Eleaml - Nuovi Eleatici


Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

BIOGRAFIA DI GIOVANNI NICOTERA

Estratto dalla Storia del Parlamento Italiano

VOLUME TERZO

PARTE SECONDA

NOCERA INFERIORE

Tipografia Editrice della Vesuviana

1886

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

GIOVANNI NICOTERA

Il Nicotera appartiene alla schiera di quegli uomini, la cui vita è un succedersi di fatti cosi grandi, da potersi scrivere su di essi parecchi volumi.

Raccontare diffusamente la sua vita è impossibile; molti fatti da lui compiuti sembrano episodi di grande epopea; hanno del titanico, confondono e spesso pare incredibile come creatura umana possa esser da tanto. Ma la storia del nostro risorgimento nazionale fa sbalordire; essa in molte pagine par frutto di ardente immaginazione anziché il racconto semplice di fatti realmente accaduti; cosi gli avvenimenti di Sapri, come quelli che all’eroica bravura degli antichi ed illustri Greci si rassomigliano, sembrano leggenda, ma alcuni campioni di quella disperata lotta sopravvivono a confermare con le narrazioni e le cicatrici loro, la verità di quella gloriosa quanto infelice spedizione.

La biografia del Nicotera, ci porge occasione di svolgere una delle più splendide pagine della nostra storia nazionale, travisata da alcuni malevoli, onde appare confusa a molti, con grave rincrescimento di coloro che amano sapere con certezza gli avvenimenti, che sono gloria d’Italia e retaggio ed esempio ai posteri. «Primaria legge della storia, non osare dir nulla di falso, né tacere nulla di vero, che niun sospetto appaia nello scrivere di favore, ninno di odio» con questi principii scriveremo la biografia del Nicotera, che abbiamo tratta dal famoso processo della Corto speciale di Salerno intorno alla spedizione di Sapri nel 1857 e dall’altro di diffamazione del 1876, da testimoni oculari, e da documenti scritti, e cosi potremo con certezza mostrare chi sia Giovanni Nicotera.

Egli nacque il 9 settembre 1828 in San Biase, provincia di Catanzaro, da Felice Nicotera e Giuseppina Musolino, sorella all’illustre patriota Benedetto; studiò nel collegio di Catanzaro ed ebbe a maestro Luigi Settembrini. A 14 anni era già ascritto alla Giovane Italia; a 19, perseguitato pei moti liberali di Reggio di Calabria, dovette mantenersi latitante sino al gennaio del 1848, nel quale tempo Ferdinando II diede la Costituzione; allora fu nominato comandante la Guardia Nazionale del suo paese. Dopo gli eccidi di Napoli del 15 maggio di quell'anno, compiuti per ordine del re fedifrago, il Nicotera fu uno dei capi più attivi della rivoluzione calabrese, e nel fatto d’armi di Angitola, la compagnia da lui comandata, sostenne valorosamente lo scontro di agguerriti soldati, dando cosi tempo al generale Stocco, capo comandante degl'insorti, di scendere, co’ suoi da Filadelfia e sconfiggere i borbonici. Terminata infelicemente la rivoluzione calabrese, il Nicotera, coi due suoi zii, Benedetto e Pasquale Musolino, andò a Corfù, poscia in Ancona e finalmente a Roma. Con altri emigrati prese parte alla dimostrazione per chiedere a Pio IX la Costituente e di proseguire la guerra contro l’Austria, e combatté gli Svizzeri al Quirinale.

Decretata la Repubblica nella sera del 29 aprile 1849, il Nicotera, all’una dopo mezzanotte, si arrolava come semplice soldato nella Legione Italiana, e all’alba era a Porta San Pancrazio col Garibaldi. Cominciato il combattimento, il generale s’accorse che i francesi, da un villino, puntavano un cannone per tirare sulla porta; allora prese cento de' più valorosi giovani, per muover contro il nemico, ma un cancello chiuso impedisce di passare; due coraggiosi cercano farne la scalata, ina gloriosamente periscono di piombo nemico. Terzo a tentare la pericolosa impresa è un giovanetto di vent'anni, è il Nicotera, che pi ii fortunato dei compagni riesce a schiudere i battenti del cancello, ed armato di solo pugnale, seguito da tutti gli altri, in mezzo al grandinar delle fucilate, corre primo fra tutti, alla palazzina. I francesi atterriti, si dànno prigionieri, ed il maggiore, loro comandante, consegna laspada al coraggioso Nicotera, che viene subito dal Garibaldi nominato luogotenente e comandante di una compagnia, con ordine di prender posto agli acquedotti e di non muoversi fino al suo arrivo. Il Nicotera ubbidisce; dopo mezz’ora, due compagnie francesi, messe in ritirata dal Garibaldi, incontrano gli uomini comandati dal valoroso calabrese, tentano aprirsi una via, ma non riescono e son costretti darsi prigionieri: venner poscia scortati in Roma a San Luigi dei Francesi, dalla compagnia del Nicotera, al quale il generale Garibaldi, in segno di onore, aveva affidato quest'incarico.

A Palestrina fece molti prigionieri napolitani; a Velletri, con la sua compagnia, impedì alla cavalleria borbonica di caricare i garibaldini, che insieme col loro duce, stavano sulla strada. Intanto il Nicotera ottenne passare nella Legione Lombarda, comandata dal valorosissimo colonnello Manara, il quale sentiva, pel giovane luogotenente, un affetto paterno. Al 3 di giugno i francesi ripigliano le ostilità; terribili sono gli scontri da ambe le parti; alle tre pomeridiane, in uno degli assalti al casino dei Quattro Venti, il Nicotera vien colpito alla testa ed al braccio da due palle, cade privo di sensi, e creduto morto, e già stavano per seppellirlo, quando accorgendosi che dava segni di vita, lo trasportarono all'ospedale. La sua bravura gli meritò la promozione a capitano e una delle trentacinque medaglie di argento date al valore. Con le ferite ancora aperte, ritorna a combattere a porta S. Pancrazio, ed ogni sera a lui viene affidato il rapporto pel Triumvirato, non permettendo il Manara, che passi le notti al servizio del campo.

Caduta la Repubblica, tutti i suoi difensori dovettero, per ordine del generale Audinot,’partire da Roma; alcuni, però, non si diedero per intesi del comando, e nella sera del 4 dicembre 1849 il Nicotera, il Musolino, il Mauro, il Miceli ed altri pochi vennero arrestati e condotti a Civitavecchia, per essere dai repubblicani francesi, consegnati al governo napolitano! Ciascuno di essi era munito di passaporto inglese e per i buoni uffici di quel console Phriborn, poterono imbarcarsi su vapore francese per essere condotti a Marsiglia. Arrivati a Genova, ottennero scendere a terra con pretesto di visitare la città, e vi rimasero con permessi di breve durata che il generale Lamarmora rinnovava sempre al loro scadere.

Dal 1850 al 1857 il Nicotera rimase in esilio in Piemonte, mostrandosi sempre generoso verso i suoi compagni di sventura, severo e geloso del decoro dell'emigrazione e in Torino lavorò nello studio del grande giureconsulto e patriota P. S. Mancini.

Era in quella città il generale Raffaele Poerio, proscritto fin dal 1831, il quale saputo che tra gli emigrati era Giovanni Nicotera ed essendo amico della famiglia di lui, volle conoscerlo, e strinsero tra loro grandissima amicizia. Quando il generale venne colpito da improvviso malore, che in breve lo trasse a morte, il Nicotera lo assistette con affetto di figlio e da quel di considerò come sua la famiglia del distinto patriota, e dopo qualche tempo divenne fidanzato a Gaetanina, figlia del generale e cugina del rinomato Carlo Poerio.

Durante la sua dimora in Torino, spesse volte si recò in Isvizzera dal Mazzini, il quale aveva in altissimo concetto, il patriottismo, il coraggio, l’energia e i savi consigli dell’esule calabrese.

Nato cospiratore, amante della libertà e della grandezza d’Italia, non fa meraviglia vedere il Nicotera, spingersi fino al Ticino insieme con pochi altri, comandati dal Calvi, i quali dovevano prender parte al moto di Milano del 6 febbraio 1853.

Nel 1856 il Cavour, volendo conoscere l’entità dell’insurrezione di Sicilia, chiedeva al La Farina un giovane per inviarlo nell'isola, e per la proposta di Antonino Plutino si rivolse al Nicotera, che senza esitare accettò il pericoloso incarico, quantunque su lui pesasse la condanna in contumacia di ventotto anni di ferri per la parte presa nella rivoluzione del 1848. Munito di passaporto con altro nome e con credenziali della casa Bolmida, per negozi di commercio, arrivò in Genova per imbarcarsi, ma contemporaneamente giungeva la notizia della impiccagione del martire Bentivegna, capo dell'insurrezione siciliana, ed il Nicotera fu richiamato a Torino dal conte di Cavour.

Si era nel 1857 quando Carlo Pisacane meditò la spedizione di Sapri, e pieno di fede nelle assicurazioni del Comitato di Napoli, voleva mettere in effetto il suo pensiero, quantunque gli fossero contrari, il Mazzini, che avrebbe voluto andare nel Napolitano con una forte spedizione di navi da guerra, di uomini, e di armi, procurati con la rivoluzione ch'egli aveva organizzata in Genova, ed il Nicotera, che aveva mossi gravi dubbi sulle asserzioni del Comitato di Napoli, perché conosceva le condizioni del reame; il Pisacane fu irremovibile, e ripeteva le parole del Comitato: «Noi saremo come una bandiera su di un monte, al cui apparire tutte le popolazioni insorgeranno,» e quindi soggiungeva: «Lasciate a noi il merito di liberarci senza aiuti esterni.» Il Nicotera accettò di prender parte alla spedizione quantunque ne fosse contrario, e prossimo ad unirsi in matrimonio con la Poerio. Dovendo andare a Genova per allestire, col Pisacane, la spedizione, disse alla sua fidanzata dover egli recarsi in Sardegna per trattare affari di tonnaie per incarico di un negoziante di Genova, amico della famiglia Poerio. Il 23 di giugno il Nicotera partiva da Torino, e strana combinazione, il 24 giungeva in quella città il negoziante, il quale recatosi dai Poerio e richiesto dell’incarico affidato al Nicotera, disse non saper nulla. Ne fu telegrafato al giovane calabrese perché tornasse in Torino, e siccome questo telegramma poteva destar sospetti alla polizia, cosi il Nicotera lo mostrò al Mazzini ed al Pisacane, e fu risposto che in breve sarebbe ritornato in Torino. Si diedero subito a provvedere armi e denari, il Mazzini dette dieci mila lire, e il La Farina, membro del Comitato Nazionale, trecento fucili, al quale Antonino Plutino, aveva dato a credere che servivano per la Sicilia. A mezzogiorno del 12 giugno 1857 moveva dalla rada di San Pier d’Arena una barca, coi fucili, montata da Rosolino Pilo e da venticinque giovani, che dovevano poi trasbordare a trenta miglia da Genova sul vapore diretto alla Sardegna e a Tunisi.

Su quel vapore avrebbero trovati come passeggeri il Pisacane, il Nicotera, il Falcone e il Daneri con ventiquattro giovani tutti armati di revolvers e pugnali. Nella notte scoppiò fiera tempesta, e la fragile barchetta dové ritornare a Genova, e gettare in mare i fucili, per eludere la vigilanza della Dogana. Per quest'incidente, invece del Cosenz, che doveva dirigere il movimento che, simultaneamente allo sbarco di Sapri, doveva scoppiare in Napoli, parti per quella città il Pisacane, per avvertire il Comitato di quanto era accaduto, servendosi del passaporto del Cosenz che aveva altro nome. Intanto il Nicotera provvedeva in Genova alla nuova partenza, ed ebbe da Giuseppe La Farina, con lo stesso pretesto, altre duecento carabine, dal Mazzini cinque mila lire, le quali però essendo insufficienti, il Nicotera, firmò una cambiale di sei mila lire ai fratelli Antonino ed Agostino Plutino, ed un’altra di ugual somma al negoziante Raffaele Todros,il quale nel 1860, quando il Nicotera gliele restituì, rifiutò gl'interessi pattuiti!

Ritornato a Genova il Pisacane, volle sollecitare immediatamente la partenza, perché si sapeva che ad Aix-les-Bains, dei napoletani erano sul punto di fare una spedizione nel reame di Napoli per rimettere sul trono i Murat.

Per questa restaurazione, contraria all’unità italiana, fin dal 1855, avevano energicamente protestato, sul giornale di Torino il Diritto, molti napoletani tra i quali ricorderemo, il Mancini, il Nicotera, promotore di questa pubblica dichiarazione, il Pisacane, Domenico Mauro, Francesco Giordano, Enrico Cosenz, Luigi Miceli, Rosolino Pilo, Tito Trisolini, Matteo Augusto Mauro e vari altri.

Il 23 di giugno parti da Genova, su di una barca, Rosolino Pilo co’ suoi compagni ed i fucili; il di seguente alle 5 pomeridiane salpava dallo stesso porto, il Cagliari con ventiquattro giovani, tra i quali il Pisacane e il Nicotera. Nell’abbracciarli, il Mazzini disse loro: Lo avete voluto, Iddio vi aiuti. A trenta miglia da Genova si impadronirono del vapore e ne affidarono il comando al Daneri.

