tendere insidie al nemico, ed il concetto disegno da vagli impeto maggiore nella esecuzione, cauto lo Sforza, spiava accuratamente l'avversario, sempre pronto ad inaspettati colpi, opponevagli disciplina più severa, schiere più salde; ma in valore e prodezza ambo si pareggiavano. Per questa diversità d’indole, l’iniziativa fu quasi sempre a Braccio, la vittoria si parteggiò. Nel 1408 combattè Sforza per Ladislao re di Napoli, Braccio per Firenze. Quindi a pochi anni si divisero il campo in altra guerra eziandio famosa. Braccio col re Alfonso, Sforza con la regina Giovanna; questi assediò l’Aquila, l’altro gli mosse centra e mori affogato nella Pescara. Poco dopo la morte del suo rivale ed amico, ei fu ucciso in battaglia sotto le mura dell’assediata città. —Morti i due condottieri nell’anno medesimo, 1424, crebbero in fama i condottieri del regno di Napoli. Fabrizio, Cesare di Capua e il conte di Troia furono celebri, e celeberrimi i Caidoreschi comandati da Giacomo Caldora, duca di Bari. Braccio e Sforza erano stati i fondatori non già du due scuole di guerra, come tutti ripetendo hanno scritto; l'arte del guerreggiare de' due càpi era fondata sopra i medesimi principi!; ia differenza nell’applicarli dipendeva dalla diversità do’ caratteri loro, differenza che spari affatto ne’ successori. E però non si può dire che erano due scuole, ma una sola divisa in due sette di guerrieri, Sforzeschi e Braccesehi, che in Italia si divisero il campo.

Nicolò Fortebraccio, Gattamelata, Nicolò Piccinino illustrarono la setta Braccesea; Francesco Sforza, figlio di Attendolo, la Sforzesca. Ma tutte le riputazioni cedono innanzi a' due famosi capitani, Nicolò Piccino e Francesco Sforza. Le loro geste riuniscono in sé tutto il progresso dell’arte bellica, e mostrano come quest’arte, che nelle mani di stranieri ridueevasi a' sola rapina, trattata da, Italiani acquista il sòo splendore ed è ricca di fatti e di concetti strategici animi) revoli. Ma prima di procedere oltre nella narrazione arrestiamoci un istante, e facciamoci a discorrere delle anni, degli ordini o della' tattica dt coleste schiere di ventura; che poi vedremo in azione. r

XXIX. Le compagnie di ventura straniere e l’italiane ebbero carattere e reggimento affatto diverso. Quelle erano schiere lieenr ziate al termine di vna guerra, che vedendo esaurita la tonte dei loro pingui guadagni, meditavano nuove rapine, ed a porre ad effetto il loro disegno, eleggevano un capo, e questi comandava solo nel combattimento, ma per ogni altradeterminazione dipendeva da un consiglio nominato dal suffragio uoiversale deHa compagnia. Bello il modo di reggersi; un capo eletto ed esecutore del concetto collettivo, pessimo il concetto, come quello ch'era di vivere rapinando. Cosi fra uomini ribaldi, feroci e servili di cuore, spontanee sorgevano liberalissime istituzioni, perocché abbandonati a loro stessi, non esisteva fra loro disuguaglianza, cagione che torce sempre dalla giustizia le costituzioni sociali. Ma d’altra parte il loro continuo vagare, il breve tempo che rimanevano sotto la stessa insegna, rendeva impossibile qualunque stabilità e studio né loro ordini, ed il principiò su cui si fondava la loro costituzione, quantunque bellissimo, rimase senza frutto. Per conversoi condottieri italiani possedevano castella, e assoldavano gregari; quindi disciplina, disegno, esecuzione, tutti ad essi emanava. Si succedevano i capi da padre in figlio, da maestro ad allievo, si conservavano le tradizioni, si miglioravano le ordinante, si fondava infine una scuola. Ne’ varii Stati italiani «nemici sempre fra loro, e lacerati dalle interne fazioni, non potettero le discipline militari gettar radice; rozzi rimasero gir ordini, meschina le gesto. Dicemmo già come i primi guerrieri mercenari, che fecero della guerra un mestiere, dedicandosi ad essa migliorarono l’artobellica; quindi le vittoriose e dotte campagne del Castroccio; poi la tire ve prevalenza de' ladroni d'oltremonte sperse di quelleimprese financo le tradizioni: finalmente dopo tante oscillazioni, la vera scuola di guerra italiana si fondò da venturieri del quattordicesimo secolo: ma lo stato dell'Italia; latoro condizione rispetto ad essa, le armi che adoperavano, angustiarono fatalmente il campo a' loro progressi. Una bene costituita società, che no avesse dall'infanzia dirette le passioni, la giustizia e ia grandezza dello scopo, il legame fra le loro gesta e la gloria di un popolo, di cui si tema il biasimo, e eri desideri ardentemente b lode, mancarono. I nostri capitani di ventura non appartenevano ad alcuno degli Stati esistenti; erano sì Italiani, ma PItalia non esisteva; guerrieri senza patria, le cui schiere, sempre variando di numero., a, composte da elementi eterogenei, non poterono raggiuguère quel grado di tttecipttna, di'costanza, di valore, che la patria diede a Romani, e che è impossibile conseguire quando non si ha patria. Le armature perfezionate avevano; reso i cavalieri invulnerabilij ed introdotte a spezzar quelle piastre, armi offensive, quasi gigantesche, che rotate dà uno di quegli erculei bravi; sbaragliavano tutto uno stuolo di fanti. Cotesta superiorità della cavalleria, ed il bisogno di limitare il numero de'guerrieri nelle schiere di ventura, affine di facilmente sussistere, fecero comporre quelle compagnia di qusi soli cavalieri, e venne interdetto il progresso. della tattica, la scienza dei capitano consisteva a. spartire giudiziosamente le schiere, ad avvalersia tempo opportuno, di quelle riserbate alla riscossa. Oltreché le pesanti armature toglievano al guerriero gran parte dplla facoltà di nuocere, ed alla schiera la leggerezza; quindi l'impossibilità di rapide evoluzioni, e la scelta necessaria di un campo sgombero da ostacoli; il che annullava i vantaggi che dalla varietà del terreno si ottengono e interdiceva l’arte di giovarsene durante la battaglia. Il combattere si riduceva, tutto all'urto dalle due linee avverse. Alle cinghie, alle cinghi ,gridavanoi capitani durante la mischia; era questo il punto vulnerabile de'cavalli, che abbattuti rendevano i cavalieri inabili a combattere, perché oppressi sotto il peso dell'armi. I goffi costumi cavallereschi, fra i quali quello, di rispettare ir cavalli nella pugna, furono sempre m Italia ìpiante esotiche che non misero radici; vincere ora il fine che bisognava conseguire ad ogni costo; i migliori mezzi, le migliori, Fecole, quelle che. affretta vano la vittoria. Distinguevano tre specie di,cavalieri, i militi, che sidisseroJani, erano, i più, gravemente armati: almo, gorgiera; corazza, maniche e guanto dì ferro, cosciali e gamberuoili componevano l’armatura che lo scudo condiva, la soprasberga adornava. Lancia con pennoncello, coltello e spada, per molti anche mazza ed accetta, erano le armi offensive: Ogni lancia comprendeva tre uomini, cioè il capo lancia, un piatto ed un poggio con due cavalli ed un ronzino: per ogni dieci lance eravi un caporale. La Barbuta cavalleria media, portava l’elmo senza cimiero, senza camaglio o altra guarnitura; una visiera ne difendeva il davanti, una spessa criniera ne guarniva la cresta, il resto come la lancia o poco meno; la era seguita da un sol sergente col palafreno. Finalmente gli Ungheri componevano i cavalleggieri; montavano piccoli ed agili corsieri, due per ogni cavaliere; lunga spada, lungo arco, alcuni l'elmetto, tutti difendevano il busto mediante un forte cuoio. I fanti si distinguevano in Balestrieri e Pavesarli; quelli portavano corazzina, cervelliera, coltello, balestra, verrettoni e turcasso; questi zuccotto, spada, coltello, pavese e lancia.

Ingranditi gli Stati d’Italia, i condottieri, assoldati da principi potenti, furono veri capitani d’esercito, iu cui i fanti furono eziandio si numerosi, che pareggiarono spesso, ma non superarono mai il numero dei cavalli, i quali per vero formavano il nerbo delle schiere. Le fanterie non prendevano mai le offese nel combattimento; servivano a tendere insidie ai corazzieri, ad occupare siti ove riusciva impossibile collocare la cavalleria, ed il più sovente, posti come ostacolo nel mezzo della battaglia, rintuzzavano di piè fermo le cariche delle corazze nemiche, le quali poi erano assalite di costa e a spalle dalle proprie. Combatterono i fanti raramente misti ai cavalieri, e quando ciò accadeva, avevano la particolare incombenza di uccidere i cavalli nemici sotto i loro cavalieri. Accampavano gl’italiani con l’esercito schierato in battaglia; i più avveduti capitani si trinceravano. Il Carmagnola preferiva fasciare il campo con una doppia fila di cani, e fra essi collocare gli arcieri.

I vassalli e gli amici del capo erano il nucleo di ogni compagnia di ventura: gli altri si arruolavano per lance spezzate, o a drappelli, o individualmente. Un gentiluomo, un venturiere, associavasi con alcuni suoi amici o vassalli, ed andava ad arruolarsi in una di quelle compagnie; se poi la sua piccola schiera ingrossava, e raggiungeva il numero di venti lance, ovvero sessanta uomini, inalberava la propria insegna, e separatamente trattava di per se coi governi, i quali nel?assoldare una compagnia contavano i cavalieri per lance o per bandiere, e i fanti se ve ne erano, per conestabilie, o drappelli, da conestabile che dicevasi il capo. Se la compagnia era impegnata a soldo disteso, doveva militare sotto gli ordini del capitan Generale dello Stato; se a mezzo soldo non aveva altro obbligo che scorrere e devastare a suo capriccio il territorio nemico; si dicevano finalmente in aspetto le compagnie quando per piccola paga si tenevano accaparate.

Dichiarata la guerra, coluche prendeva le offese radunava le schiere, invadeva il territorio nemico, bruciava le case, distruggeva le messi, rubava le mandre. Ma in quei tempi poche erano le case sparse ne' campi: borghi o villaggi, ordinariamente su di eminenze di non facile accesso, cinti di mura, con solide porte, atti a valida difesa, erano la dimora degli agricoltori. Ai primi rumori di guerra in coteste specie di castella ponevano i contadini in salvo se stessi e la loro proprietà mobiliare; e non solamente gli uomini robusti, ma le donne, i fanciulli e i vecchi difendevano le mura, e gettavano sugli assalitori sassi e materie infiammate.

Le armi a fuoco erano così rozze ed incerte, che erano ad esse superiori le frecce; le artiglierie, di niuna efficacia, servivano solo col fragore a spaventare i cavalli: quindi era la difesa assai superiore all’attacco, e pei difensori di quelle castella, cominciava il pericolo al cessare della resistenza. Il nemico, caso rarissimo, penetrava nelle mura: allora venivano saccheggiate le proprietà, violate le donne, e gli uomini tratti in schiavitù, de'quali mali il solo pensiero bastava a renderò ostinatissima la difesa. Ma quasi mai i nemici si fermavano per compiere tale impresa, ma trascorrevano scorrazzando per la campagna, e i contadini ne miravano da lungi il luccicar delle armi. Intanto l'avversario ne studiava le mosse, cercava di sorprenderlo, impedirgli le vettovaglie, attaccarne i foraggiatori, e così privandolo di ogni risorsa e di ogni appoggio, mentre egli ne trovava ad ogni passo, in quei siti fati, Paggressore era obbligato a retrocedere. Se volevano la battaglia, si sfidavano i capitani, e schierati l'uno incontro dell'altro curavano, ciascuno per la propria parte, a sgombrare il terreno da ogni ostacolo, per fare abilità alloro pesanti cavalieri di muoversi liberamente. Il lampeggiare delle armi, il percuotersi degli elmi e degli scudi, il grido dei combattenti, il calpestare dei cavaHi, davano a quelle pugne un terribile aspetto, mentre dr sovente la stanchezza spartiva le schiere, e pochissimi o nessuno cadevano spenti o feriti, ma erano i prigioni moltissimi, e tosto riscattati o messi dal vincitore in libertà; epperò in quelle guerre pochissimo il danno dei guerrieri, immenso quello dei popoli. Così il volgo concepiva e faceva la guerra. Ma il Piccinino, gli Sforza pi DeiVerme, i Carmagnola, guerreggjprono dottamente guerre lunghe e terribili. La narrazione di alcune campagne di questi sommi mostrerà chiaramente il progresso dell’arte bellica, particolarmente della strategia.,

XL. L'ambizione e la potenza dei Visconti minacciavano da vicino la repubblica fiorentina'! quindi le guerre continue eoo vicende varie combattute fra questi due Stati. I Veneziani come collegati dei Fiorentini, entrarono nella lotta; poi per ambizione e propria difesa seguitarono e furono i principali e più ostinati nemici del duca. .

Era duca di Milano quel Galeazzo Visconti che fu famoso per virtù, non della virtù dei Scipioni e dei Fabbrii, ma di quella propria di quel tempo. Somma scaltrezza, conoscenza profonda degli uomini, abilità a reggerli a suo modo, saggio di consiglio, eloquente, fastoso. I famosi guerrieri del suo tempo furono tutti al suo soldo. Egli ingrandì le sue possessioni, mentre che mirava alla conquista d’Italia, e con armi italiane vinse i tedeschi, e li cacciò al di là delle Alpi.

Nell'anno 1391 i Fiorentini l’attaccarono nei suoi propri Stati. Erano loro collegati i Veneziani, il papa, e il conte d'Arraagnac, oltramontano, famoso in armi, da' Fiorentini invitato a portar guerra al duca, mentre l'esercito della lega, comandato da Giovanni Acuto, raccoglievasi nel Veneto. Fu disegno che l'Acuto dalla parte orientale e l’Armagnac dall'occidentale ponessero ogni opera evitando la battaglia a congiungersi, e poi congiunti muovere su Milano. Sull'Adda appuntarono di far massa. Questo disegno era buono, supponendo invariabili i punti di partenza dei due eserciti; falso se la scelta di questi punti,o almeno di uno di essi fosse stato a loro scelta come lo era di fotti. I Fiorentini avrebbero potato non già nel Veneto ma in Toscana raccogliere l’esercito dell'Acuto, ed operare sulla destra del Po la congiurazione con Armagnac. Mosse primo l’Acuto e passò l’Adige; Armagnac dal canto suo avvicinavasi al Po per valicarlo. Iacopo Del-Verme con l'esercito del duna erasi chiuso, in Alessandria; inferiore di forze, mirava a dare battaglia separatamente a' due nemici prima che si fossero congiunti; i Francesi, più vicini; maggiormente temeva; epperò vinti questi, non dubitava più dell’esito della campagna. Armagnac si arrestò irresoluto nella vicinanze di Alessandria. Da una parte egli avrebbe voluto seguire le continue esortazioni dei Fiorentini che gli giostravano assicurata la vittoria se giungeva ad unirsi con l’Acuto; ma dall’altra, non vedendo in fatto di guerra grossa molto lungi le cose, temé di lasciarsi il nemico dietro sulla sua linea di ritirate. Or a nascondere la sua esitanza, facendo vana pompa di sentire cavalleresco, con un eletto drappello di cavalieri si avvicinò ad Alessandria e sfidò un egual numero di militi italiani» Guerrieri gl Italiani, ghermirono l’occasione e tennero la sfida, e un ristretto numero di loro militi in bella mostra usci contro i Francesi, i quali avendo stanchi i destrieri, appiedarono, e serrati a guisa di falange corsero sopra gli italiani: ma questi caracollando retrocedettero, finché videro i nemici trapelati sotto il peso delle armature; allora circondandoli da ogni lato; li assalirono. In quel mezzo Del-Verme, uscito da un’altra porta della città, giunse a corsa ove i suoi a cavallo combattevano contro il nemico a piede, e decise subitamente la contesa: quindi, come turbine inaspettato, piombò sul restante dello esercito nemico, che spensierato attendeva l’esito della giostra. — Pochissimi Francesi ripassarono le Alpi, gli altri furono tutti uccisi a prigionieri. Ottenuto questo primo risultato, l’abile generale senza por tempo in mezzo mosse contro l'Acuto, capitano non meno abile di lui. Questi, istrutto della rotte del collegato, erasi trincerato nel paese di Cremona presso un villaggio detto Paterno. All'avvicinarsi del nemico decampò: e si ritrasse verso l’Adige, e si fermò, errore grandissimo, al confine del Polesine, avendo il fiume alle spalle. L’avversario giunge, riconosce la sua posizione, ne approfitta, rompe le dighe dell'Adige, e l'Acuto vide il suo campo circondato dalle acque, e la sola uscita che rimaneva asciutta, occupata dal nemico. Lieto Del-Verme del risultato, stimava già preso il nemico, e per diteggiarlo mandogli in dono una volpe chiusa in una. gabbia. Allora l’Acuto rispose che la volpe pareva essere lieta in questa gabbia, perché certa d’uscirne. Le vittorie avevano resi meno vigili i guerrieri di Del-Verme, quando l’Acuto esce e con forze superiori attacca le prime guardie, le rompe, si ritira nel campo. Del-Verme richiama all’ordine la gente credendo certo uno sforzo terribile dell’Acuto; ma questi la dimane, lasciando in piedi le tende, tacitamente traversò le paludi che chiudevano alle spalle il suo campo; i destrieri affondano nella melma, i fanti a fatica si trascinano, ma pur giungono a passare l’Adige vicino Legnago, e si pongono in salvo. Tale fu il termine della campagna, in cui Del-Verme mostrò pari abilità, e nel rintuzzare l’orgoglio dello straniero, e nel guerreggiare con un avversario ch’era degno competitore di un generale italiano.

XLI. La pace di Ferrara, segnata a' 30 di dicembre 1426, aveva assicurata a Venezia la conquista del Bresciano. Mal soffriva il duca Filippo Maria Visconti l’ingrandimento de' suoi vicini a spese de' suoi Stati, e l’anno seguente mosse le armi. I ducali fecero Cremona sedia della guerra. Quivi una flotta fu pronta a salpare, e sulla sinistra sponda Niccolò Piccinino e Angelo DellaPergola campeggiavano con 7 mila corazzieri ed 8 mila fanti. Il Piccinino mosse; prese Casalmaggiore e assediò Brescello; così girando le possessioni nemiche portava la guerra sul suo territorio. Carmagnola, generale dei Veneziani, si apprestò ad andargli contro. La flotta veneziana, comandata da Francesco Bembo, risalì il Po fino a Cremona: ma l’armata del duca, fidando nel favore che davagli la corrente, attacca quella de' Veneziani. Due galere combattendo traversano l’armata nemica. Il Bembo non le cura; manovra per la sua destra, assale con forze maggiori la sinistra del nemico, lo stacca dalla sponda, lo priva dell’aiuto che poteva prestargli l’esercito quivi presso schierato, l’accolla alla sponda o|posta, Io rompe e brucia tutta la flotta. Vittorioso risale il Po fino a Pavia; ma o£ni sbarco gli è impossibile, poiché l’infaticabile Piccinino lo segue lunghesso il fiume. Mentre che ciò accadeva, il Carmagnola moveva diritto a Cremona; ma i ducali vi accorsero immediatamente a difenderla. Setlantamila guerrieri accamparono sotto le mura di quella città. Già il numero di coleste schiere non era più cosi ristretto, eome in que’ tempi si costumava. Quattro generali, Niccolò Piccinino, Francesco Sforza, Guido Torello, Angelo DellaPergola, famosi tutti, comandavano con pari autorità l’esercito del duca: incontro ad qssi il Carmagnola, con potere concentrato ed assoluto non tardò a prendere il vantaggio. Fuvvi un primo combattimento, che la polvere, il caldo e il disordine lasciarono indeciso. Il duca, per dare unità al suo esercito, ne diede il comando a Carlo Malatesta, al quale mal volontieri gli altri capitani, superiori per merito, si sottomisero. Carmagnola mosse per la destra, e s’impadroni del villaggio di Medovio sull’Oglio, a due miglia dal campo nemico, quasi minacciando di impedirgli la vettovaglia. Era questo un sito paludoso, ora disseccato dal caldo, e reso in molti passi praticabile a' fanti ma non a' cavalieri. Riconobbe accuratamente il terreno l’abile generale, e facendo le viste di malamente guardare il cammino che menava al campo, a destra ed a sinistra del quale aveva imboscato molti arcieri, provocava il nemico; né altrimenti da quel che avea pensato avvenne. I corazzieri ducali baldanzosi s’inoltrarono in sulla strada, allorquando un nembo di dardi caddero su di essi, mentre la cavalleria leggiera caraccolando li molestava di costa. Tentarono que’ gravi cavalieri di schierarsi, ma il terreno litorale mal sosteneva la loro pesante mole, sicché affondarono moltissimi. Quindi le ordinanze cominciarono a confondersi, e i comandi ad essere discordi. Allora il Carmagnola, che pacatamente tutto osservava, scaglia contro di essi un drappello di corazzieri, misto ad abili fanti; l’urto accresce il disordine; i fanti uccidendo i cavalli abbattono i cavalieri, e le schiere ondeggiano, fuggono, e completa diviene la vittoria da una parte, terribile la rotta dall’altra: Carmagnola vittorioso ricordossi di essere venturiero, concesse immediatamente la libertà ai prigioni, non incalzò il nemico, profittò poco della vittoria; il Senato veneziano ne insospetti, ma nascose U rancore. Si conchiuse la pace, per cui i possedimenti de' Veneziani furono estesi fino all’Adda. Ma poco stette, che nel 1431 si ripresero le armi. Il Carmagnola usci in campagna con 12 mila corazzieri ed altrettanti fanti, un’armata di dento vele risaliva il Po. Il Piccinino e lo Sforza tengono frónte al Carmagnola, ed una flotta del duca scende incontro a quella de' Veneziani. Le due armate e i due eserciti si appropinquano. Il Piccinino 0 lo Sforzi Con mentite evoluzioni e con bugiardi messi inducono il Carina gnola a credere a un assalto, ed a raccogliere le sue forze, mentre essi invece fanno salire sulle galere buona manò di scelti corazzieri. Il giorno seguente l’armata ducale scende con la corrente, investe la flotta veneziana, le navi si stringono alle navi, né tardano i corazzieri a sopraffare la gente veneta. I commissarii veneziani inviano messi al Carmagnola, onde soccorresse la flotta; quegli nega, 0 perché aspettava l’assalto, e perché difficilmente, mentre ferveva la battaglia, potevano imbarcarsi i guerrieri, Le flótta veneta fu distrutta; il Carmagnola tenne il campo, ma là campagna fini senza compiere veruna impresa. Crebbero i sospetti del Senato: ei fu chiamato a Venezia, con dissimulazione molte per via accarezzato; poi messo in ceppi, torturato con corda e fuoco, decollato in piazza di San Marco nel maggio del 1432.

