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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

STORIA CRITICA DEL RISORGIMENTO ITALIANO

L'ITALIA DEGLI ITALIANI

PER CARLO TIVARONI

TOMO I - 1849-1859

1895

ROUX FRASSATI E CO EDITORI

TORINO
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CAPITOLO VI

Il Reame di Napoli - L’ultimo decennio dei Borboni

1. — La legittimità ristorata

Dopo due Costituzioni date, una nel 1820, l’altra nel 1848, per necessità, e ritolte per volontà del re, si doveva comprendere che, come aveva scritto Ferdinando II a Luigi Filippo nel 1831, i Borboni di Napoli non potevano vivere che nell’assolutismo o cessare. E Ferdinando II non esitava un istante. Aveva concesso una Costituzione quando gli avvenimenti siciliani ed italiani glielo avevano imposto, ma ora che l’aveva soffocata nel sangue non sarebbe stato così stolto da ricadere nell’errore. Il costituzionalismo spingeva le menti alla italianità; il Borbone non ne aveva bisogno. Il Reame di Napoli esisteva da oltre cento anni indipendente con la sua dinastia e poteva rimanere tale senza allargamenti. Né liberale, né nazionale, il Borbone tornava all’origine, tornava Reame di Napoli del 1730. Se i tempi avevano pervertito una parte delle classi dirigenti, rimaneva al Borbone l’antica base, il clero, molta parte della nobiltà, la campagna e l’esercito; domare con lo spavento delle pene la parte pervertita, mantenere il Regno isolato il più possibile dal contagio degli altri Stati d’Europa turbati dalla lue del liberalismo, stringersi sempre più al clero ed ai soldati, doveva costituire il solo programma che Ferdinando II potesse adottare, tanto più deciso dopo l’esperimento del 1848 che gli aveva dimostrato la debolezza ciarliera dei costituzionali e lo aveva esposto al pericolo di una guerra dalla quale nulla aveva da guadagnare, né in caso di vittoria, né in caso di sconfitta.

Ma per svolgere un tale programma nessuna necessità imponeva di abolire espressamente lo Statuto concesso; i vescovi convocati a Portici, narra De Cesare: Una famiglia di patriotti, manifestavano il parere che il re non potesse, senza infrangere il giuramento, ritirare lo Statuto. Il re adunque salvava la sua coscienza non abolendolo in diritto, non applicandolo in fatto. Tutto al più giovava stabilire che il paese concordava col re nel ritenere lo statuto una superfetazione. Emissari giravano fino dall’agosto 1849 le provincie per sollecitare indirizzi al re perché abrogasse lo Statuto. E in quella popolazione mobile, malleabile ed ignorante, in pochi mesi, afferma Zini (Storia d'Italia dal 1850 al 1866, I), «le domande salirono a più che 2000 con assai più migliaia di sottoscrittori, 1700 Municipi, nientemeno»; «universalità di abbiezione, furore servile», giudica Anelli; «immondo e miserando spettacolo», esclama Raccioppi nella Storia dei moti di Basilicata, «supplicavano autorità, clero, collegi giudiziari ed amministrativi, Comuni, società di lettura ed Università, famosa quella della Corte Suprema che applicava alla concessione dello Statuto le regole delle civili donazioni e domandava la rescissione della donazione per ingratitudine, prova del basso livello morale delle popolazioni». Ed il borbonico De Sivo nella Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861 precisa che dall’agosto 1849 al marzo 1850 gli indirizzi al re per la ristorazione furono 2283, di cui molti dettati avanti notai, solo quelli dei Municipi 1859, firmati da centinaia di migliaia, non contadini, e fra essi parecchi liberalissimi del 1860», tanto è vero che in un paese non cosciente la corrente trascina. Dunque il re nella delicata coscienza, ad onta di tali sproni, non aboliva lo Statuto, sebbene il suo fedele popolo ne invocasse la abolizione, ma per soddisfare in qualche modo allo scongiuro dei suoi amatissimi sudditi, toglieva semplicemente le spese stanziate pel Parlamento, ne licenziava gli impiegati, comandava nuova formula di giuramento di fedeltà al solo principe per le milizie e gli stipendiati dello Stato, poneva la censura preventiva sulla stampa, decretava egli le imposte.

Questa gente napoletana, dopo cento anni di regime borbonico e duecento di soggezione spagnuola, rimaneva, come rileva Alberto Mario, col suo ingegno arguto e la sua grossa superstizione in cui sì combinano Vico e Pulcinella; quel proprietario pugliese, di cui scrive De Cesare: Delle condizioni economiche e morali delle classi agricole nelle tre provincie di Puglia, «è un ignorante, anzi più ignorante dell’uomo volgare detto massaro o curatolo», era dappertutto uguale, a Non conoscenze agrarie, non semplici nozioni di economia, non principii di chimica, non notizie dei progressi agrari nelle più civili nazioni del mondo, nulla di tutto ciò; il proprietario pugliese, galantuomo, non sa proprio nulla; di libri, se legge qualche romanzetto o giornale, è un gran che; invece tutte le sue ore sono sciupate ad addestrare puledri al cocchio, ovvero al teatro, al giuoco, al casino, ai diporti». Dovunque nel Napoletano il livello intellettuale come il morale era basso, in confronto a quello delle altre regioni d’Europa ed anche d’Italia, e il governo lo manteneva tale dal 1815 con l’esempio dall’alto, con l’istruzione scarsa, con le strade negate. «Il paese, scriveva nel 1860 il francese Marc Monnier nel Garibaldi, è rimasto indietro per molte cose di mezzo secolo. Tutti i viaggiatori che arrivano a Napoli sono scandalezzati di tutto ciò che essi vedono nelle vie, del numero di cappuccini e mendicanti che incontrano, dei pezzenti mutilati che espongono le loro piaghe e fanno di ogni piazza pubblica una Corte dei miracoli, dei ladri che ogni sera fermano ed assassinano i passanti in ritardo, dei lazzaroni che si scambiano colpi di coltello a pochi passi dai corpi di guardia, delle migliaia di furfantelli che ricattano in mille maniere i nuovi venuti, dei mercanti patentati che accettano senza rossore la metà dell’ultimo prezzo che vi hanno senza vergogna proposto, dell’industria arretrata, stazionaria e sostenuta a stento da un numero ristretto di stranieri, delle strade di ferro in costruzione da 20 anni e che si arrestano sbuffanti a due ore dalla città, della sporcizia proverbiale che disonora i più bei quartieri in cui si mostrano tra i palazzi ignobili stamberghe e dove grugniscono tra le immondizie le mandre di porci. «In mezzo a ciò nessun popolo del mondo è più sobrio, più contento di poco, più penetrato di certi sentimenti, come il culto della famiglia, la pietà filiale, la sommessione cieca alla legge paterna, l’abbandono completo ai genitori del denaro guadagnato, la fedeltà nell’amore, il rispetto dei vecchi, l’adozione per parte del povero dei figli del più povero». u Quando il napoletano lavora, quando il lazzarone diviene operaio e comincia a sognare il benessere, si mostra accanito al suo còmpito in modo da sfidare qualsiasi paragone, e si pone a lavorare dalle sei del mattino fino a mezzanotte»... a Essi sono petulanti, verbosi e gai fino alla follia, essi parlano come Rabelais, essi hanno della immaginazione e della poesia a vendere, e il senso e la passione della musica cosi sviluppati che l’indomani della prima rappresentazione l’opera nuova, se è riuscita, corre già per le strade. Si dice che essi sono vili e si inganna; quando si tratta di difendere i loro interessi e i loro affetti essi sono invincibili». Anche in Inghilterra, secondo rileva Cantù, in un’inchiesta sugli operai europei, si diceva: «L’artigiano di Napoli è il più alacre e attento, purché abbia un incarico di suo genio, instancabile in opere in cui abbia parte l’ingegno, raddoppia l’attività se abbia sovrintendenza I lazzaroni però, benché assai migliorati, presentavansi ignoranti, luridi, ingordi, vigliacchi; nella classe media e nelle elevate molti analfabeti, sebbene d’intelligenza finissima, e in mezzo a persone d’insigni talenti e profondi studi. Il sentimento della dignità pareva smarrito tra gente che chiede mancie, guadagna anche turpemente, mentisce sfacciatamente, e trema dei camorristi, che sono una lega per raccogliere denaro a mezzo della prepotenza. È divisa in bassa, infima, alta; nell’alta anche cavalieri e dame, la bassa ha tre paranze: falsificazione di monete, contrabbandi. L’infima è in cinque paranze: matrimoni, appalti, aste, giuochi, lotto, sogni, lotterie, usura, furti. Fra loro hanno organamento e capi, e s’intendono per simboli massonici. Il camorrista esercita anche nelle carceri. È costituita da veterani congedati, impiegati dismessi, giuocatori patentati, letterati oziosi, nobili pitocchi, negozianti falliti. Si accusava il governo di non saperla sradicare. Ma poi?» (Cantù, Cronistoria, III, 1). Parlare a questo popolo di costituzione che non lo interessava affatto, che non comprendeva, era tempo perduto, parlare d’Italia, prematuro.

Perché il popolo napoletano sentisse l’Italia bisognava che essa gli apparisse tra il fulgore della spada di Garibaldi, tra il corruscante bagliore della camicia rossa, sola atta a colpire e sedurre l’immaginazione meridionale, finché l’Italia non fosse divenuta un interesse da difendere. Per allora le condizioni agricole rispondevano all’incuria delle menti; u il bestiame, abbandonato a sé stesso, vaga qua e là nelle Puglie, per le spontanee praterie, riposa la notte all’aperto sotto le intemperie, manca di stalle e perfino di capanne, non case pastorali, non ovili secondo le regole della buona pastorizia, non prati artificiali, non foraggi conservati per l’inverno. È una pastorizia nomade ed errante». «In Capitanata, scriveva G. Massari nella Relazione parlamentare sul brigantaggio (1863), la proprietà è raccolta in pochissime mani, la stessa denominazione di proprietari anzi è inesatta, perché in realtà essi non sono veri proprietari, ma censuari vassalli del Tavoliere di Puglia ed ivi il numero dei proletari è grandissimo». «A Foggia, a Cerignola, a San Marco in Lamis havvi un ceto di popolazione addimandata col nome di terazzani che non possiede assolutamente nulla e che vive di rapina. Nella sola città di Foggia i terazzani assommano ad alcune migliaia; grande coltura, nessun colono, e molta gente che non sa come fare a lucrarsi la vita. I terazzani ed i cafoni, ci diceva il direttore del Demanio e Tasse della provincia di Foggia, hanno pane di tale qualità che non ne mungerebbero i cani. Il contadino non ha nessun vincolo che lo stringa alla terra, la sua condizione è quella del vero nulla tenente e quand’anche la mercede del suo lavoro non fosse tenue, il suo stato economico non ne sperimenterebbe giovamento». E De Cesare: Una famiglia di patriota, tutti scrittori napoletani, aggiunge: «Occorrevano otto giorni per andare da Lecce e da Aquila a Napoli, e dodici da Reggio, e le vie erano mal sicure ed occorreva il passaporto che si presentava all’ingresso della città con mancia per le irregolarità. L’istruzione secondaria era in mano ai gesuiti, l’elementare a preti e frati; d’istruzione tecnica neppure l’ombra. La maggior parte del Regno si percorreva malamente a dorso di bestie. Poche imposte; di dirette la sola fondiaria con aliquota bassa, ricchezza mobile punto, bollo e registro bassissimi; inceppata l’uscita dei grani; molto olio si esportava e qualche porzione di lava fine, seta, frutta secca, agrumi — e basta. Alcune fabbriche di panni grossolani, di cotone e di lino nelle valli del Liri, del Sarno, delfinio erano le industrie del Regno fondate da svizzeri e da francesi; bestiame brado, caseificio rozzo, difetto di capitali per l’agricoltura».