Intanto la barca montata dal Pilo, per imperizia del pilota, dovette ritornare in Genova, avendo preso la rotta di Livorno, invece di quella stabilita. Il Pisacane, col Nicotera e col Falcone, nella mattina del 25 risolvettero non aspettarla, e recarsi invece subito a Ponza. I loro giovani compagni conoscevano per intero il grave pericolo cui movevano contro, pur si disser pronti ad obbedire (1).

Il Nicotera venne a sapere dai marinai che sul piroscafo eravi un carico di armi e di polvere dirette a Tunisi; allora insieme col Pisacane obbligò il capitano Sitzaa farne ad essi la consegna e cosi distribuirono ai loro compagni 75 fucili, altrettanti tromboni e tutta la polvere.

Alle 11 antimeridiane del giorno 26 il Cagliari gettava l’ancora a Ponza, e issava bandiera di soccorso; poco dopo videro venire verso loro il pilota pratico, lo invitarono a salire, dicendo che la macchina era rotta e che mancavano di acqua; il pilota rispondeva esser necessario che prima il capitano andasse a prender pratica alla Deputazione di salute; ma tanto insistettero, che il pilota cedette al loro invito. Giunto sulla tolda della nave, il Pisacane, il Nicotera e il Falcone gli furono addosso, e minacciandolo con le pistole lo costrinsero a dar loro tutte le informazioni sulle caserme, sui posti di guardia, sulla casa del comandante l’isola. In quel mentre giungevano un ufficiale di piazza ed il comandante del porto, che rimproverarono aspramente il pilota di esser salito sul Cagliari prima di adempiere le formalità di uso. Questi allora, ripetè le parole che gli venivano suggeriti dal Pisacane e dal Nicotera scusandosi ed invitandoli a salire, urgendo colà la loro presenza; non vollero saperne; il Nicotera chiese se poteva, egli passeggero, scendere per visitare l’isola. Avutone il permesso, montò sulla barca del pilota, e con un salto entrò in quella dei due ufficiali, obbligandoli con le minacce a salire sul vapore, e cosi ottennero più precise informazioni sopra l’isola. Fu stabilito che quattordici di loro sarebbero rimasti a guardia del vapore e dell’equipaggio; il Nicotera, il Falcone e il Daneri sarebbero scesi a prender pratica e chiedere al comandante la piazza di visitare l’isola; in quel frattempo il Pisacane con dieci uomini sarebbe corso a dare l’assalto alla Gran Guardia, ed avvisati dalle loro grida il Nicotera ed il Falcone avrebbero costretto il comandante di ordinare ai suoi soldati di non resistere, quindi uniti sarebbero andati al Castello, nel quale eravi un battaglione di soldati. I deputati sanitari erano tutti assenti dall’ufficio; il Nicotera co’ suoi, chiese invano ad un impiegato di scendere a terra. In quel mentre, sentendo le grida convenute col Pisacane, con un rapido sguardo egli, il Falcone ed il Daneri si compresero, saltarono dalla barchetta, gettarono in mare due soldati ch'eran di guardia, quattro ne rinserrarono nell’ufficio, rimanendo il Falcone a custodirli, ed il Nicotera col Daneri corse alla lunetta ad inchiodare i due cannoni posti a guardia del porto; poi sempre di corsa, giunse sulla strada che conduce alla Gran Guardia dov'era il Pisacane; il Nicotera grida: All'assalto! Pisacane e i dieci suoi compagni obbediscono, ma trenta colpi di fucile partono dai borbonici, e il Camillucci ed il Bonome ne sono colpiti a morte. Non si sgomenta il piccolo drappello, il desiderio di vendicare quei valorosi e di conseguire lo scopo della spedizione, dà loro coraggio da leoni, e mettono in ritirata i soldati, e li assalgono a tergo obbligandoli a deporre le armi. Il Nicotera da solo va dal comandante per intimargli la resa; per le scale incontra il tenente Balsamo della Gran Guardia, che egli credeva fosse il comandante della piazza, nasce tra loro breve e terribile lotta, ma l'ufficiale cade vittima del suo valore. Avvertito il Nicotera dell'errore, ritorna all'abitazione del comandante, ma la porta essendo ben chiusa, con due colpi di revolver gli riesce aprirla. In una camera trova il comandante, maggiore Astorini, con la moglie e la figliuola che con le loro persone gli facevano scudo e per lui imploravano grazia di vita. Il Nicotera le rassicurò, ed insieme col coraggiosissimo Foschini ed all’Astorini si recò alla casina militare, luogo di ritrovo degli ufficiali, per ordinare a questi che intimassero ai soldati del Castello di cessare la fucilata. La porta fu aperta a colpi di scure; nessuno de' 23 ufficiali fe’ resistenza, e tutti andarono col comandante al Castello: consegnarono 500 fucili e 19 casse di munizioni al Pisacane ed al Nicotera, i quali, insieme coi loro amici, si recarono alle caserme a liberare i relegati ivi rinchiusi, e grande fu la loro maraviglia nel vedere che, meno pochi, eran condannati per reati comuni, e tutti poi ignoravano i tentativi del Pisacane, contrariamente a quanto aveva asserito il Comitato di Napoli.

Poscia il Pisacane ed il Nicotera salirono sul vapore per disporre la partenza, dando incarico al Falcone d’imbarcare uomini ed armi. Ad un tratto il Pisacane si accorge che una barca, con tre uomini, usciva dal porto di Ponza, evidentemente per recar novella a re Ferdinando di quanto era avvenuto.

Ratto il Nicotera scende in barca, per raggiungerli, ma urtato da un marinaio cade in acqua; incapace al nuoto, imbarazzato dagli abiti di velluto, già stava per perire, quando due coraggiosi amici lo traggono dalle onde, poscia, per la gran quantità d’acqua ingoiata, lo pongono col capo in giù e lo salvano cosi da certa morte. Questo incidente cagionò gravissimo danno, perché, oltre a non impedire la partenza delle spie, non poterono salpare l’àncora che a mezzanotte del 27, e quando durante la navigazione, organizzarono in quattro compagnie, i 500 rilegati di Ponza, s’accorsero che non vi erano a bordo i fucili e le polveri di cui si erano impadroniti e che mancavano ancora, 15 fucili dei 135 portati da Genova, imperocché molti dei relegati invece di aiutare a trasportare le armi e le munizioni, le avevano vendute agli abitanti di Ponza. Laonde armarono soltanto quegli uomini che avevano prestato militare servizio, 11 dei quali appartenevano alla compagnia di Agesilao Milano.

Alle 5 pomeridiane del 28, il vapore giungeva a Sapri; compiuto lo sbarco, esso ripartì, salutando con un colpo di cannone quei generosi. Da quel momento cominciarono le disillusioni; non videro la barca che doveva recarsi nel Cilento ad annunziare il loro arrivo, né i duemila insorti, né il barone Gallotti che doveva comandarli, come aveva assicurato il Comitato di Napoli.

Al Nicotera fu affidata l’avanguardia di trenta uomini, tra i più coraggiosi e i meglio armati; cento senza armi, guidati dal Falcone, formavano la retroguardia; tutti gli altri stavano nel centro, agli ordini del Pisacane. S’incamminarono verso la città in tre gruppi alquanto distanti tra loro. Quand’ecco si ode un forte e cadenzato calpestio, l’avanguardia si distende in catena e poco dopo comparvero molti urbani comandati dal loro capo Peluso, assassino del grande patriotta Carducci-Celentano. Gli urbani avevano bandiera spiegata, perché credevano render onori ' militari a soldati di Ferdinando. A mezzo tiro di fucile il Nicotera diede il segnale di attaccare i borbonici, ed in breve li fece tutti prigionieri, meno il Peluso che arditamente si salvò gettandosi in mare. Si recarono poscia in casa del ricevitore Peluso, fratello al capo urbano, ma non vi trovarono che la moglie ed i figliuoli, che per aver salva la vita, offrirono denari al Nicotera il quale rifiutò. A guardia e a difesa della donna e dei bambini, lasciò due dei suoi amici di quelli imbarcati a Genova.

Dopo di ciò, Carlo Pisacane mandava al Nicotera quest'ordine: Provvedete viveri, marciate per Torraca, vi seguirò ad un quarto d'ora di distanza. Non essendovi nel paese né sindaco, né altre autorità, per ottenere vettovaglie, si rivolse al parroco, che le rifiutò animosamente, e fu solo per le minacce di venir fucilato che diede pane e cacio. Il governo borbonico, che generosamente premiava quelli del suo partito, conferì poi al parroco la medaglia d’oro di Francesco I ed una pensione mensile di 70 ducati, circa 300 lire italiane!

A Torraca furono accolti festosamente ed il sindaco nel vederli gridò: Viva Murati Ma nessuno comprese lo scopo di quella spedizione, ch’era di abbattere il Borbone e proclamare la Repubblica.

In questo paese avvenne un fatto degno di menzione: il Nicotera, saputo che un delegato di Ponza aveva rubato ad una povera donna 18 carlini, corrispondenti a lire 7,65, le donò un napoleone d’oro, e, riconosciuto il colpevole, ordinò subito un Consiglio di guerra e venne immediatamente fucilato.

Dopo tre ore di sosta ripresero la via per Fortino con là speranza di trovarvi il barone Gallotti, ma non vi rinvennero che il figlio, il quale disse non sapere dello sbarco di Sapri, e che il padre si era recato a Lagonegro per presentarsi al sotto intendente, essendo egli un attendibile, ossia un sospetto politico.

Nella notte del 29 vennero visitati da due giovani di Padula che affermarono esservi in quella città circa ottocento uomini pronti a seguirli; perciò all’alba fu tenuto consiglio, tra il Pisacane, il Falcone ed il Nicotera, pei deliberare sul da farsi. Quest’ultimo sosteneva di portare la rivoluzione in Calabria, essendo quegli abitanti più disposti ad insorgere che quelli di Potenza, ed avvalorava il suo dire mostrando come erano stati tratti in errore dal Comitato di Napoli, e perciò non essere prudente inoltrarsi in un paese ostile e dove non vi avevano amici. Anche questa volta prevalse l’opinione del Pisacane, il quale sperava di trovare in Potenza Giacinto Albano alla testa di sei mila armati.

Alle sei del mattino del 30 giugno si diressero in tre gruppi verso Padula; passando per Casalnuovo, la compagnia comandata dal Nicotera, mise in fuga sessanta gendarmi; allesei pomeridiane arrivarono a Padula, e seppero dai fratelli Santelmo che tanto loro quanto gli abitanti ignoravano assolutamente che vi fossero tentativi di insurrezione, e che perciò nulla vi era di preparato.

Furono immediatamente spediti messaggeri nei paesi vicini, per incitare gli attendibili a venire in loro aiuto con uomini ed armi. Nessuno rispose all’appello!

All’alba, ed era quella del 1° luglio, il Nicotera col cannocchiale esplorò da un’altura la sottostante valle e scopri che nel paese di Sala Consilina vi erano molti urbani e gendarmi. Ne riferì al Pisacane ed al Falcone ed insieme scrissero un caldo appello a quei di Padula per avere aiuti di uomini, di armi e di viveri, ma non ebbero né un uomo, né una cartuccia, né un sorso d’acqua!

Carlo Pisacane occupò la vallata con tutti gli uomini che avevano fucili, meno sessanta, che agli ordini del Nicotera presero posto sull’altura, dove sventolava la bandiera dai tre colori. Tutti gli altri, armati di bastoni, o di picche, o di pistole, comandati dal Falcone, aspettavano, al limitare del paese, i borbonici.

Primi a comparire furono molti urbani: lo scontro fu terribile essendo questi bene armati, gli altri non avendo che arditezza e indomito coraggio: parevano due oceani infuriati, che i venti spingevano l’un contro l’altro! Il Falcone fa miracoli, lo sgomento è già nelle file nemiche, che sono assottigliate e per la fuga di molti e per le gravi perdite sofferte in quella feroce mischia, corpo a corpo; finalmente i borbonici si dànno disordinatamente a fuggire, lasciando molti dei loro nelle mani del Falcone, che in breve potè armare quasi tutti i suoi uomini.

Ma ecco comparire il 5° cacciatori e moltissimi gendarmi, agli ordini del tenente colonnello Ghio. I regi sono di molto superiori agl'insorti, ma questi non indietreggiano, non uno fugge e a similitudine dei compagni di Leonida, pareva che non a morte, ma a danza o a splendido convito andasse ciascun di loro. Dalle otto del mattino alle due dopo il mezzogiorno durò il fuoco da ambe le parti; gl’insorti cui aggiungeva forza il furore, parevano centuplicati; il loro coraggio teneva luogo di numero. Ma, se da un lato, non un palmo di terreno avevano perduto, dall’altro, però erano esaurite le munizioni, e bisognava provvedere subito.

Il Pisacane passa per tutta la linea di battaglia dei regi; egli è fatto segno delle palle nemiche, ma giunge miracolosamente incolume al Nicotera per mettersi con. lui d'accordo sul da farsi. Lo trovò calmo, vicino alla bandiera lacera dalle palle; intorno a lui, tra i morti, giacevano i loro compagni imbarcati a Genova: Luigi Barbieri, Ludovico Negroni e Lorenzo Giannone.