XLII. Firmata la pace in Ferrara, il duca mandò in Toscana il Piccinino e lo Sforza, cosi ricominciando nuova guerra oo’ Fiorentini, alla quale successe altra pace, ed a questa immediatamente altra guerra. Scorsero cinque anni, e la sorte delle armi si mostrò oscillante, ora tn favore del duca, ora della lega. In questo tempo fu memorabile la battaglia di Nicolò Fortebraccio negli Stati della chiesa. Conchiusa la pace nel 1437, i Braecieschi e i Sforzeschi si rovesciarono negli Stati del papa e nella Toscana: Francesco Sferza occupò la Marca, e Nicolò Fortebraccio l’Umbria, spingendo le sue scorrerie sino a Roma. Eugenio papa, foggi in Firenze, e promise allo Sforza di concedergli la signoria della Marca se egli si fosse staccato dall’amicizia del duca, che era stato poco sollecite nelfadempiere le promesse fattegli, e se cacciasse la setta rivale dagli Stati della chiesa. Lo Sforza accettò, e assalì i Braecieschi ed assali il Fortebraccio in Ascesi, terra de' Suoi possedimenti, mentre il Piccinino, inviato dal duca, Volò in soccorso de' Braecieschi, fece massa in Forli, e per torre lo Sforza dall’assedio accennò verso la Marea. Diflatti ottenne l’intento, poiché lo Sfotta! lasciò un suo luogotenente a continuare l'assedio, e marciò verso Cesena e Nicolò Fodebraecio, profittando del momento, uscì alla campagna, sbaragliò il nimico, e poi tenne dietro allo Sforza. Alloca il Piccinino avrebbe dovuto incalzare l’avversario, seguirlo, o almeno contenerlo. Ma egli, comeché fosse per natura risolutissimo, pur si mostrò poco energico, sicché lo Sforza ebbe agio di rivolgersi contro Fortebraccio.

Pugnarono i Braceieschi con valore, ma furono vinti e rotti, e nella fuga riconosciuto il Fortebraccio al portamento, alle splendide armature, al superbo destriero, fu assalito e ucciso. Cosi il Piccinino rimase solo capo della setta bracciesca, come della sforzesca era il conte Francesco. Quindi a due anni, nel 1438; la flotta genovese nelle acque di Ponza, vinse l’Aragonese, ove rimase prigione Alfonso, pretendente, poco accetto al regno di Napoli.

Genova era sotto il dominio del duca, il quale. improvvidamente generoso, concesse al re cattivo intera libertà. Genova allora si levò a rumore, e il Piccinino mosse ad attaccarla, prima in Polcevera, poi in Bisagno, ma sempre invano, poiché fu respinto dai cittadini e minacciato dallo Sforza, mentre i Veneziani attaccarono il duca, e. dopo significanti vantaggi lo costrinsero a tregua. Durò poco la pace, e ricominciò la lotta fra il duca ed i Veneziani, nella quale due famosi generali del tempo, l’uno in contro dell’akro si trovarono. Nicolò Picei nino. capitanando l'esercito del duca, il conte Francesco Sforza quello della lega. La lotta fra questi due atleti, svolta in tre campagne consecutive, supera per mirabili concetti strategici, e perprontezza d’esecuzione, tutte le precedenti guerre.

Il Gattamelata, famoso guerriero, il Fabio di quel tempo, nel 1438 capitanava nel Veneto l’esercito della repubblica di Venezia, e il conte Francesco Sforza, capitano generale della lega, trovavasi nelle, sue terre con esercito maggiore. I Veneziani con savio. consiglio, premuravano il conte ch,e valicasse il Po, raccogliesse tutte le sue forze ed attaccasse con sommo vigore il duca; e questi dal;anto suo, affine d’impedire tale operazione, accordavasi col PicciniBto che occupasse le vie, delle Romagna e separasse le forze qemiche. Il duca simulò inimicizia col Piccinino, il. quale tosto si portòcoUe sue forze in Romagna, e, cogliendo il destro, occupò Bologna, Imola, Forlì e tutte le rocche. Sbarrate in tal modo le comunicazioni con là vallata del Po, ripassò il fiume, attaccòi Veneziani, mise l’assedio a Brescia e a Verona, e passò ì’Adige. A tali fatti i Fiorentini e lo Sforza cederono alle premure de' Veneziani, e fecero massa a Ravenna per passare nel Veneto. Quattro erano le vie l’una lungo la marina, rigettata perché troppo cattiva; l’altra per la selva della gorra praticabile per lo straripamento del Po, la via diretta sbarrata dalle forze nemiche, ne restava una sola, e questa venne scelta; ma quantunque fosse deHe altre meno malagevole, pur non era sicura per gb ostacoli Òhe avrebbe potuto opporre il nemico. Tuttavolta seguendo questa lo Sforza parti da Ravenna, passò a ponente di Bologna, mirò a Cento, indi a Ferrara, è per Rovigo operò nel Padovano la congiunzione coll’esercitodi Venezia, è ne assunse il comando, n Piccinino, scorta prossima la tempesta, marciò a Soave, castellò tra it Vicentino e il Veronese, si accampò è si trincerò scavando un fosso innanzi alla sua fronte, e prolungandolo oltre alla sua destra sino alle paludi dell'Adige; a sinistra lo difendevano i monti; cosi stette sperando di costringere il nemico ad assalirlo in quella forte posizione, ove il terreno era tutto a lui vantaggioso; Ma l’avversario, non meno di lui abile, provveduto il suo esercito di viveri per otto giorni, lasciò il piano e girò su pe’colli Euganei, la sinistra del nemico; il quale minacciato alle spalle, fu costretto a decampare, ripassare l’Adige, ed abbandonare Verona, che venne subito occupata dallo Sforza.

Il primo obbietto delle operazioni di Sforza era Verona, ora in suo potere; quindi risoluto in suo vantaggio il primo periodo della campagna. Il secondo obbietto era Brescia. Idue avversarli si apprestarono l’uno ad occuparla, Taltro a difenderla. L’estrema sinistra della linea che assicurava le spalle agli assedianti di Brescia, era difesa dalle alpestri e dirupate cime, che circondano la valle della Sarca, valle che il castello di Tenna chiudeva; quindi il Renaco padroneggiato dalla flotta ducale; poi il Mincio difeso da Peschiera al suo sbocco nel Lago, ma neh rimanente suo corso diveniva debole ostacolo: e perciò il basso Mincio offriva allo Sforza facile passaggio. Il Piccinino accampò a Vegasio, ed in sito così avvedutamente scelto, impediva al conte di operare pel basto Mincio, e ne minacciava la sinistra, se fosso stato tanto ardito da attaccar Peschiera, o passare fra questa città ed il campo. Allo Sforza in tale congiuntura sembrò il passaggio del Lago la più facile e la più sicura delle imprese. Cinse d'assedio Bardolino per sgombrare dal nemico la sponda orientale, mentre ia flotta Vene ziana, tratta con gran fatica per terra, venne lanciata nelle acque, ed ebbe il vantaggio su quella del Duca. Ua il caldo e le malattie obbligarono il conte a togliere l'assedio e ritirarsi a Zeiro, mentre una nuova armata ducale approntata in Peschiera, costrinse ia flotta Veneziana a ritirarsi a Terbole. Sforza inviò ad essa un convoglio di vettovaglie, scortato da mille cavalli e trecento fanti, e l'ordine di aprirsi il passo e soccorrere l'assediata Brescia. Il convoglio fu attaccato e preso dalle genti del Piccinino, e la flotta Veneziana attaccata ed arsa da quella del Duca. Cosi le speranze del conte di traversare il lago e di soccorrere da quella parte Brescia svanirono affatto. Ma un nuovo ed ardito disegno, venne prato menato ad esecuzione, poiché il Conte, non potendo attraversare il Lago pensò di girarlo. Raccolse le sue forze, risalì lungo l'Adige, pose un drappello comandato da Giacomo Marancio aflo stretto delta chiusa per tutelare ia sua ritirata, valicò il monte. Baldo, accampò alle foci della Sarca, e già moveva per scendere su Brescia, e piombare alle spaile del campo nemico. Ma il Piccinino, rapido quanto il pensiero, gli è già incontro ed occupa il castello di Tenna che chiude lo sbocco della valle, nella quale tenta di chiudere ed accerchiare, il nemico. Lo Sforza anelava la battaglia per uscire dalla sua rea condizione, perciò doveva il Piccinino evitarla: ma non così fece, anzi tratto dal suo naturale ardore, assali e fu sbaragliato. Lo Sforza dovette massimamente la vittoria ad una sortita, che con provvido consiglio fecero i Bresciani, i quali durante la battaglia si mostrarono sui monti alle spalle del Piccinino. Quinci vedendo debellato l’esercito nemico, e il Piccinino chiuso in Tenna, e libera la strada per Brescia; sostò lo Sforza per rinfrescare le sue genti: il quale brevissimo tempo perduto bastò al suo avversario, che egli teneva come vinto e preso, per rimettere le sorti della campagna. Infatti ii Piccinino, giovandosi della sua piccola statura, si fece chiudere in un sacco, e sulle spalle di un robusto alemanno traversò il campo dell’inimico?giunse al lago, s’imbarcò, volò a Peschiera, riunì le sue genti, stupefatte per vederselo innanzi; e corse direttamente, mirabile concetto, alla mal guardata Verona, perno e base delle operazioni dello Sforza, e l’occupò, e anche al Marancio, che guardava la chiusa, intimò ia resa. Ma questi, che prode guerriero era, difese e conservò il passo. Lo Sforza appena ebbe conoscenza dell'inaspettato evento, abbandona, come era naturale, l’obbietto delle sue operazioni, per saldare la base, avendogli il solo valore del Marancio conservato il passo. Il Piccinino aveva già ordinato al suo esercito di entrare in Verona e chiudersi nella città; ma un suo ufòziale, un tal Taliauo, non ubbidì ed i pochi entrati in. Verona, nel brevissimo spazio di quattro giorni non ancora si erano apparecchiati alla difesa: inoltre il Duca avea promesso questa città al Gonzaga, marchese di Mantova, ed ora al fatto a malincuore ne vedeva l’ingrandimento, e però preferì che la ritornasse al nemico. Tutte queste ragioni ed il rapido arrivo dello Sforza fecero perdere Verona al Piccinino, il quale si ritirò a Mantova: quindi si congiunse con le sue genti che assediavano Brescia. Cosi terminò la campagna. Sforza ebbe quasi sempre l’iniziativa, il che per vero fu dovuto alla superiorilà delle sue forze. Nel primo periodo della campagna la vittoria fu di Sforza, poiché occupò Verona, primo obbietto delle sue operazioni. Nel secondo periodo, dopo lungo contrasto, la vittoria fu del Piccinino, il quale impedì che fosse tolto l’assedio da Brescia. Si combattè una sola battaglia, la cui sorte, in quel tempo, atteso il poco progresso della tattica, fu dovuta più al caso che alla scienza del capitano, e la vinse il Conte. Il Piccinino commise un solo errore, appiccò la battaglia a Tenna invece di temporeggiare, e lo Sforza, a sua volta, temporeggiò quando avrebbe dovuto, dopoJa vittoria, rapidamente muoveva.

Nel 1440 il Piccinino fu il primo a ripigliare le armi. Non attaccò già Io Sforza, ma abbandonò la Lombardia, lasciando le truppe ducali sotto il comando di Luigi del Verme, di Taliano Furiano, e del marchese di Mantova, e con una schiera di scelti cavalieri passo in Romagna, minacciò di invadere le possessioni dello Sforza, ed accennò eziandio un’impresa in Toscana passando l’Appennino. La diversione al principio parve riescisse.

I Malatesti si staccarono dalla ed il conte Sforza corse a Venezia, dicendo, doversi ia guerra portare ove l’esercito ed ii generale nemico erano, essendo cosa inutile conquistare le terre senza debellare gli armati. Falso ragionamento, suggerito non da altro che dal suo utile privato. Si sforzarono i Veneziani di persuadergli il contrario, che la somma delle cose era in Lombardia, che lo scopo di Niccolò Piccinino era quello appunto di richiamare altrove le forze del Cónte, e che sul Mincio e non già sull’Arno sarebbesi decisa la contesa. Quindi il genio militare del Conte, pèr poco offuscato, si rischiarò, e sì che egli, non appena la stagione si mostrò propizia, usci in campagna. In prima colla flotta ristaurata sul Benaco attaccò quella del duca, e la vinse, costringendola a chiudersi in Salo: indi soccorse con vettovaglie Brescia,ed assicurò la sua ala destra. Poi mosse con esercito, passò il Mincio, proseguì nel Bresciano, e divise le forze del marchese di Mantova da quelle degli altri due generali. Peschiera non tardò molto a cadere nelle sue mani. Il Gonzaga si rinchiuse in Mantova, e Del Verme e Furiano si ritirano innanzi al Conte, abbandonano il territorio di Brescia e si trincerano tra Soneino e Brie. Sforza attacca Brio, e batte il nemico, passa l’OHio, ed attacca e vince i Ducati a Soneino: questi, raccolte le loro forze, con provvido consiglio si ritirano in Cremona, a fine di conservare la comunicazione, e non essere separati dai Piccinino, che operava in Toscana, e che il duca con reiterati messi richiamava. La diversione era tornata tutta in danno al duca.

Campeggiava il Piccinino da più di un mese in Toscana con vago concetto e con nessuno profitto, e quando ricevè le nuove de' progressi di Sforza, incontro ad esso, che trovavasi a Borgo S. Sepolcro. Stavano a campo l’esercito de' Fiorentini e le genti del papa, schierate alle radici de' monti che dividono la vai di Tevere dalla vai di Chiara. Allora egli decise, prima di partire, venire a battaglia. Mosse le schiere. I Fiorentini poco vigilanti, impediti dal polverio e dal luccicar delle'armi, scorsero il nemico quando già era vicino, ed appena ebbero il tempo di apprestarsi a difesa. Un ponte su di un fiumicello che traversava la strada, fu disputato dalle due parti con varia fortuna, ma terminò la pugna con la disfatta de[ Piccinino. Sarebbe stato un tale evento di somma importanza in quella guerra, se i Fiorentini avessero profittato della vittoria; ma essi invece pensarono di porre in sicuro la preda, e rimandaronoi prigioni, il che fece abilità a Niccolò, la cui energia raddoppiavasi ne’ disastri, di rifarsi; e passò in Romagna, onde con buon nerbo di forze accorse in Lombardia. Ma era già il verno grande, e lo Sforza stava a' quartieri in Verona, e il Piccinino ne’ dintorni di Cremona.

Purtuttavolta nella fredda stagione il Piccinino sorprende nel Bresciano i quartieri de' nemici, e ue fa duemila prigioni. Poi, scemati alquanto i rigori dell'inverno, move le armi, e comincia b terza campagna (1441). E cominciò dall’occupare Cignano, castello a dodici miglia da Brescia, d’onde minacciava eziandio Bergamo, e munì fortemente il castello di Martinengo sulla strada che menava a quella città. Il conte mosse a fronteggiarlo, n’evitò lo scontro, e sfilò per la sua destra; passò l’Ollio a Pontoglio e cinse d’assedio Martinengo, lasciando con questo falso movimento scoverta la linea delle sue operazioni. Nicolò, che non era uomo a lasciare impunito un errore, mosse, conservando libere le sue comunicazioni, per la valle dell'Ollio, e accampò trincerandosi sulla linea d’opeaziono nemica. Ben tosto il campo dello Sforza, che aveva 30 inh lumini, mancò di vettovaglie, senza avere la speranza di sloggiare l’avversario dalla fortissima sua postura. La vittoria fu completa e decisiva. Il Piccinino allora alzò la cresta, pretese dal duca in premio de' suoi travagli dominio di terre: ma il duca, anzi che accedere alle sue domande, conchiuse con Venezia la pace che fu detta di Capriana. Non però quietarono dalle armi i due rivali, ma nuova occasione rinnovò fra essi la guerra, mutandone solo il teatro.

Nel regno di Napoli Alfonso d’Aragona con propizia fortuna guerreggiava contro Renato d'Angiò. Questi ridotto agli estremi, chiuso nella città di Napoli, contrastava quest'ultimo baluardo al nemico vittorioso. Or la pace fermata in Lombardia gli faceva sperare soccorsi dallo Sforza, suo collegato e nemico d'Alfonso, perché questi si era impadronito di Benevento, e d’altre terre che il famoso condottiere possedeva nel Regno. Come ragion voleva, se Renato ne sperò soccorsi, ebbe Alfonso a temere le armi dì quello, e raccomandatosi al Duca, amico suo più che di Renato, di concerto misero su il papa Eugenio offrendogli il soccorso di Niccolò Piccinino con l’esercito, per conquistare le terre delle quali lo Sforza s era fatto padrone in Romagna. L’attacco inaspettato mise in travaglio il Conte, disperse la tempesta che minacciava Alfonso, e decise della caduta di Renato.

Assicurato il trionfo degli Aragonesi, la premura del Duca di soccorrere il Piccinino cessò; anzi mal soffrendo ora le molestie che egli medesimo avea suscitate al Conte, pensò rimediarvi. Una rotta toccata dal Piccinino presso Fermo avea messo termine alla prima campagna. Ma durante l'inverno aveva Niccolò, soccorso dal papa e dal re e dalla propria energia, ricomposto le sue schiere, e più che mai nel suo campo era riverito ed amato, e anelava il >momento opportuno per scagliarsi sul nemico, quando un messo giunse frettoloso a dirgli, che il duca, gli aveva a parlare di cose importantissime. Desideroso d’intenderle egli parti, separandosi con rammarico da' suoi guerrieri, e lasciò il comando a suo figlio Francesco.

Giunto a Milano non stette molto ad accorgersi di essere abbindolato, poiché riseppe come lo Sforza, profittando della sua assenza, avesse assalito e rotto il suo campo. Di che ebbe tanto dolore, che ne ammalò, e mori. Così nel 1445 il più famoso capitano del medio evo in età di settaotacinque anni cessò di esistere. Vasto ne’ disegni, pronto come il pensiero nell'esecuzione, qual procella che più infuria stretta nelle rupi, il suo ingegno maggiormente si maturò ne'disastri: mirando sempre al fine ei scendeva da' disegni del capitano sino allo stratagemma del bandito. Solo degno dì reggere al paragone fu il suo rivale Francesco Sforza Nelle guerre che cotesti due famosi condottieri combatterono, quasi sempre la vittoria strategica fu del Piccinino; ma nelle battaglie fu più sovente vittorioso lo Sforza. Allo scorgere il nemico gli istinti belligeri del Piccinino scemavano in lui il merito di capitano, fidando ei più nell’impeto e nella prontezza anziché negli ordini non cosi lo Sforza, che sperava la vittoria, più che da altro, dalle evoluzioni. Se voglionsi librare in giusta lance le loro qualità come capitani, erano diversi per virtù. Sforza, uomo del tempo, mirava al suo ingrandimento, ogni ostacolo che gli si opponeva a conseguire rt suo fine, senza scrupolo sgombrava, e ottenne splèndida corona. Il Piccinino raggirato da quel medesimo cui fedelmente aveva servito, non lasciò altro retaggio a' suoi figli che f ubbidienza di guerriero: aspirò anche esso al principato, ma fu troppo feale e fedele, e non vi pervenne mai: lealtà è fede non erano virtù proprie di quel tempo, e però furono dì ostacolo a' suoi progressi. Cinque anni dopo la morte del Piccinino fu Io Sforza creato duca di Milano. Egli combattè una guerra contro i Veneziani, la quale nel 4452 ebbe termine Con una stabile pace. Appresso per quaranV anni furono in Italia solamente guerre di poca o niuna importanza, le armi italiane decaddero.

XL1II. I principii, su i quali si fondava la società del medio evo, angustiando fra pochissimi il diritto dell’universale cittadinanza, portarono alcuni opulenti, diventati tiranni, ad èssere arbitri della nazione, i quali a mano a mano la degradarono e divezzarono dalle armi cittadine, possibili queste solamente ove è eguaglianzaVedemmo a quelle sostituirsi i mercenari, e quindi i condottieri che qui promossi assoldarono a proprio sostegno. Questi condottieri italiani purgarono l’Italia dai masnadieri d’oltremonte, ridonarono lo splendore alle nostre armi, e raggiunsero nell’arte bellica il sommo del progresso. Forti per la loro bravura e per associazioni, furono i soli fra gl’italiani che non si mostrassero ligi del tutto a' governi che tiranneggiavano l’Italia, furono come i pretoriani del tempo, temuti ed accarezzati dai despoti, i quali poscia, dalla loro potenza, finalmente bandirono loro la croce addosso, e stretti insieme mantennero lunga pace, durante la quale con tradimenti e frodi pervennero a distruggerli. Il più accanito in tale impresa fu lo Sforza, sollecito di chiudere agli altri la via che to avea condotto al trono. Sforza, condottiero, aveva illustrato colle sue geste le milizie di ventura, aveva quasi riposte in pregio le fanterie, ed accennava dare alla tattica, interdetta per l’abuso che si. faceva dei corazzieri, il progresso medesimo che avevano raggiunto gli altri rami dell’arte bellica: ma il medesimo Sforza dùca di Milano, si adoperò a tutt’uomo a distruggere i suoi antichi commilitoni, e a disarmare l’Italiatanto la necessità delle cose è superiore agli individui, costrettti a seguire la via fatalmente segnata.

Iacopo Piccinino, figliuolo di Nicolò, ed Antonio Caldone nel regno di Napoli, erano allora i maggiori condottieri: I Caideresahi alla caduta degli Angioini andarono dispersi, e Basile del Giudice, Giacomo Galeotto, Nicolò coDte di Campobasso esularono, e furono efviari per sapienza e valore in altri campi. Iacopo Piccinino, capo dalia setta Braccesea, venne più tardi tradito e morto dal perfido Ferdinando d’Arragona, successore d’Alfonso. Per tal modo il re, il duca di Milano, Cosmo de' Medici, e il secato di Venezia, riuscirono a disarmare l’Italia, ma non già, come essi speravano, a sostituire le armi cittadine alle compagnie di ventura; per ciò fare avrebbero dovuto trasformare i loro sdhvilissimi sudditi in cittadini liberi e sovrani; ma non vollero, né volendo avrebbero potuto. I soli mercenarii, che fanno della guerra un solazziere, procurandosi con essa l’esistenza ed eziandio ricchezze, e facendone la loro occupazione unica, e prediletta, possono in parte supplire gli eserciti cittadini: in quelli l’amor di setta e la comunanza di utile supplisce in parte all’amor di patria; è patria per essi il mobile campo. ma non hanno patria veruna quei sudditi, i cui interessi sono ristretti fra le anguste pareti delle loro misere dimore. Il pretendere che questi volentieri accorrano a difendere un governo volto solo a spogliarli coi balzelli, è una illusione destinata a scrollare ed a distruggere quegli errori, attraverso i quali le umane istituzioni movendo a lento passo s’avvicinano alle sovrane e semplici leggi di natura.

Sforza potette trasformare in sudditi i suoi soldati, ma non già in guerrieri i sudditi; re Alfonso disperse i Caldereschi disarmò i baroni, proibì loro di muovere per ragioni private le armi, e accrebbe il suo potere, ma disarmò il regno. Distrutte le masnade baronali, e |iosto fine a quelle brighe che esercitavano ed alimentavano gli istinti guerrieri del popolo, ebbe sudditi pacifici e ubbidienti. ma imbelli: armò dieci galee, e tenne sempre in essere mille corazze, rudimento in Italia degli eserciti permanenti, nel tempo stesso che in Francia Carlo VII formando le compagnie di ordinanza: ma quelle mille corazze erano debolissima difesa contro il turbine che addensavasi oltre Alpi. Le cerne di Venezia ed i comndati nelle altre città, che vennero sostituiti alle schiere di ventura, furono spregevolissime fanterie. Con somma riluttanza le genti, per raccogliersi alle insegne, abbandonavano i proprii focolari, male. armate, rntfie vestite, male ordinati, avevano più dello schiavo che del guerriero, più del goffo che del marziale.

«Movevano, scrìve uno storico contemporaneo, saltarellando al suono d’un piffero e gridando il nome del principe;’combattevano a drappelli poco profondi, che l’urto delle corazze non solo sbaragliava, ma annientava. Ridotta la nazione a pochi opulenti e molti mendichi, il valoreil gusto, l’energia nazionale, sparirono: infiacchite le fibre, all’operosità successe l’ozio e la noia, al buon gusto la goffagine e l'esagerazione, al valore la viltà: i tiranni surtì da tali ruine, senza tema potevano opprimere i loro popoli i ma invano ne sperarono difesa; essi furono temuti dai sudditi, e sprezzati dai feroci stranieri, che cupidi anelavano il momento di gettarsi sulla ricca e facile preda. Ma oltre queste ragioni sociali, per cui le armi italiane decaddero, ve ne furono altre due d’arte, che contribuirono a peggiorare sempre più condizioni di quei tristi guerrieri, che i governi d'Italia, e non più gl’italiani, accozzavano a loro difesa.»