Non si comprende la storia di un popolo, non si può intendere il 15 maggio 1848 e l’agosto e il settembre 1860 nel Napoletano se non si conoscano le condizioni di quel paese. «Noi trovammo, scrive Franchetti: Condizioni economiche ed amministrative delle provincie napoletane, un popolo confinato in un paese mezzo selvaggio, racchiuso nei suoi luridi borghi e nei campi circostanti, senza strade per allontanarsene, ignorante e laborioso, diretto da preti poco più civili di lui, e da signori una parte dei quali ignorante quanto lui, ma più corrotti. I buoni in galera, o sorvegliati, o cacciati, segregati tutti dal resto d’Italia e d’Europa da un sistema di proibizioni commerciali, di passaporti e di esclusione di libri, nell’amministrazione una corruzione svergognata». E tali giudizi sintetici sono basati a dati di fatto positivi, i quali fanno intendere come non poteva essere altrimenti, come questo Reame di Napoli coi Borboni riusciva una Russia mascherata, un popolo selvaggio, inverniciato di civiltà solo a Napoli, u Su 124 Comuni di Basilicata, constata Massari, 91 sono senza strade (nel 1861), su 108 della provincia di Catanzaro 92, sui 75 della provincia di Teramo 60; nella stessa provincia di Napoli sonvi 24 Comuni senza strade. La provincia privilegiata è quella di Bari, la quale, per ogni miriametro quadrato, ha undici chilometri di strada, laddove negli Abbruzzi, in Capitanata, nella Basilicata, nelle Calabrie la proporzione è di soli tre chilometri. In totalità su 1848 Comuni del Napoletano, 1321 mancano di strade» (Relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sul brigantaggio, 1863). E Franchetti completa: «Nella provincia di Aquila sopra 127 Comuni, 43 non hanno strade carrozzabili, 68 ne hanno una, 14 ne hanno due, due più di due, nella provincia di Molise sopra 142 Comuni, 84 sono sforniti di strade carrozzabili». Ecco come trovano spiegazione il dispotismo, l’ignoranza, il brigantaggio, e bisogna aggiungere, la corruzione universale che non è un’invenzione dei liberali. «Il governo borbonico, scriveva Bettino Ricasoli alle Legazioni regie nel 1861, aveva per principio la corruzione di tutto e di tutti, cosi universalmente esercitata, che riesce meraviglioso come quelle nobili popolazioni abbiano un giorno trovato in sé stesse la forza di liberarsene. Tutto ciò che nei governi mediocremente ordinati è argomento a rinvigorire, a moralizzare, in quello era argomento di infiacchire e depravare. La polizia era il privilegio concesso ad una congrega di malfattori di vessare e taglieggiare il popolo a loro arbitrio, purché esercitassero lo spionaggio per conto del governo; tale era la camorra. L’esercito, salve eccezioni, si componeva di elementi scelti scrupolosamente, educato da gesuiti e cappellani nella più abbietta e servile idolatria del Re e nella più cieca superstizione». Sulla corruzione caratteristica del regime borbonico non può sorgere ragionevole dubbio. «Tutto è venale in questo paese», vedeva Monnier, e per farlo comprendere con un aneddoto si attribuiva a Ferdinando l’esclamazione: «occhio alle tasche», all’entrare di un suo ministro in una festa, «Accadeva, scrive Franchetti, che il ministro, d’accordo con una grande casa commerciale di grani a Napoli, proibiva, subito dopo il raccolto, l’esportazione dei grani, che dopo il ribasso artificiale per tal modo cagionato, erano incettati da quella casa. Finite le compre, la proibizione era tolta; i prezzi crescevano ad un tratto e la Casa aveva guadagnato la differenza». Luigi Anelli può come storico democratico colorire troppo oscuro, ma ciò che egli rileva risponde alle osservazioni di tutti: «A Napoli si destinavano i figli dei favoriti ad alti uffici e ancora fanciulli si registravano ai pubblici impieghi per dar loro diritto di anzianità ai gradi e nelle cariche; magistrati nominati di rettitudine, dirittura e dottrina pochissimi, i molti superbi, oziosissimi e stati sommessi paurosamente alla volontà del re. I posti venali, venali i favori; sproporzionate le provvisioni, troppo ricche negli alti, troppo tenui nei bassi, e con ciò tramutati gli uffici in sporca officina d’intrighi, di truffe, di ladronecci e d’estorsioni. La polizia era una fogna; sulle plchi potente un clero che cercava i suoi diletti in insipide allegrezze ed in sudicie facezie, senza onore il soldato ad occasione farsi assassino, lo sbirro tener di mano al malfattore, l’ufficiale di dogana mutarsi a tempo in contrabbandiere o cercar guadagno più turpe, i benestanti mentire o celare le loro rendite; industria povera, castelli e borghi spopolati, immenso terreno sterile; la nobiltà nelle province senza ricchezze e senza virtù, nella capitale servilmente vituperosa, infingarda, e dappoco; le moltitudini snervate d’anima e di mente, senza bisogni fuorché osceni baccani, intristire accidiose nella miseria e nella sporcizia, dappertutto luride torme di svergognati pezzenti. La società infetta dalla camorra entratavi coi viceré spagnuoli, sorta fra le galere, che adora la Vergine del Carmelo ed ha per scopo l’estorsione mediante la forza, divisa in varie associazioni con capo e guadagni propri che trae ordinariamente col mettere a prezzo la fede di non far concorrenza nei traffici altrui, coi gradi per entrarvi, picciotto sgarro, la violenza, il coltello per mezzo, il segreto inviolabile».

E un tale severo giudizio trovava piena conferma nella relazione al conte Cavour del segretario di Stato del principe Eugenio di Carignano, luogotenente del re a Napoli nel 1861, scritta da uomo come il conte Carlo Nigra, non certamente borbonico, ma però temperato: «Si può dire con tutta verità che ogni ramo di pubblica amministrazione fosse infetto dalla più schifosa corruzione. La giustizia criminale serva delle vendette del principe, la civile, meno corrotta ma incagliata dall’arbitrio governativo. Libertà nessuna né ai privati, né ai Municipi. Piene le carceri e le galere dei più onesti cittadini, commisti ai rei dei più infami delitti. Innumerevoli gli esiliati. Gli impieghi concessi al favore e comperati. Gl’impiegati in numero dieci volte maggiore del bisogno. Gli alti impiegati largamente pagati, insufficientissimi gli stipendi degli altri. Ammessi in gran numero a stipendi governativi ragazzi appena nati, cosi che contavano gli anni di servizio dalla primissima infanzia. Istruzione elementare nessuna; la secondaria poca ed insufficiente; l’universitaria anche più poca e cattiva; trascurata più ancora l’istruzione femminile. Quindi ignoranza estrema nelle classi popolari. Pochi i mezzi di comunicazione; non sicure le strade, né le proprietà, né le vite dei cittadini.

Neglette le provincie. Poco commercio malgrado le risorse immense di paese ricchissimo. Pochissime le industrie, perciò aggiunte all’ignoranza la miseria e la fame. Le spese di amministrazione molto maggiori di ogni più largo calcolo. Gli istituti di beneficenza riccamente dotati, depauperati da schiera immensa di impiegati, di amministratori, di ingegneri, di avvocati. I provventi loro di regola generale consumati per tre quarti in spese di amministrazione e per un quarto solamente nello scopo dell’istituzione. Nelle carceri, nell’esercito, nelle amministrazioni, in tutti i luoghi pubblici, esercitata largamente la camorra, il brigantaggio nelle provincie, ladroneccio dappertutto. La polizia trista, arrogante, malvagia, padrona della libertà e della fama dei cittadini. 1 lavori pubblici decretati, pagati e non fatti. Ogni potere, ogni legge, ogni controllo concentrato nell’arbitrio del principe. Nessuna guarentigia al pubblico danaro. Clero immenso, ignorante, salvo alcune eccezioni, meno rare nella diocesi di Napoli, sfornito della dignità e della coscienza del proprio ministero. Bassa superstizione nel popolo. La mendicità esercitata sotto forme diverse da tutte le classi dei cittadini sotto forme le più elevate. Non giornali, non libri. L’esercito corrotto, non esperto di guerra, privo di fiducia nei capi». L’esercito, conferma Raccioppi, poiché erano ammessi i supplenti, era tolto dall’infima classe nella bassa forza; negli ufficiali: o nobili o usciti da collegi ispirati da preti ignoranti; i capi amministrando i reggimenti arricchivano, la camorra travagliava tutti i gradi, gli svizzeri sembravano spiacente schermo ai rischi di guerra».

La polizia, tutti lo ripetono, dominava come nel periodo anteriore. Le guardie addette alla città di Napoli, in numero di 181, erano chiamate dal minuto popolo feroci di polizia o uomini di fiducia. In provincia la polizia era fatta dalla gendarmeria. Essa lasciava ineseguite le sentenze dei tribunali se le disapprovava; a Napoli si diceva: se non mi paghi, ricorro al commissario, non al giudice, che era considerato subordinato al commissario (Scialoja, I bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi), Scialoja calcolava in 400,000 lire all’anno le spese segrete per la sola Napoli, spie, commissari, feroci, lucravano sui processi; nelle carceri i galantuomini dovevano anch’essi pagare tributo alla camorra.