Era opinione del Pisacane riunire tutti gli uomini e gettarsi con arma bianca, compatti ed inaspettati, sui regi; sarebbero periti certamente, ma i borbonici avrebbero provato quanto cara costava la vita di ogni insorto. Prevalse la proposta del Nicotera di ritirarsi ordinatamente a Padula, donde avrebbero presa la via del Cilento, terra di antico e provato patriottismo, nella quale avrebbero trovato amici ed aiuti. Cosi fu convenuto, e per non dare a conoscere la cagione di quella ritirata, il Nicotera, rimasto di retroguardia, ordinò sui regi, una scarica bruciando le ultime cartucce. Giunti a Padula, i relegati, che durante il combattimento si erano mostrati coraggiosissimi, non vollero seguire il consiglio del Nicotera, né comprendendo che la loro forza era lo stare uniti, si sbandarono per la città, e per la campagna; cosi 103 vennero presi dai borbonici che spietatamente li fucilarono.

Se maggiore strage non venne fatta lo si deve al coraggio del capitano di gendarmeria a cavallo Morcaldi; (2) questi avvertito dal sergente della stessa arma, Francesco Cocco, che i cacciatori entrati a Padula fucilavano i prigionieri, si portò al galoppo alla Certosa, dove il Ghio ed il maggiore Girolimo de Liguori, avevano il loro quartier Generale, ed informatili di quel truce fatto, pregò il Ghio d’interporre la sua autorità per far cessare l’inconsulto macello. Il Ghio non si mosse ma delegò lo stesso capitano a far rispettare dai soldati la legge e l’umanità!

Il Morcaldi entrò in città, e con suo grave pericolo potè frenare quella briaca soldatesca dal proseguire gli eccidii, gl’incendi ed i saccheggi.

Cento soltanto non abbandonarono i tre valorosi condottieri. Sul tramonto, dopo aver guardato un torrente, giunsero alla montagna di Buonabitacolo. Fu impossibile proseguire il cammino e si gettarono al suolo affranti, si per la fatica del lungo e disperato combattimento, si per il digiuno che pativano da due giorni.

Il Nicotera, invece, si diede a cercar un po’ di frutta, ma invano: quando scorse un pastore che gli disse non esser molto discosto il piccolissimo paese di Sanza, ove avrebbe avuto per sé e pei suoi compagni abbondanti vettovaglie e si propose di condurvelo, onde ebbe dal Nicotera cinque Napoleoni d’oro.

La speranza di trovare dei viveri ridiede a tutti la forza di continuare il cammino. Eran già due ore che si aggiravano nel bosco, detto dell’inferno, quando il pastore disse avere smarrita la via, e dovettero quindi pernottare colà.

All’alba scopersero che il piccolo paese di Sanza era invece una grossa borgata, ed allora s’accorsero che la guida non era che una spia, ma pure non l’uccisero!

Saputo dai loro esploratori, che nel paese non vi erano soldati, ripresero la marcia, la quale, era aperta dal Pisacane e dal Nicotera, che teneva spiegata la bandiera, e 18 uomini, gli unici che avessero ancora fucile con baionetta. Giunti al limitare del paese, udirono il suono a stormo delle campane, e tosto furon presi in mezzo da un vivissimo fuoco che partiva da un convento alla loro sinistra, e s’incrociava con quello, ben nutrito, alla loro destra, che veniva fatto dietro un muro.

Di corsa, l’avanguardia giunge sulla piazza, dove erano raccolti uomini, donne e ragazzi armati, armati di picche, scuri e bastoni; Carlo Pisacane grida: Moriremo tutti ma non faremo strage di fanciulli e di donne, e retrocedendo, entrarono in un burrone che menava al bosco, sul limitare del quale, ripararono i relegati di Ponza.

L’esser presi di mira, senza vedere di fronte il nemico e potersi da lui difendere, l'aspetto di una popolazione furibonda, in cui persino le donne si erano sollevate per colpirli, misero il terrore in quei relegati, che poco prima avevano sgominato, per la bravura, le ben armate e disciplinate milizie di Ferdinando II.

Invano il Nicotera, cercò d’incoraggiarii e persuaderli a raggiungere i loro compagni che stavano nel burrone, e che tutti uniti avrebbero vinto facilmente quella turba disordinata: ma non fu obbedito.

Allora li abbandonò per correre dai suoi amici, e dividere insieme la medesima sorte.

Come si può ridire l’orrida scena che colpi il suo sguardo? Il coraggioso Foschini, dopo una eroica difesa, per non cader vivo nelle mani di quei forsennati, erasi ucciso con l’ultimo colpo del suo rerolver! Poco discosto da lui giaceva cadavere il Falcone. Che era stato di Carlo Pisacane? Combatteva egli ancora, o era stato preso da quei ferocissimi uomini? Lo cercò, ed allo svolto di una strada, riconobbe in un informe cadavere quello dell’amato compagno. Lo sollevò fra le sue braccia, sperando che quel cuore, che tanto avea battuto di amor patrio, vibrasse ancora, ma cinque colpi di scure gli avevano spaccato il cranio, la faccia, ed aperto il petto, e cosi gloriosamente era caduto martire per l’Italia.

Il dolore aveva instupidito il Nicotera e fu soltanto scosso dalle grida della popolazione, la quale, pari all’onda di mare in burrasca, s’avanzava terribile, nella sua furibonda crudeltà. Egli ebbe appena il tempo di deporre al suolo il dilettissimo compagno, e sorgere in piedi, per vendere a caro prezzo la sua vita, quando vide, dietro una quercia, la bocca di un fucile, corre da quella parte, ma viene colpito alla mano destra da una palla; ciò nonostante, insegue il feritore, che erasi dato a precipitosa fuga. Ma il Nicotera vien raggiunto dalla plebaglia, che lo colpisce al capo con scure e credendolo morto, lo abbandona al suolo ove rimase parecchie ore.

Narrò poi il capo urbano Sabino Laveglia, che girando pel campo a raccogliere i feriti, s'imbatté nel corpo di un uomo, che dal suo abito di velluto e dal cappello alla calabrese, arguì essere uno dei capi, ed accortosi che respirava ancora lo fece denudare, legare e cosi trasportare al paese su due bastoni a forma di barella. Giunti a Sanza, le donne condotte dal parroco, non sazie ancora di tanto sangue versato, si diedero con inauditi ferocia, a percuotere quell'uomo, più morto che vivo, ed anche uno storpio, cui il Nicotera aveva anteriormente regalato un napoleone, non potendo giungere a dargli un colpo, gli gittò una sua gruccia.

Finalmente un urbano si oppose, che si continuasse a malmenarlo e con acqua lo ravvivò e fecelo trasportare nell'atrio del convento, dove erano stati deposti altri 28 feriti, anch'essi nudi.

L’urbano, col pretesto di esaminare la mano lacerata dalla palla, gli fece un segno massonico, e gli disse in francese: Sono Vostro fratello.

Se tale siete, non pensate a me, andate alla valle, troverete un cadavere dai capelli e dalla barba bionda colpito alla testa e al petto da scure; evvi su lui una borsa, bruciate tutte le carte, e i danari sono vostri.

Fu esaudito; il corpo del Pisacane era stato denudato; le carte sparpagliate al suolo, vennero bruciate dall’urbano; tra queste eravene una che poteva tornare assai innesta ai liberali, era lo stato nominativo di tutti gli affiliati della provincia di Salerno; ma per buona sorte anch’essa venne distrutta: non cosi quattro lettere del Comitato ed un portafogli, che erano spariti coi denari.

Da qualche tempo era terminato il conflitto, ed i feriti giacevano nudi al suolo, privi di ogni assistenza, quando giunse a Sanza una compagnia del 9° reggimento cacciatori, comandato dal colonnello Marulli. Quei barbari soldati si diedero ad insultare e percuotere, con il calcio dei fucili, i disgraziati feriti; mentre un loro tenente gridava minaccioso: Mostratemi il capo.

Il Nicotera si drizzò a stento sulla persona, e, tenendosi appoggiato al muro, rispose arditamente: Io sono il capo; colpitemi qui al petto, voi non siete soldati d’onore, voi malmenate i prigionieri che sono sacri. — Come vi chiamate? gli domandò il tenente. — Giovanni Nicotera, rispose il ferito. L’ufficiale ne fu sorpreso, e gli disse avere abitato nel 1848 in casa del barone Nicotera. Poscia si allontanò e bisbigliò qualche parola al suo capitano, il quale fece slegare le mani ed i piedi al Nicotera, ed ordinò gli venissero lavate e bendate le ferite un monaco gli diede una coperta ed un paio di scarpe. Nel convento ebbe dal giudice un primo interrogatorio, al quale rispose dicendo che i suoi compagni e lui avevano in animo di abbattere la dinastia dei Borboni, proclamare la repubblica, e liberare l’Italia dallo straniero. Poscia fu condotto da due soldati sulla piazza, ove erano i morti, per indicare al capitano il cadavere di Carlo Pisacane. Fu questo uno dei più aspri dolori ch'ebbe a soffrire, nella sua vita travagliata, quell'anima fortissima. Alla vista di quegli ottantatré cadaveri, non potè dissimulare l’interna commozione. Riconobbe l’amato Falcone, il valoroso Foschini, Domenico Rolla, Giovanni Sala e Clemente Conti, tutti suoi amici, imbarcati a Genova. Indicò le spoglie gloriose di Carlo Pisacane e allora con disperato dolore volgendosi al capitano, disse: Fucilatemi presto, non tenetemi in questa tortura.

Rientrati nel convento, l’ufficiale ordinò che tutti quei morti venissero bruciati sulla piazza, e poco dopo il Nicotera udì, tra le grida della plebaglia, il friggio delle carni de' suoi eroici compagni. Più volte chiese gli fosse dato gettarsi in quelle fiamme, per terminare presto la sua agonia, già troppo lunga.

Il capitano ordinò che tutti i feriti venissero ben legati e condotti a Buonabitacolo, ed il Nicotera, come più gravemente ferito, fu posto su di un asinello e sorretto da due soldati.

I ferocissimi abitanti di Sanza volevano trucidarli, e se non riuscirono nel barbaro intento, fu solo perché i soldati li circondarono e li difesero.

Giunti a Buonabitacolo il colonnello Marulli scagliò insulti ed ebbe ardire di percuotere il Nicotera, il quale si diede a gridare: vigliacco, fammi slegare, e vedrai se anche ferito saprò risponderti come tu meriti!

La condotta del Marulli fu cosi indegna, che il capitano Demerich, che funzionavo da commissario relatore, pregò il colonnello a desistere, e fece trasportare il Nicotera in una stalla dove erano già stati rinchiusi tutti i suoi compagni. Dopo tre giorni, ed era il 6 di giugno, vennero posti su carri e trasportati a Sapri.

Non staremo a ricordare i tormenti patiti durante trenta miglia di viaggio, sotto un sole ardente, con le ferite scoperte e non mai curate; diremo solo che due infelici perirono in quel tragitto.

A Torraca rivedere la povera, cui il Nicotera aveva regalato il napoleone, per indennizzarla dei 18 carlini che le erano stati rubati. Questa donna era la più furibonda, armata di coltello, gridava: Lasciatemi vedere queste capo di briganti, voglio ucciderlo con le mie mani.

Verso le sei di sera giunsero a Sapri: il famigerato capo urbano Peluso voleva uccidere il Nicotera, il quale fu salvo dal leale capitano, che tanto umanamente lo aveva trattato a Sanza e durante il viaggio. Questo ufficiale, dando una piattonata con la spada al Peluso, gli disse: Vigliacco, ora che è prigioniero e ferito lo volete uccidere; dovevate farlo quando qui giunse, e che poteva difendersi!

Tutti i prigionieri vennero imbarcati sul vapore che aveva condotto il 9° cacciatori e che allora salpava per Salerno, ove giungeva il 7 luglio.

Nelle deserte vie, non una porta né una finestra erano aperte: cosi quella generosa popolazione associa vasi al patriottico pensiero di quei coraggiosi e cosi pure volgeva loro il mesto e fraterno saluto! Condotti in carcere, il Nicotera fu rinchiuso in lurido criminale, e fu subito visitato dal chirurgo Giovanni Napoli. Questi gli voleva amputare il braccio destro, ma il ferito si oppose, dicendo esser per lui la stessa cosa, morire di tetano o di ghigliottina, di cancrena o di fucilazione.

Il bravo dottore gli fece applicare oltre 60 mignatte, sul braccio e sulla mano, o cosi medicato dovette presentarsi dall’intendente della provincia, commendatore Ajossa. Questi si dette a calmarlo, ma il Nicotera si mostrava sempre più ardito nel giudicare l’opera esecranda dei Borboni, tanto che l’Ajossa dové chiudere la porta dell’ufficio, affinché non venissero intese quelle parole.

Di quest'importante interrogatorio ricorderemo i punti principali come quelli che fanno conoscere l'uomo, di cui narriamo la vita.