La polvere da sparo, menzionata da Marco Greco come cosa non nuova fin dal dodicesimo secolo, ed adoperata nelle feste, venne applicata alla guerra. Furono i primi i Bresciani che giovandosi della forza espansiva dei gaz che si sviluppano nel suo accendersi, per mezzo di tubi di latta accerchiati di ferro che si dissero Lombarde, scagliavano a grande distanza pietre rotondate. Quest’arma sconcia, pesantissima e di niun effetto, non produsse al suo apparire nessun cangiamento e nessuna impressione sui guerrieri; terribile solo nel fragore non faceva altro che spaventare i cavalli. Ma, non scorsero molti anni che i Perugini ebbero delle bombardette da portarsi in mano, lunghe una spanna, 1 cui proietti trapassavano ogni armatura. Nel 4369 trovasi menzionato Io schioppo e l’uso ne era frequente presso i Veneziani, i quali più tardi, nel 4 490, come narra il Bembo, ne acquistarono grande quantità, ne distribuirono alla gioventù di terraferma, e mandarono istruttori nei villaggi pel maneggio di tali scoppietti, e stabilirono una prova di tiro annuale: formalmente i Lucchesi se nc fornirono nel 1429. Queste anni da scoppio, portatili, furono di ben altra importanza. Stupirono i cavalieri vedendo inutile difesa la loro corazza contro le pallottole di piombo scagliate da quelle. Una stolta rabbia fu il primo sentimento loro, e sicché nelle battaglie, non davano quartiere agii schioppettien, e se mai cadevano prigioni, servivano di bersaglio e solazzo ai soldati. I Veneziani nel 1439, ei Bolognesi nel 1443, vittoriosi in due zuffe, ne uccisero quanti ne,capitarono loro nelle mani. Ma tentassi invano colla forza distruggere una conquista dell'umano ingegno. Nel 1467, alla battaglia di Molinella, Bartolomeo Colieone fece uso delle spingarde, che lanciavano palle grosse quanto una prugna: le portava sopra carri dietro l'esercita, e collocandole alle ali della linea, ove rimanevano immobili durante la battaglia, dava luogo a loro colpi facendo restringere le schiere ne' franchi. Intanto non potendo i cavalieri interdire l'uso delle armi da scoppio, a difendersene accrebbero la spessezza e però il peso delle loro corazze, in guisa che la pesante cavalleria divenuta pesantissima, più non sostenne le lunghe marce e le lunghe pugne, e i corazzieri morivano alcune volte soffocati dal peso di nelle stesse armature ch'erano destinate a difenderli. Cosi la cavalleria peggiorò senza che la fanteria migliorasse: gli scoppettieri vennero sostituiti, e non sempre con vantaggio, ai balestrieri, e Pepoca delta decadenza delle milizie italiane fu quella precisamente in cui l'introduzione’ delle armi da fuoco peggiorò le antiche ami senza che ne venissero sostituite delle nuovi abbastanza efficaci. In tale epoca negli eserciti italiani non era di pregevole altro che alcuni cavalleggieri Albanesi, detti stracotti, dai Veneziani intror dotti in Italia. Cavalcavano piccioli cavalli, indossavano una sopravveste corta, scema di maniche, e per ammorzare alquanto i colpi, imbottita, alcuni portavano guanti di ferro; tutti un bacinetto e un piccolo scudo: così difesi brandivano ferrata zagalia, lunga diedi o dodici piedi, pendevagli al banco una larga spada, ed all’arcione la mazza. Senza ordioe veruno, alla spicciolata piombavano sul nemico, e una banderuola alzata alla punta dì una lancia era il segnale intorno a cui si rannodavano, il desiderio della rapina ad ogni altro sentimento in essi prevaleva. Finalmente a queste cagioni, che avevano distrutto il valore delle milizie italiane se n’aggiunse un’altra non meno decisiva; accennammo come i condottieri Parte della guerra maestrevolmente trattarono, ma a' guerrieri da essi capitanati, venturieri fatti, alternando il loro servizio or con questo or con quel capitano, il domani commilitoni del nemieo d’oggi, per la causa, per lo stato che difendevano indifferenti sempre; maneava Tira e il furore, che i beni minacciati, Podio di razza, le passioni politiche risvegliano, e cho rendono micidiali le battaglie. I capitani bramavano la vittoria, ma non già la distruzione del nemico e il termine della guerre. Epperò ehi rendevasi, non solo aveva salva la vita, ma con la vita la iiberti, e ben tosto rifacevasi l’esercito disfatto: erano come due giocatori che al termine della partita, per ricominciare, si restituiscono gli scacchi; e si che quelle guerre si nominerebbero eon termine loro proprio grandi tornei ttrategici. Morti quei famosi capitani, mancò l’arte di quelle rapide marce e di quelle posizioni, che senza distruggere annullavano affatto l’azione del nemico, rimanendo tuttavia le bacche abitudini dei guerrieri: la troppa superiorità dell’arte bellica in Italia ammorsò la ferrocia dei guerrieri, danno positivo; allorché quella dotta scuola venne spenta, sparì l’arte rimase la mollezza. É questa la ragione, finora ignota agli storici, che rese il combattere italiano tanto poco temuto da feroci ed ignoranti stranieri.

XLIV. Intanto i semibarbari, dai quali l’Italia era accerchiata, s’erano costituiti, in grosse nazioni: Carlo VII in Francia, Ferdinando il Cattolico nelle Spagne, per mezzo di guerre e di successioni avevano sotto ii loro dominio riuniti quei vasti stati, e potevano a loro bell'agio disporre e dei tesori e delle braccia di quelli. A Francia e Spagna aggiungevasi Allemagna, ancora più vicino all’Italia, più potente di entrambi, semiri agli uomini ed ai mezzi materiali che racchiudeva nel suo seno, assai meno da temersi a cagione del poco e vaccinante potere dell'Imperatore. Ivi i principi, comeché fra loro rivali, erano d’accordo nel circouscrivere fra ristretti limiti il potere Imperiale; e più potenti dei Principi e dell’Imperatore, erano le comunità libere e ricche. Non eravi comune alemanno, che non fosse provvisto per un’anno di mangiare, bere, legna da ardere e di materie primitive per dare lavoro alla plebe. Le milizie di queste diverse nazioni erano più o meno pregevoli, secondo l’importanza che traevano dagli ordini civili. Nelle Spagne i nobili seguivano il re alla guerra, formando una specie di cavalleggieri, i quali senza armatura cavalcavano certi cavalli detti giannetti, e portavano corta spada e corta lancia, al suono del tamburo si proclamavano le condizioni degli arruolamenti dei fanti, moltissimi volontariamente correvano alle bandiere) perché poverissimi i comuni. Queste fanterie avendo a difesa il solo scudo, et ad offesa una breve e larga spad a, erano si male ip arnese, che io Italia ebbero il nome di bisogne. ma lo Spagnuolo, valoroso, costante, sobrio, capace di sostenerelunghi disagi, quantunque spregevole vedendolo uscire del proprio paese, nutrito vestito, istruito in paese straniero diventava ottimo soldato. In Francia era fiorente la cavalleria; concorrevano in essa tutti i secondigeniti, delle nobili e ricche famiglie per cercare nelle armi quelle ricchezze che le leggi concedevano al solo primogenito.

Carlo VII aveva formato le compagnie di ordinanza, soldatesche permanenti: una compagnia era composta di cento lance, ogni lancia aveva cinque satelliti; ogni parrocchia iu tempo di guerra, era obbligata a somministrare un fantaccino; ma le fanterìe Francesi, o FranchiArcieri o Guasami, furono sempre di poco valore, perocché più che altrove era la plebe misera e di servili costumi.

Dalla vittoria di Morgatea nel 1310 cominciò la fama delle formidabili fanterie svizzere, cresciuta poi in rinomanza dopo la sconfìtta di Carlo il Temerario nel 1476. Non erano gli svizzeri di bello aspetto, nerboruti molto, ma di bassa statura, ed anche mal vestiti. Un petto di ferro o di cuoio a difesa, una picca lunga diciotto piedi, ed una lunga spada pendente alla schiena a difesa erano le loro armi; ornavano il capo di piume, e (palelle volta la prima riga e gli ufficiali portavano elmi. Le loro ordinanze somigliavano alla greca falange: battaglioni di sei a ottomila uomini di sei o otto file di profondità. Usavano varie evoluzioni; si ordinavano a cerchio irto di picche, ed impenetrabile all’attacco; quindi rapidamente sviluppandosi in linea assalivano con impeto irresistibile il nemico; alcune volte davano alla loro ordinanza la forma di una croce, e negli spazi vani di quella tenevano al sicuro gli scoppettieri; il più sovente si disponevano i battaglioni a scaloni onde meglio proteggersi, ed il terze desse loro forze complessive era riserbato alla riscossa. Nella guerra in patria tutto il villaggio eleggeva i capi; se partivano per lontane spedizioni, i capi accoglievano i soldati. La sùnilitudine di ordini e condizioni civili fece sorgere ne’ Comuni di Alemagna le stesse fanterie: portavano leartni medesime, ad eccezione della daga che. avevano in luogo dello spadone, e combattevano cogli ordini stessi. Facevano più bella mostra i Lanzi per la loro alta statura e forbite armi, ma più pregiati in guerra erano gli Svizzeri. Lanzi e Svizzeri erano rivali nel mestiere, e questa rivalità veniva fomentata dai caporali delle fazioni che temevano s’introducesse in Alemagna lo spinto democratico e l'uguaglianza prevalente nei comuni svizzeri; e la rivalità degenerò fra le due genti in odio profondo. Ma se erano ottime le fanterie tedesche, di poco conto erano i cavalieri: cavalli gravi e poco veloci, selle prive di arcioni e perciò mal reggevano al primo incontro, il destriero e le gambe del cavaliere prive di armi difensive quindi soccombevano al paragone delle armi curte.

Passati rapidamente in rassegna i diversi guerrieri dell'epoca pure facilmente scorsesi che primezziavano sui campi di battaglia le fanterie svizzere e di Lanzi, primi a rintuzzare l’impeto dei catafratti da' quali le fanterie italiana e francese venivano, inevitabilmente, sbaragliate. Lanzi e Svizzeri erano da tutti richiesti, militavano col re di Francia, coll’Imperatore, co’ principi italiani, perocché essi combattevano per chi meglio pagava, poco curandosi della causa e della bandiera. Ecclissarono la loro riputazione le fanterie spagnuole disciplinate da Conzalvo di Cordova il quale conservando ai suoi la corta spada e lo scudo con mobilissime e sciolte odinaoze assaliva quei profondi battaglioni; e l’agile e destro spagnuolo facendosi strada fra le picche li suodava sbudellando il nemico. Fu il secondo trionfo della tattica romaua sulla greca quantunque gli ordini spagnuoli non avessero dei romani che le armi, mentre gli svizzeri avevano armi per ordine dalla greca falange.

Saggio fu questo di brevissima durata: lo spirito dell’epoca, il tenore che inspiravano i catafratti, l’imperizia dei capitani nelF ordinare le schiere, nellevolvere fecero adottare anche ai spagnuoli la lunga picca e l'ordine serrato, ma con molto accorgimento innanzi le picche schieravano una riga di uomini eoo spade e scudi, e mentre quelle sostengono il nemico questi gli assalivano. Così i splendidi e prodi cavalieri francesi, le mobili legioni spagnuole, le falangi dei svizzeri e dei lauzi, furono i guerrieri che dalla discesa di Carlo VIII per trentasette anni si contrastavano l’Italia, quasi lizza comune. La pace di CastelCambresi nel 1359 confermò il dominio spagnuolo, che per quasi un secolo e mezzo oppresse la misera e corrotta Italia; finché la guerra della successione, facendo a tutta Europa muovere le armi diede cominóamento alla tattica moderna. Adombreremo per non rompere la continuità del lavoro ciò che segui in Italia di notevole durante questi sessantasette anni di guerra.

XLV. La nazione italiana era spenta. Essa veniva rappresentata da ricchissimi e lussuriosi prìncipi; quindi pochissimi i fatti onorevoli e nazionali. La difesa di Padova del Petigliano durante la lega di Cambrai, e più tardi l'assedio di Firenze, furono fatti egregi e memorabili. Specialmente l’ultimo, che segnò il termine del MedioEvo, fu la convulsióne di grande nazione che si muore. Durante questo assedio si videro con felice risultamento combattere quelle milizie che al cominciare del secolo aveva ordinate il Machiavelli. II Coracine di Firenze aveva dieci mila fanti, divisi in bandiere, il cui numero di mìliti era proporzionato più alle località che agli ordini: per ogni cento militi si cornavano settanta lance con usbergo, e dieci schioppetti: erano il rimanente una specie di ribaldagli, armati a loro capriccio, con balestre, ranche, targoni, spade. Le loro ordinanze e le loro evoluzioni erano quelle medesime dei Lanzi. Oltre le fanterie eranvi cinquecento cavalleggieri, distribuiti cinquanta per bandiere i quali erano armati di balestra o di scoppetto, e tolleravasi la lancia a dieci per ogni cento. Per tale assedio viene da noi ingigantita la fama di Ferruccio, cittadino egregio, guerriero prodissimo, che prometteva essere sommo capitano, ma non ebbe il tempo di mostrarne l’abilità. La sua marcia da Pisa a Firenze, passando di sotto a Lucca e pei monti di Pistoja, mostrò perizia, ma non tanta che bastasse a procacciare fama di generale: uso de' popoli in decadenza, o che tornano a vita dopo lunga schiavitù, è l'eccedere tanto nel biasimo quanto nella lòde; la memoria deHe grandi virtù e de' grandi vizii è perduta in essi, e tutto sembra nuovo alla loro decrepita o infantile imaginazione.

Se questi due fatti onorarono l'Italia, fu la patria nostra disonorata dalle imprese del Duca Valentino, non perché un malvagio possa disonorare un paese, ma perché quel malvagio rappresentò dolorosamente il sentire dell'epoca, quel sentire che trovava ogni mezzo lecito a conseguire il fine, l'inganno, l'assassinio, il veleno amministrato in amichevoli mense, il tradimemto, erano tutti meati ottimi, se riescivano, come il duello e le giornate campali, irta per lo più prevalevano que’ mezzi turpi, giacché la nazióne era decrepita, la fibra soverchiamente raffinata da riboccante, lussuria. Con tali mézzi il Valentino attaccò i capitani di ventura congiurati a suo danno, si servi delle loro rivalità ed inimicizie, li tradi tutti e ne fece strozzare quattro che morirono vilmente.

Caduto il Valentino, sursero nelle Romagne alcuni venturieri, distrutti poi per sempre da Giulio II. Ma se le virtù guerriere non furono in quel tempo un prodottocollettivo della nazione, si svilupparono ciò non ostante in numerosi individui. Bartolomeo d’Alviano, stromento di vittoria del Caldara, al servizio poi dei Veneziani, benché avesse cagionato per troppo ardore la disfatta di Vailate, sottomise ia valle del Cadore e trionfò a Venezia: in quella disgraziata battaglia di Vailate le fanterie d’ambe le parti erano quasi tutte italiane. Con l'esercito veneziano erano i Romagnoli condotti da Naldo di Bresighella, che sostennero l’urto, senza scomporsi, di numerosissima cavalleria nemica, lasciando seimila morti sul campo. Famosi egualmente furono i fratelli Colonna, il Duca di Ferrara, al quale ì Francesi dovettero la vittoria di Ravenna pel modo col quale diresse le artiglierie, ed il Maresciallo Gian Iacopo Triulzio, che se vogliamo credere agli storici italiani, indicò a Francesco I la strada da tenersi per passare le Alpi ed eludere la vigilanza degli Svizzeri, valicando i gioghi dell'Argentiera, e scendere nella valle della Stura, o almeno, secondo gli storici Francesi, in unione della Palisse venne inviato a riconoscere la strada indicata da un Alpigiano, e dichiarò 'possibile il superare quegli scoscesi e dirupati gioghi e colmare profondi burroni. Come ordinatori di schiere furono famosi Naldo e Brasigliela romagnoli nell ordinare le fanterie, e Camillo Vitelli fu il primo a ordinare archibugieri a cavallo: trista idea, ma sparsa poi e durata lungamente.

Miglior risultato ebbero i Vitelli nell’organare le fanterie, formate da loro vassalli, rozzi e terribili di aspetto, con lunga picca, spada, cervelliera td usbergo, le quali sbaragliarono la fanteria dei Lanzi alla battaglia di Soriano, che gli Orsini nel 1497 combatterono contro i pontifieii. Ma superò tutti gli altri la fama e il valore di Giovanni de' Medici, terribile condottiero ed ordinatore di bande. Alla sua morte alzarono quelle milizie nera bandiera, e perciò furono dette le bande nere, e reputate come le migliori milizie di Europa. Dopo Giovanni de' Medici furono quelle bande comandate da Orazio Baglioni e dal conte Ugo di Popoli; all’assedio di. Napoli nel 1328 avendo perduti i loro capi si sciolsero, e varii loro drappelli pugnarono col solito valore in difesa di Firenze e riapparvero poscia i loro avanzi presso gli oltramontani, e furono raccolti e condotti a nuove e arrischiate imprese dal Maresciallo Strozzi. Giovanni de' Medici fu quegli che nei 1526 fece cavalcare gli archibugieri su ronzini, per cangiare, rapidamente luogo, d’onde poi originarono i dragoni. Epperò gli Svizzeri furono i primi che ritornarono iu fama le fanterie; dopo di essi i Lanzi; quindi gli Spagnuoli; seguirono gli Italiani, ultimi furono ì Francesi.

XLVI. Alla metà del secolo decimoquinto l’Italia avea deposto l’elmo degli Sforza, dei Piccinini, de' Carmagnola, e riposava accanto alle ruginose armi le decrepite membra. Ma se per soverchia età languiva il braccio, non perciò inoperosa rimase la mente; meditò sul passato, e rimandò ai posteri ia sciente e i principi! sgorgati dai fatti operati. Ai guerrieri successero gli scrittori, e 1 Italia cosi compi la sua seconda e splendida vita militare. Le nazioni moderne, Francia, Spagna, Alemagna, Inghilterra cominciarono allora a segnare le loro prime ed incerte orme nell'arte della guerra, e a gustare quella scienza nota in Italia, e con vicende varie svolta e padroneggiata dagli Italiani da una decina di secoli. Si tradussero gli antichi, si commentarono Senofonte, Polibio, Frontino, altri scrissero del modo come reggere gli eserciti, come organarli, come farli muovere: allo scorcio del sedicesimo secolo, quando appena cominciavano gli oltramontani a scrivere di cose militari, l'Italia aveva già, non compresi gli storici, meglio che cencinquanta scrittori d'arte e di scienza militare. Supera tutti il Machiavelli, che riassume nell’opera sua tutta la scienza militare di quel tempo: epperò non tralasceremo di farne qui un breve cenno col quale porremo fine a questo capitolo; e tanto più dibuon cuore ciò faremo, in quanto che indi innanzi non ci sarà più dato dt bearci nei ricordare glorie patrie,ma. sqlaroente avremo a narrare oppressioni e sozzure strazianti.

Stabilire i rapporti tra le istituzioni militari e civili; presceglierò armi, addaltarvi gli ordini, agli ordini le evoluzioni, dire del modo di avvalersi queste nel marciare e nelle battaglie, e con capo s’abbia a governare in guerra, sono i varii rami sui quali uuo scrittore militare deve più o meno distendersi. Il Machiavelli non ne tralasciò alcuno, anzi disse di lutti,con uguale forza, d’ingegno e dottrina, comeelié con diverso risultamento. A giudicar giustamente bisogna ridursi alla memoria le idee e pregiodizii che prevalevano nella società di allora riguardo alla materia che l’autore trattò. I danni, i rischi,a cui andavasi incontro guerreggiando coi mercenarii, erano notissimi; non eravi Stato che non fosse soggiaciuto alle stesse vicende di Cartagine dopo la prima guerra punica; ma non perciò erano tenute in pregio le milizie cittadine, ed era universale opinione, che il torvo aspetto, la tracotanza, i rozzi modi, la licenziosa vita dei mercenarii, fossero cose naturali ai guerrieri e tuttoché fossero temuti e abborriti gli uomini a soldo, pur nulla si sperava di poter fare in guerra senza di essi. Nel primo libro con chiarissimo ragionamento combatte il Machiavelli i pregiudizii del suo tempo, dimostra come colui il quale fa' della guerra un mestiere, non può assolutamente essere un uomo onesto, perocché necessitato «a pensare che non sia pace, o tanto prevalersi nei tempi della guerra, che possa nella pace nudrirsi».

Combattuta l’arte del soldo, dimostra il bisogno dell’armi nazionali e perciò aggiunse, che le istituzioni civili debIxiiio indurre il cittadino a correre non forzato alla guerra, ma volenteroso di conquistar la pace e di difendere il proprio. L’accordo richiesto dal Machiavelli fra le istituzioni militari e civili, che allarga gli augusti limiti dell’amore di corpo nel vasto campo del sentimento nazionale, lo pone certamente al disopra degli scrittori non solo dei suo tempo, ma eziandio dei moderni, Nell’indicare i mezzi come praticare un tal principio, è poco soddisfacente: si crede indispensabile, per ottenere l’intento, che nello stato bisogna «Onorare e premiare la virtù, non dispregiare la «povertà, stimare i modi e gli ordini della disciplina militare, costringere i cittadini ad armarsi l'un l’altro, vivere senza selle e stimare meno il privato che il pubblico» e altre singole cose.

Così scambia il fine co’ mezzi, poiché a produrre quella virtù è necessarie perpètua eguaglianza, ovvero bisogna solvere quel problèma sociale che da secoli va elaborandosi e che non ammette temperamenti mezzani. Passa H Machiavelli allà scelta delle artói e degli ordini. La picca resa famosa dai folti battaglioni dèi Svizzeri e dei Lanzi raccòglieva insieme agli ordini ad essa adattatiisuffragi dell'epòea. Uh successo brillante, ma breve, fu Quello della spada e'dello scudo dei spagnuoli; troppo ignoranti per adottare il mobile ondine romano a neh’essi andavano serrandosi in falange, ed armandosi di picche, la spada e lo scudo s’obbliavano. Gli archibugi èrano dì pochissima efficacia, l'artigliera quasi di niuno effetto e gravissima ma quantunque fosse piùd’imbaràzzo che d’aiuto, già ama richiamati gli animi a sè, già dubitavasi dei vantaggi dell’ordine profondo e delle armi difensive) in tale incertezza èrano le opinioni riguardo alle armi, agli ordini, alla tattica in generale, quando il Machiavelli tentò rimenare l’arte a' suoi principii.

Non previde, né il poteva, il perfezionamento delle armi da fuoco ed i cangiamenti che sarebbero avvenuti nella tattica, giudicando le cose dallo stato in cui erano, la battaglia non poteva decidersi che dalle armi manesche, epperò nelFordinaraento da esso proposto giovossi, nel miglior modo allora possibile, dello scoppietto e dell’artiglieria, armò ì suoi veliti di quello, destinò queste ad esser collocate innanzi la fronte, e dopo una scarica, per la rarità degli ordini ritrossi,onde non impedire con nessun vantaggio il muovere delFesercito; stabilì come principio di contrapporre un impetuoso attacco alle artiglierie nemiche, mezzo utilissimo per interdirne l’uso; incertissimi i loro tiri, e lentissimi i movimenti non potevano né rintuzzare, né sottrarsi all’improvviso assalto de' veliti, bisognava difenderle, lanciare altre schiere sopra gli assalitori, quindi oltrepassati e celati da' difensori dovevano necessariamente tacersi. Intanto la romana legione e le coorti riparti, la sua fanteria in battaglioni di seimila uomini ciascuno, che divise in dieci battaglie, ógni una 450 uomini; ogni battaglia componevasi di cento picche, 5t veliti con scoppietto, e 300 con spada e scudo, sopra il numero dèlie battaglie, in ogni battaglióne vi erano 1000 picche e 500 veliti detti straordiiiarii; facevano testa ad ogni battaglia cinque righe di picche, seguivano quindici rigtvQ di scudati, i fianchi e le spalle erano fasciati da' veliti.