Gli ordini religiosi nel Napoletano erano 39, i conventi 848, i religiosi 12. 405, con una rendita per gli ordini maschili di L. 2. 043. 033 84; gli ordini monastici 250, le monache e converse 5000, con l’annua rendita di L. 2. 000. 000.

Alla cima di questa piramide di poliziotti senza scrupoli, di preti senza coltura, di soldati senza altri combattimenti che i civili, stava il re Ferdinando II, ormai vecchio, esperto delle cose del mondo e conoscitore dei suoi sudditi. Aveva ceduto due volte davanti ad essi, ma il 15 maggio aveva suggellato la sua forza. Con la facilità d’intelligenza e la straordinaria memoria di cui era fornito, né triviale né donnaiuolo, anzi austero e devoto, indefesso al lavoro, breve e preciso nei comandi, grave e paziente nell’ascoltar tutti, aveva ben risoluto oramai di comandare solo e finché avesse potuto.

Ancora recentemente questo re fortunato ha avuto giudizi benevoli. Marc Monnier, uno scrittore non borbonico, nel Garibaldi raccoglie l’opinione comune, quella che correva sul di lui conto: «Ferdinando II come uomo non era cattivo; coloro che lo avvicinavano vantavano le sue qualità personali e le sue virtù di famiglia. Amava la sua casa, aveva costumi severi, uno spirito piacevole e giudizioso. Salvo in politica, era incline alla clemenza. Credeva troppo ai suoi preti, ma credeva altresì in Dio. Parsimonioso per sé stesso, dava nondimeno e molto ai poveri. Si mostrava famigliare, indulgente, buon uomo con coloro che gli erano devoti. Prometteva volentieri e non dimenticava troppo spesso le sue promesse. Tollerava tutte le inferiorità e le colmava di onori e di grazie. Gentiluomo campagnuolo un po’ volontario, ma buon diavolo in fondo, avendo del carattere e della destrezza, era nato per fare la felicità di un piccolo popolo di paesani». A parte questo giudizio superficiale, certo è che il re aveva alcuni aspetti seducenti, «ma, rileva Cantù stesso, sentendosi circondato di insidie, sprezzò l’opinione pubblica e si basò sulla polizia, il prefetto spiava il vescovo, l’intendente il comandante, il carabiniere il colonnello», era tutto l’antico Regno ristaurato, con l’aggravante che, oramai, ad esperimento compiuto, non poteva più ringiovanirlo né rinnovarlo.

I ministri dovevano riflettere intieramente il pensiero del re, egli li pagava abbastanza bene perché potessero accontentarsene. Quello degli esteri, secondo espone Scialoja, aveva lo stipendio di ducati 6600, L. 29. 700, ed il trattamento di ducati 3400, pari a L. 15. 300, in tutto L. 45. 000, gli altri L. 27. 000, ed il presidente l’indennità di abitazione. I ministri con tale titolo non erano che due, il presidente ed un altro, i rimanenti si chiamavano direttori, non avendo facoltà di adunarsi tra loro in consiglio, ma bensì di intervenire nel Consiglio di Stato, né di riferire a voce al re senza di

lui speciale permesso. Il segretario privato del re con lire 13,000 di stipendio era in pari tempo incaricato del protocollo del Consiglio di Stato e teneva proposizioni e documenti, diguisaché realmente può affermarsi che il re, coll’aiuto del suo segretario, era tutto e provvedeva a tutto (I bilanci del Regno di Napoli e degli Siati Sardi), Evidentemente si può concludere con Memor (La fine di un Regno) «il Regno non era maturo ad una rivoluzione».

Il re disponeva di buone finanze, di disciplinato esercito, di marina, arsenali, vascelli; egli infaticabile nelle cure di Stato, sempre tra le schiere e sulle navi, esercitava e conosceva soldati e marinai. Chi avrebbe potuto dubitare della solidità di questo Regno? il Papa amico, l’Austria al di là del confine, la Russia protettrice, i liberali domati, tutto rassicurava e prometteva di procedere secondo la mente del re.

Epperciò al cominciare del giugno 1849 il re ordinava si togliessero dalle bandiere i tricolori, simbolo di nazionalità italiana, che egli, napoletano semplice, non aveva mai sentito, e il 2 agosto ripristinava i Gesuiti, i suoi buoni amici cacciati per violenza rivoluzionaria, ai quali affidava il collegio di Arpino, quello di Lecce ed i licei del Regno, per cui essi tosto rinnovavano nelle campagne le Missioni e stampavano a Napoli la Civiltà Cattolica,

Il re il 7 agosto si liberava dei ministri non abbastanza personali, di quel Bozzelli al quale conferiva un assegno di ducati 3000 e che fino allora aveva lasciato credere almeno ad una larva di costituzionalità, di quel principe di Cariati, intelligenza corta e scetticismo aristocratico, ma indole mite, con modi e garbo da gran signore. Il re nominava presidente dei ministri, con le finanze e gli esteri, Giustino Fortunato, antico ministro prima del 1848, che Leopardi nelle Narrazioni storiche accusa di aver cominciato la sua carriera col re Giuseppe a assalendo i procacci nelle pubbliche vie», di nessuna fede, secondo Nisco, e di scuola giacobina, democratico di modi e scettico di coscienza, privatamente onesto e spogliatore dei cittadini nell’interesse dello Stato, di mente amministrativa sottile e colta; Ferdinando Trova, fratello di Carlo, sostituito a Fortunato all’istruzione ed affari ecclesiastici «dotto in legge e nelle lettere latine, di finissimo ingegno, di facili espedienti per coonestare fatti bratti, e diceva che i ministri sono campana senza battocchio il quale resta nelle mani del re e come egli batte la campana suona, secondo Zini, a piuttosto bacchettone che religioso, di piccolo ingegno, di grande presunzione, servo del principe, legato ai sanfedisti e secondo Bersezio, ancora più aspro: u mente angusta, spirito ignorante, apatico, di cattolica superstizione»; Longobardi, il quale veniva dalla polizia e dall’interno, passava alla giustizia; Pietro d’Urso all’interno; rimanendo del cessato ministero Carascosa ai lavori pubblici, Ischitella alla guerra e marina. Assumeva la direzione della polizia Gaetano Peccheneda che Luigi Settembrini, nelle Ricordanze di mia vita (I. 315), dice: «brutto e sozzo furfante, prete e sbirro, schiuma di mariuolo».

Nell’accompagnare Pio IX da Gaeta a Napoli il re diceva ai suoi, come probabilmente credeva. «Oggi il trono di Carlo III è stato collocato su un piedestallo di granito». Il 16 settembre 1849 un gruppo di liberali tentava turbare la benedizione del Papa, dalla terrazza del Palazzo Reale, gettando vipere, stravagante pensiero, tra la folla. Salvatore Faucitano, appaltatore d’opere municipali, veniva arrestato con le vesti abbruciate e le mani annerite con una bomba che gli scoppiava in tasca (Nisco, Ferdinando II e il suo Regno), Faucitano apparteneva agli unitari e dava il catechismo della società, alla polizia, la quale non desiderava di meglio per un’accusa di lesa maestà già da essa iniziata. Il ministro Longobardi aveva già, narra Zini, imaginato di far compilare dalla polizia un repertorio o dizionario alfabetico di tutti gli elettori ed ufficiali e sotto ufficiali della guardia nazionale, apponendo a ciascun nome le note caratteristiche sulla loro condotta dal 1799 in poi, destinato un esemplare al gabinetto del re.

In mezzo a cosifatte tendenze sarebbe stato stupido da parte del clero non profittare della reazione e della devozione del re per accrescere, secondo è sua natura, i suoi poteri, epperciò gli arcivescovi di Napoli e di Capua, e i vescovi di Aversa e di Acerra chiedevano al re: 1° sanzione penale per l’inosservanza delle feste, pel concubinato, pel meretricio, abolizione della pena ai parroci che celebrassero il matrimonio religioso avanti il civile, al potere ecclesiastico la facoltà di giudicare della separazione di letto e di convivenza degli sposi; 2° censura preventiva della stampa e revisione dei libri importati di fuori ai vescovi; 3° giurisdizione penale sul clero; 4° immunità d’asilo alle chiese; 5° rinuncia all’autorizzazione per gli acquisti delle mani-morte ecclesiastiche, per legati e donazioni alle chiese, per la riunione e la divisione delle parrocchie e dei benefici; 6° ampia facoltà per ordinare Sinodi diocesani, promulgarne gli atti e i decreti, senza l’intervento del Consiglio di Stato; 7° tutela esclusiva dei conservatorii, dei ritiri, dei Monti di Pietà. Ma il governo, a così breve distanza dal 15 maggio, si sentiva forte così da non aver bisogno di concedere troppo per assicurarsi il concorso del clero. I ministri sostenevano doversi rimanere al Concordato. L’editto sulla censura della stampa voleva i libri sottoposti al ministro dell’istruzione, i diari e periodici a quello della polizia, e i Gesuiti non ottenendo di far sottoporre la Civiltà Cattolica alla censura dell’istruzione, la trasportavano a Roma, imperocché ai Gesuiti non bastava la per essi mite e benevola censura del governo borbonico, il quale, ispiratore Trova, con editto 28 ottobre 1849, nell’affidare l’insegnamento all’autorità ecclesiastica, diceva: «Considerando che il nobile ufficio di maestro devesi affidare alle persone che veramente sono istrutte nelle scienze che insegnano e che la base di ogni insegnamento deve essere la religione cattolica romana», prescriveva esami di catechismo a tutti gli insegnanti privati, ogni studente doveva iscriversi alla Congregazione di spirito, dovevano portare certificati di assiduità alla messa, alla confessione, alla comunione, vegliava su di essi una Commissione di quattro preti ed un esperto commissario di polizia. Anche le scuole militari dirette da tonsurati, «incontravate nelle vie allievi del collegio militare in uniforme a passeggio, due a due, condotti da sottane... lo stesso maestro di ballo deve sapere la sua dottrina cristiana sulle punta delle dita, gli allievi protestanti non sono ammessi, la storia e la filosofia sono interdette». Vigeva nel Reame il regolamento 6 novembre 1840, pubblicato il 30 novembre, il quale aveva istituito la Commissione di quattro preti ed un esperto di polizia per la cura degli studenti nei rapporti dell’assistenza alle Congregazioni di spirito ed alle scuole. Nessun studente veniva ammesso agli esami se non provava l’assistenza per mesi otto ad una Congregazione. «Coloro che non si uniformassero a tale regolamento verranno subito rimandati alla loro patria per mezzo della polizia». Ebbene, ai Gesuiti ciò non sembrava abbastanza.