Furono presentati al Nicotera due portafogli l’uno gli apparteneva, l’altro era del Pisacane, le quattro lettere del Comitato di Napoli, ed una fattura campioni, tutte carte che erano state trovate sul Pisacane. Fingere non conoscere quei documenti era impossibile, ed anzi dannoso, perché, ben decifrati, avrebbero portato grave danno a molti patriotti; non si smarrì il Nicotera, anzi si mostrò pronto a dare su essi i maggiori schiarimenti. Ne provò gran gioia l’Ajossa, il quale, fattolo sedere, gli domandò se non trovava difficoltà di lasciar scrivere la sua deposizione e poi Armarla; era quello che il Nicotera voleva.

Questi allora si fece dare quelle carte che numerò con la mano sinistra, e incominciò a dettare a Vincenzo Condò, segretario dell’intendente: Queste lettere e questo portafogli appartenevano a Carlo Pisacane; la corrispondenza è del Comitato di Napoli, che si compone di molti patriotti, di cui però ignoro i veri nomi, avendone essi assunti altri di guerra. I numeri che si trovano nelle lettere si possono spiegare con un libro a riscontro, del quale una copia l’ha il Comitato di Napoli ed un’altra la teneva il Pisacane. Il portafogli del Pisacane contiene alcune sue memorie, il mio è ancora in bianco, perché lo comprai a Genova al momento della partenza e non ebbi occasione di scrivervi. La carta intitolata: FATTURA CAMPIONI, apparteneva ad uno dei nostri seguaci, le parole che in essa si leggono, sono evidentemente scritte da qualche giovanetto di scuola, e non hanno alcun valore. Il Condèscriveva sempre, mentre l’intendente esaminava attentamente il portafogli del Pisacane. Il Nicotera se ne giovò e potè, non osservato, sopprimere dalla fattura campioni, l’indicazione e la spiegazione di quei numeri.

Richiesto dall’intendente, perché nel portafogli del Pisacane era scritto il nome di un Giuseppe De Mata cappellaio, il Nicotera rispose ricordarsi d’aver sentito in Genova leggere dal Pisacane, a parecchi amici, quel nome, perché a molti era piaciuto un suo cappello comprato in Napoli nel negozio De Mata, il quale era stato premiato dal re, per la sua rinomata fabbrica. Ciò era vero, ma non era men vero che il De Mata fosse un sincero patriotta, e che per questo il suo nome figurasse nel portafogli del Pisacane. Il cappellaio, che era stato messo in carcere, venne, per la deposizione del Nicotera, rimesso in libertà.

L’intendente domandò che polvere era quella che si trovava nel portafogli in bianco. È veleno, rispose il calabrese, e l'avrei ingoiato se non fossi caduto nelle mani dei borbonici, privo di sensi. L’Ajossa fu colpito da quest'ultima rivelazione, e senza riflettere buttò la polvere dalla finestra.

In quanto all’equipaggio del Cagliari, catturato presso Napoli da incrociatori borbonici, il Nicotera disse che, con le minacce essi avevano obbligato il passeggero Daneriad assumere il comando del vapore, che i due macchinisti inglesi erano stati indotti a cedere per una lettera loro scritta dalla signora Mario. Questa deposizione giovò a lord Palmerston, il quale volle che i due macchinisti fossero messi in libertà e venisse loro pagato un indennizzo di sessanta mila ducati per ciascheduno (lire 255,000) ed al conte di Cavour, per ottenere la liberazione del Cagliari, di tutto il suo equipaggio, comprese il Daneri.

L’Ajossa offrì al Nicotera del danaro per comprarsi un vestito, ma questi che aveva rifiutato un abito dal capo carceriere, rifiutò pure l’offerta dell’intendente, e solo lo pregò d’informare la sua famiglia dello stato in cui si trovava e chiederle danaro.

Dopo pochi giorni ebbe 500 lire dai suoi parenti e soltanto allora smise la coperta di lana, unico indumento che lo copriva, e si diede a soccorrere i suoi compagni di sventura. '

Dopo questo primo interrogatorio egli ritornò in carcere lietissimo di aver resa innocua la fattura campione, dalla quale avendo soppresse le parole che spiegavan le cifre, queste non servivano più di chiave per interpretare i numeri scritti nelle corrispondenze del Comitato di Napoli, ed anzi il Nicotera aveva accresciute le difficoltà alla polizia, avendo detto che occorreva, per decifrare quei numeri, un libro a riscontro, libro, che in verità non era' mai esistito!

Non meno contento egli era di aver fatto gettare dall’intendente la polverina bianca, perché questa era un reagente chimico per far ricomparire nel suo portafogli quanto aveva scritto, con inchiostro simpatico, e tra le sue memorie eravi la nota di tutti i patrioti delle provincie di Potenza e di Salerno.

Durante la notte non potendo prendere sonno, per l’acerbo dolore che gli recava la ferita della mano, si diede. a parlare col suo compagno di carcere Domenico Santoro di Baronissi e lo persuase a scrivere nascostamente a sua madre e mettersi con lei di accordo per spedire e ricevere lettere dalla signora Rachele De Nobili, zia della Poerio, la quale avrebbe comunicato con la nipote a Torino, con la Pisacane a Genova e col Mazzini a Londra. Riuscirono nell’intento, nonostante la severa vigilanza cui andavano soggetti continuamente.

Il di seguente, 8 luglio, il Nicotera venne interrogato dal procuratore generale Pacifico, al quale riconfermò quanto aveva detto nella sera precedente, e rispose ancora che non avevano potuto parlare al barone Galotti, perché, come era stato loro riferito, essendo questi un attendibile, era andato dal sotto intendente a fare atto di presenza; in quanto poi ai due giovani di Padula, era vero che si erano presentati a Fortino, ma non saperne i nomi. Quando glieli mostrarono, insieme coi due fratelli Santelmo, disse non essere quelli, e cosi vennero tutti messi in libertà.

Più e più volte aveva avuto degli interrogatori dallo intendente e dal procuratore generale, ed un giorno, quest’ultimo entrò nel carcere del Nicotera e gli fece vedere tutti i libri sequestrati in Genova nella casa del Pisacane, affinché indicasse quello che doveva servir a riscontro, ma, come è naturale, non fu trovato. Alla finissima arte adoperata negli interrogatori che si facevano al Nicotera, questi contrapponeva uguale arte per trarre i giudici in inganno. Nessun nome, di quelli che appartenevano al Comitato di Napoli o di altri corrispondenti, egli non pronunziò mai, cercò sempre di attenuare negli altri quella che, in allora chiamavasi colpa, ritenendo sempre per sé la parte maggiore, stigmatizzando sempre altamente il governo dei Borboni e quello dei Murat.

Il procuratore generale si recò poscia nel circondario di Sala per istruire il processo; ivi era sotto intendente un Santilli, esperto poliziotto; questi riusci a decifrare i numeri delle corrispondenze di Napoli, dando per ogni lettera dell’alfabeto, un numero che aveva ricavato dalla fattura campioni; cosi vennero a leggere i nomi dei Pateras, Fanelli, Libertini, Matina, Magnone, Agresti, Padula e di molti altri.

Interrogato in proposito il Nicotera, questi riconfermò che la fattura campioni non apparteneva al Pisacane, che in quella fattura non vi erano numeri, quando egli la vide per la prima volta, e che potevano di ciò assicurarsi rileggendo la prima sua deposizione e chiederne contezza all'intendente Ajossa ed al suo segretario, i quali pur avevano visto quella carta. In quanto ai numeri, che ora si leggevano, dovevano essere stati aggiunti dal Santilli, il quale, trovandosi nell'impossibilità di rintracciare il libro a riscontro, li doveva aver combinati sui nomi degli attendibili, che vi erano nel regno. Avendo l’Ajossa ed il suo segretario, più tardi, confermato, anche innanzi ai giudici, di non aver visti numeri nella fattura campioni, e mostrato il verbale scritto, cosi questa carta importantissima fu resa nulla dall’audacia del Nicotera, perché creduta apocrifa dagli stessi giudici!

In quel frattempo la ferita della sua mano sempre piùsi aggravava e rifiutandosi di farsi amputare il braccio, era vi manifesto pericolo di vita; allora il valente ed affettuoso chirurgo Napoli, volle tentare una operazione assai più arrischiata e dolorosa, che durò più di mezz’ora. Divise in due parti la palma della mano destra fino al polso, e fatta la disarticolazione, gli estrasse la palla e tutte le ossa frantumate. Durante l’operazione il Nicotera non mosse lamento, ed anzi fumò tranquillamente un sigaro.

In carcere il Nicotera ebbe sempre in mira di assistere i suoi compagni e tener viva la corrispondenza con gli amici di fuori; perciò lavorò molto per avere benevoli i custodi, ch'erano borghesi, ma le autorità se ne accorsero, e li sostituirono con altri militari.

Questi per ¡sfregio pensarono far radere la barba ai detenuti; il Nicotera si oppose energicamente e si disse pronto coi suoi 72 compagni di camerata a far pagare a grave prezzo l’atto temerario a chi avesse ardito metterlo in effetto. Un’altra volta, ed era l’onomastico del re, un sergente maggiore, che era capo custode, pensò issare, davanti la cella del Nicotera, una bandiera su cui si leggeva: Viva Ferdinando II e tutta la sua dinastia, e morte ai suoi nemici. Il Nicotera chiamò il custode-maggiore e gli disse ch’egli non permetteva gli venissero fatti insulti, e quando il custode si sarebbe recato nella sua cella, se ne sarebbe vendicato. Fu subito avvisato di questo l'intendente Ajossa, il quale ordinò che la bandiera venisse tolta.

Un gesuita fu incaricato pel quaresimale di quell'anno; e tra le molte allusioni politiche, un giorno ebbe a dire, che colui che offendeva il re, offendeva Iddio. IlNicotera si propose non farlo più predicare. La mattina seguente, quando si presentò il gesuita i detenuti si fecero trovare a letto; allora i custodi si diedero a percuoterei due primi carcerati; il Nicotera armato del bastone di una scopa corse in loro difesa, i custodi spaventati dalle furiose percosse ch’ei menava, se ne fuggirono dalla camerata.

Poco dopo si riunì la famosa commissione delle legnate, che si componeva dell'intendente, del comandante della provincia, del procuratore generale, e del capo della polizia.

Interrogato il Nicotera, rispose che il gesuita non si ristringeva solamente alla parte religiosa, ma faceva il possibile per offenderli nelle loro opinioni politiche. Da quel giorno i carcerati non ebbero più il predicatore!

Questi episodi, ed altri, che per brevità tralasciamo, dimostrano come il Nicotera esercitasse grande ascendente sopra i suoi compagni, i quali lo amavano ed obbedivano, e ad un suo cenno si sarebbero sollevati per vendicarlo.

Al Tribunale accaddero alcuni incidenti, che sembrano inverosimili, ma sono comprovati dalle testimonianze scritte di molti implicati in quel famoso processo di cospirazione e dai verbali giudiziali di quel tempo. Non parleremo della fattura campioni, che i giudici tennero per apocrifa; non diremo neppure come il Nicotera, per salvare i compagni, facesse sue le azioni degli altri, né quando richiesto, quali persone facessero parte del Comitato di Napoli, egli rispondesse alteramente: Voi siete nel vostro diritto, di dare la mia testa al carnefice, ma non avete quello di disonorare il mio nome, facendomi denunciare i membri del Comitato di Napoli.

Essendogli stato proibito di parlare, egli fece uno scritto, nel quale mostrava a vivi colori la parte attivissima da lui presa per abbattere i Borboni, pel quale ideale aveva lavorato tutta la vita.

Un giorno, il presidente della Corte speciale, fece sedere il Nicotera vicino al cancelliere, affinché esaminasse una carta trovata a bordo del Cagliari nel camerino del capitano.

Il procuratore generale persisteva nel dire che quella carta conteneva un regolamento di una setta politica, ed il Nicotera impazientito rispose: In verità, signor presidente, ci vuole molta immaginazione per attribuire a questa carta un valore settario, basta darvi un’occhiata per persuadersi che altro non è che il regolamento di un istituto di fanciulli in Oneglia!

Il procuratore generale indispettito gridò:. Voi mentite'. Il Nicotera si volse al presidente e gli disse: Ella non deve permettere che il procuratore generale, insulti un uomo incapace a reagire. Ma tosto il procuratore replicò gridando: Si, voi siete un mentitore.. Il Nicotera, per tutta risposta, afferra il calamaio di bronzo sul tavolino del cancelliere e lo scaglia sul procuratore gridando: Vigliacco!

Indescrivibile fu la confusione che ne nacque; i quattrocento accusati sorgono in piedi come un sol uomo, ed allora il terrore invade tutti; la Corte fugge spaventata ed il pubblico abbandona tumultuosamente la sala, che viene occupata da una compagnia di cacciatori, con baionetta in canna; l’agitazione è al colma, ed occorre più di mezz’ora per ristabilire l’ordine. La causa venne rinviata per quindici giorni, durante il qual tempo, per ben due volte, l’intendente Ajossa cercò persuadere il: Nicotera a non lasciarsi vincere dall’ira e commettere atti violenti. Il Nicotera annui a questa preghiera a condizione che il procuratore generale promettesse non offenderlo, e questa promessa venne fatta personalmente dal procuratore generale alla presenza dell’Ajossa.

Un testimonio, volendo salvare la vita al Nicotera, depose che a Sanza egli aveva ordinato issare bandiera bianca per arrendersi.