Schierava in prima fronte e con breve intervalli, cinque delle dieci battaglie; in seconda fronte tre, collocandone due alle estremità della fronte, ed, una ne teneva il mezzo: le due rimanenti formavano la terza schiera, collocandosi dietro le battaglie estreme delle precedenti, accanto ad. un. battaglione una simile ordinanza, schioravane un secondo, un terzo, un quarto se faceva bisogno; i fianchi dell’intero esercito così disposta fasciava con Je picche straordinarie; alle ali collocava i cavalieri. Come presso i romani i veliti ed i cavalli leggieri appiccavano la battaglia: muoveva su tre schiere l’esercito difeso i. fianchi dalle picche straordinarie, irta la fronte dalle picche delle battaglie, urtava e sosteneva Furto del nemico con le picche, poi queste si ritraeano, e gli scudati sottentravano alla pugna giovandosi de' vantaggi dell’armi corte. Respinta la prima schiera riunivasi alla seconda e poi entrambe unite alla terza facevano l’ultimo sforzo. Quindi il vantaggio della picca nel sostenere l’urto, quello della, spada nel continuare la battaglia, la continuità della falange, il; successivo sforzo delle tre linee romane, tutto sembrava conseguirsi con gli ordini proposti dal Machiavelli, né poteva umano ingegner meglio combinarli insieme, ma l’errore fu nel mescolarli.

Il Machiavelli non potette spogliarsi interamente da' pregiudizi! dell’epoca, che facevano credere indispensabile la picca, quindi modificò gli ordini de' Romani e non fece che tórre ad essi molti vantaggi senza acquistarne veruno. Pronto a fare qualunque lato testa, muoveva sempre nell’ordine stesso il manipolo romano, mentre dovendo opporre le picche al nemico risultavano assai complicate l’cvoluzioni della battaglia proposta dal Machiavelli. La distanza fra le file e le righe dei romani facilitava il maneggio della spada; la sonata ordinanza del Machiavelli favoriva la picca ma nuoceva agli scudati.

Il battaglione proposto dal Machiavelli con poco numero di uomini occupava meno che la metà della fronte della legione. L’ordine a scacchiera di questa rendeva facilissimo l’incastro degli ordini e faceva abilità alla prima fronte di traversare gli ordini e ricomporsi, se rotta, dietro la seconda, o meglio questa poteva passarle innanzi, il che era impossibile al battaglione attesi gl’intervalli tròppo piccioli lasciati fra le battaglie della prima fronte. Il volere sempre opporre le picche al nemico, e le picche straordinarie in ogni battaglione quasi fuori d’ordinanza rendevano ad essi im' possibile quella semplicità negli ordini di marcia e quella facilità di evolvere del Romani; questa e quella sono in ragione delluniformità degli ordini. Finalmente, dopo l'urto, un terzo della sua gènte, le picche, rimanevano inutili, {mentre non eravi un milite romano che non fosse destinato a prendere parte in tutti i momenti della battaglia; né sarebbe stata essa facile con fa sua serrata ordinanza, nel calore dei combattimento dar campo ai scudati d’entrare in azione facendo passare le picche alla coda di ogni battaglia. Quindi meno mobilità, meno astensione di fronte.

Nel quarto libro discorre il Machiavelli con impareggiabile chiarezza le arti e le avvertenze, che un capitano nel condurre l’esercito deve usare. Esplorare it nemico, indovinarne ii disegno, modificare m conseguenza i propri ordini e reggere nel modb conveniente ii sentimento dei suoi soldati; sono i suoi precetti principali. Si fa quindi a dire degli ordini di marcia, e dei varii modi di trasformare questi ih ordine di battaglia. Indi insegna come s’ha a Vettovagliare l'esercito, alloggiarlo, distribuire il bottino, come eseguire

Cosi l’Italia ritirandosi dalla palestra politica, dava un libro che propugnava la necessità degli eserciti nazionali, riduceva a principii immutabili gli ordini, le evoluzioni ed il modo di governarsi nelle Svariato circostanze, ed arricchiva il tutto con chiari e splendidi esempi tolti dall’antichità:

Ma i tardi stranieri per circa due altri secoli guerreggiarono coi mercenari!, lasciarono ai capitani o ai colonnelli la cura di reclutare i reggimenti, cagione di vergognoso mercato, e gli ordini e le inutili e complicate evoluzioni di un esercito dipendevano dal capriccio di un maestro di campo generale o di altro comandante.


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CAPITOLO XI

XLVII. Progresso dell'arte bellica da Carlo VIII a Gustavo Adolfo. — XLVIII. Da Gustavo a Federico. — XLIX. Guerra di sette anni. — L. La rivoluzione francese. — LI. Ragionamento sull’ordine concavo e la battaglia di Canne. — LII. Gli eserciti di Piemonte e di Napoli.

XLVII. Finita la sfolgorante carriera militare dell'Italia, ci faremo a discorrere di volo del progresso dell’arte bellica presso gli stranieri. Il dolore di scorgere la patria nostra, già maestra, ora del tutto estranea a questo progresso, è lenito solamente dai vedere che i famosi guerrieri italiani, già nominati, che vissero nel secolo decimoquinto, sorressero gli oltramontani nei loro incerti e vacillanti posti.

Dalla discesa di Carlo VIII la guerra divenne più vasta, ed il bisogno dell'ordine e della disciplina fu maggiormente sentito. Ogni principe avendo quasi trionfato del feudalismo, potè fiaccare l’arroganza e l’indisciplinatezza dei mercenarii, ed imbrigliare l’ordine cavalleresco, che spesso inopportunamente appiccava la battaglia. Già Carlo VII in Francia aveva creato i franchi-arcieri e le compagnie d’ordinanze. Assoldò pel primo Luigi XI gli Svizzeri, e Carlo VIII i Lanzi. Francesco I dopo la sua prigionia datosi ad accrescere le forze del suo Stato, lo divise in provincie militari, ognuna delle quali in caso di guerra forniva una legione di 6 mila uomini, e la stima e gli onori conceduti ai comandanti e agli uffiziali di tali corpi tornavano in pregio la fanteria, che i guerrieri nobili tuttora consideravano come cosa spregevole: Massimiliano imperatore tentò anch’esso di meglio ordinare le forze dell Alemagna, ma la costituzione politica di essa presentò ostacoli insormontabili. Varii contingenti de' principi o de' comuni formavano in caso di guerra l’esercito imperiale; di questi molti mancavano al convegno, altri tardavano tanto che spesso accadeva che gli ultimi giungevano quando i primi; compiuto il tempo prefisso, se Denudavano via; cosi discordi e tardi a raccogliersi furono sempre deboli quelle milizie. Carlo V, padrone di vaste monarchie, potè riunire sotto le insegne imperiali eserciti numerosissimi, e cosi osteggiare non solo, ma spesso minacciare di rovina la. potente unità francese.

Cosi gli stranieri; né i principi isolani furono tardi a riordinare le loro forze. Alessandro de' Medici, e poi Cosimo de' Medici, e Francesco Masia della Rovere, e Ottavio Farnese e Rannodo introdussero in Toscana, in Umbria, in Parma le milizie nazionali. Venezia già da qualche tempo aveva in terraferma organate le cerne, Genova i Colonnellati, i Gonzaga, signori di Mantova e di Monferrato, non patirono mai difetto di milizie; ogni casa negli Stati del duca di Savoia in tempo di guerra dava un uomo che militava a proprie spese; Paolo IV papa, creò negli Stati romani le milizie; ascendeva il numero de' descritti a ottanta mila da piè e trentotto mila da cavallo. Ma tutte coteste forze, assai minori in realtà, non fecero che accrescere le vergogne dell’Italia, poiché non combattevano per la sua libertà. I Lombardi ed i Napoletani furono sempre (conti disarmati dagli Spagnuoli, i quali intanto traevano da questi popoli numerose reclute pe loro reggimenti. Durante il governo del vicerè Montere, il regno di Napoli somministrò all'impero 48 mila fanti, 5500 cavalli, 205 pezzi di cannone, 70 mila archibugi, o picche, moschetti non si sa quanti, oltre una somma di tre milioni e mezzo di scudi.

Solitamente 40 mila fanti, 6 mila cavalleggieri, 4 mila stradiotti, 4 mila archibugieri a cavallo, due mila cavalli-armati, componevano un esercito, detto reale, comandato da un capitano generale. Ma quantunque queste riforme e queste istituzioni avessero cangiato affatto di

aspetto i tumultuanti eserciti feudali, pure erano assai lungi dal meritare il nome di milizie nazionali. Ogni sorta

d

i avventuriere era ammesso natie file, non eravi esercito imperiale o del re di Francia, o degli Stati Italiani, che non contasse numerose schiere di. Svizzeri, di Lanzi, d’Italiani. La forza, il. salario, il bottino erano sole cagioni che mantenevano i soldati. alle bandiere. Intolleranti più che gli altri erano gli Svizzeri: paga, congedo, o battaglia, gridavano se per poco prolungavasi il campeggiare. Arbitraria era la disciplina e l'evoluzione; flagello delle popolazioni amiche o nemiche erano tali, schiere, in una parola riprodussero su vaste proporzioni, gl’inconvenienti delle compagnie eli ventura. Come lo Sforza ed il Piccinino si disputarono con le loro schiere la supremazia in Italia, egualmente ma con meno virtù guerriere, Carlo l e Francesco I si disputarono la supremazia in Europa. Gl'interassi nazionali quasi mai furono d’accordo co’ capricci e ambizioni de' principi. Ecco adombrate le instituzioni. militari dell’Europa dalla discesa di Carlo VIII in Italia fino alla pace di Castel Cambresi: ora facciamoci a dire dello stato in cui erano coteste milizie rispetto all’arte.

Il moschetto adoperavasi poggiandolo su di una forcina; il soldato vi appiccava il fuoco con la miccia; questa era soggetta a spegnersi per la pioggia. Piccole scatole di legno o di latta, sospese ad una tracolla, contenevano le cariche; la polvere più fina, che portavano rinchiusa in un fiaschino, serviva ad innescare: portavano le palle in un sacchetto. Nel momento del combattere il soldato si riempiva la bocca di palle, e si avvolgeva qualche braccio di miccia da usa spalla all’altra. Più tardi, fu aggiunta una molle, detta serpe, a cui adattavasi la miccia, ed appiccavasi il fuoco con più facilità. Poi fu inventata la ruota; era eziandio una molle che imprimeva violento moto ad una girella di acciaio, e questa traendo da una pietra alcune scintille accendeva la polvere nello scodellino. Questo magistero, comeché prossimo alla piastrina moderna, ma complicato ed. incerto, non fu posto in uso. Gli Spagnuoli portarono qualche altra,modificazione all’archibugio che chiamarono moschetto, e tutti l'adottarono.

Con tale arma tarda, incerta, grave, penosa per chi!’adoperava e di poco danno al nemico, non potè la. fanteria, per la poca efficacia del fuoco smettere l'ordine profondo e la picca, e per ciò le ordinanze rendevano ancora più scarso il fuoco già lento per l’imperfezione dell'arma. I moschettieri si collocavano sii sei righe; questo numerò venne calcolato dal tempo necessario a caricare l’arma; ogni riga traeva, e sfilando per le ali sgomberava la seguente; oppure dopo avere scaricato le armi la prima riga gettavasi boccone, inginocchiavasi la seconda, bassava la testa la terza, e successivamente cosi si abilitavano alle offese, modi tutti; complicati e lenti. Quando non si temeva un’immediata carica dr cavalleria, si collocavano al centra le picche, alte alli moschetti ma ove la cavalleria minacciava da presso, due righe di picchieri: posti innanzi inginocchiati, difendevano quattro righe di moschetti; ovvero, con miglior consiglio, collocavano una riga di picche innanzi a moschetti, ed innanzi alle picche una riga di randacce, e più italianamente rotelle, gente che portavano spada e scudo, ed assalivano il nemico, e le picche ne sostenevano l'urto. I picchieri furono successivamente i due terzi, la metà, un quarto del numero de' fanti. I moschettieri resero migliori servizii nelle sorprese, e scaramucciando alla spicciolata, piuttosto che in linea.

I corazzieri non avevano cannato fe armi. Carlo l ne cangiò gli ordini: in luogo di disporli in dm o tre parti, l’una dall’altra distante quaranta passi, feceli combattere in profondi squadroni, che avevano venti cavalieri di fronte. I satelliti delle lame, che formarono i cavalli leggieri, ad imitazione di ciò che aveano praticato i Vitelli in Italia, vennero armati di moschetto, ed adottarono, errore gravissimo, la tattica stessa della fanteria: ogni riga avanzava, scaricava l’arma, e sgomberava alla seguente il terreno; le righe erano sei: conservarono le armi difensive, e però fu poco soddisfacente la loro leggerezza, lo un combattimento alle sponde della Marna fra l'esercito di Cario l e quello di Francesco I, nel 1544, la prima volta, e con vantaggi, la cavalleria imperiale usò hr pistola, arma corta inventata a Pistoja onde trasse il nome. Nel 1588 il bisogno di una soldatesca veloce fece montare su cavalli, tolti agli abitanti e su quelli delle bagaglio, alcuni moschettieri sgravati dalle armi difensive, i quali tolsero il nome di dragoni. È dubbio se primo ad usarli fosse il duca di Brissac o il duca di Parma, ma l’uno o l’altro non fecero che imitare quello che ventinove anni prima aveva già praticato Giovanni de Medici: certo è che una compagnia di cotesti dragoni italiani era state condotta dai maresciallo Strozzi nell’esercito francese.

Tali erano in quello spazio di tempo la fanteria e la cavalleria, le cui evoluzioni non poterono essere né pronte, né semplici. Si dividevano. ordinariamente gli eserciti in avanguardia, corpo di battaglia, e dietroguardia; in battaglia si ordinavano in due ali e in un centro. I moschettieri, sparsi innanzi là fronte, appiccavano la battaglia; il nemico spingeva loro addosso la Cavalleria, la cui più grande velocità nelle cariche era il trotto; i moschettieri si ritiravano collocandosi alle ali del proprio esercito, o dietro i picchieri, e spesso salendo sopra carri o altro scaricavano le armi per sopra le teste di quelli. Allora l’assalitore si avanzava in una sola e continua fronte, e I assalito si apprestava a sostenerne l’urto: talvolta l’uno e l’altro simultaneamente s’andavano contro, si urtavano, si mischiavano i fanti, e il valore individuale decideva della vittoria. L’abilità del capitano consisteva nel bene prima distribuire le sue genti e difendersi col fuoco, poi con qualche schiera, assai raramente disponibile, attaccare di fianco o a spalle il nemico. Durante 'la pugna de' fanti la cavalleria, e più che tutto. le corazze, caricando ripetutamente, i vincitori accorrevano in soccorso della fanteria. L’artiglieria non era cosi grave, né tratta da buoi, come in Italia era stata prima della discesa di Cario VIII: ma non era ancora abbastanza mobile, non ancora ben coordinata, con le evoluzioni dell'esercito. Collocala a difesa innanzi la fronte o alle ali, travagliava il nemico, e impediva il suo avanzarsi: ma era impossibile adoperarla nell’attacco.

Per più d'un secolo, fino al tempo di Gustavo Adolfo, la tattica non progredì, i fanti rimasero quali erano, peggiorò la cavalleria, l’artiglieria rese negli assedii grandi servizi, pochi nelle battaglie; decise quella di Ravenna, fece strage del nemico a. Marignano, alla battaglia di Pavia al cominciar della pugna difese efficacemente il campo francese, a quella di Ceresole il campo imperiale, ma ben presto fa obbligata a tacere, prima a cagione, di alcune schiere collocate innanzi ad essa da Francesco I, e nella seconda dal centro dell'esercito condotto innanzi dal marchese Del Vasto, tra le sue artiglierie ed il nemico, e cosi, per difetto di, mobilità, resa inutile. Se a queste battaglie paragoniamo le giornate di Crécy, Poitiers, d’Arzincourt, Courtrai, combattute dalle milizie feudali, non scorgeremo che leggiere differenze. Prevaleva in quelle la cavalleria, in queste i fanti erano il nerbo dell'csercito: le armi da getto di maggiore effetto, e però più variabile e meglio adatta al terreno e di maggiore rilievo la primitiva dispositura delle schiere. Ma come prima erano mosse le insegne e sparito il campo, l'ingegno del generale e la possibilità di evoluzioni valevano tanto quanto al tempo delle milizie feudali. Non si vide mai una seconda fronte in sostegno della prima, o qualche schiera riserbata alla riscossa.

La strategia, la guerra di marce e di posizioni, e le diversioni erano ignote agli oltramontani; per la linea più breve movevano contro al nemico. In Italia, dorante la lotta di Francesco I e di Carlo V, dall'Alviano, dal Trivulzio, dal duca di Ferrara, dal marchese di Pescara, da Prospero Colonna, mastri di guerra, vennero ammaestrati gli stranieri in questa nuova scienza. Per consiglio del Trivulzio, dicemmo, Francesco I passò le Alpi girando i passi guardati dal nemico. Le abili marcie dell'Alviano, generale de' Veneziani, gl’insegnarono come operare la congiunzione di due eserciti innanzi all'avversario. Il viceré Lànnoy voleva seguire il 'nemico, che minacciava il regno di Napoli, e il marchese di Pescara lo sconsigliò. «Concentrate le vostre forze in Lombardia, disse il guerriero italiano, battete il re, e la campagna sarà vinta, i suoi distaccamenti saranno vostra preda.» Cosi avvenne, e Francesco I fu battuto e preso presso Pavia, ed una battaglia fruttò all'impero il trattato di Madrid.

Queste campagne diedero l’impulso al secolo; principi e generali si studiarono ad imitare in guerra gl'Italiani; il secolo smise le vecchie abitudini cavalleresche, e divenne guerriero. II duca d’Alba è it «primo generale straniero che in Fiandra osteggia il principe d’Orange condotta guerra di marce e di posizioni; senza combattere lo costringe a ritirarsi, e vince la campagna. Il duca di Parma, italiano, gli succede nel comando, e guerreggia con miglior dottrina. Finalmente un italiano, Ambrogio Spinola, allarga il campo a' concetti strategici. Maestro di campo, generale dell’esercito cattolico sconcerta con le sue ardite diversioni oltre il Reno i disegni del suo abile e famoso avversario ch’era Maurizio di Nassau. I campi di Maurizio di Nassau e di Ambrogio Spinola furono due vaste scuole di guerra in Europa. Con lo Spinola militavano altri Italiani, famosi in armi; Teodoro Trivulzio comandava la cavalleria, il principe d’Avellino le genti di Napoli, il conte Guido San Giorgio i Lombardi; né minori di fama furono Francesco Colonna principe di Palestina, Andrea Matteo Acquaviva principe di Caserta, ed in questa guerra faceva le sue prime armi il famoso Montecuccoli. Nel medesimo torno di tempo, alla battaglie d'Arques, e d’Jvri, Enrico IV riserbò alcune schiere alla riscossa, e la tattica fece un passo. Dopo pochi anni, nel 1612, scese in campo Gustavo Adolfo.

LXVIII. Questo re guerriero facilitò la carica de moschetti, usando le, cartucce, e abolì la forcina, alleggerì il moschetto, raccorciò la picca e la rese più maneggevole, sgravò il soldato delle armi difensive, conservando solamente l’elmo. Fece profondo studio sugli ordini dei Romani, li tolse a modello, e mise in via il progresso della i tattica, ridusse i grossi battaglioni ad un terzo,da tremila a mille, dividendoli in compagnie, quasi simile al manipolo romano; schierò.. l’esercito su due fronti, al centro i fanti, alle ali i cavalieri,la riscossa in sito acconcio. Fra gli squadroni di cavalleria, anche resi minorati di numero, collocò manipoli di moschettieri, utilissimi in quel tempo, che la cavalleria mancava di velocità. Inteso sempre ad aumentare la mobilità del suo esercito, distribuì alcuni pezzi più leggieri alle brigate, d’onde i pezzi reggimentali alla battaglia di Lipsia (1630), e venne al paragone con le truppe imperiali disposte in grosse falangi ed avvolte in armi difensive; i piccchieri oltre l’elmo e la corazza portavano un pesante grembiale di ferro.

Questi fidavano nel peso delle loro masse, quelli nelle evoluzioni, il risultamento coronò il genio dell’eroe svedese.

La tattica cosi migliorata, cosi avviata da Gustavo, aspettava per. continuare il suo progresso che si perfezionassero le armi in uso.

Nel 1537 le considerazioni sulla traiettoria del Tartaglia, d’onde surse l’idea dell’alzo, tre anni più tardi l’esperienza di Vannuccio Bringoccio sulla fusione de' metalli, e la scala di calibro di Sterttnann menarono al perfezionamento delle artiglierie. Sully, granmastro d’artiglieria di Enrico IV, giovossi dei nuovi ritrovati, ed apportò importanti miglioramenti; la Francia ebbe 50 cannoni, apparecchiati a seguire l’esercito, cosa sin allora affatto nuova. Nel 1630 inventossi in Italia il fucile a pietra, modificazione che perfezionava il moschetto, ma con riluttanza e ritardo adottata dagli, stranieri. Cosi la guerra di marce e di posizione del duca d’Alba, d’Ambrogio Spinola, del duca di Parma, di Maurizio di Nassaur gli ordini di Gustavo, e gli studii e le modificazioni sulle armi in uso formarono gli elementi che offrirono il campo al progresso in diversi periodi al genio militare del secolo. Condè, Turenna, Montecuccoli, il maresciallo di Sassonia, diedero maggiore incremento e perfezionamento ai progressi già fatti.

Alla battaglia di Rocroy, 1643, Condé fu vittorioso con un’ala, mentre l’avversario sbaragliava l'altra. Egli senz'arrestarsi abbandona i fuggenti, e per dietro la fronte nemica corre ad assalire il corno vincitore, lo rompe e guadagna la giornata. Una vittoria presso a poco simile ottenne a Nordlingen, 1649. Come il centro dell'esercito di Condé assaliva senza vantaggio il villaggio di Allerheim, e la dritta veniva battuta da Giovanni di Vert, Condé con la sua sinistra carica e volge a fuga il destro corno nemico, gira a destra, attacca il centro alle spalle, che intempestivamente capitola e gli concede la vittoria. Giovanni di Vert vuole accorrere con l'ala vittoriosa, ma non facendo come Condé a Rocroy, che raggiunse il nemieo per la linea più breve, invece con una volta assai più lunga ritorna sulle proprie orme, giunge al suo posto di battaglia, l'oltrepassa, conversa a destra, e corre a fronteggiare Condé; ma il centro aveva capitolato, e la battaglia era decisa.

La marcia di Turenna nel 1646, da Magonza a Wesel, lungo la sponda sinistra del Reno, per congiungersi sulla Lann con l'esercito svedese comandato da Wrangel, che il nemico già fronteggiava e contrastava a Turenna la strada diretta, ci rammenta la marcia di Francesco Sforza, che dalle Romagne passò nel Veneto e si congiunse con l'esercito della Repubblica. Più lunga la marcia, del Turenna, più ardita ed arrischiata quella dello Sforza, di pari saggezza il disegno. Al termine di questa campagna Turenna vedendo impossibile cacciare l'arciduca dal suo forte campo di Memingen, marciò su Landsperg, s’impadronì del ponte sul Lech, e sloggiò con abile evoluzione il nemico dalla sua vantaggiosa posizione. Francesco Sforza due secoli prima, come narrammo, in quella campagna ove esordi con la marcia ora rammentata, vedendo fortemente accampato il nemico presso Soave, ne girò la sinistra, e con tale operazione spostò la marcia strategica dello Sforza, più lunga, più arrischiata, più faticosa di quella del Turenna; il risultamento lo stesso. E le geste di Sforza e del Picciriino, famosi tornei strategici, dopo due secoli sono imitati, ma con meno ardire, nell’ultima campagna, ove Turenna venne osteggiato dal Montecuccoli.