Che se in tal modo venivano disciplinati gli studenti, i maestri avevano per legge organica amministrativa ducati 120 all’anno per ciascuno nei Comuni di prima classe, ducati 80 nei Comuni di seconda classe, ducati 50 in quelli di terza. Bisognava pure provvedere perché non insegnassero troppo. 88 invece erano le diocesi napoletane, 22 direttamente soggette alla Santa Sede, 66 di patronato regio, però i vescovi-avevano rendite molto diverse, molto alte e molto basse. L’editto 23 ottobre 1849 prescriveva all’art. 2°: «Qualunque sia la scienza che voglia insegnarsi da coloro che aspirano ad essere maestri dovranno subire un esame in iscritto sul catechismo grande della dottrina cristiana, rispondere altresì ai quesiti sulla medesima dottrina relativi alla scienza che si propongono di insegnare, i quali saranno indicati dal Consiglio generale di pubblica istruzione. Siffatto esame verrà dato innanzi alla Facoltà di teologia della regia università degli studi ed ai rispettivi ordinari». Per insegnare privatamente, oltre all'autorizzazione regia, occorreva il permesso della polizia. Si poteva avere quella e non questo, come toccava a Scialoja. «Eppure, avverte Scialoja, l'antica consuetudine dell’insegnamento privato resisteva ad onta dei più gravi ostacoli, e Napoli era un semenzaio di professori si per il resto d’Italia che per l’estero, coltivandovisi special-mente le scienze filosofiche e sociali». E fu questa la salvezza del medio ceto napoletano, sebbene la istruzione privata non potesse prender radice nelle provincie. Come prima del 1848 la scuola privata di Basilio Puoti aveva giovato ad ispirare ai giovani con l’amore della lingua il sentimento della italianità, così ora nel decennio 1848-1859, la scuola di De Sanctis (MARSELLI, Gli Italiani del Mezzogiorno) «diventò poco a poco il laboratorio dello spirito nazionale, e l’anello di congiunzione tra gli studi italiani ed il movimento degli studi germanici», tanto è vero che con poco, quando si risponde ad un bisogno reale, si arriva a risultati superiori all’aspettativa. De Sanctis insegnava grammatica al collegio della Nunziatella, «questa si trasformava in logica, la logica si applicava all’arte, l’arte diventava vita mediante i brani degli scrittori, meravigliosamente commentati. E i fanciulli diventavano giovani anzi tempo e i giovani si sentivano uomini anelanti di poetare e di combattere per la libertà».

Il bilancio del Governo borbonico ne segna l’organismo, le tendenze e Scialoja dà questo stato degli introiti presuntivi pel 1851:

ENTRATE



Contribuzioni dirette:



Art. 1. Contribuzioni fondiarie

duc.

7.434.020 —

Art. 2, 3, 4 e 5. Imposizione straordinaria

»

220.119 —

Ventesimo comunale

»

164.069 —

Dazi indiretti doganali e diritti riservati

»

10.860.000 —

Registro e bollo

»

1.240.000 —

A riportarsi

duc.

19.818.218 —

Riporto

duc.

19.818.218

Lotteria

»

1.300.000

Amministrazione generale delle poste

»

260.749

Amministrazione generale delle monete

»

88.800

Cassa d'ammortizzazione e demanio pubblico

»

607.006

Cassa di sconto

»

60,000

Ritenute fiscali

»

954.300

Introiti diversi

»

190.028

Arretrati per diversi rami di esercizi chiusi

»

10.000

Somme che si esigono per conto della Commissione di beneficenza

»

26.596





Regia strada ferrata

»

200.000

Prodotto vendita leggi ai Comuni

»

15.000

Quota della Sicilia sopra pesi comuni

»

3.760.000

Totale

ducati

27.391.617

Riporto

duc.

19.818.218

Lotteria

»

1.300.000

Amministrazione generale delle poste

»

260.749

Amministrazione generale delle monete

»

88.800

Cassa d'ammortizzazione e demanio pubblico

»

607.006

Cassa di sconto

»

60,000

Ritenute fiscali

»

954.300

Introiti diversi

»

190.028

Arretrati per diversi rami di esercizi chiusi

»

10.000

Somme che si esigono per conto della Commissione di beneficenza

»

26.596





Regia strada ferrata

»

200.000

Prodotto vendita leggi ai Comuni

»

15.000

Quota della Sicilia sopra pesi comuni

»

3.760.000

Totale

ducati

27.391.617

Gli stati dell’entrata e dell’uscita non sottoposti a veruna specie di discussione, preparati 'dai ministri ed approvati dal re, rimanevano del tutto segreti. La spesa pei lavori pubblici e quella per l’istruzione, così lievi in confronto delle altre, segnavano le vere attitudini del regime borbonico.

2. — I processi e le galere

Nei primi mesi dopo il 15 maggio 1848 non pareva che il re volesse incrudelire sui vinti ad onta che la resistenza e la ribellione armata nelle Calabrie gliene porgessero occasione e diritto. La repressione riusciva mite; si tenevano arrestati i fuggiti dall’insurrezione, pochi i fucilati, si relegavano nelle isole, a Tremiti, in catene, si carceravano, si relegavano per provvedimento economico, durando alcuni anni in tale posizione, cosicché nel 1856 ne rimanevano ancora 50 (Scialoja, I bilanci del Regno di Napoli) e cento dei reduci napoletani da Venezia. Appena qualche fatto isolato avvertiva che la reazione non rinunciava ai suoi rancori; il prete Vincenzo Peluso, di Sapri, aveva ucciso il già deputato Costabile Carducci, e narra Settembrini, ne aveva presentato il capo in un paniere al re, il procuratore generale Pasquale Scura, che aveva aperto perciò un processo, aveva dovuto fuggire. Non era ancora giunto il momento in cui il consumare una vendetta o il perdere un nemico fosse un affare naturale e semplice, ma già bastava denunciare il nemico come liberale o far nascere dei sospetti contro di lui, mercé dei ricorsi anonimi (De Cesare, Una famiglia di patriota). Occorre tener conto delle date. Il primo arresto nel processo dell’Unità Italiana nella persona di Nicola Nisco, non. seguiva che nel novembre 1848. Da maggio a novembre la reazione aveva tenuti aperti gli occhi, ma non aveva spiegato tutti gli unghioni. Il processo veniva originato dal tentativo di Salvatore Faucitano il 16 settembre 1848 di turbare la benedizione di Pio IX. A Faucitano arrestato si trovava una bomba in tasca. Una perquisizione al suo domicilio faceva scoprire documenti di una cospirazione. La polizia entrava in possesso, secondo narra Cesare Cantò, di catechismi, stampati, diplomi settari, prove di cospirazione.

Una cospirazione vi era, ma i liberali non la riconobbero se non dopo caduti i Borboni. Nisco nel Ferdinando II e il suo regno cosi come De Cesare e Riviello lo confessano. «Nel giugno 1848 Silvio Spaventa gettava Videa dell'Unità Italiana, accolta da Agresti, che aveva vagheggiato la ricostituzione dell’antica carboneria, e da Settembrini che aveva ricostituita la Giovane Italia riformata». Fu detto che la cospirazione avesse programma repubblicano, ma non è vero. «L’Unità Italiana non fu repubblicana per volontà di Spaventa; doveva avere lo scopo di combattere i Borboni e rovesciarli «... «Questa grande società, dice Nisco, aveva lo scopo di liberare l’Italia della tirannide interna dei principi e da ogni potenza straniera, di vederla forte e indipendente, di redimerla da parti eterogenee e contrarie a questo scopo. I suoi mezzi erano intellettuali e morali, cioè le cognizioni, le armi, il denaro. Essa si componeva di Uniti, semplici ascritti, di Unitari, presidente e consiglieri, e di grandi Unitari, membri del Consiglio Supremo, ed era divisa in circoli di cinque ordini: gran Consiglio, circoli generali e provinciali, distrettuali e comunali. Il Gran Consiglio, a cui solamente era noto l’ultimo scopo e gli ultimi mezzi, si componeva di tutti i grandi Unitari. Vi erano motti, diplomi, giuramento di usare tutte le forze proprie per costruire il grande edificio dell’unione d’Italia e di ubbidire ciecamente a quello che veniva comandato». Il sodalizio, conferma De Cesare, aveva formule e simboli settari, evidentemente costituiva una fusione delle formule e dei metodi della carboneria, tradizione napoletana, colle formule, i metodi e le aspirazioni della G-io-vane Italia. Secondo De Cesare, Silvio Spaventa, Luigi Settembrini e C. Braico fondarono la società, secondo Riviello e d’Hervey Saint-Denis la capitanava anche Filippo Agresti. Il sacerdote Emilio Mattei ne assumeva la rappresentanza in Potenza, «I fatti del 1848 influirono tanto nella coscienza della intera provincia, che senza di essi sarebbe stata impossibile la rivoluzione del 18 agosto 1860 «(Riviello, Cronaca Potentina). Il borbonico d’Hervev Saint-Denis afferma, il che è negato da De Cesare, che v’entravano Carlo Poerio e Pironti: «un Margari aveva missione di cercare persone capaci di commettere assassinii per denaro», «accusa non degna di fede di fronte alla rispettabilità degli accusati». Ma certamente, dopo ciò, il processo contro l'Unità Italiana diviene, non già un arbitrio crudele della polizia diretto a perseguitare nemici, come vogliono gli storici liberali, ma legittima difesa di un governo aggredito. Di fronte ad una vasta cospirazione il governo aveva il diritto di agire, e data la specie di polizia di cui il governo disponeva, non poteva agire che nei modi che il dispotismo borbonico aveva sempre usato, che costituivano l’indole e la caratteristica sua e che erano divenuti per lunga consuetudine natura della polizia. Le cospirazioni obbligarono, rileva Cantù, a processi, a rigori, a carceri, ma governo, polizia e re, poiché borbonici, non potevano limitarsi al ragionevole. «La venalità era cosi intrinsecata nelle costumanze del Regno, che giudici, scrittori, donne e prelati, nonché sdegnarla, si terrebbero anime sciocche, se fuor dell’antico uso ne avessero vergogna o rimorso» (Anelli, Storia d'Italia, III), venalità e false testimonianze, e lusso di crudeltà non solo inutili ma dannose, tutto ciò era inevitabile. «Ferdinando voleva procedere colle forme di giustizia né credeva utile il sangue»; infatti il processo dell'Unità Italiana non aveva luogo davanti ad una Corte stataria, durava a lungo, ammetteva difensori, tutto il resto doveva essere borbonico. «A chi pregava il re di clemenza, rispondeva: «Turberà la mia coscienza, la giustizia faccia il suo corso, raccomandatevi alla Madonna».