Le leggi borboniche disponevano che a colui che si costituiva volontariamente prigioniero, gli veniva fatta la grazia della vita; la qual cosa ben sapeva il Nicotera, ma con ¡stoica tranquillità, confutò l'asserzione del testimone dicendo che egli non poteva aver dato quell’ordine avendo perduto i sensi a cagione dei colpi di scure avuti sul capo, e che quand'anche ciò non fosse stato, avrebbe egli sempre combattuto, preferendo morire piuttosto che arrendersi.

Restarono tutti maravigliati e commossi per tanto coraggio e sprezzo della vita ed allora Lafrancesca; suo avvocato, ruppe in queste parole: Signor presidente, signori giudici: noi possiamo dissentire dalle opinioni di questo giovane, ma dobbiamo pur riconoscere che egli è una di quelle figure che rassomigliano agli antichi eroi!

Lungo le vie che percorrevano i condannati, per recarsi al tribunale od al carcere, era un affollarsi di popolo che riverente si scopriva il capo, e l’ultima sera, nella quale si doveva pronunziare la sentenza, furono gettati moltissimi fiori sui detenuti.

Nella carcere regnava la più profonda desolazione ben sapendo i prigionieri che le loro condanne dovevano essere le più severe. Solo tranquillo era il Nicotera, che aveva una parola di conforto per tutti i suoi compagni. Nell'entrare in prigione gli additarono il carnefice; il Nicotera si volse a lui, gli raccomandò di affilar bene la mannaia, e per questo gli regalò una piastra. Si fece radere i caprili e disse ai suoi compagni: Non vi sarà neppure quest'ostacolo ed il taglio sarà più sicuro! Indi si fece ripulir bene l’abito nero, che doveva indossare il giorno dopo per la esecuzione capitale.

Raccomandò ai custodi di non impiegare la forza per condurlo in cappella, volendovi andare a piedi e con le mani libere. Poi volgendosi al Vailetta gli disse: Tra pochi istanti, la nostra sorte sarà in mano del carnefice: vi raccomando fortezza, perché il nostro sangue potrà fruttare qualche cosa alla nostra sventurata patria.

Scrisse diverse lettere e le consegnò all'amico Magnone. Alla madre disse di rassegnarsi al sacrifizio che faceva alla patria del figlio e di mostrarlo come esempio ai suoi fratelli; a Gaetana Poerio, di esser lieta di aver amato un uomo che moriva per la patria; alla vedova di Carlo Pisacane raccomandava la diletta orfanella dell’eroico suo compagno la quale doveva andar orgogliosa di portare il nome di una delle più eroiche figure della nazionale libertà, e perciò venerato dall’Italia; a Giuseppe Mazzini, mandava un affettuoso saluto, lieto di aver pagato, con la sua vita, un tributo alla patria.

Mentre mandava gli estremi saluti alle amate persone, udivasi dalla vicina cappella, delle suore di San Giorgio, un lungo salmodiare; impetravano esse da Dio, la grazia di vita, o la pace dei giusti per i condannati a morte. Quel mestissimo canto, e l’addio mandato ai suoi parenti ed amici dovettero certamente infondere una soave calma nell’anima forte e gentile del Nicotera; infatti alle 9 di sera egli si addormentò tranquillissimo, ed i fratelli Magnone, Giovanni Matina e Pasquale Verdolina, che vegliarono al suo letto, ebbero a dire di essere rimasti attoniti di tanta calma.

A mezzanotte fu svegliato da Michele Magnane, il quale piangendo gli annunziò la presenza del cancelliere Miraglia della Corte speciale, preceduto da fiaccole e accompagnato da gendarmi; lesse la sentenza che condannava Giovanni Nicotera, Nicola Valletta e Giovanni Galliani alla pena di morte. Pei due ultimi però, veniva commutata ai ferri a vita, essendo risultato nel dibattimento che essi eransi dati spontaneamente prigionieri.

Come i martiri antichi del cristianesimo, che sciogliendo canti di gloria a Dio, correvano baldi alla morte, che ferocissima veniva loro apprestata dai pagani imperatori, cosi il Nicotera pieno di gioia invitò gli amici ed i compagni ad impiegare le rimanenti ore della notte, che per lui eran quelle di vita, in suoni e canti patriottici, e CO6Ì trascorsero lietamente parecchie ore, sino a che il Nicotera vanne condotto in confortatorio. Alle 11 antimeridiane egli pranzò con eccellente appetito e dopo aver fumato un zigaro si addormentò profondamente, quando verso l’una fu scosso da voci confuse che si fecero poi distintissime; era il popolo che gridava: La grazia! la grazia! poco dopo il cancelliere Miraglia leggeva il decreto di grazia, terminato il quale, Giovanni Nicotera rispondeva, con le fiere e memorande parole: Sarà per un’altra tolta!

Alla presenza di tutti, fu raccomandato al Nicotera, che alla sede della Corte speciale, non si opponesse al grido di vira il re che avrebbero fatto alcuni condannati alla lettura del decreto reale, che diminuiva di un grado la loro pena.

Se ciò accadesse, rispose il Nicotera, io ed i miei amici, imbarcati a Genova, grideremmo: Morte al re: allora il presidente proibì ogni manifestazione.

La grazia della vita pel Nicotera era stata chiesta inutilmente dalla sua fidanzata Gaetana Poerio, la quale ebbe a soffrire pene acerbissime. Ella da prima aveva pianto il giovane calabrese, credendolo morto in uno scontro coi borbonici; poi lo seppe in fin di vita per le gravissime ferite riportate, e da ultimo erale giunta la più tremenda notizia: la sua condanna di morte.

La Poerio, disperata, scrisse a Pegli alla già regina dei francesi, la moglie di Filippo II d'Orleans, della quale godeva molta benevolenza fin da Parigi, dove la Poerio era stata in collegio e si segnalava pér la bontà e per lo studio sopra tutte le sue compagne; per la qual cosa molte volte la regina, in premio, l’aveva tenuta con sé intiere giornate.

La regina le rispose un’affettuosa lettera nella quale disse aver scritto a Ferdinando II suo nipote, chiedendogli la grazia di vita pel Nicotera; ma il re non rispose.

Meglio riuscì l’Inghilterra: il console britannico che stava a Salerno, appena saputa la sentenza di morte del Nicotera e che già si erigeva il patibolo, era corso a Napoli dall'ammiraglio Lyons, comandante la squadra inglese in quelle acque. Sino dalla sera precedente era stato acceso il fuoco alla macchina di un vapore, e all’alba l’ammiraglio partiva per Castellamare, e di là si recava a Quisisana da Ferdinando II per chiedere, a nome della sua regina, la vita del Nicotera, sdebitandosi così, con questi, della difesa fatta, durante il suo processo, dei due macchinisti inglesi del Cagliari.

L’ammiraglio ricordò al re gli eccidi di Padula e quelli di Sanza; sperava impietosirlo, e cosi ottenere la grazia pel Nicotera. Il re spesso interrompeva la narrazione, e facendosi il segno di croce, esclamava: Requiem eternam, ma non dette alcuna risposta; però, il timore di perdere l'amicizia dell'Inghilterra e la speranza di averne protezione, persuasero il re a più miti propositi, e cosi concesse la grazia della vita al Nicotera, e la diminuzione di pena per tutti gli altri.

Alla sera i tre condannati ai ferri a. vita partirono per Napoli, in due carrozze, in ciascuna delle quali vi erano tre gendarmi, e molti altri a cavallo le circondavano.

La patriottica Salerno, sfidando le ire borboniche, volle salutare per l'ultima volta quei martiri della libertà. Gran popolo erasi affollato sulla piazza del carcere, e riverente scoprivasi il capo al giungere del Nicotera e dei suoi due compagni. Le finestre ed i balconi illuminati, erano gremiti di gente accorsa a render loro solenne testimonianza di affetto. Tutte le strade che da Salerno conducono a Napoli erano perlustrate da numerose pattuglie.

All'alba giunsero a Napoli; vennero chiusi nelle carceri della Vicaria ed il Nicotera nella cella dei condannati a morte. Dopo qualche tempo udi pronunziare ad alta voce il suo nome da due gesuiti e dal famoso commissario di polizia Despagnolis; il Nicotera reso esperto dalle vicende della sua vita, comprese che qualche cosa di arcano era preparato a suo danno, e non ebbe molto tempo ad aspettare per convincersi che non si era ingannato.

Due uomini dalla vicina cameretta picchiarono l'uscio che li separava dal Nicotera, e gli chiesero il suo nomee le ragioni per le quali egli era ivi rinchiuso. Egli rispose esser uno studente calabrese incarcerato per aver percosso alcuni poliziotti; e richiesto se sapeva di un certo barone Nicotera, sbarcato a Sapri e tenuto in carcere a Salerno, rispose non conoscerlo. Erano giunti a questo punto della conversazione, quando entrò nella cella un custode, e disse ad alta voce. Barone Nicotera, che volete per desinare? Il carceriere si era appena allontanato, quando i due incomodi vicini ripresero a conversare, chiedendo per qual ragione avesse loro nascosto il suo nome, essendo essi Gennaro Rizzo e Raffaele Basile, suoi compagni di cospirazione, e che allorquando il Pisacane era stato a Napoli, aveva loro dato incarico di trovare la comunicazione tra le condotture d’acqua e le fognature del forte S. Elmo; gli chiesero quindi se voleva mandare qualche biglietto in Napoli. Il Nicotera si mostrò assai meravigliato di quanto gli avevano detto, e rispose non conoscere nessuno nella città.

Un incidente venne a confermare l’opinione che il Nicotera si era fatta dei due suoi vicini, cioè essere quelli due spie.

Le celle, da quel lato guardavano nell’atrio della Vicaria e nell'interno avrebbero potuto comunicare tra loro se le porte non fossero state chiuse. La cameretta del Nicotera si trovava in mezzo a quella occupata dai due che si volevano far credere suoi commilitoni e dall'altra parte eravi una cella con un condannato a morte. Il Nicotera stava vicino all’inferriata della sua finestra, quando vide nell'atrio una povera donna con tre bambini tutti piangenti, che guardavano verso la cella del suo vicino. Si commosse e gettò a quei meschini una piastra. Quell'atto fu visto dal soldato svizzero ch’era di sentinella, gridò all'armi e tosto un ufficiale e due custodi furono nella sua cella ed aspramente lo rimproverarono per l’opera pietosa da lui compiuta.

Sul far della sera il condannato a morte, lo chiamò e gli disse:

Oggi, voi avete beneficato mia moglie ed i miei figli; vi ricambio il bene che avete loro fatto; ho saputo che hanno messo vicino alla vostra cella due spie; state in guardia!

Il Nicotera, contento di quest'importante notizia, picchiò alla porta dei due vicini, e disse loro di essersi ricordato che all'albergo della Bella Venezia doveva alloggiare la signora Poggi, madre di un suo compagno pure condannato a Salerno, la quale dopo aver assistito il figlio, si trovava a Napoli per continuare il viaggio a Lerici sua patria e perciò li pregava di farle giungere un biglietto. I due vicini gli offersero l’occorrente per scrivere, ch’egli rifiutò, dicendo aver tutto nel doppio fondo della sua cassetta. Regalò poi al custode una piastra e si fece comprare due soldi di magnesia, e sulla carta in cui era avvolta la medicina, scrisse alla signora Poggi affinché s’informasse dal console sardo, in quali carceri erano stati destinati il Valletta, il Galliani e lui. Fece passare il biglietto in una fessura della porta dei vicini, e con lo stesso mezzo ricevette il giorno dopo la risposta.

Il Nicotera si mantenne sempre segreto; non mai un nome, una notizia, sfuggi dal suo labbro in tutto il tempo che si trovò in quella cameretta; al quinto giorno entrarono nella sua cella, il commissario Despagnolis, un cancelliere e quattro impiegati.

Richiesto della chiave della cassetta, il Nicotera nel porgerla allo Despagnolis, gli disse sorridente: Troppo presto ella scopre le sue spie, ed ora che sa esservi nella cassa, delle carte, può togliermi quei due vicini camuffati da patriotti.

Rovistarono dappertutto, e non trovarono nulla, neppure un pezzetto di carta bianca! Indispettito il commissario, dettò un particolareggiato verbale dell'accaduto, che venne sottoscritto dal Nicotera e da tutti i presenti.

Erano già passati dieci giorni da questo fatto, quando egli venne a sapere dal custode che i due suoi compagni Valletta e Galliani dovevano in quel dì essere condotti al carcere di Santo Stefano; il Nicotera, mandò loro in dono venti ducati per ciascheduno, e ottenne scrivere al ministro Bianchini per domandargli spiegazione del ritardo frapposto nel mandarlo a Santo Stefano. Non ebbe alcuna risposta; solo dopo 13 o 14 giorni, ben legato, venne condotto in carrozza chiusa, tra due file di cacciatori, al bagno penale della darsena; quivi gli posero al piede la catena e tosto lo imbarcarono sul vaporetto Rondine, comandato dal tenente di vascello, Branca, figlio del generale; una compagnia di soldati accompagnò nel viaggio il prigioniero. Nonostante il tempo minaccioso il vaporetto salpò l'ancora, e grande fu la maraviglia del Nicotera quando s’accorse che invece di prendere la volta per Santo Stefano, si dirigeva in Sicilia. Ne chiese spiegazione al Branca, ma questi disse avere un’plico chiuso, che doveva aprire a trenta miglia da Napoli, nel quale vi erano le istruzioni e l’indicazione del luogo ove doveva. condurlo. Giunta la nave alla distanza indicata, il comandante lesse il piego ed avverti il Nicotera che dovea portarlo a Palermo per esser poi condotto alla Colombaia di Trapani. Intanto il mare si faceva sempre più grosso, e fu impossibile di continuare il viaggio, perciò dovctttcro retrocedere a Napoli; ivi giunti il Nicotera scrisse immediatamente al ministro Bianchini, reclamando l’osservanza del decreto reale del 1849, nel quale. era stabilito che i detenuti, se nati nel continente, scontassero in questo la pena, e nell’isola, quelli ivi nati. Il Bianchini mostrò la lettera al re, il quale ordinò che il Nicotera ripartisse immediatamente per Palermo. Il viaggio fu lungo e tormentoso a cagione della tempesta.