Si successero con breve intervallo, Eugenio, il. maresciallo di Sassonia, Villars, Vandòme, Catinat, tutti famosi guerrieri, che produceva un secolo eminentemente guerriero, illustrato dalle loro geste. Gli scrittori che registrarono le lezioni ed i principii risultati dall’esperienza, seguirono immediatamente ai fatti.

Primo fu il Montecuccoli che gettò le basi ed i principii della guerra grossa. Niuno scrittore antico o moderno ne aveva fatto menzione. Cosi Machiavelli e Montecuccoli, due italiani, lasciarono i primi alla posterità un trattato completo della scienza della guerra. Cercò Montecuccoli, ma inutilmente, di migliorare la cavalleria, raccomandava ad essa l’uso deila spada in preferenza delle armi, da fuoco; affermò che la lancia, conservata solo dai Polacchi e dai Russi, fosse arma utilissima a' cavalieri, e mentre, in Francia più non si vedevano corazzieri, ed amala pena eranvene in Alemagna, il Montecuccoli ne rilevava l’importanza dichiarandoli un sostegno indispensabile a' lancieri. Così il grand'uomo accennava i progressi de' quali era capace la cavalleria, progressi che poi Federico II attivò.

Folard commentò gli antichi autori, e sulla guerra moderna diede lodevoli consigli, e propose alcune riforme. Lenta la marcia in battaglia, difficoltosi gli schieramenti, ed in marcia era cosa impossibile fare de' fianchi e delle spalle testa. Ben egli procurò di rimediare a tali inconvenienti con un sistema di colonne, erroneo inapplicabile, ma fu gran merito il presentire con quelle sue colonne il progresso verso cui accennava l’arte.

Teuquière fece studio sulle cagioni de' vantaggi e de' rovesci dei varii fatti di guerra, e con molto ingegno mise in lume gli errori commessi da' generali. Opera utilissima, onorevole per l’autore, che scriveva in tempi in cui la sola adulazione riceveva grata accoglienza.

Né meno pregevoli sono i particolari di coi si occupa Puységur, allora trascuratissimi per rilassata disciplina. E in tempi ne’ quali appena si praticava con volte lunghissime urta qualche evoluzione,; egli dimostrò la stretta analogia che passa fra i movimenti di un esercito e quelli della più piccola parte di esso; e quando appena, conoscevasi un. solo ordine di battaglia, egli prescriveva doversi adattare al terreno ed alle posizioni occupate dal nemico la disposizione delle proprie schiere.

Segue il maresciallo di Sassonia, guerriero e filosofò. Alcuni tu fanno inventore del passo misurato, della marcia in cadenza; altri, al suo detto, il segreto della guerra è nelle gambe, danno significato vastissimo accennava il maresciallo, dicono essi, a quella, scienza, a quella parte sublime della guerra, che insegna a vincere con la rapidità e direzione delle marce. Ma da ciò che egli ha scritto non si ottiene tale convincimento. Vuole il maresciallo serbare l’allineamento ed il contatto in una linea, in una massa l'insieme, discorre del grave inconveniente che produce l’apertura, fra le file, e l’affannarsi della Coda d’una colonna se non muove alla medesima battuta che la testa, né senza ragione da questi particolari fa dipendere il maresciallo la vittoria: ma non discorre di marce strategiche e diversive.

Nemmanco possiamo crederlo inventore del passo in cadenza, non essendo possibile che fosse in quel tempo sconosciuto il modo di regolare la marcia al suono de' bellici istrumenti; i forti battaglioni degli Svizzeri e de' Lanzi non avrebbero potuto assalire e ritirarsi senza. conoscer l’arte d’incagliare il passo. Infatti il Sismondi descrivendo l’esercito di Carlo VIII, dice: «L’avanguardia era composta di Svizzeri e di Tedeschi, che. camminavano al suon di tamburo». Quindi il maresciallo altro non fece che dimostrare come i gravi inconvenienti, di cui riboccavano le evoluzioni delle schiere di allora, sarebbero spariti insegnando a' soldati il muovere in cadenza, istruzione forse allora trascuratissima come tutte le altre, ed a cui gli antichi dovettero molti vantaggi. Non però scemano per nulla queste riflessioni il merito di quel famoso guerriero. Assai più importanti e nuove sono le sue idee sugli ordini della fanteria. Vede, egli inevitabile in una lunga linea che muove all’attacco l’oscillare, il rompersi, l'accavallarsi delle file, epperciò raddoppia la profondità del suo battaglione da quattro ad otto, lo spiega non già in linea continua ma ad intcrvalli, è dimostra poi incontestabilmente la superiorità dei suoi ordini. Sono i manipoli romani, esclama il maresciallo; è lo spiegamento per battaglioni in massa adottato dai moderni, aggiungiamo noi.

Né qui si arresta il suo genio, ma passa a ragionare delle grandi evoluzioni, svolge chiaramente quello che appena aveva accennato il Montecuccoli; come debbano in una battaglia le varie armi sostenersi mutuamente, riprova i plotoni di fanti misti ai cavalieri prescrive invece solidi quadrati ad intervalli, che lasciando campo libero alte cariche della cavalleria, proteggono i fuggenti ed arrestano chi insegue. Ma non è neppur questo il suo pregio maggiore; egli presenti ciò che gli altri non supposero; egli introdusse un elemento nuovo importantissimo «ei disegni di un generale, poiché scrisse cosi:

«La guerra è una scienza avvolta nelle tenebre, nella cui oscurità non si può camminare d’un passo assicurato, gli usi ed i pregiudizi, seguito naturale dell’ignoranza, sono la base di quest'arte». E altrove: «Gustavo Adolfo ha creato un metodo che i suoi discepoli hanno seguito ed hanno fatto grandi cose.»

«...Noi, dice poco dopo, ci siamo più allontanati dal metodo di Gustavo, che egli non si fosse scostato da quello de' Romani.» Da questi brani traspare nitidamente il pensiero dell’autore che la scienza della guerra ha principii immutabili, racchiusi negli ordini Romani, che ad essi bisogna rimontare per ottenere grandi risultamenti, e non già arrovellarsi, come fecero L suoi predecessori, a modificare ciò che si erge su false basi. Verità già espressa chiaramente negli scritti di Puvségur, ma mediti ancora quando il maresciallo pubblicava i suoi. E mentre ogni scrittore e ogni generale solamente dagli ordini e dalla disciplina sperava la vittoria, e sperava rendere costante il valore nelle proprie schiere, il maresciallo scriveva: «Non riflettono che il valore delle soldatesche è giornaliero, nessuna cosa essendo cosi variale bile, e che la vera abilità di un generale consiste nel sapersene garantire...» Ed altrove: «Egli è più facile servirsi delle genti come sono che renderle quali dovrebbero essere; non si dispone delle opinioni, de' pregiudizii, della volontà...»

E parlando delle qualità di un Generale d’esercito dice: «L'applicazione rettifica le idee, ma non dà giammai l’anima; cioè l’opera della natura. Ho veduto ottimi colonnelli diventare pessimi generali». É il cuore umano l’elemento nuovo, introdotto ne' suoi calcoli, gli ordini, le dispositure, non debbono solo adattarsi al terreno, alla specie delle soldatesche, agli schieramenti del nemico, ma bisogna eziandio tener conto dell'effetto di una dispositura sul morale de' guerrieri, del sentimento che li. anima te tutte le speciali circostanze. Il Generale dev’essere filosofo quasi sempre; le disposizioni morali del suo esercito risultano da sorgenti che trovansi a grande distanza, che si riscontrano nelle Istituzioni civili del paese, e questo uomo, il quale con uno sguardo quasi istintivamente non trascura ne suoi disegni alcuno di si varii elementi, non potrà essere certamente informato dalla sola esperienza e dallo studio di tale arte, poiché l'arte e lo studio non possono altro che rettificare e svolgere il suo speciale ingegno, ch'è dono della natura. Cosi il generale d’esercito vien fuori, secondo le vedute del Maresciallo, dalle meschine proporzioni di un uomo valoroso, astuto, e fecondo in stratagemmi di guerra, ma esso oltre queste qualità dev'essere un uomo a cui la natura disse il segreto dell'arte, dev'essere dotto come lo furono Scipione, Annibale, Cesare, Federico II, Napoleone.

Nondimeno dopo sì lunghe guerre, dopo tanti valenti scrittori militari, l’arte al cominciare del secolo decimottavo non avea progredito gran fatto. Nel 1672 vennero create le compagnie di granatieri, armate di un fucile e di un lungo pugnale con manico di legno che serviva a conficcarlo nella bocca di quello: con siffatta nuov’arma astata muovevano e assalivano. Questo pugnale, fabbricato la prima volta a Bajona, fu chiamato baionetta: poi al manico di legno venne sostituito un tubo di ferro, che incastravasi con la canna del fucile. Cosi tutte le fanterie al principio del decimottavo secolo furono armate di fucile con baionetta, che successe alla picca. Ma i fanti erano ancora lentissimi ne’ loro movimenti, un battaglione schierato cambiava fronte e muoveva in diverse direzioni senza piegarsi in colonna, movimento allora ignoto. La profondità di sei righe per la nuova arma divenne inutile, e si ridusse a quattro, onde crebbero la lunghezza della fronte e l’efficacia del fuoco. In quell'epoca Carlo XII per i suoi arditi assalti colla baionetta mostrava come i fanti, uscendo dalla loro immobilità, diventassero egualmente terribili nell'assalto.

Accennavasi cosi l'avvenire della fanteria, tarda, incerta nelle sue evoluzioni, ma prossima a svolgere la sua formidabile forza, e diventare l'arbitra delle battaglie, che sino allora quasi tutte furono decise dalla cavalleria. Questa aveva poco progredito; formata su tre o quattro righe caricava al passo o al trotto, esordiva con una scarica di moschetti, si divideva in piccoli squadroni a grandi intervalli, acciocchè ognuno con doppia girata, volgendo la fronte in dietro, prendesse spazio al caricare di nuovo: raramente, fuvvi qualche generale che investisse il nemico con la spada in pugno. Le cariche in linea e al galoppo erano impossibili, essendo rozzi i cavalli, inesperti i cavalieri, non potevano conservare gli ordini e l'allineamento, si sbaragliavano, e la carica in linea degenerava in una carica alla spicciolata. Oltreché non era conosciuta la girata per quattro, e a una linea continua riesciva impossibile volgere indietro la fronte, o muovere rapidamente pel fianco.

I Tedeschi conoscevano un movimento detto di testa a coda, che si faceva col retrocedere i numeri pari per la lunghezza di un cavallo, sicchè tutti i cavalieri nelle righe acquistavano bastevole spazio al girare; movimento lento, complicato, impossibile ad eseguirsi marciando. Ma poi venne introdotto il movimento a dritta o a sinistra per sei o per mezza compagnia, ed il mezzo giro per mezza compagnia, e si ebbero cariche in linea continua, il che fu allo scorcio del diciassettesimo secolo, e al principio del diciottesimo, a Leuse (1691) a Fridlingen (1702), a Romilles (1706).

I nomi che ave vano le diverse specie di cavalleria erano quelli usati al presente: si dicevano corazzieri i cavalieri che avevano conservate le armi difensive; i cavalli leggieri avevano quasi dappertutto adottato il nome di ussari, cavalieri irregolari che l'Ungheria somministrava all'Austria; i Dragoni finalmente non erano più fanteria a cavallo, ma cavalleria intermedia fra la grave e la leggiera. L'artiglieria, stresa assai più mobile, organata in reggimenti, era diventata un potente ausiliario delle altre due armi: già numerose artiglierie seguivano gli eserciti alla battaglia di Malplaquet; gli alleati vi portarono centoventi bocche da fuoco. Finalmente nel 1697, il colonnello Geisler inventava la vite di punteria, e le cannelle di latta per innescare, onde i tiri diventarono più efficaci e più celeri.

Gli eserciti erano cresciuti di numero, Turenua trovava quasi imbarazzante un esercito maggiore di trenta mila uomini, mentre che al termine del regno di Luigi XIV ve ne furono di sessanta, di ottanta e fin di cento mila. Ma rilassata la disciplina, incerti gli ordini, poco esercitate le truppe, trascurati i particolari della tattica elementare, coteste moltitudini di armati avevano poca mobilità, e quelle schiere riducevansi a marciare, ad accampare, combattere in un ordine costante e quasi simile a quello adottato da Gustavo Adolfo un secolo prima.

Nelle marce precedeva un antiguardo di cavallo sostenuti da un distaccamento di fanti, e con essi il carriaggio de' ponti. Seguiva parte della cavalleria, prima linea dell’ala destra, e con questa una batteria di cinque o sei pezzi, a scorta de' quali due o tre battaglioni di fanti; seguiva altra cavalleria, seconda linea dell'ala stessa; quindi il grosso de' fanti che componevano prima e seconda linea del centro, con essi la grossa artiglieria, dopo veniva la cavalleria dell'ala sinistra, prima e seconda linea, chiudeva la marcia un battaglione di fanti; alcuni squadroni, ultimi a tutti, formavano I estrema retroguardia. Qualche volta, permettendolo il terreno, si ripartivano in un maggior numero di colonne. Ignoravano lo spiegamento avanti, e la colonna o le colonne che dovevano schierarsi si dirigevano ognuna sull'estrema destra o sinistra della linea da occuparsi, e girando a destra o a sinistra, prolungavansi lungh’essa per poi schierarsi.

Si disponevano a battaglioni su due schiere, i fanti tenevano il mezzo, i cavalli le ali, ripartivano l’artiglieria lungo la fronte: o ia concentravano in qualche punto vantaggioso; serbavano alcune schiere alla riscossa. Secondo il volere del capitano variavano gl’intervalli fra i battaglioni e gli squadroni, imperocché incerte e varie erano le opinioni su tale riguardo: alcuni schieravano la prima linea con tanti spazi vuoti quanti pieni, e dietro ad essa a scacchiera ia seconda; altri riducevano cotesti intervalli: alla metà, a un terzo; Altri infine preferivano nna linea continua. La cavalleria disposta a scacchiera, sovente durante la battaglia eseguiva il passaggio di linea, eppure la seconda schiera veniva ad occupare la radità degli ordini della prima, e cangiavasi cosi l’ordine ad intervalli in una linea continua.

Come schierati così accampavano: un qualche ridotto o qualche linea di fortificazione passaggiera difendeva il campo.

Lo schierarsi sempre nei modo stesso rendeva eziandio quasi costante il modo di combattere. Ma ia seconda linea e la riscossa davano facoltà al generale di padroneggiare gli eventi, e le battaglie combattute nei diciassettesimo secolo sono in ciò molto diverse da quelle del sedicesimo.

Ora possiamo riassurtiere lo stato in cui trovavasi l’arte al co' minciare del diciottesimo secolo. Le armi erano quasi perfette, ma non così gli ordini, imperocché non ancora sottili e flessibili quali si richiedevano, e la picca e l'ordine profondo, comeché smessi avevano ancora numerosi partigiani; quindi il progresso della tattica incerto ed oscillante. Negletta la tattica elementare, e per questo lentissimi i maneggiamenti di schiere; l’ordine di battaglia quasi il medesimo de' Romani, ma varie le opinioni sul preferire gli intervalli di questi e le linee continue de' Greci e del medio evo. Preferivano di conservare un costante schieramento, siccome i Romani, piuttosto che giovarsi de' vantaggi del terreno, tuttoché le armi in uso richiedessero il contrario. Finalmente siccome gli scrittori avevano agitato varie quistioni, era sentimento universale tener dietro alla soluzione de' dubbi, e si attendevano i fatti che avessero attuato quanto eravi di utile nelle discorde opinioni e nelle esperienze registrate, al che la guerra de' sette anni sopravvenne opportuna.

XLIX. La Francia sotto il reggimento dei Cardinale de Fleury, non guerriero, ma abilissimo negli. intrighi, preferiva i raggiri diplomatici alla guerra, e l’esercito era in abbandono, i gradi militari servivano a soddisfare qualche immeritevole cortigiano, ed a' Condé, a' Turenna, a' Villars erano succeduti Generali mediocrissimi o pessimi, quali convenivano alla politica ed al governo di quel tempo. L’esercito austriaco non era in uno stato migliore: quantunque il favore e l'intrigo muliebre, non avessero quivi tanta potenza come io Francia, nondimeno i successori del principe Eugenio si affaticavano a disfare il fatto, ed all’operosità di quel forte ingegno era successo l’intrigo di molti. Finalmente la Spagna, occupata nella conquista del nuovo mondo ed in guerra cogli Inglesi, era le stato in cui si trovavano le maggiori potenze europee al tempo in cui Federico II ascese al trono.

Un esercito di circa ottantamila uomini, fiorente per disciplina e per belli apprestamenti, e desideroso di porre a prova il proprio valore, otto a nove milioni di scudi di risparmio, quattro milioni e settecentomila scudi di reddito, nemici esterni poco formidabili, infine non risolta la quistione se la Russia dovesse diventare un regno o rimanere un elettorato, erano moventi efficacissimi per decidere alla guerra un re giovane e ambizioso, già dalla forza del proprio ingegno e dall'indole sua sospinto a grandi imprese.

Determinatosi Federico alla guerra, accrebbe di quindici battaglioni l’esercito, più severa rese la disciplina, e penetrando nei segreti della tattica mise ogni studio a miglioramenti militari di ogni sorte affine di assicurarsi la vittoria.

Mentre altri discuteva se si avesse a ritornare o pur no alla picca, e le fanterie erano ordinate ora su sei ora su quattro righe, Federico scorse che il fuoco, e non già l’energia di una massa, era il mezzo più efficace di difesa, che la marcia rapida ed ordinata, e non già l’urto meccanico, era il mezzo più efficace di offesa, ed operò secondo tali principii. Ordinò la fanteria su tre righe, onde accrebbe l’estensione della fronte e l’efficacia del fuoco, di già vantaggiato per la bacchetta di ferro introdotta nel fucile. Rivolse le sue core alla tattica elementare, ne semplificò i particolari, e con le assidue esercitazioni ottenne rapidità nelle maree, e insieme gran facilità di trasformare con la breve e semplice girata di un pelotone l’ordine di marcia in quello di combattimento.

Di maggior rilievo furono le sue riforme per la cavalleria. Essa in Alemagna aveva conservato la corazza e non caricava altrimenti che al trotto, mentre che in Francia aveva smesse tutte le armi difensive e assaliva di tutta carriera, ma alla spicciolata; quella era grave e tarda, questa debole e disordinata; ambo riponevano fiducia più nel fuoco che nella spada. Federico ne proscrisse il fuoco, dichiarando la spada e l’impeto soli mezzi buoni di attacco, e non già l’impeto d’un cavaliere isolato, ma quello collettivo e irresistibile di una estesa fronte. Durante i travagli della guerra e gli ozii della pace, coadiuvato da' suoi infaticabili luogotenenti, Scidlitz e Ziethen, perfezionò la cavalleria, ed in quei campi ove le sue schiere muovevano ad esercizio, diede il marziale spettacolo di quelle cariche si ben descritte dal Guibert. Numarosi squadroni si disponevano su di uri’ estesa fronte: incontro ad essi, a distanza di carica, alcuni indicatori segnavano il posto del nemico. Muovere la linea al passo, poi al trotto, al galoppo, alla carriera, ed il balenare delle spade attraverso la polvere sollevata da' cavalli, il fragore, il grido de' cavalieri, davano aspetto dell’avanzarsi di una procella gravida di lampi: e quando gl’indicatori erano oltrepassati, suonava la tromba il segnale di arrestarsi e raccogliersi, cessava il fragore, si diradava la polvere, ed allora scorgevasi la linea intera, silenziosa, quantunque concitata, e si udivano i comandi che la preparavano a nuove evoluzioni. La cavalleria poteva dirsi perfetta: solo la terza riga vi ridondava, ma Federico la considerava quasi come una riscossa. Nelle cariche la prima riga erano i combattenti che assalivano con la spada orizzontalmente in alto, bassa alquanto la testa, pronti cosi a parare il primo colpo, ed a rispondere di stocco, la seconda riga reintegrava la prima, la terza sottentrava nelle aperture prodotte dall’allungarsi della fronte. Infine rafforzò la cavalleria con un potente ausiliario, l'artiglieria a cavallo.

Da questi particolari passò a perfezionare i movimenti dell’esercito intero. Scorse come i suoi avversarli si schieravano con somma lentezza, e, schierali, era per essi quasi impossibile il fare altre evoluzioni, e però preferivano attendere il nemico in una studiala dispositura anziché disporsi in sua presenza a battaglia. Federico a tale inerzia contrappose, massima mobilità. Regolò con somma precisione, l’apparecchio militare, ed. il traino delle bagaglie ridotte al meno possibile, riparti giustamente l’esercito, e rese in tal guisa rapide le marce, mentre lo addestrate soldatesche, l’efficacia del fuoco, l’impeto de' cavalli davano superiorità nell’azione. Assicurata cosi la prevalenza de' suoi mezzi materiali, seguendo le ispirazioni del silo ingegno, ne fece cospirare gli sforzi nei punti ove erano meno aspettati dal nemico. Il risultato era immancabile.

Austriaci, Russi, Francesi, tutti furono vinti; ma il solo nemico che Federico ebbe costantemente incontro fu l’esercito austriaco: i Francesi rimasero sempre sul Reno fronteggiali dall’esercito di Annover, i Russi comparvero a volte sull’Oder, e dopo una battaglia, vincitori o vinti, si rintanavano. Le immaginazioni esaltate credettero che Federico, sovrano di una nazione di quattro milioni di abitanti, Tosse uscito vittorioso da una lotta gigantesca, sostenuta contro tre grandi potenze, le quali formavano insieme ottanta milioni. L’Europa intera rimase attonita, e tutti si studiavano di rintracciare la cagiono di questo prodigio, ed ognuno a suo modo credette rinvenirla, chi nelle grandi cose e chi ne’ meschini particolari.

La smoderata ammirazione per Federico degenerò in Francia in fanatismo. Un tal Pirch, capitano prussiano, presentò una memoria sul modo di allineare i battaglioni; subito fu tolto quale emulo di Federico, ed il governo si credette fortunatissimo che costui accettasse ii comando di un reggimento.

Il vestito de' soldati, la forma dei loro cappelli, i particolari della disciplina, furono credute le cagioni di quelle vittorie, e si cercò in tutto imitare i Prussiani, financo nell’incesso. «Comunque tormentino i loro uomini, avranno la fortuna di non farne mai degli Alemanni», diceva un Lukner, che trovatasi al servizio di Francia. Cosi goffamente principi e volgo credevano di profittare degli ammaestramenti di Federico: ma di grande importanza furono le questioni ventilate rispetto a tale argomento da' vari scrittori militari del tempo.

Il fanatismo de' servili e degli ignoranti fece sorgere fra gl'indipendenti troppo spinti una naturale reazione, eziandio in errore degenerata. Lloyd e Ménil-Durand, in opposizione di quanto aveva operato Federico, si fecero i propugnatori dell'ordine profondo. Il primo esordiva, egregiamente: la forza, l’agilità, ed una mobilità universale, sono, diceva, le qualità elio si richieggono in un esercito, esse debbono serbare perfetto equilibrio, nò l’una scapitare pel vantaggio dell’altra. Forza, continua l’autore, è il vigore collettivo che origina dagli ordini e dalle armi; agilità è l’abilità di muovere e squadronare; mobilità è la facoltà di addattarsi ad ogni terreno e contrapporsi ad ogni ordine nemico.