La giustizia faceva il suo corso e, secondo Leopardi: Narrazioni storiche ì il ministro Longobardi lo aiutava riformando la Suprema Corte di giustizia in Corte speciale e sostituendo due terzi dei vecchi giudici per poter fare questo processo e quello del 15 maggio.

Sui fatti del 15 maggio la Giunta d’inchiesta aveva conchiuso in una relazione: «ogni ulteriore indagine per risalire all'origine di quel disastro avrebbe condotto a scoperte spiacevoli al Governo», su di che Giovanni de Horatiis procuratore del re presso la Gran corte criminale il 3 luglio 1848 avendo formulato analoga requisitoria ad onta dell’articolo 48 dello Statuto, il quale attribuiva all’Alta Corte dei Pari il giudizio su quella specie di reati, la Gran Corte, riservando di pronunciare la propria competenza, convalidava gli atti dell’inquisizione, ed ordinava sul capo della istituzione sediziosa del comitato della pubblica sicurezza continuarsi l’istruttoria contro i deputati Cagnazzi, Lanza, Topputi, Petrucelli, Giardini e Belelli, rinviarsi avanti ai tribunali correzionali Giuseppe Dardano, Vincenzo Correggio e Santolo Romano, imputati di aver pubblicato scritti faziosi ed incencendiari, catturarsi Costabile Carducci, Pietro Mileti, Giambattista La Cecilia, Raffaele Piscitelli, Federico Gastaldi, Luigi San Giorgio ed altri, imputati di aver promosso la insurrezione con le barricate. Ed anche pei fatti del 15 maggio, un processo da parte di un governo vittorioso che non voleva perdonare, si comprendeva: v’era stata l’istituzione di un comitato di pubblica sicurezza da parte di un certo numero di deputati, v'erano state le barricate e fucilate; ma poi l’indole del governo prevaleva, e Longobardi procurava per mezzo di Pecchenedda «tra la feccia degli spioni e degli arnesi di polizia nella capitale e nelle provincie un centinaio di furfanti, i quali consentissero a comparire per testimoni di Stato, pronti a deporre e giurare quel che si fosse «(Zini, Storia d'Italia dal 1850 al 1866, I), ed anche questo era naturale e logico.

Frattanto che si stava preparando la montatura del processo del 15 maggio, seguivano gli arresti per la procedura dell'Unità Italiana. Dopo Nisco e dopo lo scioglimento della Camera avvenuto il 13 marzo 1849, veniva arrestato il 19 marzo sulla pubblica via, Silvio Spaventa. Il procuratore del re De Horatiis, non avendo voluto, dice De Cesare, firmare il di lui mandato d’arresto, veniva sostituito da Angelillo, più docile. Tutti i regimi, dal terrore al Borbone, hanno sempre trovato, tale è la natura umana, dei rappresentanti di accusa compiacenti. Settembrini veniva arrestato il 23 giugno 1849, Poerio il 19 luglio, Scialoja il 26 settembre; parecchi minacciati, sebbene messi in guardia dagli arresti succedutisi, deliberavano di rimanere u per impegnare, se occorreva, il duello». In questo continente napoletano nel quale tanti piegavansi ad invocare il despotismo, un piccolo nucleo di animosi restava, a prova che non conveniva disperare del tutto dei mobili napoletani. E la procedura seguiva il suo corso regolare; «tra gl’imputati, chi fu tenuto a pane ed acqua per cinque giorni e spaventato da verghe immolate per batterlo, chi ebbe le mani e i piedi legati per più giorni, slegata solo una mano quando doveva cibarsi, a chi fu mostrata una palla di cannone per legargliela al collo e gettarlo a mare, a chi furono fatti vedere i soldati schierati e pronti a fucilarlo, a chi strappata la barba a pelo a pelo tra ingiurie, schiaffi e sputi in faccia, a tutti rasa la barba ed i capelli, a chi arrestata la moglie e tenuta cinque giorni in segreta nella fortezza, a chi dopo vari tormenti dato a bere un grande bicchier di vino prima dell’interrogatorio, interrogato dal comandante fu obbligato a rispondere in iscritto». A soli quarantanni di distanza, già. non sembrano cose credibili, ma sono vere e conformi a procedimenti consimili di tutti i governi assoluti d’Italia. Al primo giugno 1850, presidente Domenicantonio Navarro u impetuoso, crudele, nemico dei liberali», vice presidente Del Vecchio, giudici Lastaria, Canofari, Amati, Vitale, Mandarini, aprivasi il dibattimento contro 62 imputati, fra i quali Faucitano, Agresti, Settembrini, Nisco, Pironti, Leipuecher, Carlo Poerio, portandosi in lettiga Antonio Leipuecher della banda di Costabile Carducci, gravemente ammalato di febbre tifoidea e morto pochi giorni dopo, e durava 8 mesi. La pubblicità e la difesa non mancavano, il sistema borbonico non aveva bisogno dei giudizi statari austriaci con procedura segreta; sedevano difensori Federico Castriotta, Amilcare Lauria, Giuseppe Marini-Serra, Eugenio Raffaele, Francesco Bax, Luigi D’Egidio, Biagio Russo, Gabriele Ballinelli, Luigi Ciancio, Leopoldo Tarantini, Francesco Schiano, Giovanni Vecchi, Giovanni Orsini, Francesco Prisco, Enrico Cenni, Giuseppe Schiano, Giuseppe De Vico e Raffaele Majo. Gli avvocati Giacomo Tofano e Gennaro De Filippo che avevano sostenuto il ricorso dei capi dell’Unità alla Corte Suprema per la ricusa del presidente Navarra venivano però decretati d’arresto d’ordine del re, Tofano arrestato in realtà, De Filippo fuggito (Nisco, Ferdinando II e il suo regno). Il processo metteva alla luce del sole «denuncie anonime e menzognere, scritture contraffatte, documenti falsi, corruzioni, terrizioni, sevizie, tutto disposto da Pecchenedda», «i denunciatori e testimoni, uomini pagati, scelleratissimi, noti per ogni più brutta infamia», «il presidente stolto e furioso». Poerio doveva difendersi dalla denuncia di Jervolino che lo accusava di essere repubblicano e di aver macchinata la uccisione del re, e si difendeva talvolta vivamente, Nisco, con fierezza, appassionato Pironti, calmo e rassegnato Settembrini. La difesa, a scrupolo, opponeva l’incompetenza a base dell’art. 18 dello Statuto, che stabiliva come un deputato non potesse essere tradotto che davanti all’Alta Corte dei Pari, ma già si sapeva che parlare di Statuto a Napoli non poteva servire che a farsi deridere, come inutile era stata l’eccezione di ricusa al presidente Navarra, basata sul fatto che tra le imputazioni era stata registrata quella di assassinio del presidente. Il 31 gennaio 1851, dopo sei mesi di dibattimento, vera lotta con la polizia e i suoi testimoni, la Corte condannava Faucitano a morte col secondo grado di pubblico esempio, Settembrini a morte col terzo grado di pubblico esempio, Agresti a morte col laccio sulla forca, Barilla e Mazza all’ergastolo, Nisco e Nicola Margherita a 30 anni di ferri, Francesco Catalano, Cesare Braico, Lorenzo Bellucci a 25 anni, Michele Pironti e Gaetano Romeo a 24, Achille Valle a 20, Francesco Antonelli, Francesco Cocozza, Giuseppe Caprio, Vincenzo Dono, Francesco Cavaliere, Gaetano Errichiello, Francesco Nardi, Salvatore Colombo, Giovanni De Simone, tutti a 19 anni di ferri, a sei di relegazione Antonio Miele e Raffaele Crispino, ad un anno di prigionia Ferdinando Carafa, Lodovico Pacifico, Giuseppe Tedesco, Enrico Pitera, Giambattista Torassa, a 15 giorni di detenzione Pasquale Montella, alla multa di ducati 50 Nicola Molinari, e poneva in libertà Michele Persico, Francesco Gualtieri, Giovanni Di Giovanni, Onofrio Pallotta, Giambattista Sersale, Giovanni Miraglia, Vincenzo Esposito, Nicola Mauro. A stento i condannati a morte, coll’intervento dell’arcivescovo di Capua, strappato dalle suppliche delle loro famiglie, ottenevano la grazia, il re specialmente avendo esitato a graziare Faucitano, già condotto nella cappella dei moribondi, ma alfine, alieno come era dal sangue, decisosi anche per lui. I condannati in catene coll’assisa dei galeotti, venivano mandati ai bagni di Nisida, di Santo Stefano, d’Ischia; quelli di Nisida ottenendo meno rigido trattamento degli altri, in più leggeri ferri, col passeggio all’aria aperta, ma poi, si diceva per ordine del conte Luigi d’Aquila, fratello del re, ammiraglio nell’isola, rimessa la doppia catena di 24 libbre, legato ognuno con un condannato comune.

Ora i prigionieri che si trattavano in tal maniera dal governo borbonico per volontà di re Ferdinando, non erano volgari malfattori. Il re avrebbe ben potuto negare loro un amnistia ma non dimenticarsi del loro passato.