Il Branca fu umanissimo col Nicotera e fece del suo meglio per diminuirgli le sofferenze del viaggio.

Dopo due giorni arrivarono a Palermo; il comandante. Branca volle accompagnarlo a terra e si oppose che il capitano dei gendarmi, aggiungesse ai feroci insulti anche le percosse.

Quando il comandante della Rondine tornò a Napoli, fu processato, e se non ebbe gravi punizioni fu per riguardo ai meriti del padre.

Il Nicotera venne rinchiuso nella peggiore carcere della Vicaria, dove passò la notte su nudo terreno. La seguente mattina continuò il viaggio per Trapani in una carretta, non avendo potuto noleggiare una carrozza, perché non gli erano rimaste che 15 piastre (lire 76,50).

Lungo il cammino, otto guardie a cavallo, dette compagni d’arme, che lo scortavano, gli tennero discorsi cosi minacciosi, che il Nicotera stimò prudente regalare al loro capo tutto il denaro che ancora aveva. Alla porta di Trapani dovette scendere e venne scortato da un battaglione di soldati, fino nell'atrio del palazzo dell’intendenza. La plebe gridava: morte al parricida; la polizia borbonica aveva ad arte fatto spargere la notizia che il Nicotera avesse ucciso il padre! Strana combinazione, l’intendente di quella città era il fratello del gran patriotta Rosolino Pilo!

Il Nicotera venne subito condotto sullo scoglio della Colombaia; appena vi giunse, il comandante del carcere la

fece perquisire minutamente, e restò meravigliato di trovargli solo dieci centesimi. Il Nicotera, con l’intuito che sempre lo segnalò, comprese la vera cagione di quella meraviglia, e volle giovarsene. Disse al comandante, che se in quel porto vi fosse stata qualche barca di Calabria, il cui capitano avesse conosciuta la sua famiglia, poteva avere con facilità una somma in prestito. Dopo poco un custode, che era suocero del comandante, informò il Nicotera, che un tal Matera, capitano di nave, era pronto a dargli denaro; egli scrisse una ricevuta per 60 piastre (lire 306), delle quali il comandante tenne per sé la metà!

Da 23 giorni il Nicotera stava su quello scoglio, quando fu improvvisamente fatto imbarcare su di un veliere e trasportato nell’isoletta di Favignana. La prima notte la passò nel forte di San Giacomo e all'alba fu trasferito in quello di Santa Caterina.

Il Colletta nella sua Storia del Reame di Napoli, (libro V, § IV), cosi descrive quel carcere: La Favignana s’erge dal mare per grande altezza in forma di cono, del quale in cima sta fabbricalo un castello. E dal castello per iscala tagliata nel sasso lunga nello scendere, (pianto alto è il monte, si giunge ad una grotta da scarpello, incarata, che per giusto nome chiamano fossa. Ivi la luce è smorta, raggio di sole non vi arriva; è grave il freddo, l'uomo; comunque sano e giovane, presto vi muore. Fu stanza di nove prigionieri, tra i quali più noti il principe di Torcila grave d’anni ed infermo, il marchese Corleto della casa de' Riari, l’avvocato Poerio (zio di Gaetanina) e il cavaliere Abbamonti. Più viva è la descrizione che di quell'orrida fossa di Santa Caterina ne fece Nicola Botta, che nel 1856 era stato condannato alla pena di morte, per la parte presa col Bentivegna nei tentativi rivoluzionari in Sicilia, se non che gli veniva commutata la pena in quella di 18 anni di lavori forzati, da scontarsi nell’isola di Favignana. Ecco come egli descrive quella bolgia: Santa Caterina è una piccola fortezza su di un’altura, la sola che vi sia in Favignana, ed è abitata da scorpioni, da zanzare ed ordinariamente dalla nebbia, la quale dà la pioggia alle venti buche o prigioni, che sono praticale nel maschio della fortezza. Tra queste venti buche di Santa Caterina ce ri è una soprattutto che è detta la stanza del somaro. Accanto a questa c’è una buca, dove fino ad un metro il pavimento è inondato di acqua fangosa. C’è un sedile in pietra, dove un disgraziato vi può stare rannicchiato. Se si mette ritto, si fracassa le cervella nella volta; se si distende bisogna che stia con metà corpo, fino al ventre, sul sedile e con le gambe penzoloni. Se poi vuole acquistare una posizione comoda, per non soffrire di stiramenti, bisogna che scenda nel pavimento, e stia tuffato nel fango fino all'ombelico. In questa buca terribile fu messo il Nicotera.

In questa fossa non penetrava raggio di sole, colava acqua dalle pareti, e molta ne sorgeva dal pavimento e raccoglievasi tutta in una vasca, la quale veniva ogni giorno votata per impedire che il prigioniero morisse affogato.

Per letto aveva una panchina lunga un metro e mezzo, e alta un metro dal suolo, per cuscino una pietra di tufo, per coperta gli abiti che il prigioniero indossava!

Aggiungasi a tutto questo le pestifere esalazioni delle chiaviche e si avrà un’idea di questo sepolcro, nel quale la clemenza di Ferdinando II aveva pietosamente fatto rinchiudere il generoso e forte calabrese commutandogli così la pena di morte in una lunga e torturata agonia.

Il comandante chiese al Nicotera in che modo volesse spendere l’assegno giornaliero che il governo gli passava di cinque granaX centesimo)oltre la razione, detta di remo, che consisteva in poche fave ed in un pane piccolo e nero; allora il Nicotera chiese ed ottenne che la razione di remo fosse data ad Amilcare Bonomo, il quale, essendo condannato ai ferri, non aveva alcun assegno dal governo e doveva campare col prezzo del lavoro giornaliero; ma siccome in quel luogo di pena, non ve n’era, cosi sarebbe perito di farne, se dalla pietà dei suoi compagni di sventura non avesse avuta una parte della loro scarsissima razione.

Le cinque grana giornaliere cosi vennero spese dal Nicotera: due in pane e tre in carbone, questo gli serviva per asciugare il fazzoletto col quale si copriva il capo!

Le sofferenze ell'ebbe a patire quell'intemerato patriota furono cosi aspre che la mente rifugge a soffermarvisi anche per un solo istante; diremo soltanto che ben presto fu ridotto in fin di vita; una lenta febbre lo consumava, e la tosse, con frequenti sbocchi di sangue, annunziava prossimo il termine di sua vita. Onde il 23 dicembre del 1858 ebbe la prima visita del comandante il forte, accompagnato dall’ufficiale di guardia, dal giudice, dal medico, e dal cappellano. Il Nicotera era immerso nel sangue, il medico visitato che l’ebbe, lo dichiarò in fin di vita; allora gli fu chiesto che desiderasse.

Una razione di fave! rispose. Il comandante gli consigliò di domandare al re di essere tolto da quel luogo assicurandolo che l'avrebbe raccomandato, ed egli rispose: che altro desiderio non aveva che di morire, ma il comandante insistette e fece portare un piccolo tavolino e l’occorrente per scrivere, ed il giudice incominciò a redigere egli stesso la domanda:

A. Sua Sacra RealMaestà Ferdinando II

Re delle due Sicilie

MAESTÀ

A questo punto il Nicotera rialzandosi a stento, prosegui: L’inumana ferocia di Ferdinando II, non satolla di tormentare l'umanità.... Il comandante indignato l’interruppe dicendogli: voi morrete in questo luogo....; cui il Nicotera, con sorriso di sprezzo, rispose: Mi fate pietà! Immediatamente tutti si allontanarono e la prigione venne chiusa dal custode che mormorò: Domani l'apriremo per l’ultima volta. Su quel foglio il comandante fece distendere un verbale per fare comprovare le parole dettate dal Nicotera; il verbale venne poi sottoscritto da tutti gli intervenuti nella prigione e spedito a Palermo al famigerato Maniscalco. Molte altre volte gli fu consigliato di chiedere una diminuzione di pena, ed anche il suo vecchio padre lo scongiurò a farlo, ma egli sempre vi si rifiutò con alterezza.

Straziato da sì aspri dolori, risolvette suicidarsi, ma non voleva però si credesse ch’egli, avvilito dai patimenti, si fosse ucciso, onde pensò che tuffandosi fino al capo nell'acqua della vasca e non asciugandosi, avrebbe aggravata la sua terribile malattia, ed in breve cessato di vivere. Così fece, ed a stento potè uscire dalla vasca e rivestirsi; poi si distese sulla panchina ad aspettare tranquillo la sua fine. Chiuse gli occhi e si risvegliò all’alba, immerso in un lago di sudore. Quando ritornarono il comandante del forte, l'Uffiziale di guardia e il medico accompagnato dal cappellano, che recitava le preci dei dettanti; fugrande la loro meraviglia nel vedere il Nicotera ancor vivo, e crebbe, quando il medico dichiarò che l’infermo era fuori di pericolo.

Richiesto se desiderava qualche cosa, rispose: una razione di fave!

Dal 24 dicembre al 15 marzo 1860 il Nicotera ripeté sempre il bagno, e cosi guari completamente dall’emottisi.

Nei sei mesi che fu rinchiuso nella fossa di Santa Caterina, egli potè sempre tener viva corrispondenza politica tanto coi suoi compagni del forte, quanto con quelli di San Giacomo: un carcerato, che ogni giorno toglieva l’acqua dalla fossa, era il portatore dei biglietti, i quali, se legati con spago, erano per gli amici di Santa Caterina, se non avevano questo segnale, pei fratelli Botta e per Luigi Pellegrini, rinchiusi nel forte di San Giacomo fin dal 1856.

Il conte di Cavour aveva sempre insistito, affinché pei sudditi sardi, si osservasse il disposto, che i condannati del continente dovessero scontare la pena, loro inflitta, nella penisola; ma il governo borbonico rispondeva sempre con pretesti. Finalmente, il 15 marzo 1860, fece traslocare i condannati dal forte di Santa Caterina a quello di San Giacomo.

Il Nicotera, sfinito di forze, venne trasportato su di una sedia in quel forte, coi suoi compagni e guardato sempre a vista da una sentinella.

Ebbe il letto e gli fu permesso chiedere alla famiglia del danaro, che poi il comandante gli forniva poco per volta. Col mezzo dei fratelli Botta, del Pellegrini e del console sardo Fasciotti, riuscì aver segretamente altro danaro dalla famiglia, e mediante il pagamento mensuale di cinque piastre (lire 25,50) ottenne per sé e pei compagni di non tenere la catena al piede, durante la notte. Organizzò attiva corrispondenza con il Comitato rivoluzionario di Trapani, all’estero col Mazzini e con Rosolino Pilo, ed altri molti, e quando scoppiò la rivoluzione in Sicilia, nel 1860, egli ed i suoi compagni ne furono minutamente informati. Appena sbarcato nell'isola, il Pilo scriveva al Nicotera: Fra pochi giorni scioglierò il più ardente dei miei voti, vi libererò. Ma il Nicotera per accelerare la sua libertà e quella dei suoi compagni, impazienti di concorrere alla liberazione della Sicilia, organizzò una sommossa che dovea scoppiare a Pasqua. I relegati liberi nell'isola erano circa 400, tutti armati di pugnali, dovevano correre nelle case degli ufficiali per intimorire le loro mogli e i loro figliuoli, altri dovevano assalire ed impadronirsi degli ufficiali, allorché erano riuniti nella casina di ricreazione, e

poscia obbligarli ad aprire le carceri dei detenuti politici. Il farmacista Livalsi aveva già ordinato le cose in modo che non si attendeva altro che il segnale, ma un relegato fece la spia e cosi tutto andò a vuoto; molti soffrirono la tortura del bastone, affinché svelassero il nome dell’organizzatore della sommossa, e più di tutti venne percosso uno degli antichi relegati di Ponza, perché si seppe che lo conosceva, ma nessuno accusò il Nicotera.

Benché fosse fallito il tentativo, pure questi continuò a tener viva la corrispondenza coi liberali di fuori ed avvenuto lo sbarco di Marsala, scrisse subito al generale Garibaldi, domandando di essergli compagno.

Il Generale donò cento lire a chi gli aveva portato il biglietto, e gliene diede un altro così concepito: Il comandante Garibaldi vi fa sapere che fra pochi giorni, o voi sarete liberi od egli sarà morto.

Questa risposta il Nicotera l’ebbe all’alba, e la mostrò ai suoi compagni; indescrivibile fu la gioia di tutti!