Da tali principii bene stabiliti e ben espressi, il Lloyd svolge una serie di erronei ragionamenti che lo conducono a ridonare la picca a una parte de' soldati, a collocarsi su di otto righe se schierare i battaglioni l’uno dopo l’altro con un intervallo eguale alla loro fronte, e proporre per la cavalleria la carica alla spicciolata. Ménil-Durand non abbandona il fucile, crea un sistema per combattere, e per Opposizione al prussiano lo chiama ordine francese, un tal nome scaldò

l’intiepidito sentimento nazionale, e creò de' partigiani. L’ordine fondamentale della fanteria doveva essere quello delle colonne; di ventiquattro di fronte e trentadue di fondo: queste colonne facevano evoluzioni secondo le circostanze Vennero fatte delle esperienze che riuscirono poco felici.

Ma non era il solo desiderio di opporsi agli ammiratori di Federico che fuorviava questi due pregevoli ingegni; un altro fatto, molto importante, vi contribuiva, la lentezza, cioè e le oscillazioni inevitabili in un’estesa fronte che muove all’assalto: epperò essi propugnavano l’ordine profondo. Abili nel riconoscere il difetto, proposero rimedi, ma pur peggiori del male.

Nel tempo medesimo Guibert, chiaroveggente ammiratore di Federico, espone tutti i vantaggi ed assicura il trionfo dell’ordine sottile che viene adottato dall’Europa intera. Egli precorre i tempi ed accenna i progressi futuri dell’arte. La formazione e lo spiegamento delle colonne, e la marcia di un esercito che spiegasi sulla testa sono da Guibert minutamente esposte. In brevi detti predice quello che dopo pochi anni venne attuato: «La tattica a moderna, dice l’autore, è suscettiva di tutto, si spiega a tutto, impiega al bisogno le colonne, le combina, le mischia con battaglioni spiegali, e ne sostiene le linee».

«Infine è uno stromento docile che non attende per più grandi

risultamenti che di essere impiegato dal genio».

Dunque i progressi dell'arte durante la guerra de' setti anni furono i seguenti: la strategia di Federico U non fu superiore a quella di Turenne, di Montecuccoli, di Eugenio, i quali avevano imitato Castracelo, Sforza, il Piccinino del medio evo, ed il Duca di Parma ed Ambrogio-Spinola loro immediati predecessori; epperò in tal ramo non vi fu progresso veramente. La tattica per contro migliorò grandemente; il fucile per la giunta della bacchetta di ferro si perfezionò, l’ordine sottile invariabilmente stabilito, il fuoco acquistò un’efficacia grandissima nel tempo medesimo che la linea veniva abilitata a muovere con facilità e prontezza; e cosi la tattica, dopo Gustavo scaduta di molto, veniva da Federico rimessa in via buona ed assicurata.

La cavalleria ebbe una completa riforma; non più il fuoco, ma la spada e l’impeto, furono i soli suoi mezzi adoperati ad offesa ed a difesa, l’urto collettivo venne sostituito al combattere de' singoli cavalieri. L’artiglieria di reggimento migliorata, e quella a cavallo la prima volta introdotta. La formazione de magazzini, e tutto quello che spettava al munimento dell’esercito, prima pascolo all’avidità degl’imprenditori venne assoggettata q norme stabili. In ultimo fuvvi progresso nell’ordine in cui le schiere si apparecchiavano alla battaglia? Introdusse Federico nella tattica l’ordine obbliquo tanto decantato? Negli ammaestramenti di questo monarca a' suoi generali, e nella battaglie combattute, troveremo la soluzione di tale questione, intorno a cui sono discordi le opinioni di vari scrittori militari.

Federico prescrive a' suoi Generali di porre in testa all’esercito le fanterie allorquando si abbia a marciare fra boschi o fra montagne, e dividerlo durante la marcia in tante colonne per quante sono le strade che conducono al luogo ove è diretto, e se nel mezzo fosse una pianura, di collocare quivi la cavalleria durante la marcia. Quindi potrebbe argomentarsi, che Federico adattasse al terreno la dispositura delle schiere, cosa sino a quel tempo non mai praticata. Ma poco dopo aggiunge: Ciò s’intende d’una «marcia non mai vicina al nemico, giacché allora è d’uopo limitarsi a porre qualche battaglione di granatieri alle teste delle colonne di cavalleria per non rompere tutto l’ordine di battaglia.

Ed in queste medesime prescrizioni troviamo, che egli nel caso di dover dividere l’esercito in quattro colonne per quattro strade diverse si governava nel modo seguente: La cavalleria delle due linee dell’ala dritta, marciando per la dritta, formava la prima colonna; le fanterie delle due prime linee dell’ala dritta, marciando per la dritta, formavano la seconda colonna. Le fanterie delle due linee dell'ala sinistra marciando per la dritta terza colonna.

La cavalleria dell’ala sinistra marciando per la dritta quarta colonna. Dunque Federico costumava di schierarsi in un ordine di battaglia costante}in quello medesimo stabilito da Gustavo, che il trasse a sua volta da' Romani, cioè i fanti al centro ed allegali i cavalli, e però rinunziava ai vantaggi che offre il terreno. Nondimeno in varie battaglie egli riconobbe la necessità di cangiarlo.

A Lowositz schierò in una sola fronte i fanti, e dietro a questi in seconda schiera i cavalli: a Praga portò tutta la cavalleria al destro corno dell’esercito: al campo trincerato di Bunzelwitz adattò del pari egregiamente la tattica al terreno; ma questi provvedimenti presi nel momento della battaglia, erano stati già prescritti dal Montecuccoli, né era questo il progresso che aspettava l’arte. Sino allora erosi riconosciuto come principio fondamentale della tattica, avere un ordine di battaglia costante. Federico derogò sovente a questo principio, ma non giunse al punto di sostituire ad esso l'altro cioè di non avere alcun ordine prestabilito, ma adattare lo schieramento al terreno: quindi egli presenti il progresso in questa parte, ma non lo raggiunse.

Guibert asserisce che i prussiani conoscevano la dispositura in colonna; ma è certo che ben poco se ne avvalsero in guerra. Il loro esercito muoveva sempre per la sinistra o per la destra, e prolungava! lungo la linea sulla quale doveva schierarsi. Jomini è grandissimo partigiano ii questo modo di marciare al nemico, ma Napoleone è di contrario avviso, imperocché seguendo il detto modo durante la marcia si espone il fianco. La rotta de' Prussiani a Rolli n, quella de' Francesi a Rosbach, e gli svantaggi dei medesimi al cominciare della battaglia di Zorndorf sono conseguenze inevitabili di siffatte marce: per converso la battaglia di Praga e quella famosa di Leuthen, sono le applicazioni più splendide che possa farne un generale di esercito.

Finalmente inventò Federico l’ordine obbliquo? Guibert e Jomini lo asseriscono e lodano a cielo cotesta mossa di guerra, la quale vien da loro definita cosi: L’evoluzione per cui operasi il maggiore sforzo su di un sul punto della linea nemica.

Ma questa evoluzione è antica quanto la guerra. Se Federico, scrive Napoleone, avesse «inventata tale mossa, avrebbe inventato la guerra. Infatti, questa mossa fu notissima agli antichi; poi venne sepolta nella barbarie, ed interdetta da costumi cavallereschi del medio Evo; risorse al cominciare del diciassettesimo secolo con le riscosse e le seconde linee, e Montecuccoli ne parla assai chiaramente in tali termini: «Cominciare la battaglia da quel lato dove si sono collocate le schiere migliori, e dove si sente di essere più forte, e tener col più debole a bada il nemico, azzuffandosi più tardi…

«Se con l’ala destra si vuol battere il corno sinistro ostile, si «porranno iti quest’ala i migliori ed il maggior numero di soldati, e muoverassi con passo edere — intanto l’ala manca

a anderà adagio o non si muoverà». Si può discorrere con maggiore chiarezza dell’ordine obbliquo? Federico non l’inventò; ma seppe giovarsene con accorgimento grandissimo, ed ora rileveremo quale fu in questa mossa di guerra il suo merito maggiore.

Narrammo come il principe di Condé alle battaglie di Rocroy o di Nordlingen fu vittorioso in un’ala, mentre l’altra era volta a fuga, e la vittoria fu dovuta alla rapidità con cui apportò le schiere vittoriose in soccorso delle vinte. Quasi tutte le battaglie del diciassettesimo secolo presentano un tale inconveniente, e questo dipende dal perché i generali, mentre facevano vigoroso sforzo in un’ala, non rifiutavano, né garantivano l’altra dagli assalti dei nemici. E appunto fu gran pregio di Federico il non incorrere negli errori de' suoi predecessori, sui quali senza dubbio aveva lungamente meditato; difatti egli fu sempre veduto incalzare col maggiore sforzo il nemico al punto decisivo, tenendo il resto della sua fronte bene difeso dalla natura del suolo, e dalla dispositura delle schiere.

Dopo il detto possiamo ridurre ne’ debiti limiti i vantaggi ed i perfezionamenti che Federico portò all’arte. Perfezionò quanto esisteva, e seppe trarre il massimo vantaggio dagli ordini e dal le evoluzioni conosciute; elevò la Prussia a bella e splendida riputazione militare, e sorprese l’Europa cogli slanci del suo ingegno e colla fermezza de' suoi propositi. Fu superiore a' generali che lo precedettero nel secolo; pareggiò per la forza dell’ingegno e per discernimento Gustavo, ma come innovatore merita Gustavo la precedenza. Questi in un tempo in cui pareva che alla tattica fosse interdetto ogni miglioramento, si allontanò da quanto ave, vano praticato i suoi predecessori, e la mise nella via del progresso: Federico la trovò sviata, la ripose sul vero cammino, e continuò l’opera di Gustavo.

Prima di farci a discorrere dell’ultimo periodo del progresso dell’arte, diremo brevemente di un nuovo elemento, che durante la guerra de' sette anni s’introdusse negli eserciti, le truppe leggiere. Maria Teresa incalzata da' suoi nemici chiamò a sua difesa i sudditi di Ungheria, Croazia, Schiavonia, e questi a torme irregolari co’ nomi di Ussari, Pandurri, Talpaches, inondarono il teatro della guerra e ronzando intorno agli eserciti, gravi e lenti ne assalivano i magazzini, depredavano i convogli, scorrazzavano il paese nemico spargendo ovunque la devastazione. Lo altre potenze imitarono l’Austria, e chiamarono Ussari i loro cavalli leggieri, e Corpi franchi in Francia, Micheletti nelle Spagne, Barbet sulle Alpi marittime e limitrofi, i fanti leggieri. I nomi d Nadasti, French, MentzeI in Austria, e di Grassin in Francia si resero famosi in queste scaramucce.

Federico li con le sue soldatesche spedite e destre temeva poco cotesti militi sciolti; purnondimeno intese il bisogno di destinare espressamente per combatterli alcuni battaglioni o squadroni straordinari, i quali alla speditezza degl'irregolari unissero l’ordine e la disciplina. Uno sciame di ussari era costretto a sgombrare subito il campo. innanzi a un qualche squadrone prussiano che, ben difeso alle spalle e ai fianchi, da alcuni drappelli, assaliva, senza punto badare al numero degli avversarii, con la spada in pugno. «I nostri dragoni, scrive Federico, gli attaccheranno serrati e la spada alla mano. Esse, (le bande irregolari nemiche) non possono reggere a simile attacco, epperò le hanno sempre battute, senza curarsi del numero, superiore a che fosse». Cessata la guerra de' sette anni, gli ordini militari di Europa imitando quelli de' Prussiani, coteste bande o corpi franchi, divennero soldatesche regolari col nome di fanti o cavalli leggieri.

Qui hanno termine tre secoli, durante i quali l’arte bellica ebbe un continuo ma lento progresso. Seguono le guerre della rivoluzione francese e le nuove combinazioni che solo in venti anni si svolgono, e superano tutte quelle de' tre secoli precedenti. L’arte, ora che ii suo sviluppo è dovuto alla potenza collettiva di un popolo, e non già allo sforzo di un qualche monarca o generale, tocca il sommo possibile.

L. Un numeroso popolo si leva in armi e bandisce la guerra alla tirannide, la quale armando i suoi eserciti si appresta a combatterlo. I generali regii con marce compassate e con pedantesche discipline si pensavano di emulare il gran Federico e riportare facile vittoria sopra turbe tumultuanti d’armati le quali ignoravano quei meschini particolari da essi tolti come la parte sublime dell’arte bellica. Ma tali illusioni furono di breve durata; il loro nemico non era un altro esercito col quale in angusto spazio bisogna contrastare il possesso di un punto, ma un’estesissima frontiera, e tutto un popolo il loro avversario. Eglino rimasero sbalorditi.

Ai generali austriaci parve opportunissimo fare la guerra di cordone prescritta da Lasey. I Prussiani, attaccatissimi alle tradizioni del gran Federico, muovevano concentrati, ed alla distanza di dodici giornate dal nemico conservavano scrupolosamente l’ordine di battaglia, avanzavano lentamente per linee ed in più colonne, con la stessa precisione e colla medesima cautela che Federico avrebbe avuto sotto il tiro del cannone. Eglino non erano al caso di tener conto di quei moventi che avevano grandissima parte in questa guerra, le oscillazioni e le. interne commozioni della nazione concitata.

Se oggi esili e scorati battaglioni erano di niuna difesa per le vaste frontiere, domani un nuovo avvenimento, la parola accesa d’un oratore poteva cangiar la (accia delle cose, e sospingere le migliaia di ardenti giovani alla difesa di esse. Quindi per non dar tempo alle nuove idee di scaldare gli animi, era d’uopo muovere, senza frapporre indugio veruno.

I Prussiani, stima Jomini, avrebbero potuto giungere a Stenay e a Sedan il 14 di agosto, quando Lafayette abbandonava l’esercito, che dopo sì grave avvenimento trovavasi in completa disgregazione; ma essi vi giunsero non prima del 30, e solamente it 20 di settembre attaccarono il nemico. Durante questi trentasei giorni d’indugio la gioventù giurava a Parigi in Campo Marzio di difendere la patria, e correva a Soissons a raccogliersi intorno alle bandiere. Dumourier succedeva a Lafayette, ed i collegati in luogo di trovarsi contro venticinquemila uomini scoraggiati e dispersi, ne trovarono sessantamila concentrati nell’Argonna e ventottomila a Chàlons pronti a muovere. La campagna fu decisa in favore dei Francesi.

L’anno seguente Dnmourier adotta anch'esso il sistema, di cordoni, e schiera trentacinquemila uomini sulla lunga fronte da Wenloo lungo la Mosa e la Roer. In contro ad essi Combourg con sessantamila uomini accampa sull’Erfft: in più ristretta fronte Conbourg muove, assale, e vince, ma non giovasi della vittoria, e lento, indeciso, come suo costume, due altre volte la Francia è salva per errore dei suoi nemici, prima, e dopo la rotta di Fumars. — Intanto l’ardore repubblicano si raddoppia, i Cenerari si succedono l’uno all’altro, e pagano sul paleo la pena d’,ogni disastro; a tutti è aperta la via al comando supremo, alla grande responsabilità. Vi giunge Jourdan, concentra le forze, e la vittoria di Waltisquies rimedia al passato, e rileva gli animi.

Nel terzo anno gli avversarii cozzano con pari ostinazione e con dubbio risultamento. Ma appena centomila francesi, comandati dallo stesso Jourdan, fanno massa sulla Sambra, i collegati sono respinti. La battaglia di Fleury decide la campagna; il territorio francese vien sgombro da' nemici.

In queste tre prime campagne i Generali francesi si mostrarono incerti nelle loro operazioni; or li vedemmo distendere l’esercito su di una lunga fronte, or concentrare le forze e portare colpi decisivi sul nemico; ma alla fine della terza campagna la preferenza fu data al sistema di concentramento, non più felice ispirazione di qualche Generale, ma concetto della Nazione intiera. Carnot praticava un tal principio su di una vasta sfera trasportando una forte schiera successivamente al soccorso di Dunkerque, di Meciheuge, di Landau. Nell’anno medesimo (93) Barrerò diceva dalla tribuna: «Il comitato ha scorto il male, ha scritto a' Generali di battersi in massa, eglino non l’hanno fatto, e voi avete sofferto de' disastri».

Bisogna battersi in massa, gridavano i soldati su tutte le frontiere e i giacobini nelle loro congreghe. Couthon giunto a Lione, rispose a ragionamenti di Dubois-Grancé, dicendo: bisogna dare l'assalto in massa ».

A Wattigoies ed a Fleury si trasse in atto questo concetto nazionale. Nondimeno la campagna del 1798 fu ancora incerta; ma nel 1796 il sistema di guerra era stabilito, tutti i Generali francesi combattevano allo stesso modo.

Dall’applicazione di un tal sistema, nato quasi dalla rivoluzione francese, derivò un altro ammaestramento. Nel 1796 due eserciti, Sambra e Mosa, e Reno e Mosella, accennavano al medesimo scopo, 'Vienna. L’Austria adora aveva un ottimo generale, l’arciduca Carlo, il quale su di una linea d’operazione interna s’intramise fra i due eserciti francesi, che. operavano su due linee d’operazioni esterne, ne superò gli sforzi e li vinse. Laonde i Francesi rimasero convinti, che non solo è d’uopo operare concentrati col medesimo esercito, ma bisogna che non siavene più di uno sul medesimo teatro di guerra. Questo sistema di concentramento, il medesimo tenuto da' Romani, e seguito agevolmente giacché ristretto era il loro teatro di guerra, ne’ tempi non lontani da noi fu abbandonato a causa de' numerosi eserciti, e della vastità del terreno sul quale si operava: ma al cominciare della guerra della rivoluzione, la maschia eloquenza dei fatti lo richiamò in essere tra i Francesi. Sicché bene si può affermare che esso sistema originato dall’esperienze sulle quali aveva meditato l’intera nazione, era già noto a' generali francesi, e Bonaparte non fece altro che meglio di tutti comprenderlo ed applicarlo.

Con tal sistema di guerra Bonaparte entra in Italia, e mediante un rapido concentramento vince a Montenotte e valica i monti: per la battaglia di Millesimo separa i Sardi dagli Imperiali, e quindi su di una sola linea di operazione prosegue la sua vittoriosa marcia. Negli anni 1800,1805,1806 e 1800 i Francesi combattono sempre attenendosi al medesimo principio: e specialmente nel 1812 ne vediamo la più grandiosa applicazione.

Napoleone si spinse su di una sola linea di operazione attraverso di una frontiera di duecento leghe dal Baltico alla Moldavia, e portò rapidamente una massa di centocinquantamila uomini sull'altipiaao che divide le acque del Dnieper da quelle della Diwna, separando così gli eserciti russi di Barsklav e Bagration, e girando la loro base di operazione stabilita su que due fiumi. Così egli seguiva la medesima strategia di Alessandro e di Cesare, e l’applicava in circostanze molto più difficili e con più grande risultamento, comeché per altre cagioni quella campagna finisse con un disastro.

In tal guisa gli eserciti della rivoluzione erano stati rimenati in forza delle loro condizioni speciali ad un antico principio strategico, dal quale si erano discostati i moderni. Ora vedremo come lo stato dei Francesi e i loro bisogni speciali condussero ad un progresso nella strategia affatto nuovo.

Gli eserciti erano cresciuti di numero, non era un principe che combatteva per qualche nuova conquista, ma una nazione intera che difendeva se medesima, e cotesti giovani eserciti, poco addestrati, e difettivi di ordine e disciplina, se avessero marciato come i Prussiani nel 1792 su di una sola fronte, non avrebbero potuto portarsi con la richiesta rapidità sui punti decisivi; quindi fu forza

escogitare un nuovo modo di far massa, su punti prestabiliti, dei loro disordinati battaglioni. Accanto alla grande strada che determina la linea di operazione, vi sono sempre altre vie minori, alcune a filo, altre serpeggianti, che accennano al medesimo scopo. Per cotali vie, ripartiti in varie colonne, alle quali assegnavano la medesima posta, avviavano i Francesi i loro eserciti L’esperienza confermò i vantaggi di cosiffatto modo, e i generali si studiarono a perfezionarlo. Quindi stabilirono che la forza di ciascuna colonna fosse tale da bastare, nei primi momenti, a se medesima, aspettando il soccorso delle colonne vicine; la distanza fra esse, tale che ne facilitasse la sussistenza, ma non permettesse al nemico di tramettersi fra loro. Cosi determinata la fronte strategica, questa si estendeva o raccorciava secondo che più o meno lontano era il nemico. Coteste colonne in principio furono le divisioni, le quali poi perfezionate da Bonaparte divennero corpi di esercito. Oltre la rapidità della marcia, un altro vantaggio importantissimo derivò da questa ripartizione dell’esercito, qual fu quello di potere, marciando per varie vie su di una fronte estesa, ingannare l’inimico e nascondergli il proprio disegno strategico. Così una nazione stretta da necessità di consiglio, allargava innanzi ad essa il campo de' concetti strategici, e compiva il progresso di questo ramo dell’arte. Bonaparte in seguito svolse tutte le proprietà di essa nelle sue splendide applicazioni.

L’esercito francese nel 1800 valica le Alpi, ed inaspettato si mostra nella Valle del Po: Lannes comanda l’antiguardo; seguono gli altri corpi di esercito in colonne laterali, e sembra accennino tutte a Torino. Il nemico accorre per difendere questa città principale, ma la testa di colonna d’ogni corpo di esercito gira a sinistra e con tate evoluzione tutto l’esercito marcia avanti verso il Ticino, cosi trovandosi, strategicamente per grandi masse in battaglia, l’antiguardo è divenuto corpo fiancheggiante. Ma valicato il fiume, un’altra evoluzione, lesta di colonna a destra per corpi d’esercito cambia totalmente l’ordine e lo scopo della marcia. Lannes passa il Po a Pavia, è seguito da Victor e da Murat che lo passano a Piacenza, e l'esercito in colonna diretta sull'antica avanguardia occupa Stradella e minaccia Alessandria.

Nel 1805, da Strasbourg a Manhein si schierano per corpi di esercito centoquarantamila uomini, altri cinquantamila si concentrano a Bamberga, onde marciando verso il Danubio occupano Weissenbourg. In questo mentre il resto dell'esercito marcia avanti ed attraverso i monti che separano la valle del Neker da: quella del Danubio, cambia fronte a destra, e fra Heidenheim e Weissembourg si schierano su di una lunga fronte strategica in faccia al' Danubio centonovantamila baionette. Il nemico, il quale credeva che i Francesi venissero contro con fronte perpendicolare al fiume résta sorpreso; nondimeno cerca come può meglio di schermirsi e fronteggiarli. Ma tosto con un nuovo cambiamento di fronte a de stra Napoleone spinge scentomila uomini fra Marck e Kienmager, incalza questi verso il basso Inn; e quello è costretto a capitolare in Ulma. L'anno seguente un’altra evoluzione strategica della stessa na tura annienta Pesercito prussiano. Esordisce Bonaparte con presentare al nemico una fronte strategica dalla Lahn a Combourg, la quale comprendeva le due grandi strade che da Prancforte Bam berg, incrociandosi ad Erfurth, menano a Berlino. I nemico sic come era naturale, concentra ad Erfurth le sue forze. Allora Napoleone volge la testa di colonna a destra per corpi d'esercito, e muove su Gera, collocandosi cosi in colonna diretta sul corpo che occupa quel punto e tagliando al nemico le comunicazioni; quindi schierasi sulla nuova fronte strategica a sinistra in battaglia, ed occupa tutt'i passi della Suale, onde impedisce il concentramento delle forze nemiche. Quindi le battaglie di Anerstadt e di Jena decidono la campagna. qui della strategia. Ora diremo della tattica, e mostreremo quanto contribui al suo progresso il sistema di ripartire l'esercito in varie colonne. Coteste colonne giungendo successivamente, oppure contemporaneamente, ma per diverse strade, sul campo di battaglia, sarebbe stato un inconveniente gravissimo alterare gli ordini di ciascuna di essa per disporre tutto l'esercito, secondo l'antico costume, cioè i fanti al centro e i cavalli alle ali. Invece ogni colonna veniva a collocarsi a sinistra o a destra o in seconda linea di quelle che erano già precedute, e si giovavano di ogni sinuosità del terreno per garantire le giovani soldatesche, quindi si occupavano i poggi, si difendevano col fuoco le pendici ed i valloni che le separavano, ed i campi di battaglia divennero estesissimi. In seguito l’esperienza e lo studio ridussero a. giuste proporzioni questi campi di battaglia, e ne derivò come principio, e massima di guerra, che non si avesse alcun’ordine di battaglia prestabilito, ma si adattasse la tattica al terreno; e cotesto principio confermò che le masse, di fronte di varie colonne siano più vantaggiose di quelle pel fianco e per linee usate da Federico, salvo sempre spedali circostanze.