Carlo Poerio, figlio dell’avvocato Giuseppe, di famiglia di baroni della Calabria, residente in Napoli e procuratore generale d'appello sotto Murat, nato nel 1803, condotto dal padre, esule volontario nel 1815 in Boemia, in Toscana, in Francia, tornando a Napoli col fratello Alessandro nel 1828, mentre Alessandro, poeta nel sentimento, nelle abitudini, nelle idee scriveva pagine eloquenti, cuore ardente, appassionato, fantastico, che nella persona, nei costumi, nei gesti rivelava un’anima ardente, e spingeva la noncuranza delle cose volgari fino alla mania e la sensibilità fino al furore, ad ogni sensazione un po’ forte di dolore o di gioia scoppiando in lagrime come un fanciullo, ferito poi nella sortita di Mestre e morto pochi giorni dopo a Venezia, egli, Carlo Poerio con Paolo Emilio Imbriani, Francesco De Sanctis, Bozzelli, D’Ayala, Baddolisani, si poneva a combattere sordamente ma tenacemente per la libertà del suo paese e dal 1830 al 1848 si faceva centro del partito costituzionale, capo di tutto il lavoro delle provincie. Arrestato nel 1837 per la congiura Pionati di Avellino, arrestato nel marzo 1844 per i moti di Cosenza, arrestato una terza volta nel 1847 per la tentata insurrezione della Calabria, immutabile, invitto, usciva dal carcere alla vigilia della rivoluzione del 1848, pronto a ricominciare. Nel 1848, il re lo nominava prima prefetto di polizia, poi ministro dell’istruzione. Nel 15 maggio non agiva, all’insurrezione di Cosenza e di Catanzaro non prendeva parte, sempre conseguente, costituzionale ma temperato, adattandosi alla dinastia borbonica. Il 1° luglio 1848 si presentava alla nuova Camera convocata dal re e militava nell’opposizione fino al marzo 1849, quando il re faceva porre sotto accusa punibile con la pena di morte il suo ex-ministro. Carlo Poerio, nota Bersezio, rivelava nei lineamenti la bontà, la mitezza, l’integrità, nella fronte aperta e serena la schiettezza del pensiero, negli occhi vivaci una benevolenza il più spesso gioviale. Piccolo di statura, aveva mosse vive e pronte, sulle labbra umide frequente il sorriso, nel complesso di quel viso tondo, grassoccio, sbarbato c’era qualcosa di bonario e insieme di arguto e l’espressione di galantuomo. La sua conversazione era istruttiva, interessante, varia, piacevole, spesso scherzosa; uomo di ingegno e di coltura, non disanimandosi mai, conservando la fede nel buono e nel bello, diveniva esempio di forza d’animo in un paese fiacco, depresso e mobile, sotto fredde sembianze nascondendo anima caldissima e vigorosissima. Nel processo rispondeva alle accuse. Condannato a 24 anni di ferri, contrapponeva alla sentenza la sua imperturbabilità. Non conservava astio né rancori, neppure contro il governo dei Borboni, sebbene nella lotta contro di essi, perdesse gran parte del suo patrimonio, ed ora, vestito dà galeotto, appaiato ad un omicida, ricusava qualsiasi grazia, neppur per vedere la madre morente, rimasta sola pel matrimonio della di lui sorella Carlotta con Imbriani, andato egli pure in esilio.

Luigi Settembrini, nei giorni della redenzione autore della Storia della letteratura italiana, uno dei lavori più acuti ed intellettuali che sulla storia della letteratura italiana siensi pubblicati, e autore in carcere, nel bagno di Santo Stefano, della traduzione dei Dialoghi di Lucano, nato nel 1813 a Napoli, figlio di un avvocato, dopo aver passato qualche tempo in collegio a Maddaloni nel 1822, poi a scuola da preti, a 16 anni all’università, mortogli il padre e tentata l’avvocatura che tosto abbandonava dopo il primo processo nel quale gli condannavano al massimo della pena i suoi difesi, ladri per bisogno, si poneva a fare il maestro privato a Napoli, finché nel 1835 vinceva il concorso alla cattedra di eloquenza nel liceo di Catanzaro. Nel 1839 arrestato quale appartenente alla Giovane Italia, tradito da un prete, rimaneva in carcere fino al 1841, assolto con non consta, pur tenuto altri 15 mesi in carcere a disposizione della polizia, dopo tre anni e mezzo di prigionia, dal 1842 in poi, viveva dell’insegnamento privato. Nel 1847 scriveva la Protesta del Popolo delle due Sicilie, ispirata dai Gasi di Romagna di d’Azeglio, la leggeva a Del Re, Michele Primicerio e Mariano d'Ayala e sebbene il manoscritto fosse bruciato dopo la pubblicazione, in gennaio 1848 doveva rifugiarsi a bordo di una nave inglese. Tornato colla costituzione, diveniva ufficiale di dipartimento, vale a dire capo divisione all’istruzione pubblica, con Carlo Poerio, ma non vi si reggeva che due mesi, dimettendosi con una lettera fierissima contro il disordine morale che tutto invadeva. Il re gli accordava una pensione di 40 ducati al mese che egli rifiutava «perché per un mese e mezzo di servizio, non la meritava», «un dono mi umilia e mi fa vile a me stesso». Arrestato nel giugno 1849, egli che aveva rifiutato al ministro Ruggero un ufficio di finanza «perché non se ne intendeva», egli che in carcere doveva perfezionarsi negli studi di letteratura latina, condannato a morte commutata dopo tre giorni in ergastolo a vita a Santo Stefano, isola a 30 miglia da Gaeta,» oh, tremendo ergastolo, scriveva, o angoscioso ergastolo, che mi squarci tutte le fibre della vita! Oh, mi si spezzasse il petto, e la finisse una volta per sempre!» Cobì il Borbone trattava coloro che lo volevano costituzionale e che se tale fosse con sincerità divenuto lo avrebbero fedelmente servito.

Ed insieme ad essi, Pironti, che Settembrini disse «uomo carissimo, di bello ingegno, di molte e varie cognizioni, di cuore ottimo, di costumi candidi, di fede rara nell'amicizia», questi gli uomini che il Borbone non solo faceva condannare all’ergastolo, ma nell’ergastolo manteneva con le regole dei malfattori comuni.

Per la causa del 5 settembre, la dimostrazione costituzionale dei quartieri di Pignasecca e Montecalvario, contro Santa Lucia, venivano condannati a 25 anni di ferri, Vincenzo Bruno, a 24 anni Luigi Cozzolino, Ferdinando Merolla, Gaetano Androsso, Giovanni Colasante, Michele Russoniartino, altri 12 a 20 anni, 8 a 19 anni, 1 a 7, tutti popolani.

Ai primi di marzo 1850 la Gran Corte di Napoli aveva condannato a 24 anni di ferri 7 cittadini di Gragnano «per cospirazione progettata, ma non conchiusa né accettata, e per associazione a setta repubblicana coll’intendimento d’attentare alla prerogativa regia ed alla vita del principe e di proclamare la repubblica».

Frattanto accadeva che Sir Williams Gladstone, nomo di Stato inglese, trovatosi a Napoli, otteneva, non essendosi osato di rifiutarglielo, di visitare le prigioni della Vicaria, di Nisida, di Santo Stefano, dove perciò parlava coi detenuti, e rimaneva in tal modo colpito da ciò che aveva veduto nel processo ed ora vedeva nelle carceri, da essere indotto a scrivere due lettere dirette a lord Aberdeen, le quali invano comunicate al ministro napoletano Castelcicala a Londra con avviso che se il governo napoletano non avesse provveduto sarebbero state stampate, venivano in realtà rese pubbliche con la data dell’ll e 14 giugno 1851, provocando con l’autorità del nome e la fosca terribilità dei fatti, un clamore formidabile che trascinava l’opinione pubblica di tutta Europa alla condanna del governo borbonico. «Non è una mera imperfezione, non esempi di corruzione in impiegati secondari, scriveva sir Gladstone, non qualche cosa di soverchia severità che vi ho da narrare, ma l’incessante, sistematica deliberata violazione di ogni diritto, commessa dal potere che dovrebbe vegliare sopra di esso, egli è la violazione di ogni legge scritta, perpetuata collo scopo di violare ogni altra legge non scritta ed eterna, umana e divina, egli è l’assoluta persecuzione della virtù allorché è unita all'intelligenza, la profanazione della religione, la violazione di ogni morale, sospinta da paure e vendette, la prostituzione della magistratura per condannare uomini i più virtuosi, elevati, intelligenti, segnalati e colti, con vile sistema di torture fisiche e morali; è una persecuzione tanto estesa che ninna classe ne può essere al coperto.

«II governo è mosso da una feroce e crudele non meno che illegale ostilità contro tutto ciò che vive e si muove nella nazione, contro ciò che può promuovere il progresso ed il miglioramento. Il governo calpesta orribilmente la religione pubblica, colla sua notoria conculcazione d’ogni legge morale, sotto l’impulso dello spavento e della vendetta. Vi vediamo un’assoluta prostituzione dell’ordine giudiziario, che è stato reso un trasparente recipiente delle più vili e grossolane calunnie che deliberatamente inventarono gli immediati consigli della Corona, con lo scopo di distruggere la pace e la libertà e per via di sentenze capitali la vita delle persone più virtuose, oneste, intelligenti, illustri e raffinate della intera società, un selvaggio e codardo sistema di morale non men che fisica tortura per mezzo di cui si fanno pronunciare sentenze da quelle depravate corti di giustizia n. «Udii ripetuta spessissime volte questa forte e pur vera espressione: la negazione di Dio fu eretta in sistema di governo». Con questa espressione divenuta celebre, il governo borbonico diveniva davanti all’Europa liberale la negazione di Dio, tanto più grave l’impressione della denuncia di sir Gladstone in quanto rivelava fatti veri e precisi. E quando scendeva a parlare delle prigioni diveniva ancora più fosco nella nera pittura: u Dire una prigione a Napoli, è dire come ben si sa, l’estremo del sudiciume e dell’orrore. Ho veduto alcune di esse e non le peggiori. E vi dirò, mio lord, ciò che vi viddi; i medici di ufficio non si recavano a vedere i prigionieri malati, ma i prigionieri malati, con la morte sul viso, arrancavansi sulle scale di quel carnaio della Vicaria, perché le parti interiori di quell’edificio tenebroso sono così immonde, cosi ributtanti, che nessun medico consentirebbe per guadagno ad entrarvi. Quanto all’amministrazione, vi dirò una parola sul pane che viddi. Quantunque nero e grossolano è così nauseante, secondochè mi accertarono, che senza un’estrema fame, niuno può vincere la ripugnanza che produce… Le prigioni sono sporche come covili. Passeggiai tra una turba di 3 a 400 prigionieri napoletani, assassini, ladri, delinquenti d’ogni specie, alcuni condannati, altri no, e confusi cogli accusati politici. Questo sciame di esseri umani, dormiva tutto in una lunga e bassa camera a volta, non illuminata e aereata che da una piccola finestra inferriata ad un capo di essa».