Egli spese più di cinquecento lire pel nolo della barchetta che ogni giorno gli portava le notizie del Comitato di Marsala.

Informato delle vittorie di Calatafimi e di quelle di Palermo, dopo due giorni che il generale Garibaldi era entrato in questa città, il Nicotera venne condotto dal comandante della fortezza, il quale gli fece il conto del suo danaro e dandogli la rimanenza della somma, gli disse:! Io sono stato severo verso voi, ma non quanto mi era stato ordinato dal direttore Maniscalco. Io consegno il forte al Sindaco e parto. Quando la nave, sulla quale la truppa è imbarcata, si sarà allontanata, il Sindaco vi metterà in libertà.

Dopo un’ora s’intesero fuori del carcere grida di Viva Garibaldi! i custodi aprono la prigione del Nicotera e lo conducono dal Sindaco; questi lo dichiara libero coi suoi compagni, meno quelli carcerati pei moti del Bentivegna, dicendo che per questi bisognavano altri ordini del generale Garibaldi; allora Nicotera rifiuta per sé e per i compagni la libertà, se questa non viene del pari data agli altri condannati politici, e minaccia il Sindaco di severa punizione se si oppone alla immediata loro scarcerazione. A questo dire il Sindaco gli consegna le chiavi del forte e si mette ai suoi ordini. Il Nicotera corre a liberare 72 martiri della patria.

Calmata la gioia, il Nicotera arma i politici coi fucili degli urbani, stabilisce una guardia per custodire i condannati di reati comuni, fa loro togliere la catena, e tutti li riunisce nel gran cortile del forte e promette di ottenere per essi, dal generale Garibaldi, una diminuzione di pena, purché non commettano disordini. Indi si reca subito a Trapani dal Fardella, rappresentante il generale Garibaldi, in quella provincia; lo informa del suo operato ed ottenuta promessa di un invio di soldati alla Favignana per surrogare i politici,ritorna immediatamente al forte;grande fu la sua sorpresa di trovare liberi tutti i prigionieri; il Fardella aveva ordinato per telegrafo che fossero scarcerati; allora il Nicotera gli mandò i 1400 condannati di cui si formò un reggimento.

Il Nicotera parti subitamente per Palermo ed il generale Garibaldi vivamente si commosse nel rivedere il valoroso suo compagno di Roma del 1848, e lo invitò a rimanere nel suo Stato Maggiore, ma egli preferì prender parte più attiva nella rivoluzione, perciò ebbe dal Garibaldi incarico di recarsi in Toscana per formare una legione di volontari e di entrare con questa nell'Umbria e nelle Marche, appena egli sarebbe sbarcato sul continente, e gli diede credenziali pel Bertani e pel Mazzini eh erano in Genova. Iniziatosi il nuovo movimento col motto: Italia e Vittorio Emanuele, il vero partito repubblicano vi si associò lealmente con tutte le sue forze, perché persuaso che solo con la monarchia si poteva conseguire l’unità e l’indipendenza d’Italia; per la qual cosa senza più fare questione di forma di governo, il Mazzini confermò questi leali intendimenti con la sua pubblica dichiarazione: né apostati, né ribelli.

Il Nicotera, presi i concerti con questi eminenti patriotti, si recò a Milano ove sposò la signorina Poerio, e riparti subito per Firenze.

Il barone Ricasoli e il Dolfi, presidente del Comitato d’azione, gli furono larghi di aiuti e consigli, e già 1500 giovani toscani si erano arruolati ed aspettavano soltanto l’ordine di passare i confini, quando il barone Ricasoli avverti il Nicotera che la spedizione dei volontari non poteva più aver luogo, perché quelle province dovevano esser liberate dall’esercito piemontese. Allora egli si offri, con la sua legione, mettersi agli ordini del comandante supremo di quell'esercito, ed aspettare le istruzioni che gli sarebbero date. Il di seguente il Nicotera venne catturato da un capitano dei carabinieri e all'ufficio di polizia gli venne intimato di recarsi subito a sciogliere la legione; egli protestò e si rifiutò di obbedire; intanto i volontari conosciuto il fatto, minacciavano di prendere learmi per liberare il loro comandante.

Il Dolfine informò il Ricasoli e stabilirono la scarcerazione del Nicotera e di farlo imbarcare coi 1500 legionari per Palermo. Egli benché dolente di questa determinazione, pure accettò; le armi di tutti vennero incassate e spedite a Livorno ed ivi imbarcate coi volontari su due vapori francesi, ma poco dopo furono circondati da varie navi da guerra sarde che avevano aperti gli sportelli dei Cannotti: il Nicotera credette fosse un equivoco, ma tosto vide comparire su d’una lancia un capitano dei carabinieri, ed un ispettore di pubblica sicurezza, il quale, cinto di sciarpa, gl’intimò la cattura. Egli protestò e dichiarò non muoversi e non cedere neppure alla forza, e scrisse al prefetto esser tutti pronti a morire facendosi mandare a picco coi due vapori se non si lasciassero salpare subito, giusta le promesse avute; l’energica lettera persuase il prefetto a lasciarli partire. Intanto nella città di Livorno si leggevano manifesti nei quali si asseriva malignamente che il Nicotera voleva tentare in Toscana un moto repubblicano, togliendo a pretesto di aver egli accettato il dono fatto dalle donne fiorentine alla sua legione, di una bandiera col motto: Unità e libertà! Puerili e menzognere dichiarazioni, giacché il Nicotera, nel ringraziare sui giornali, del dono, disse che avrebbe aggiunto alla bandiera, la croce sabauda. Nè poteva essere altrimenti, perché il Nicotera, luogotenente del Garibaldi, non poteva avere altra bandiera se non quella da lui innalzata con la quale combatteva e vinceva in nome dell'Italia e di Vittorio Emanuele. E poi egli non avrebbe smentito mai quanto aveva sempre proclamato di voler la libertà e l’unità della patria, e per questo non aveva egli messo in periglio la vita sui campi di battaglia e sofferto inauditi tormenti e durissimo carcere? Ed ora che stava per raggiungere questo suo ideale, come poteva annientarlo, innalzando temerariamente e stoltamente una bandiera che nessuno avrebbe seguito?

I manifesti affissi per Livorno erano del partito regionale che voleva la federazione italiana con alcuni principi stranieri. Questo partito non aveva mai voluto comprendere un’Italia libera ed unita, retta da un governo costituzionale, con a capo la gloriosa dinastia di Savoia. Alcuni uomini del partito federale non si peritavano mentire e tutto sacrificare pur di conseguire il loro scopo. Questo pur voleva Napoleone III; per la qual cosa sempre osteggiò l’unità italiana, mantenendo a Roma le sue prepotenti soldatesche a puntello del logoro trono del papa-re e stipulò la pace di Villafranca, allorché s’accorse che l’Italia voleva conseguire la sua unità e libertà.

É da sapersi che il Nicotera nel 1859 scrisse a Luigi Miceli ch’egli avrebbe preferito il morire in galera ed il ritardo dell’unità italiana, all'aiuto di Francia, perché questo sarebbe costato assai caro alla patria. Non andava errato il Nicotera, perché se Roma è nostra lo dobbiamo anche in gran parte alle vittorie prussiane; giacché la Francia, o regno, o impero, o repubblica non avrebbe mai voluto, per vicina, una grande e potente nazione che avesse per sua capitale Roma.

Il Nicotera, durante il viaggio volle verificare le casse e invece di armi vi trovò medicinali e bende; quindi appena giunto a Palermo chiese invano a quel governo prodittatoriale l’armamento necessario per recarsi alla frontiera pontificia, giusta gli ordini del Garibaldi; allora domandò l’imbarco per Napoli, ove era il generale, ma anche ciò gli venne rifiutato; pure gli riuscì recarsi dal dittatore, che lo accolse con immensa gioia, e dopo qualche giorno, giunti in Napoli i 1500 volontari toscani, lo invitò a prenderne il comando, ma egli rifiutò preferendo rimanere nello Stato Maggiore del Generale. Terminata la guerra, nella quale i toscani segnalaronsi per coraggio, nella famosa giornata del 1. ® ottobre 1860, il Nicotera si dimise da colonnello brigadiere.

Quando il Garibaldi volle ritentare la prova per liberare Roma, chiamò a Palermo il Nicotera; questi poi lo segui fino ad Aspromonte ove il generale Garibaldi gli diede ordine, unitamente al Missori, al Miceli e ad altri, d’imbarcarsi a Bagnara per assumere il comando delle forze che si dovevano organizzare nelle provincie di Catanzaro e di Cosenza.

Sbarcati presso la spiaggia di Santa Eufemia, seppero subito la trista sorte toccata al loro generale, e vennero a conoscere che contro loro era stato emanato il fuori bando e che erano cercati dalla polizia, ma riuscirono, sotto altro nome, a prender imbarco per Napoli, e recarsi al Varignano per costituirsi prigionieri con lo stesso Generale.

Data l'amnistia, il Nicotera pronunziò in Parlamento un famosissimo discorso biasimando la condotta del governo.

Nel 1866, quando scoppiò la guerra con l’Austria, egli col Cairoli, e il Fabrizi, ebbero dal governo incarico di formare dei corpi di volontari; il Nicotera organizzò a Bari il 6. ° reggimento; e gli fu dato il grado di colonnello brigadiere. Nel Tirolo combatté si valorosamente da meritarsi la promozione a maggior generale e la croce di ufficiale dell’ordine di Savoia. Finita la guerra, l’Italia ebbe il Veneto dalla Francia, alla quale era stato ceduto dall'Austria. Questo fatto umiliava l’Italia, ed il Nicotera, se ne addolorò tanto che mandò per telegrafo le sue dimissioni al Ministero, in termini cosi sdegnosi che si discusse se dovevasi mettere sotto consiglio di guerra.

Nel 1867 il generale Garibaldi, volendo nuovamente ritentare la liberazione di Roma, volle che il Nicotera vi avesse parte, e perciò gli diede il comando di un corpo di volontari, che da Napoli doveva muovere alla frontiera pontificia. Giunto a Velletri e poi a Frosinone egli vi fece fare il Plebiscito, e furono le prime liberali manifestazioni nei domini del pontefice.

Quando nel 1860, si costituì il regno d’Italia, un nuovo e belligerante elemento entrò nella camera 'dei deputati composto di uomini noti all’universale, per amor patrio, per ingegno e sapere, i quali, stati cospiratori e soldati, quando si doveva cospirare e combattere per la libertà e l’unita d’Italia, ora potevano dar opera a promuovere, discutere ed approvare savie leggi, per consolidare non solo le libertà conquistate, ma farle progredire.

L’entrata di alcuni di questi uomini al Parlamento fu molto contrastata; e ciò facilmente si comprende, giacché in Italia, come in ogni altro Stato, gli uomini eminenti hanno palesi ed occulti nemici, i quali illudendo le moltitudini, coi sacri nomi di Patria e Libertà, non ¡sdegnano di adoperare la calunnia pur di allontanarli dalla cosa pubblica, e ciò per poter essi emergere, nulla curandosi del danno che ne deriva alla patria. Onde non è a meravigliare se il Nicotera ebbe dei nemici, i quali, per natura contrari al bene, e temendo che la franchezza, la lealtà, il pronto ingegno e la facile sua parola, fossero di ostacolo alle loro mire ambiziose, combatterono con armi sleali le sue elezioni, ma le loro mene tornarono sempre a vuoto, e il Nicotera venne con splendide votazioni nominato consigliere comunale di Napoli, provinciale di Torre Annunziata, e Deputato al Parlamento a Salerno, a Napoli, a Torchiara e Nicastro, ma egli optò sempre per la sua diletta Salerno, alla quale era legato da incancellabile gratitudine per le affettuose manifestazioni di simpatia che gli aveva date nei giorni del suo dolore.

Egli siede sempre a Sinistra. D’ingegno acuto, persuasivo e fecondo parlatore, seppe acquistarsi l'ammirazione di tutti, anche dei suoi avversari politici. Combatté con molto calore i provvedimenti eccezionali per la Sicilia suscitando le osservazioni di alcuni colleghi: dispiacente di questo, diede le sue dimissioni che però non vennero accettate per proposta di moltissimi deputati di Destra e di Sinistra. Anche l'augusto re Vittorio Emanuele gli mostrò desiderio che desistesse dal suo proponimento, e gli fece travedere, che quando la Sinistra avesse raggiunta una maggioranza significativa ed ordinata, egli non era alieno di mutare sistema di governo. Il Nicotera assecondò le intenzioni del Sovrano, e appunto in quell'anno, 1876, fece a Salerno uno splendido discorso che anche oggi è considerato come il programma della Sinistra.