Le oscillazioni e le aperture che si generano durante la marcia di una estesa linea di battaglia erano molto maggiori quando si facevano con soldatesca poco addestrate a conservare gli ordini, e difettive di disciplina, e per queste medesime ragioni era ancora più difficile attendere schierati in linea sottile gli attacchi del nemico, onde il bisogno di un ordine più profondo si fece sentire, e Kellermann dispose le sue schiere a Valmy per colonne in massa di battaglione.

A. Jemappes i Francesi assalivano: l’asprezza del terreno, il fuoco nemico, rendevano la loro marcia incerta ed oscillante; una carica opportuna di cavalleria li ruppe, ed i fuggiaschi si aggrupparono, si urtarono, si confusero per ogni verso. Come ricomporre gli ordini sotto il fuoco nemico? I generali educati alla scuola di Federico avrebbero collocate le bandiere dietro la seconda linea, e mentre questa fronteggiava il nemico, avrebbero raccolti gli sbaragliati per poi ritrarsi o rinnovare l’attacco; forse Ja battaglia non si sarebbe vinta. I generali repubblicani, accostumati a quei disordini e a giovarsi del momentaneo ardore, senza curarsi d’altro, arrestano la foga del fuggire, additano il nemico, e con la voce e l’esempio rimenano all'assalto le loro genti, e vincono. Quinci il combattere da battaglieri in grandi bande; e eome si pugnò, per caso a Jemappes, si pugnò pet sistema nelle. battaglie seguenti:

Pochi bersaglieri appiccavano la zuffa, seguiva in ordine di battaglia il maggior nerbo, ma giunto a poca distanza dal nemico si rompevano gli ordini, le bandiere rimanevano quasi senza veruna scorta, e tutti, come sospingevali il proprio, ardore, si scagliavano addosso al nemico, e giovandosi di ogni cespuglio,;di ogni piega di terreno, facevano piovere innumerevoli colpi

sulla sua immobile linea. Colali inaspettati attacchi, che i generali repubblicani dirigevano sulla chiave della posizione del nemico, li sorprese e li vinse; ma beo presto questi usarono altro modo, e ripigliarono la superiorità. Marciarono contro i Francesi le avanguardie, che presto erano respinte, dal disordinato assalto di quelli: cosi retrocedevano di posto imposto, inseguite fin dove stava ferino il corpo principale, che intatto e in perfetta ordinanza sottentrava nel combattimento, e con cariche alla baionetta riportava facile vittoria su i Francesi già stanchi. Ma non tardarono i generali repubblicani Jourdan, Kleber, Marceau, Buche a por. mente alla bisogna, e con mente e cuore si diedero a studiare quel modo di combattere. Incontestabili erano i vantaggi che in principio si ottenevano da quell'irregolare a rapidissimo assalto, comi era eziandio incontestabile la superiorità d'una schiera nemica, la quale, disposta in ordinanza, assaliva dopo aver scemate le forze ed ammorzato l'ardore dei primi assalitori. E subito il rimedio fu trovato: far seguire i bersaglieri dalla seconda fronte schierata e presta a sostenerli. Ma era quasi impossibile costringere quelle soldatesche a muovere pacatamente in battaglia, ed era troppo esile l’ordinanza per contenerne l’ardore, e troppo, lenta la marcia per seguire a giusta distanza il veloce assalto dei bersaglieri. Allora si pensò di disporre la seconda schiera per battaglioni in massa, e così fecesi abilità di facilmente reggere e condurre i varii corpi dell’esercito. Quindi la necessità di passare rapidamente dall’ordino di colonna a quello di battaglia, e viceversa; quindi gli ultimi perfezionamenti della tattica.

Finalmente la necessità d'incoraggiare queste giovani milizie, e di proteggere le ritirate spesso troppo precipitose spinse i generali osservatori a servirsi delle artiglierie con meno rispetto, spesso raccogliendole in grandi masse e talvolta anche sacrificandole alla, salvezza delle schiere; onde fu che le mosse delle artiglierie, divennero più preste e più audaci, e però più terribili ancora.

Con la guerra della rivoluzione francese, la tattica ottenne tutto quel perfezionamento di cui era capace, e tale da adattarsi ad ogni terreno e giovarsi di ogni circostanza. Gli eserciti moderni si schierano in pianura su dolci pendici, su poggi, su gioghi e finanche su vette di monti, cosi difendendo valli nelle quali il nem

ico non potrebbe inoltrarsi senza essere o distrutto da' loro fuochi, o taglialo dalle sue comunicazioni, e rendendo continua una fronte in apparenza interrotta. L’ artiglieria imbocca le entrate del campò, e difende quei luoghi aperti onde il nemico potrebbe avanzarsi, mentre i cavalli son presti a caricarli appena scrollati dall'artiglieria. I fanti disposti da bersaglieri occupano i fianchi de monti, o difendono ogni piega di terreno, mentre una intiera linea fulmina da' gioghi, oppure con vista sulle vette sorge spaventevole incontro ad un nemico già stanco per la fatica durata nel montarvi. Secondo la forma del terreno piano o elevato, avanza l'intera fronte, o un’ala, o entrambe all’insieme, o il centro.

L’assalto de' fanti non è mica incerto è lento come una volta, l'artiglieria spiana la via e scrolla il nemico, i bersaglieri in grandi bande avanzano, lo bersagliano con mille colpi, e ne attirano su di loro le offese, mentre la linea intera, in varie colonne, rapida e compatta gli corre addosso. Se il terreno è piano, assalgono eziandio in fronte continua, ma rincalzano leali con colonne preste a spiegarsi e assalire da costa il nemico. E questa linea, se minacciata da' cavalli o scrollata dal cannone, ha bisogno di nnove difese, piegasi rapidamente in colonne, e così gli ordini spalancandosi acquistano tutti i vantaggi che i Romani traevano dalle radità rimaste tra i manipoli.

La seconda fronte facilmente portasi innanzi, raccoglie la prima, e incalza; l'artiglieria è abilitata ad accorrere, e postata in siti vantaggiosi fulmina il nemico, mentre i cavalli attraverso i suddetti intervalli prorompendo inaspettati. sbaragliano le vacillanti schiere.

Se terribili sono i fanti, non lo son meno i cavalli per le loro rapide evoluzioni: mentre assalgono in battaglia il nemico che hanno incontro, alcuni squadroni che seguivano in colonna sulle ali, spiegandosi improvvisi, l’urtano da costa e a spalle. Se poi vogliono precipitarsi sai centro d’una linea di fanti inattaccabile alle ali, o su gli angoli de' quadrati, allora gli vediamo formarsi in una colonna che urta e sbaratta quanto incontra sai suo passaggio.

L’artiglieria non più lenta e piena di cautele come prima, ma audace, in grandi masse, fulmina incrociando i suoi fuochi; e spiana la via, come già a Wagram, o arresti e respinge gli assalitori, come bene fece a Frledland e a Laufzen.

Prima le tre armi, a cagione dell'uniformità degli schieramenti, non potevano prestarsi un vicendevole soccorso, e sovente nella stessa battaglia correvano diversa sorte; ma ora il terreno e il disegno del Generale, le lega tutte al medesimo fine, e le grandi masse di fanteria, di cavalleria e di artiglieria combattono si ciascuna sul terreno che l'è vantaggioso, ma tutte direttamente o indirettamente mirano allo scopo medesimo, alla vittoria su di un punto solo. Se poi due armi diverse si combinano ad operare sul medesimo punto, non si mischiano più, come prima, i cavalieri a' fanti, e te artiglierie fra i battaglioni, di modo che ogni arma viene a perdere parte dell'efficacia che ad essa è propria, ma ciascuna di esse opera secondo la sua natura; l’artiglieria raccolta ne’ luoghi adattati spiana la via all’assalto e protegge la ritirata; e sovente muove all assalto una schiera di fanti, e dietro ad essa a distanza di carica, e schierati in battaglia seguono i cavalli per sostenerla se respinta, o profittare della vittoria se vincitrice. Altre volte i cavalli precedono, ed i fanti, senza mischiarsi con essi, ma occupando villaggi, boschi e giardini, ovvero disposti in quadrati, assicurano attraverso gl'intervalli la ritirata di quelli, e arrestano l’impeto del nemico che insegue.

Se da' particolari combatti meati ci faremo a considerare l’intera campo di battaglia, non vedremo più, come presso gli antichi; le schiere sempre disposte in ordine continuo, breve, uniforme, e che svelava allo sguardo dell'avversario i disegni del generale, giacché il campo dei moderni è assai più vasto e tale che raramente si può signoreggiare con lo sguardo. Sovente burroni, boschi, villaggi, poggi lo dividono, lo frastagliano e nascondono le schiere, e appena le lasciano scorgere dall’incerto luccicare delle armi. Qualche volta ostacoli di maggior rilievo separano le due ali, o una di esse dal centro; ma nondimeno tutte le mosse che costituiscono il concetto dalla battaglia, divise in apparati, sono collegate nella mente del generale, e quegli attacchi separati e lontani cospirano al medesimo fine, cioè alla vittoria su quel punte dal quale dipende il possesso di tutto il terreno occupato.

In questi campi e in queste battaglie tanto dalle. antiche differenti; l’evoluzioni prendono norma da quel principio, medesimo che formava la base dell'antica tattica, operare il massimo sforzo sulla chiave delle nemiche difese. Dal quale principio derivano tutti gli altri, t'attacco diretto sa di un’ala più vantaggioso dell’attacco parallelo e. migliore ancora se l’ala attaccante riesce a circuire quella del nemico, mentre il terreno o la dispositura delle schiere guarentiscono il resto della propria fronte.. La facilità di raccogliere le forze, in un punto centrale che sia difficile ad essere circuito, la difesa che esso può avere dalle ali, rendono presso i moderni, come anche erano presso, gli antichi, gli attacchi diretti contro il centro i più. difficili. Ed ogniqualvolta si avrà una grande superiorità di forse, sarà, come sempre è stato, miglior consiglio attaccare il centro ed un’ala, e non mai le. due ali, eccetto che il centro della propria linea, fosse affatto inespugnabile.

LI. Boulow primeggia nel propugnare l'ordine concavo, che quasi sempre si riduce ad. una linea spezzata e non curve. La natura dell'uomo, costretto. inevitabilmente a fuggire se attaccato di fronte, insieme e affianchi e alle spalle, è l’elemento, morale l’incontrastabile base della teorica di Boulow. Quindi osservando una concentrazione di fuochi su qualunque massa che s’avanza in un rientrante, ne deduce vantaggi di un tale ordine. Ragionando egualmente in strategia, afferma che ogni operazione che circonda e attacca di rovescio è decisiva: loda quindi gli attacchi contemporanei alle due ali, mediante i quali viene ad essere privato di ogni difesa il centro nemico. Non erra l'autore, nei principii, stabiliti come. base, ma trascurane! suo calcolo due elementi importanti, morale l’uno, fisico l’altro, che distruggono i suoi, ragionamenti. Avviene quasi sempre in guerra che la vittoria fra due avversari, che muovano l'ano contro dell'altro, o che l'uno attacchi e l'altro si difenda, è decisa, prima che avvenga lo scontro, prima che siasi esperimentata tutta la efficacia degli ordini. Alle prime scariche, non per la copia dei morti, ma per panico terrore, una colonna si arresta, vacilla, fugge, oppure una linea, si sbaraglia allora appunto che il suo fuoco avrebbe prodotto il maggiore effetto. Quindi una colonna di gente ardente e risoluta avanza in trepida nel concavo d'una linea sottile, e questa di certo sarà sfondata prima dello scontro. Questo elemento morale distrugge o almeno scema non poco la grande importanza delle linee dei fuochi del generale Boulow. L’altro fatto trascurato da questo chiaro autore è il vantaggio, così in tattica, come in strategia, che ha una posizione centrale verso due attacchi, separati. Colui il quale per più breve cammino e con maggiore facilità potrà trasportare le sue forse da un punto d’attacco all’altro, ha quasi assicurata la vittoria. Dopo queste idee generali, servite a porre in chiaro il difetto de' ragionamenti del Boulow, e minorare l’importanza della sua autorità, rapidamente mostreremo gli inconvenienti dell’ordine concavo. Di due eserciti, l'uno in linea concava, l'altro in una linea convessa interna, quale avrà il vantaggio? L’efficacia de' fuochi di rovescio dell'esercito circondante è illusoria finché durano indecisi i tre combattimenti alle due ali ed al centro, le due linee si fronteggiano dappertutto. Ma l’esercito interno, per portare le sue forze da un punto in un altro, deve percorrere una corda di un arco più piccolo di quello di cui l'avversario deve percorrere la circonferenza, e però quasi impossibile a questo di conservare in ogni punto la superiorità dell’attacco, vantaggio decisivo. Inoltre disponendosi un esercito in linea concava, solamente nel caso che voglia operare con le ali i, maggiori sforzi, ne risulta sguarnito il centro dalle forze portate agli estremi; mentre al nemico la dispositura interna fa abilità, sostenendo per poco gli assalti delle ali, di concentrarsi prontamente e sfondare ii centro, dividerlo in due parti coll’annientare i suoi attacchi. Questo principio di Boulow trionfa negli assedii, perché, trattandosi di trincee ciò inviluppano fortificazioni, l’elemento morale non ha potere alcuno, ed inoltre il presidio della piazza non può, eziandio facendo mossa in un punto solo, debellare un nemico assai superiore. A queste ragioni, sufficienti a far cadere il prestigio dell’evoluzione di Annibale a Canne, ai fatti già addotti della battaglia di Tortosa, combattuta otto anni dopo quella di Canne, e della battaglia di Casiline, vinta da Narsete nella metà del sesto secolo dell'era cristiana, si aggiungono numerosissimi esempi nelle guerre moderne.

Alla battaglia di Fleury, nel 1794, centomila francesi, innanzi Charleroì, erano collocati quasi in un semicerchio di meglio che ventimila metri di diametro, appoggiando alla Sambre le due ali.

Gli austriaci, attaccando tutta la frante presero una dispositura concava, e furono battuti in tutti punti. E se, con miglior consiglio, avessero diretti i loro sforzi sulle due ali, avrebbero sguernito il centro, ove prontamente il nemico. poteva concentrarsi ed urtare. E se, meglio ancora, avessero cercato forzare un’ala sola, la dispositura dei francesi faceva loro abilità di riuniremo poche ore all'ala assalita le forze dell’altra alà e del centro insieme.

A Wagram, memorabile battaglia pel numero de' combattenti, l'esercito francese era schierato su di una linea spezzata, saliente al centro, e di quattordicimila metri di giro. Gli austriaci, per far fronte d’ogni banda, formarono un rientrante, i cui lunghi lati comprendevano l’esercito nemico, è, raccolte agli estremi le forze principali, all’alba del 6 di luglio 1809 mossero all’assalto. Sostenne l’urto l’ala destra francese, fu rispinta là sinistra, e gli austriaci, costeggiando il Danubio, procederono. Alle 11 del mattino il loro cannone tuonava ad Esting, alle spalle del centrò dei francesi, quasi accerchiati da questi primi i successi. «L’esercito austriaco, dice Ternay, formava una specie di tanaglia, fra le braccia della quale trovavasi stretto l’esercito francese, ma concentrato e compatto difficile a schiacciare». Napoleone allora destina solo trentamila uomini a difesa della sinistra, e, deciso di attaccare il nemico al centro ed alla destra, che occupavano appena la fronte di ottomila metri quivi concentra con ventimila nomini ed assicura la sua superiorità. L’ala sinistra nemica, assalita in fronte è da costa, cede a passo a passo il terreno, mentre il centro preparasi all’attacco. Cento pezzi di artiglieria, in colonna per batteria, al trotto si avanzano, e, giunti a mezza passata, si spiegano e vomitano là morte su di uno spazio di duemila metri, cosi aprendo la via a una colonna, la quale formavasi dietro la protezione di questa formidabile batteria, fitto battaglioni spiegati in battaglia formano la fronte dell’attacco; tredici battaglioni in due colonne serrale per litofoni; ai due estremi, della linea, ne fasciano i fianchi. Così procede la fanteria fiancheggiala da due grossi corpi di cavalli in colonna sferrata per squadroni i quali con le loro cariche mantengono sgombri i lati dell'attore e allargano la breccia. In seconda linea seguono spiegate due divisioni, e dietro a queste i granatieri a cavallo e la fanteria della guardia si tengono pronti alte riscossa. In tal guisa disposti circa cinquantamila uomini, si fanno addosso al nemico, lo rompono, e decidono te vittoria già cominciata dall’ala destra.

Oltre questi esempi, la dispositura semicircolare dell’esercito francese intorno Dresda; il quale, circuito da forze superiori, nel primo giorno resiste, nel secondo attacca per le due ali e vince; i vantaggi di Massena in Genova dovuti alla sua dispositura interna rispetto alla linea nemica che accerchiavate occupando le creste dei monti; i vantaggi ottenuti da Napoleone nella prima giornata della famosa battaglia di Leipzig, che, schierato in linea convessa, attaccò il centro nemico a Wachau, e l’obbligò ad impegnare tutte le sue riserve, comecché fosse grande la superiorità delle forze, sono fatti troppo evidenti in appoggio alle non meno incontrastabili ragioni addotte. Né, a proposito della battaglia di Leipzig, giova il dire che nel terzo giorno prevalse la linea concava degli alleati, anzi ciò conferma quel che sopra abbiamo detto, poiché in quel giorno la linea convessa de' Francesi restò immobile, quasi bastioni di una piazza, atterrati da continuo fuoco avviluppante del nemico. Concludiamo che ogni abile generale dev’essere sicuro della vittoria, se il nemico che te fronteggia si avvisa di governarsi come Annibale a Canne, salvo il caso di sua grandissima superiorità di forze. Eppure scrittori militari di sommo merito lodano a cielo quella battaglia di Annibale, tanto la vittoria annebbia la ragione.

LII. Già discorremmo in questo saggio come i principi italiani distrussero i venturieri e cercarono, ma invano, di sostituir loro le milizie nazionali, e narrammo eziandio come nel sedicesimo secolo tentarono di allargare te proporzioni di tali istituzioni, che videro sorgere dappertutto oltremonte; ma gli Stati italiani erano in decadenza, ed era forza che seguissero la via inesorabilmente tracciata dal destino; quelle milizie non combatterono, e furono per essi vergogna e non difesa; a poco a poco se ne perde anco la memoria, come di pianta che per difetto di umori appassisce. Nel solo Piemonte perdurarono, ed era naturale, poiché la dinastia di Casa Savoia cominciò il corso di sue prosperità co’ re oltramontani, precisamente quando l’Italia non era più.

Primo fu Emmanuele Filiberto, che nel 1560, ritornato ne’ suoi Stati coronato degli allori della vittoria di S. Quintino, allori acquistati capitanando le armi di Spagna contro Francia, organò le milizie nazionali instituendole ad esempio delle cerne veneziane.

Ogni distretto era obbligato a fornire un dato numero di milizie Si concedevano, per allettare i militi, parecchi privilegi ed esenzioni, ed essi volontari offrivano i loro servigi.

Nel 1566 si perfezionarono tali ordinamenti per cura del sergente maggiore Antonio Levo, grado che in quei tempi seguiva nella gerarchia immediatamente al colonnello nel comando del corpo.

Le milizie furono divise in colonnelli; ogni colonnello in sei compagnie, ogni compagnia in quattro centurie, e ciascuna centuria in quattro squadre. Furono fissati i tempi delle rassegne, delle mostre, degli armeggiamenti; ogni domenica le centurie, ogni quindici giorni le squadre, ogni mese le compagnie, una volta l’anno i colonnelli, e due volte, cioè alla Pentecoste ed a S. Martino si riunivano forti schiere, esercitavano nelle marce, nelle evoluzioni, nell’accamparsi, e simulavano battaglie. Nei ruoli il numero di tali milizie era di trenta mila fanti; la nobiltà forniva la cavalleria dell’esercito.

Tali istituzioni, e la posizione del Piemonte, terra italiana fra due potenze nemiche che si disputavano l’Italia, avrebbero menato questo Stato alla conquista e alla grandezza della Penisola. Il fato gli additava la politica da seguire costantemente per poter serbare dignità ed indipendenza: l’amicizia della potenza preponderante in Italia era vassallaggio umiliante per esso; quindi, conservandosi in ogni tempo bene collegato con Francia, bisognava contrapporla all'imiterò. Le guerre combatterle con proprie forze, come alleato d Francia, non ammettere in Italia armi francesi, o solamente pochissime, e servirsi dell’amicizia di cotesta potenza solo per poter essere considerato nella pace generale, e delle armi di lei solo nel caso ch’esso venisse dal nemico interamente soprabito.

Ma perché il Piemonte, piccolo Stato, avesse potuto ciò fare, era mestieri che le sue istituzioni civili ne avessero pareggiate le forze coi vicini ch’erano potenti per la vastità dei loro Imperi; l'uguaglianza politica, che fa tacere l'utile privato in faccia al pubblico, che mantiene sempre vivo il sentimento nazionale, che raccoglie e stringe con comune vincolo numerosi guerrieri intorno alle insegne, eragli necessarissima, e queste forze abbisognava reggerle con una politica ferma e costante, una politica Romana, che non avesse mutate mai comunque volgessero gli eventi, in una parola il Piemonte avrebbe dovuto essere una repubblica, e non repubblica del medio evo, non sul fare della Romana; ma it Piemonte non ne era né l’una né l’altra, era un feudo.

Quindi l'utile della nazione di nessun peso, quelli della dinastia solamente considerati, la preponderanza ed i privilegi della nobiltà gettavano il volgo nell'abbiettezza; i duchi facevano fondamento sugli stranieri che arruolavano nel torneare cito, nel quale i Piemontesi non erano più che un dieci migliaia, e quindi poco il profitto che si trasse dalle milizie nazionali. La politica sempre balenante secondo i capricci e le simpatie perso, nati da’ Duchi, il più spesso accadeva che essendo essi collegati coll'impero austriaco o col re di Francia, se le sorti del collegato volgevano al male, d’amici diventavano nemici, e viceversa, oppure, e ciò era ancor peggio, collegati con uno, dichiaravano pubblicamente all’altre là guerra mentre che sottomano: facevangli occulte proteste d’amicizia; quindi con l’uno tiepidi amici, con l'altro fiacchi nemici.

Vittorio Amedeo II, essendo generalissima dei collegati, trattava segretamente coi Francesi, con i quali pattuì di smantellare le fortificazioni di Casale, perocché temeva che quella piazza non cadesse nelle mani degli Imperiali; né voleva baciarla ai Francesi. Il Duca pose l'assedio alla piazza ad 1695, i ‘Francesi la difesero fino al giorno stabilito, nel quale il governatore ne offri la resa a patto di smantellarla, e il Duca accettò palesemente quel che di già aveva accettato in segreto ed astrinse i generali Cesarei ad acconsentirvi. Dunque simulato fu quell'assedio fra le due parti, non però simulate le morti di non pochi valorosi! Tanto poco apprezzano i principi la vita di coloro che si battono in loro difesa!