«Dal 7 dicembre al 3 febbraio, Pironti, che prima era giudice, passò le intiere giornate e le notti, tranne le ore che era menato in giudizio, con due altri uomini, in una cella della Vicaria, della superficie di due metri e mezzo, sotto il livello del suolo, e non rischiarata che da una piccola inferriata che lasciava l’ambiente affatto al buio... In fine di febbraio 1851, Poerio e 16 suoi coaccusati venivano confinati nel bagno di Nisida, presso il Lazzaretto. Essi tutti, tranne, credo, uno che allora era all’infermeria, furono giorno e notte rinchiusi in una camera sola lunga circa 16 palmi, larga 8, credo con un cortile per esercizio. Quando la notte si abbassavano i letti, non rimaneva spazio tra loro. Potevano uscire solo incatenati due a due. In questa camera dovevano cucinare o preparare ciò che ottenevano dalla pietà dei loro amici. Da una parte il livello del suolo è superiore al pavimento della camera e perciò Tempie di umidità. Era vi una sola finestra e senza vetri. Le loro catene sono come segue: ognuno porta una larga cintura di cuoio sopra le anche. A questa sono attaccati i capi superiori di due catene, una di quattro lunghi e pesanti anelli scende ad una specie di doppio cerchio fissato intorno alla noce del piede, falera. di otto anelli, ciascuno dello stesso peso e lunghezza dei primi quattro, unisce due carcerati insieme, sicché possono allontanarsi uno dall’altro soltanto di circa sei piedi. Non si slega mai né il di né la notte. L’abbigliamento dei rei comuni che come il berretto era portato dal già ministro di Ferdinando re di Napoli, è composto di un rozzo e duro giaco rosso con calzoni e berretto dello stesso panno, simile alla tela fatta qui da ciò che chiamasi polvere del diavolo, i calzoni dello stesso materiale, sono abbottonati per tutta la loro lunghezza e di notte si possono togliere senza rimuovere la catena. Il peso di queste catene è di circa 8 rotoli, più di 7 chilogrammi la più breve, e questo peso si accresce più del doppio quando si calcola quello della metà della catena più lunga che unisce i due condannati accoppiati. I carcerati arrancavano come se una gamba fosse più corta dell’altra. Ma il patimento è tanto più grande che vengono incatenati insieme incessantemente uomini educati con abbietti. Le catene non si slegano per nessun motivo e il significato di queste ultime parole vuol essere ben considerato, esse si prendono nel senso il più stretto». Gladstone accennava all’ordine del principe Luigi di usare i doppi ferri per coloro che fossero venuti in carcere dopo un certo tempo, credo dai 22 luglio 1850. E parlando dei giudici, scriveva: «Non voglio altrimenti asserire che tutti i giudici di Napoli siano mostri, ma sono schiavi. Sono numerosi, mal pagati e la loro carica dipende dal capriccio di chi l’ha conferita. Generalmente sono men dotti e prudenti ed hanno molto minore moralità che non i membri del foro che avevano innanzi a loro», ma della condotta del governo diceva: «che era un permanente oltraggio alla religione, alla civiltà, all’umanità ed alla decenza pubblica», e dei napoletani: u forse il principale loro difetto consiste nella mancanza di quella pratica energia e ferma perseveranza che si richiede ad incarnare le idee che una viva intelligenza naturale somministra loro in gran copia. Ma mentre che pajono essi a me molto amabili per la loro gentilezza, modestia e cortesia, li trovo poi ammirabili nella loro facoltà di soffrire pazientemente, per l’elasticità e facilità con cui lo spirito vive in essi sotto un peso che opprimerebbe delle tempre più maschie e forti ma dotate di minor potere reattivo». La terza lettera di Gladstone che confutava le risposte borboniche, veniva compilata, rivela De Cesare, su note di Scialoja e Dragonetti, d’accordo con Leopardi e Spaventa. Allora i condannati venivano mandati ad Ischia nel bagno «costituito nelle sepolture e nei sotterranei di una distrutta cattedrale» e coi galeotti più laidi, ma i galeotti, compresi di rispetto davanti a colleghi di cosi nuova qualità, li riverivano.

Ora, per quanto il governo ed il re, sicuri nella loro coscienza dispotica, affettassero di non tener conto dei giudizi stranieri, questo che doveva rimanere nella storia con la affermazione sintetica di negazione di Dio, raccolta, vuole Cantù, da sir Gladstone in casa Torelli, urtava in tal modo i nervi del Re che poco dopo il ministro Fortunato, colpevole di non aver fatto cenno al re delle comunicazioni di sir Gladstone a Castelcicala, veniva licenziato (De Mazade, Le roi Ferdinand II. Revue des deux Mondes, 1859).

Ma non per ciò si temperava il rigore delle vendette. La procedura contro gl’imputati del 15 maggio si gonfiava il 7 settembre 1849 con un memorandum dettato da Nicola Barone, già agente di polizia, affermano, scritto avendo a fianco il generale Turchiarolo e nella stanza di corpo di guardia della reggia (Zini, Storia d'Italia dal 1850 al 1866, I), denuncia poi pubblicata da Leopardi nelle Narrazioni storiche, che rimetteva in azione il processo e nella quale il denunciante «si onorava di recare a cognizione del re i veri fatti e gli autori della deplorabile catastrofe del 15 maggio 1848», segnalava un dopo l’altro 65 cittadini rei «di avere consigliato e promosso la resistenza alle regie troppe eccitando e guidando i faziosi ad asserragliare le vie», e taluni di avere pigliato parte con le armi nel combattimento, accusava deputati di essersi raccolti in Giunta di governo provvisorio, di aver decretato la decadenza del re, spezzate o sfregiate le effigie e le insegne reali e gridata repubblica. A raffermare tutti i singoli particolari dell'accusa, Nicola Barone «cinque volte imputato di frode, di falso e di truffa», ma pur tenero del suo re, indicava 14 «onesti, irrefragabili testimoni» fra i quali Carmine Anzalone, notato per furto qualificato e per omicidio, Luciano Carpentieri, tre volte per complicità in omicidio, Francesco Vittoria, quattro volte per falso in atti pubblici e per ferite ed offese, Gennaro Ippolito, due volte per diserzione e furto, Raffaele Violante, otto volte per violenze, Domenico Ferrara, per falso, vale a dire u una mano di furfanti matricolati nei registri dei tribunali, divenuti d’un tratto testimoni di Stato, del che si valevano per taglieggiare i ricchi patteggiando di non denunciarli».

Narra Anelli di tre fratelli Guido, colpevoli di aver fatto le fiche al re nella festa di Piedigrotta, che con 300 ducati a due agenti secondari, riavevano la libertà; truffe negli agenti delle provincie; un generale Palma ed un suo aiutante Pellegrino, vendevano armi e le ritoglievano. Secondo Leopardi, per essere trasportati ammalati dalle carceri di Castel Sant’Elmo all’ospitale, egli e Dragonetti spendevano 2000 lire in mancia ai medici della polizia e militari mandati a verificare.

Nel processo, Nicola Merenda, già addetto alla polizia ed uno dei provocatori del 15 maggio, addestrava i testimoni, Nicola Barone accusava Aiossa, De Dominicis, Muratori, Leopardi, Massari, Tofano che il 15 maggio non erano a Napoli, Leopardi che era in Lombardia, al campo di Carlo Alberto, De Dominicis e Muratori intendenti in provincia. La procedura durava tutto l’anno 1850 e il susseguente, cominciando il dibattimento il 9 dicembre 1851. Procuratore generale Angelillo, Nicola Morelli presidente, successo al defunto Navarro, i giudici non mancando mai. Fuggiti Giuseppe Del

Re, Antonino Plutino, Pasquale Stanislao Mancini, Massari, Conforti, Pisanelli, Saliceti, il duca Proto, il duca Di San Donato, 326 divenivano gli imputati, 56 contumaci e coi beni sotto sequestro, 26 deputati: Vincenzo Lanza, Ottavio Topputi, Ferdinando Petruccelli Giuseppe Ricciardi, Roberto Savarese, Pasquale Stanislao Mancini, Giuseppe De Vincenzi, Raffaele Conforti, Giuseppe Del Re, Goffredo Sigismondi, Giuseppe Massari, Stefano Romeo, Antonino Plutino, Francesco Antonio Mazziotti, Paolo Emilio Imbriani, Casimiro De Lieto, Camillo De Meis, Domenico Mauro, Ulisse De Dominicis, ' Giacomo Coppola, Gaetano Giardini, Antonio Cicconi, il duca Proto, Francesco Paolo Ruggero, Giuseppe Pisanelli, Aurelio Saliceti, 46 presenti fra cui i deputati Luca di Samuele Ca-gnazzi, Saverio Barbarisi, Antonino Cimino, Giovanni Avossa, Pasquale Amodio, Giuseppe Pica, Antonio Scialoja, Nicola De Luca, Silvio Spaventa, Pietro Leopardi, 7 arrestati il 15 maggio: Lorenzo Jacovelli, Giovanni Briol, Girolamo è Luigi Palumbo, Francesco Fornaro, Raffaele Arcucci, Pasquale Cimmino, 4 del Circolo del Progresso: Raffaele Crispino, Vincenzo Tavassi, Santolo Romano, Ovidio Serino, 23 difensori di barricate: Francesco De Stefano, Cesare Napoletano, Mariano Vairo, Baldassarre Bettone, Andrea Zir, Raffaele Laureili, Luigi Leanza, Eman. Leanza, Filippo Coppolletta, Stefano Mollica, Giuseppe Pisciteli, Francesco Trincherà, Andrea Curzio, Giovanni Gerino, Giovanni Basile, Giuseppe La Vecchia, Giovanni De Grazia, Pasquale Conforti, Giacomo Sabattini, Michele Viscusi, Raffaele Toriello, Nicola Toriello, Giuseppe Barletta, uno per equivoco: Antonio Piscopo, ad essi tutti associato Giuseppe Dardano, agente del re, accusati tutti «di cospirazione contro la sicurezza interna dello Stato, nel line di distruggere e cambiare l’attual forma di governo ed eccitare i sudditi e gli abitanti del regno ad armarsi contro la autorità reale, nonché di avere con effetti eccitata la guerra civile fra gli abitanti della stessa popolazione, reati consumati nella capitale il giorno 15 maggio 1848», Pier Silvestro Leopardi per attentato alla integrità del reame, propugnando a Torino la separazione della Sicilia dalla Corona e la sua indipendenza, reato consumato nell’ottobre 1848. Anche in questo processo veniva sollevata e rigettata la eccezione di competenza; sedevano alla Corte speciale col presidente Morelli peggiore di Navarro, secondo Leopardi, i giudici Gennaro Lastaria, Angelo Canofari, Pasquale Amato, Pietro Ciceri, Michele Vitulo, Domenico Fulcani, Salvatore Mandarini. Nei processi, avverte Zini non tutti tenevano fermo ed alcuni non resistevano alle lusinghe, alle minacce, alle sevizie. Salvatore Faucitano, ubbriacato, aveva ceduto, narra Anelli, ed eransi registrate le sue confessioni, Luciano Margherita, affamato, aveva pure confessato; nascendo contraddizioni, i primi atti della procedura erano stati stracciati. Ma tra gli altri, Silvio Spaventa, tempra robusta, provava come la terra napoletana potesse produrre insieme i supplicanti del regime assoluto e gli imitatori dei suppliziati della Repubblica Partenopea. Spaventa, nel dibattimento assumeva fierezza, si difendeva con enfasi, assumeva aspetto di accusatore; alla lettura della sentenza, esclamava le parole del Nolano (Chimirri, Discorso su Spaventa): majore forsitan cum timore sententiam in me fertis judices, quam ego accipiam.