Al Nicotera principalmente si deve il voto di sfiducia dato il 18 marzo 1876, con il quale cadde il ministero ed il governo della Destra. Il giorno 25 marzo, accompagnati dagli auspici del popolo italiano, i nuovi ministri prestarono giuramento nelle mani di re Vittorio Emanuele. Non diremo le riforme attuate da quel primo ministero di Sinistra, le migliorie introdotte nell'esercito, per opera dell’illustre generale Luigi Mezzacapo, né delle molteplici leggi proposte e caldeggiate dal grande Mancini, principalmente quella riguardante l’abolizione della pena di morte; ma noteremo soltanto quanto fece il Nicotera, ministro dell'interno. Dotato, come dicemmo, di molto ingegno, e di ferrea volontà, egli potè, nello spazio di pochissimi giorni, studiare tutti gli atti dimenticati negli archivi del ministero. Del buono formò leggi, ed altre di grande importanza compilò egli stesso, che presentate ai due rami del Parlamenta, ottennero l’approvazione con poche modifiche, e pochissime suscitarono forti discussioni. A lui si deve se lo Stato migliorò grandemente le sue condizioni di sicurezza pubblica e se la camorra e la maffìa ebbero colpo mortale. Insieme col Mancini, elaborò molte circolari che vennero approvate per regolare l'amministrazione delle opere pie, per vietare le processioni nelle pubbliche strade, per punire i sacerdoti d’ogni culto se avessero abusato del loro ministero per turbare le coscienze, per proibire le monicazioni, e più di 150 case religiose vennero soppresse. Si propose pure che la nomina dei parroci dovesse esser fatta per elezione popolare, ma disgraziatamente queste proposta naufragò. Con leggi speciali venne tutelato l’ordine pubblico, la libertà della stampa, l’indipendenza dei giudizi e la più scrupolosa libertà individuale, e fu interdetto ai giudici di lanciarsi nelle lotte politiche.

Nessun ministro dell’interno fu tanto liberale quanto il Nicotera; infatti, nell'elezioni politiche, volle che nessuna ingerenza vi avesse il governo, e perciò scrisse a tutti i prefetti di lasciar liberi i cittadini nell'esercizio dei loro diritti elettorali; quelli di Destra sperarono coi loro discorsi lusingare gli elettori per riuscire numerosi nelle nuove elezioni, ma i loro discorsi ebbero una sorte affatto contraria alle previsioni da essi fatte, perché perdettero più di 100 seggi, e furono battuti quasi tutti i loro capi.

Il 15 novembre venne riaperta la nuova Legislatura con più di 400 deputati di Sinistra, cosa affatto nuova nei fasti del Parlamento italiano. Questo primo ministero di Sinistra che senza errare, fu il migliore, essendo formato dei più eletti elementi di quel partito, visse dal 25 marzo 1876 al 31 ottobre del 1877, dando prova di capacità e di grande attività; e se cadde, Ai per cagione dei radicali, e per quelli dell’estrema Destra, i quali, in quel breve spazio di tempo, pretendevano un’Italia totalmente trasformata. Dimessosi il ministero, il Mancini cosi scriveva al Nicotera, in data del 15 dicembre del 1877:

«Sono ben lieto ricuperare la mia libertà ed mio valore personale; quanto sono tristo e disgustato degl'intrighi e della guerra iniqua a cui fummo fatti segno, e tu più di tutti, perché sapevi più di tutti resistere e disprezzare; ma l’avvenire farà giustizia. »

Uscito dal ministero, il Nicotera pubblicò una relazione di 275 pagine, ricca di fatti, nella quale giustificava quanto operato aveva durante il ministero; da buon soldato si mantenne primo sulla breccia, e lavorò per render sempre più compatto il partito di Sinistra e per facilitare l’attuazione delle sue riforme politiche ed amministrative. I numerosi studi di leggi da lui lasciati al ministero, vennero poi largamente mietuti dai suoi successori.

Membro di molte commissioni, egli si segnalò non solo per capacità, ma anche per zelo inarrivabile, e può dirsi che egli sia uno dei più assidui e chiari membri della Camera.

Ecco come scrive di lui il Petruccelli della Gattina.

«Quest’uomo politico è la figura più complessiva, singolare e sintetica della rivoluzione italiana; cospiratore, insorto, galeotto, bravando la Corte speciale, volontario, garibaldino, deputato, uno dei capi dell'opposizione di Sinistra; ministro, malcontento, dissidente, mano maestra di ogni crisi parlamentare, odiato da molti, seguito fino all’atteggiamento di idolatria da partigiani che credono in lui, sperano in lui, perseverante, incalzante; uno degli oratori più cospicui del Parlamento italiano, uomo a senso pratico calunniato come pochi lo furono, è pure uno di coloro che si ritirò dal potere con un voto di maggioranza. Più volte ha sfidato in Parlamento i suoi avversari a formulare le accuse ripetute a bassa voce di violazione di leggi; ma niuno ha osato farlo. Amico di Vittorio Emanuele,. che lo trattava come tale, godendo la fiducia di re Umberto, onorato dall’amicizia dei più illustri deputati di Sinistra, è stimato da quelli di Destra e carezzato da quelli del Centro; aggressivo, generoso fino alla prodigalità; uomo a vista lunga e diritta, egli è l’Alcibiade della rivoluzione e della società politica italiana; fu ministro, sarà presidente del Consiglio, e sarà il solo, che se per l’evoluzioni politiche perde terreno oggidì, ha l’elatera per saltare barriera più alta ancora ogni di senza vertigine. .»

«Il Nicotera ha eloquenza tribunazia, ma fluente, chiara, corretta; voce gradevole, ed insinuante. Lo si ascolta sempre con deferenza.»

La cortesia del Nicotera è proverbiale; non una lettera, non un biglietto da visita, rimane senza risposta.

Memore dei benefizi ricevuti, e sincero ed incrollabile nelle amicizie, egli ha preso ad educare a sue spese i figliuoli del capo urbano, che a Sanza gli si mostrò umano, e che distrusse tutte le carte che trovò sul Pisacane.

Sin dal giorno in cui erano sbarcati a Sapri, Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera, avevano giurato tra loro, che colui che fosse sopravvissuto, avrebbe considerata come sua, la famiglia dell’estinto compagno, e Nicotera mantenne fede alla data parola, giacché assisté la vedova del Pisacane sino al giorno in cui questa mori ed adottò, come figlia la giovane Silvia, che al nome paterno, ora aggiunge quello del suo benefattore; ella infatti si chiama Silvia Pisacane Nicotera.

L’affetto di Nicotera per questa gentile giovanetta ha qualche cosa di leggendario. Egli non dimentica mai di scriverle tutti i giorni e l’ama come fosse una sua propria figlia.

Fibra d’acciaio, sprezzatore dei pericoli, amante delle imprese arrischiate, anima sensibile, può a ragione considerarsi il cavaliere generoso, senza paura e senza macchia, del risorgimento italiano.

M. MAURO.

NOTE

(1) A mostrare meglio l’animo di questi giovani eroi, riportiamo le testuali parole della dichiarazione ch'essi fecero quasi lor testamento sul Cagliari:

«Noi qui sottoscritti dichiariamo altamente che, avendo tutti congiurato, sprezzando le calunnie del volgo, forti della giustizia della causa e della gagliardia del nostro animo, ci dichiariamo gl'iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non risponderà al nostro appello, noi, senza maledirlo, sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange dei martiri italiani. Trovi altra nazione del mondo uomini che, come noi, s’immolino alla sua libertà, ed allora solo potrà paragonarsi all’Italia, benché sino ad oggi schiava.

«Sul vapore il Cagliari alle ore 9 ½ di sera, 25 giugno 1857.»

(1) Il Morcaldi, appena scoppiata la rivoluzione del 1860, si dimise dall’esercito borbonico poscia e fu dal generale Garibaldi nominato maggiore dei carabinieri, ed oggi è tenente generale nella riserva.


vai su








Pisacane e la spedizione di Sapri (1857) - Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito
1851 Carlo Pisacane Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49
HTML ODT PDF
1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. I HTML ODT PDF
1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. II HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. III HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. IV HTML ODT PDF

1849

CARLO PISACANE Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma

1855

La quistione napolitana Ferdinando di Borbone e Luciano Murat

1855

ITALIA E POPOLO giornale politico Pisacane murattisti

1856

Italia e Popolo - Giornale Politico N. 223 Murat e i Borboni

1856

L'Unita italiana e Luciano Murat re di Napoli

1856

ITALIA E POPOLO - I 10 mila fucili

1856

Situation politique de angleterre et sa conduite machiavelique

1857

La Ragione - foglio ebdomadario - diretto da Ausonio Franchi

1857

GIUSEPPE MAZZINI La situazione Carlo Pisacane

1857

ATTO DI ACCUSA proposta procuratore corte criminale 2023

1857

INTENDENZA GENERALE Real Marina contro compagnia RUBATTINI

1858

Documenti diplomatici relativi alla cattura del Cagliari - Camera dei Deputati - Sessione 1857-58

1858

Difesa del Cagliari presso la Commissione delle Prede e de' Naufragi

1858

Domenico Ventimiglia - La quistione del Cagliari e la stampa piemontese

1858

ANNUAIRE DES DEUX MONDES – Histoire générale des divers états

1858

GAZZETTA LETTERARIA - L’impresa di Sapri

1858

LA BILANCIA - Napoli e Piemonte

1858

Documenti ufficiali della corrispondenza di S. M. Siciliana con S. M. Britannica

1858

Esame ed esposizione de' pareri de' Consiglieri della corona inglese sullaquestione del Cagliari

1858

Ferdinando Starace - Esame critico della difesa del Cagliari

1858

Sulla legalità della cattura del Cagliari - Risposta dell'avvocato FerdinandoStarace al signor Roberto Phillimore

1858

The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

1858

Ricordi su Carlo Pisacane per Giuseppe Mazzini

1858

CARLO PISACANE - Saggi storici politici militari sull'Italia

1859

RIVISTA CONTEMPORANEA - Carlo Pisacane e le sue opere postume

1860

POLITECNICO PISACANE esercito lombardo

1861

LOMBROSO 03 Storia di dodici anni narrata al popolo (Vol. 3)

1862

Raccolta dei trattati e delle convenzioni commerciali in vigore tra l'Italia egli stati stranieri

1863

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1863

Giacomo Racioppi - La spedizione di Carlo Pisacane a Sapri con documenti inediti

1864

NICOLA FABRIZJ - La spedizione di Sapri e il comitato di Napoli (relazione a Garibaldi)

1866

Giuseppe Castiglione - Martirio e Libert࠭ Racconti storici di un parroco dicampagna (XXXVIII-XL)

1868

Vincenzo De Leo - Un episodio sullo sbarco di Carlo Pisacane in Ponza

1869

Leopoldo Perez De Vera - La Repubblica - Venti dialoghi politico-popolari

1872

BELVIGLIERI - Storia d'Italia dal 1814 al 1866 - CAP. XXVII

1873

Atti del ParlamentoItaliano - Sessionedel 1871-72

1876

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1876

Gazzetta d'Italia n.307 - Autobiografia di Giovanni Nicotera

1876

F. Palleschi - Giovanni Nicotera e i fatti Sapri - Risposta alla Gazzettad'Italia

1876

L. D. Foschini - Processo Nicotera-Gazzetta d'Italia

1877

Gaetano Fischetti - Cenno storico della invasione dei liberali in Sapri del 1857

1877

Luigi de Monte - Cronaca del comitato segreto di Napoli su la spedizione di Sapri

1877

AURELIO SAFFI Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini (Vol. 9)

1878

PISACANE vita discorsi parlamentari di Giovanni Nicotera

1880

Telesforo Sarti - Rappresentanti del Piemonte e d'Italia - Giovanni Nicotera

1883

Giovanni Faldella - Salita a Montecitorio - Dai fratelli Bandiera alladissidenza - Cronaca di Cinbro

1885

Antonio Pizzolorusso - I martiri per la libertࠩtaliana della provincia diSalerno dall'anno 1820 al 1857

1886

JESSIE WHITE MARIO Della vita di Giuseppe Mazzini

1886

MATTEO MAURO Biografia di Giovanni Nicotera

1888

LA REVUE SOCIALISTE - Charles Pisacane conjuré italien

1889

FRANCESCO BERTOLINI - Storia del Risorgimento – L’eccidio di Pisacane

1889

BERTOLINI MATANNA Storia risorgimento italiano PISACANE

1891

Decio Albini - La spedizione di Sapri e la provincia di Basilicata

1893

L'ILLUSTRAZIONE POPOLARE - Le memorie di Rosolino Pilo

1893

 MICHELE LACAVA nuova luce sullo sbarco di Sapri

1894

Napoleone Colajanni - Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane

1905

RIVISTA POPOLARE - Spedizione di Carlo Pisacane e i moti di Genova

1895

Carlo Tivaroni - Storia critica del risorgimento italiano (cap-VI)

1899

PAOLUCCI ROSOLINO PILO memorie e documenti archivio storico siciliano

1901

GIUSEPPE RENSI Introduzione PISACANE Ordinamento costituzione milizie italiane

1901

Rivista di Roma lettere inedite Pisacane Mazzini spedizione Sapri

1904

LUIGI FABBRI Carlo Pisacane vita opere azione rivoluzionaria

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Giudizi d’un esule su figure e fatti del Risorgimento

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Lettera di Carlo Cattaneo a Carlo Pisacane

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - I tentativi per far evadere Luigi Settembrini

1911

RISORGIMENTO ITALIANO - La spedizione di Sapri narrata dal capitano Daneri

1912

 MATTEO MAZZIOTTI reazione borbonica regno di Napoli

1914

RISORGIMENTO ITALIANO - Nuovi Documenti sulla spedizione di Sapri

1919

ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

1923

MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

1927

NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano





Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)















Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità  del materiale e del Webm@ster.