La fede poco salda dei Duchi di Savoia gli rendeva poco accetti a

Francia, e paco all'Austria; te loro amicizia era nondimeno richiesta da amendue, poiché erano buoni guerrieri, possessori dalla chiave delle Alpi: ma poca o niente gli favorivano nelle paci: sicché il Piemonte, ora perdendo qualche terra, ora guadagnandola, poco ingrandì. Spesso ancora lo costringevano a smantellare fortezze; il più de' vantaggi che ottenne, fu per incontestabili successioni, poco per sola forza di armi, mentre non posarono mai

né i Duchi né i loro Sudditi dalle guerre, ed il Piemonte non cessò mai di esserne il teatro. Le istituzioni delle milizie nazionali rimasero interdette, come una pianta esotica in terreno poco adatto, e però non vi furono miglioramenti neanche rispetto all’arte.

La cavalleria fu sempre il nerbo dell'esercito, e però sovente teneva il mezzo della fronte, e i fanti formavano le ali, se non che talvolta erano questi tramezzati con alcuni squadroni di cavalieri.

Infine le cerne, istituzione militare vantaggiosa a una repubblica, furono riconosciute inutili allo Stato ch'era come feudo, e per ottenere solide fanterie si ricorse alle milizie stanziali, e si formarono i reggimenti delle Guardie, di Saluzzo, di Piemonte, del Monferrato, i quali valorosamente pugnarono, collegati coi Francesi cob tro gli Austriaci, alla battaglia di Guastalla o di Lazzara, combattuta a dì 19 di settembre 1734.

Dopo la guerra dei sette anni le geste di Federico ebbero in Piemonte un'eco non minore che in Francia, e Vittorio Amedeo III, allora regnante, delle cose guerresche amantissimo, diedesi a riformare ed accrescere le sue milizie:. cosi all'esercito del Medio Evo successe l'esercito moderno. Ma se riformate furono le ordinanze, non poterono distruggersi due difetti radicali; l'uno era la mancanza di sentimento nazionale pe' gregari. Il Piemonte aveva certamente tradizioni guerriere, ma queste le possedeva la nobiltà, non il popolo, ed erano frammiste alla memoria di aver combattuto sempre come collegato or di questa, ora di quella potenza, il quale continuo barcollare cagionava sfiducia nelle proprie forze.

Quindi il nuovo esercito, che nelle mostre faceva pompa degli ordini e delle evoluzioni del gran Federico, mancava del principale requisito, la forza di coesione. Veniva come secondo difetto la prevalenza de' natali sul merito; quindi i capi dell'esercito erano tutti nobili, i quali avevano dagli avi ereditato la boria e l'ignoranza più che la prodezza, e non avendo mai vestito maglia, né maneggiato lancia, non erano pur per forze fisiche superiori a' plebei, e pero mal reggevano alle fatiche del soldato.

Tale era l'esercito allo scoppiare della rivoluzione francese. In Vittorio Amedeo, come era naturale, prevalse sopra ogni altra cosa la suscettibilità regia, ed in luogo di afferrare la propizia occasione per ingrandirsi, e risparmiare all'Italia l'invasione francese coll'attaccare l'Austria, già soverchiamente travagliata sul Reno, si collegò con questa per vendicare la morte di un uomo, e rigettò le offerte della Francia. Ma la punizione non si fece attendere: a' Francesi era popolare la causa che difendevano, e la vittoria non poteva loro mancare.

I Piemontesi furono tosto re spinti al di qua delle Alpi, e poco dopo battuti completamente in un coloro collegati; Vittorio Amedeo fu costretto ad ignobile neutralità, e l'esercito ebbe l'umiliazione di veder i Francesi scorrere da padroni il paese; da ultimo fu il re cacciato dal trono al semplice cenno d'un generale repubblicano, e l'esercito e lo Stato, dopo qualche altra vicenda, inghiottiti nel vasto impero francese.

La spada de collegati ridonò a Vittorio Emanuele I, ch'era vissuto in Sardegna, l'antico trono ingrandito, e questi disconoscendo i cangiati costumi e i nuovi bisogni, tenace rimase stretto alle antiche istituzioni. Cosi prese a rifare l'esercito, che a' difetti antichi ebbe aggiunta la memoria de' recenti disastri, onde maggiore di venne la sfiducia nelle proprie forze. Indi innanzi Casa Savoia cesso di essere indipendente.

Nelle Sicilie varie dinastie s'erano già succedute e ingomberate sul trono, allorquando parteggiarono i baroni del Regno, onde i re dovettero premunirsi di forza propria per poter fare ostacolo alle ambizioni di quelli. Finché durarono i Normanni non vi furono scissure: alla guerra concordi accorrevano i baroni, seguiti da numerosi stuoli di vassalli: allora erano queste le armi del Regno. Si introdussero con la seguente dinastia le guardie Sveve e la cavalleria alemanna, da que' re assoldate più per mantenere il loro potere nel resto d'Italia, che per propria difesa.

Cominciati a sorgere i venturieri, i re delle Sicilie, siccome ogni Stato italiano, se ne avvalsero, e Manfredi, sotto del quale cominciò a manifestarsi un partito, dal papa fomentato, avverso alla sua schiatta, assoldò compagnie di ventura, e assoldò eziandio molti Saraceni, de quali una colonia, ch'ei specialmente protesse, si stabili in Lucera. Agli Svevi successero i superbi e ipocriti Angioini, i quali prima servironsi di armi francesi, poi de' venturieri italiani, e diffidando sempre più de' baroni del Regno, ampliarono l'istituzione della cavalleria, già prima introdotta da' Normanni, e formarono le compagnie del Nodo, della Nave, della Soma, dell’Armellino.

Ladislao ebbe un esercito più poderoso che i suoi antecessori, capitanato da Alberigo da Bastiano, famosissimo in armi. Ladislao aspirava alla monarchia italiana; ma tosto venuto a morte, fu il suo esercito disciolto, e dalle sue reliquie sorsero le famose compagnie di Fabricio e Giulio Cesare di Capua, e de' Caldori, essendo già chiare le armi de' Sanseverineschi, che vinsero Alberigo. Braccio da Montone, e poi Attendolo Sforza, furono i generali supremi del Regno.

Tanto accadde nel Regno finché sali sul trono l’infame stirpe Aragonese. Ne’ sessantanni che la durò nel regno, tutto decadde, armi, finanze, costumi, e Ferdinando cooperò, come narrammo, con Francesco, Sforza e con gli altri principi e potenti italiani, a disarmare l’Italia, distruggendo i capitani di ventura: quindi le armi del Regno si ridussero a mille corazze, e alle deboli milizie de' Baroni, scissi tra loro, e per la più parte nemici al trono. Sotto il regno del medesimo Ferdinando la nobiltà napoletana fece l’ultimo tentativo per francarsi dalla tirannia di quel principe, il quale era in odio al resto del popolo altresì; e scoppiò, nel 1448, una congiura, che già da tempo si tramava coll’aiuto del papa, e fu combattuta una non breve guerra, nella quale finalmente i Baroni, per discordie surte tra loro, restarono vinti. Dieci di essi, de' maggiori e più noti, morirono sul palco, i loro feudi donati a' favoriti del re, le rocche occupate dai soldati regi. Cosi privato delle armi proprie il regno, siccome era in quel tempo il rimanente d’Italia, e poi conquistato, divenne provincia di un lontano impero.

Nel tempo che si formarono i primi rudimenti dell'esercito piemontese, il regno di Napoli era sotto il governo vicereale, e privo di armi nazionali. Secondo l’arbitrio dei Baroni, i condannati a pene. e i vagabondi, erano vestiti alla spagnuola e per l’utile di Spagna, mandati a militare nell’alta Italia, o nelle Spagne, o in Francia; nel regno erano un qualche migliaio di militi per ogni provincia, e nella città di Napoli ottocento cavallarmati nobili, quasi tutti reputati i migliori d’Italia, e cinquecento cavalleggieri.

Durò un tale stato di cose pel corso di 230 anni, fino allo scorcio dell’anno 1738, allorquando fu il regno conquistato e reso indipendente dall’infante Don Carlo Borbone.

Sotto il dominio di questo saggio, re furono presto organate le forze napoletane, e combatterono valorosamente, durante la guerra della successione austriaca, la battaglia di Velletri, nel 1744. Ventidue reggimenti di fanti, e cinque squadroni di cavalli, in tutto diciannove mila soldati napolitani, e ventimila spagnuoli, furono le forze che il re Carlo oppose all’austriaco generale Lobtwitz.

Gli ordini e la disciplina di coteste truppe non lasciavano nulla a desiderare; essendo organata dagli Spagnuoli, che. primi. furono a ritornare in fama le fanteria, ed erano maestri di guerra in quel tempo, non però andavano esenti da due difetti menzionati per l’esercito subalpino, mancanza, cioè di sentimento nazionale e prevalenza de' natali sul merito.

E se il reggimento tutto feudale di Casa Savoia impedì il progresso di quella milizie, ordinate quasi due secoli e mezzo prima che le napolitane, queste rapidamente decaddero, non già pel feudalismo, già scrollato, ma per:altre. potentissime ragioni, quali furono la. lunga pace e la partenza di Carlo avvenuta nel 1759, la. poca perizia in cose guerresche della reggenza che successe, e poi quella del giovane re Ferdinando Borbone, figliuolo di Carlo, e de' suoi ministri.

Nel 1780 erano quasi caduti in oblio gli ordini e gli usi della milizia, e si aggiungevano a' reggimenti di Cario, infraliti, anzi quasi distratti per vecchiezza, soldati di nuova leva tratti dalle classi più abbiette della società.

Così durarono le cose finché il ministro Acton, famoso per nequizie e per favori della regina, prese a riformate l’esercito. In poco tempo furono posti insieme trenta mila soldati, e Salis Pomereul, Augereau, allora sergente e poi maresciallo di Francia, e il tenente di artiglieria Eble, poi generale di artiglieria, furono chiamati come organatori. Ma spiacque al popolo e all’esercito la venuta di cotesti stranieri; onde furono rimandati, ma senza che toro fossero sostituiti organatori militari nazionali, perocché le leggi, i costumi, lo spirito delle monarchie non sono tali da discernere fra le moltitudini gli eccelsi per merito. Cosi l'esercito, accresciuto di numero, non migliorò di ordini e di dottrina.

La rivoluzione francese, generando nel cuore de’ regnanti di Napoli tema e desio di vendetta; fece rivolgere tutte le loto cure ad accrescere l’esercito e ad apprestare m linimenti di guerra; ma

mentre da una parte incitavano i sudditi alla difesa della patria, della religione, del trono, opprimevanli dall'altra per sospetti e terrori. Il valore di duemila cavalieri, che in Lombardia combatterono contro Bonaparte, la positura geografica del regno ed il grido corso di essere quivi raccolte numerose milizie, fruttarono a Ferdinando un armistizio e non vergognosa pace, che durò tre anni, rotta poi dallo stesso re.

Nel 1798 l’esercito napoletano che mosse contro i Francesi, componevasi di cinquantaduemila soldati, parte antichi, usati a licenza militare più che a. disciplina, parte allora allora coscritti e scontenti; l’intrigo, il servile procedere, la spionaggio erano i meriti per occupare i gradi minori, stranieri quasi tutti i generali e più che ogni altro il duce supremo Mack; epperò i soldati diffidenti degli ufficiali, questi dei capi, e tutti delle proprie forze. La quale moltitudine, piuttosto che esercito, era stretta insieme da un solo legame, odio a' Francesi; e se fosse stata ben diretta e bene amministrata, avrebbe pel numero vinti gli agguerriti avversari; invece suddivisa per concetto strategico e tattica, venne sempre affrontata dal nemico con parità di forze; cosi del solo vantaggio che aveva su di quello, vantaggio di numero, non seppe il capo giovarsi, e l’esercito fu sbaragliato. Alla rotta, come avviene a tutti gli eserciti mal connessi, successe il totale sbandamento e la licenza, essendo natura delle monarchie, che non abbiano grandi meriti e tradizioni guerresche, di non poter mai resistere a un nemico esterno, come che odiato dall’universalità dei cittadini.

Il re se ne andò in Sicilia. Il paese abbandonato a se medesimo aveva la forza per resistere, ma i patrioti, per soverchio fervore, storditi dal grido di libertà francese; accolsero gli stranieri in casa non curando di fondare un nuovo governo autonomo. Cosi i repubblicani per loro colpa, e per colpa de' Francesi diffidenti, rimasero disarmati. Non si volle porre le armi nelle mani del popolo, ma solo in quelle de' patrioti i quali colle migliori intenzioni di formare Guardia Nazionale ed esercito, non ebbero né l'una né l’altro degni del nome.

Quasi tutta la popolazione combatté per proprio conto: vi furono quindici assedii fa città e castella, memorabili solo per ferocia e magnanimità; prove incontestabili di energia nazionale, ma non di buoni ordini militari. Rimase solamente come prova dell’ingegno guerriero italiano, il concetto di Melera, generale napolitano, il quale bene avvisò di concentrare ile forze tutte, lasciare la città, ed uscire alla campagna per potere successivamente battere il nemico ch'era diviso: ma questo disegno, che avrebbe salvato la repubblica, non fu accolto da' ministri.

Ritornato Ferdinando, si ricompose l'esercito. La viltà, il tradimento, l’assassinio, sotto nome di fedeltà al re, furono i requisiti per ottenere militari: Generali rimasero que’ medesimi ignoranti stranieri, non sospetti al re appunto perché non nazionali, i quali nel 1798 avevano cagionato la rotta di cui sopra abbiamo toccato. Della quale spregevole accozzaglia di soldati regi, sedicimila patirono una seconda disfatta, nel 1806, nelle gole di Campotenese.

Il riordinamento dell'esercito napolitano procede a rilento sotto il governo de' re Giuseppe e Gioachino, perché non ancora introdotta la coscrizione, e le popolazioni riluttanti al militare servizio. Si formarono alcuni reggimenti che furono detti de' Veliti, e non prima dell'anno 1809 venne proclamata la coscrizione.

Ai 25 di marzo dello stesso anno l’esercito era già composto, le milizie cittadine ordinate, ed ebbe luogo la pomposa festa detta delle bandiere. Sessantamila soldati, e quarantamila uomini di milizie civili, furono rassegnate. Al 1814 l’esercito napolitano, ad onta della vacillante ed incerta politica del re, combatté alleato degli Austriaci valorosamente, fu vincitore in ogni incentro: né meno odate furono intorno a quel tempo medesimo le napoletane soldatesche che combatterono sai campi di Bautzen e alla difesa di Danzica. L’anno seguente, 1815, mosse tutto l’esercito napoletano contro gli Austriaci col grido di viva la libertà e l’indipendenza italiana. Vittoriosi ne’ primi scontri, furono poscia vinti, perché u» re non poteva compiere l’impresa dell'indipendenza italiana. Murati come ogni re, pensava più a conservare il proprio trono, che a conquistare l'Italia: minacciato da interni rivolgimenti, retrocedette dubitò, fu vinto. Le due campagne, del 1814 e del 1815, furono le sole tradizioni guerriere che aveva quell'esercito, quando i disastri del 1821 le soperchiarono e distrussero.

Ritornato un’altra volta sul trono il Borbone, gli avanzi dell’esercito di Murat, a cui le tradizioni scarsissime erano origine di boria e non di militare sapere, si unirono pel trattato di Casalanza con l’esercito di Sicilia, il quale ozioso durante i rivolgimenti Europei, pur atteggiavasi qual vincitore di nna guerra da esso combattuta. Venne di nome eseguita la unione, ma i favori del re pe' suoi fedeli, e l’occulta diffidenza pe’ Murattisti, facevano sempre più sentire il distacco.

E questi miseri avanzi di milizie divise in due fazioni, l’una superba di sfortunate geste, l’altra d’infingarda fedeltà, vennero ammiserite dalla politica del ministro Medici che credeva inutile l’esercito.

I rivolgimenti del 1820 produssero nello Stato un vasto e superbo movimento guerriero. Settanta battaglioni di milizie cittadine accorsero volenterose, alla difesa della frontiera. Ma quel rivolgimento da' Carbonari promosso, e riuscito solo per debolezza del governo, da tutti seguito, perché tutti sofferenti, da niuno compreso, era prima dei nascere, destinato a perire, perché affidate le sorti della nazione al re stesso e a' capi medesimi avversi a quel movimento, (eccetto che Guglielmo Pepe e pochi altri) sorte comune alle rivoluzioni che non producono radicali cangiamenti. Quindi le armi napolitane non raccolsero altro che vergogna, furono sbaragliate, il regno invaso, le. fortezze occupate, e l’esercito, disciolto. Riordinato poi lentamente, privalo della miglior parte ch'erano i Murattisti, composto solo di gente servile, durò sempre in meschine proporzioni ed in abbandono pei sistema adottato dal Medici, che per soprassetto introdusse i mercenari! Svizzeri.

In Piemonte, nel tempo medesimo, i medesimi rivolgimenti produssero la stesso effetto; ma surta la guerra con anguste proporzioni, furono minori i danni che apportò la disfatta. Gli austriaci, vicinissimi soffocarono sul nascere il movimento, l’esercito soffri la stessa vergogna, ma minori riforme, e solamente alcuni reggimenti andarono disciolti.

Gli avvenimenti del 1820 e 21 furono una lugubre rimembranza per questi due eserciti: i re di Napoli e di Sardegna, che dovevano due volte il trono all'Austria, divennero sudditi dell’impero, ed ebbero poca fiducia ne’ loro eserciti che furono conservati per pompa, per gratificare i favoriti dal trono, e anche perché l’Austria stessa così volle, affine di ottenere in caso di guerra un contingente da cotesti re. Seguirono poscia vicende di poca importanza, secondo l’umore militare de’ principi o de' loro favoriti. Nondimeno nel 1848 questi due eserciti per disciplina e dottrina pareggiavano gli altri eserciti di Europa, ma non avevano generali abili, né sentimento nazionale.

In un giorno i rivolgimenti di Milano del marzo fecero sorgere nell'esercito piemontese un tal sentimento, che invano i re vorrebbero inspirare a lor modo; quindi nacque la fiducia nelle proprie forze, e si coronarono di allori a Goito, a Pastrengo, a Volta. Ma tosto l’intrigo ammorzò l'ardore, la coesione delle file cessò, le corone acquistate furono calpestate vergognosamente a Novara. Se nell'esercito piemontese le arti fraudolenti della camarilla spensero il sentimento nazionale, in quello di Napoli, più lontano dagli avvenimenti, impedirono che sorgesse mai: l’esercito senza nessuna gloria fu vinto a Velletri. Entrambi si macchiarono del sangue dei loro concittadini; quello di Ferdinando a Napoli, a Messina a Catania, l’altro a Genova.

Questi due eserciti, paragonati a quelli delle altre potenze europee, per ordine, disciplina e dottrina non lasciano nulla a desiderare: ma la forza di coesione manca in essi, e per difetto di grandi tradizioni militari, e perché spesso la timidezza dei governi passa fra le loro file: e se per ardore giovanile havvi chi brama la guerra, sperasi sempre di farla come collegati di esercito maggiore che ne assicuri la fortuna. La disciplina non è legame abbastanza forte per tenerne compatte le file in guerra.

Le forze repellenti che risultano dall'indole svegliata e penetrante degl'Italiani, sono troppo potenti. Cosi queste soldatesche nazionali, che potrebbero comporre un’imponente massa di dugento mila soldati, sono di niun valore se per interessi non compresi combattono, sarebbero invincibili se combattessero per una causa sentita e popolare. Solo la volontà universale dell'intera Italia potrà operare questo magico cangiamento, salvare se medesima, e dare a’ suoi militi una patria, e coronarli di gloria.

FINE PEL SECONDO SAGGIO.

NOTE

1 Polibio numera cosi le terze: 80,000 fanti, 6000 cavalli romani; 30,000 e più fanti, 10,000 cavalli cartaginesi.

2 Queste tre campagne di Castruccio si leggono nella sua vita scritta dal Machiavelli, compresa in un volume con tutte le opere di questo autore stampate a Firenze il 1843 co' tipi di Alcide Parenti, pag. 145 a 251; ma gli altri storici, il Villani, il Muratori, il Sismondi e il Botta, e il Giovio nella vita da loro scritta di Castruccio, e lo stesso Machiavelli nelle sue storie Fiorentine, ne discordano. Non fanno, menzione dell'assenza di Uguccione, nella prima campagna, e quindi danno a questo la gloria della giornata; non parlano n della seconda, n della terza, e scrivono solo: che i Fiorentini presero Pistoia, e Castruccio, giunto a corsa da Roma, l'assedio, e non curando le dimostrazioni che fecero i Fiorentini per torlo dall'impresa, dur con costanza l'opera in cominciata, e riprese la citt. Il Muratori dice che molti asseriscono esservi stati altri combattimenti, ed il Machiavelli, poich nulla preterisce nella narrazione di questa campagna, non fa punto menzione di quest'assedio di Pistoia. Or dunque attesa la superiorit del Machiavelli particolarmente in cose militari, sugli altri storici, ed i particolari che narra di queste campagne, abbiamo creduto toccar del vero stimando che Machiavelli abbia giustamente creduto importanti questi avvenimenti, sembrati agli altri di poco momento. Difatti ponendo ben mente a ci che ne scrive il Muratori, pu conchiudersi con certezza, che mentre Castruccio mover contro Pistoia, i Fiorentini gli corsero contro e furono rotti a Serravalle, e Pistoia si rese; dopo due anni tentarono un'altra impresa contro di esso ma vennero rotti a Fuccecchio, quindi concorda col Machiavelli.



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Pisacane e la spedizione di Sapri (1857) - Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito
1851 Carlo Pisacane Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49
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1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. I HTML ODT PDF
1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. II HTML ODT PDF
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CARLO PISACANE Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma

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La quistione napolitana Ferdinando di Borbone e Luciano Murat

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ITALIA E POPOLO giornale politico Pisacane murattisti

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Italia e Popolo - Giornale Politico N. 223 Murat e i Borboni

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Difesa del Cagliari presso la Commissione delle Prede e de' Naufragi

1858

Domenico Ventimiglia - La quistione del Cagliari e la stampa piemontese

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ANNUAIRE DES DEUX MONDES – Histoire générale des divers états

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GAZZETTA LETTERARIA - L’impresa di Sapri

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LA BILANCIA - Napoli e Piemonte

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Documenti ufficiali della corrispondenza di S. M. Siciliana con S. M. Britannica

1858

Esame ed esposizione de' pareri de' Consiglieri della corona inglese sullaquestione del Cagliari

1858

Ferdinando Starace - Esame critico della difesa del Cagliari

1858

Sulla legalità della cattura del Cagliari - Risposta dell'avvocato FerdinandoStarace al signor Roberto Phillimore

1858

The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

1858

Ricordi su Carlo Pisacane per Giuseppe Mazzini

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CARLO PISACANE - Saggi storici politici militari sull'Italia

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Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

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Giacomo Racioppi - La spedizione di Carlo Pisacane a Sapri con documenti inediti

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NICOLA FABRIZJ - La spedizione di Sapri e il comitato di Napoli (relazione a Garibaldi)

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Giuseppe Castiglione - Martirio e Libert࠭ Racconti storici di un parroco dicampagna (XXXVIII-XL)

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Atti del ParlamentoItaliano - Sessionedel 1871-72

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F. Palleschi - Giovanni Nicotera e i fatti Sapri - Risposta alla Gazzettad'Italia

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Luigi de Monte - Cronaca del comitato segreto di Napoli su la spedizione di Sapri

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PAOLUCCI ROSOLINO PILO memorie e documenti archivio storico siciliano

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Rivista di Roma lettere inedite Pisacane Mazzini spedizione Sapri

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RISORGIMENTO ITALIANO - Nuovi Documenti sulla spedizione di Sapri

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ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

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MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

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GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

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GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano







Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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