Con sentenza 8 ottobre 1852, venivano condannati a morte col terzo grado del pubblico esempio, Giuseppe Bardano, Saverio Barbarisi, commissario di polizia nel 1848, vecchio rispettabile, retto (De Cesare, Una famiglia di patriotti}, morto poi nelle carceri di San Francesco, Silvio Spaventa, Luigi ed Emanuele Leanza, Luigi e Gerolamo Palombo, a trent’anni Raffaele Crispino e Francesco De Stefano, a ventisei anni ai ferri Giuseppe Pica, Giovanni Briol, Raffaele Arcucci, a 25 anni Giovanni De Grazia, Giuseppe La Vecchia, a 9 anni di reclusione Antonio Scialoja e Pastinale Amodio, ad 8 anni di reclusione Nicola De Luca e Francesco Trincherà, a 6 anni Giuseppe Avitabile, Giuseppe Barletta, Michele Viscusi, Giovanni Gerino, Mariano Vairo, Giacomo Sabatino, a tre anni di prigionia Giuseppe Piscitelli, ad esilio perpetuo Pier Silvestro Leopardi, morto durante il processo il nonagenario arcidiacono Luca di Samuele Cagnazzi, escluso per malattia Pasquale Conforti, mandati a più ampia istruzione Lorenzo Jacovelli, Baldassare Bottone, Stefano Mollica, Raffaele e Nicola Toriello, in libertà provvisoria Pasquale ed Antonino Cimino, Andrea Curzio, Francesco Fornaso, Gioachino Basile. I sette condannati a morte ottenevano per grazia l’ergastolo a vita, Scialoja, la scelta fra la condanna e l’esilio perpetuo, Briol e Gerino il bando come forestieri, inchiodate e ribadite alla darsena le catene dei condannati, si diceva, ma non è credibile, alla vista del re e dei principi che vi avrebbero assistito dal palazzo reale.

Quale scopo induceva il governo borbonico a colpire le più robuste èd elette intelligenze del regno, a popolare di esuli napoletani l’Europa, a trattare i liberali con tanta durezza? Tutti i regimi assoluti e l’Austria non avevano maltrattato egualmente i loro prigionieri, senz’altro ottenere che il biasimo del mondo civile? Si sperava anche qui di imporre, si voleva distruggere il partito costituzionale, si sentiva una specie di voluttà ad affrontare l’opinione pubblica del mondo; al re si attribuiva il motto: «non sono legno da far trottole».

La reazione imperversava nelle provincie come nella capitale. — Narra Riviello nella Cronaca Potentina che dopo il 1849 veniva arrestato a Potenza il maggiore della guardia razionale Gerardo Branca, esulavano il cav. Vincenzo d’Errico a Torino, il cav. Emanuele Viggiani a Corfù, il giovane Giuseppe Scalea a Parigi. Gl’imputati politici nella sola Basilicata furono 1116 secondo il quadro del procuratore generale Echaniz, la procedura per la causa del Memorandum dal 1848 durava quattro anni, il di batti mento sei mesi contro 40 imputati: Emilio Maffei, sacerdote, di Potenza, Francesco Coronati, sacerdote, di Trivigno, ex rettore del Beai Collegio, Bonaventura Ricotti, avvocato, di Potenza, Vincenzo Scafarelli, proprietario, di Potenza, Giuseppe d’Errico, di Palazzo, ex conservatore delle ipoteche, Vincenzo Lombardi, di Tramutala, avvocata in Potenza, Pietro Rosano, di Pisticci, avvocato in Potenza, Gennaro Ricotti, avvocato di Potenza, Gerardo Cantore, proprietario di Potenza, Giuseppe d’Errico, architetto di Potenza, Rocco Brienza, sacerdote, di Potenza, Michele Pizzuti di Palazzo, avvocato in Potenza, Raffaele de Pierro, di San Martino, avvocata in Potenza, Michele Carbonara, sacerdote, di Potenza, Giuseppe Grippo, ex impiegato all’intendenza, di Potenza, Michelangelo Cortese, proprietario, di Potenza, Giovanni Cautore, proprietario in Potenza, Pietro Santomauro, legale, di Montepeloso, Pasquale Giliberti di Accettura, avvocato in Potenza, Gerardo Addone, proprietario in Potenza, Tommaso Ghezzi-Petrasoli, avvocato, di Monopoli, Carlo de Donato, sacerdote, di Molletta, Tommaso Calabrese, proprietario, di Gioja, Giuseppe Libertini, proprietario, di Lecce, Giuseppe Briganti, proprietario, di Manduria, Antonio Viglione, di Gonza, avvocato in Lucerà, Raffaele d’Apuzzi, proprietario, di Gregi, Domenico Venditti, di Gambatesa, ex ricevitore di registro e bollo, Nicola Alianelli di Missanello, ex procuratore del Re, Raffaele Santanello, avvocato, in Potenza, Gaspare Laudati, proprietario di Altamura, domiciliata a Ferrandina, Luca Arauco, dottor tisico di Pescopagano, Vincenzo de Leo, medico, di Montalbano, Gerardo Branca, proprietario, di Potenza, Benedetto Addone, proprietario, di Potenza, Rocco de Bonis, notaio, di Pietragallo, Cataldo Palazzo, proprietario, di Montalbano, Gennaro Cassano, proprietario, di Montalbano, Pasquale de Michele, proprietario, di Montalbano, Leonardo Forgione, massaro, di Montalbano, imputati di lesa maestà per la manifestazione del giugno e luglio 1848. La Corte condannava Maffei, Brianza, De Leo, de Bonis, e Coronati a 19 anni di ferri, de Donato, Calabrese, d’Apuzzi, Briganti ed Alianelli a 7 anni di ferri, liberava d’Errico, Scafarelli, Ricotti, Lombardi e tutti gli altri.

Alla sua volta narra Mariano d'Ayala negli Uccisi dal carnefice che Mattia di Calvello in Basilicata, domiciliato in Potenza, figlio di un giudice, moriva fucilato per sentenza 12 ottobre 1850 della gran Corte speciale di Salerno per aver preso parte alla fucilazione del barone Maresca del Vallo nel 1848. E de Cesare constata che la Corte di Cosenza, Presidente Pacifico, Procuratore generale Nicoletti, condannava 14 a morte, 15 ai ferri, quella di Catanzaro 9 a morte tra i quali Rocco Susanna, Eugenio de Riso, Francesco Stocco, Vincenzo Marsico, 133 ai ferri, Donato Morelli, assolto.

Contro i decreti delle Corti speciali istituite pei processi politici — Corti criminali con l’aggiunta di due giudici — non vi era ricorso in Cassazione.

Vincenzo Morelli nel processo dei capi, difeso dagli avvocati Delvecchio, Orlando, Focaraccio, con sentenza 12 marzo 1853 veniva condannato a morte, con Giuseppe Pace, Stanislao Lamenza, e Domenico Sarri, oltre i contumaci, commutata a tutti la pena, due soli suppliziati, uno a Salerno, l’altro a Reggio, condannati anche per reati comuni. Così il governo borbonico seminava a piene mani l’irreconciliabilità; le Calabrie insorte nel 1799 alla voce del cardinale Ruffo pel Re e l’assolutismo, e la Basilicata allora non avversa ài Borboni, sarebbero insorte nel 1860 alla voce di Garibaldi per l’unità d’Italia e la libertà.

Sostenevano i difensori del governo borbonico in una relazione a Losanna contro sir Gladstone il quale aveva affermato esistere molte migliaia di carcerati, che i detenuti nel Regno per ragione politica erano 1819, 205 presso la polizia, che dopo il 1848 i carcerati furono soli 46, 10 condannati a morte ma graziati, senonché lo stesso Cesare Cantù (Cronistoria n, 2, 1095), pone nel Regno accusate pei fatti del 1848-49 2722 persone, di cui 1728 condannate, sebbene aggiunga «nessuno al supplizio», il che neppure è esatto. De Cesare e Raccioppi (Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata), rilevano che una statistica demografica dei bagni penali del Regno accertava condannati ai ferri pei fatti politici del 1848, 841. Leopardi afferma che da una statistica giudiziaria stampata nel Giornale Ufficiale del 26 settembre 1851 si dava come statuito dalle Corti speciali sopra molte migliaia di detenuti politici, 794 erano già ai ferri, oltre 86 tra preti e frati cui si risparmiava la catena, 665 reclusi, 1132 relegati, 164 esiliati, 1500 colpiti da pene minori, totale 4462 condannati. I giudici correzionali avevano poi spedito 42,670 processi per delitti contro l’ordine pubblico, senza contare i condannati dai tribunali militari di gran lunga meno aspri dei tribunali civili... e gli arrestati, confinati, frustati, rilegati nelle isole, esiliati, reclusi, e perfino posti ai ferri nelle galere per mero arbitrio della polizia (Narrazioni Storiche), e così Luigi Zini ammette come condannati dalle sole Corti speciali senza sommare le sentenze dai tribunali correzionali e dai tribunali militari, 4442, mentre Raccioppi fa salire gl’imprigionati dal 1849 al 1556 a 6083, e nota che prevalevano tra i perseguitati le classi borghesi; mentre il Re rifiutava ogni attenuazione di pena ai condannati politici.

I detenuti di Ischia, narra Nisco, una cinquantina, nel febbraio 1852 venivano trasportati a Montefusco in carcere scavato nel monte, chiuso nel 1845, in un antro che poggiava le sue volte su grossi pilastri ed aveva le umide e grigie mura chiazzate di salnitro, le finestre munite di due massiccie inferriate e senza imposte, e ad un lato il condotto lurido del sovrapposto quartiere militare che rottosi una notte immergeva nelle sue lordure Poerio. A Poerio toccava affanno pettorale, a Castromediano Sigismondo duca di Caballina bronchite ricorrente a Pironti spinite, a Stagliani artritide, a Schiavone la perdita di un occhio, a 17 rilasciamento nello inguinale, De Gennaro smarriva la ragione; emottoici Tuzzo, Serafino e Sticco finivano per etisia; Antonio Ferraro, Alfonso Zacchi, Vincenzo Cavallo, morti di colera, Meliucci, Cimmino, Panunzio, Gatto, Torquato, Poerio, Braico, Dono e Nisco ricevevano il castigo del puntale con catene affisse al muro, le legnate Antonio Gargea, tutti portavano le catene di 16 maglie di 4 libbre di peso l’una; un usignolo perché cantava da una siepe veniva fatto uccidere. Nel 1854 26 venivano trasportati nel Castello di Montesarchio, intendente di Avellino Mirabelli-Centorione «basso scellerato. Ogni cella, dice Settembrini della galera di Santo Stefano, «ha lo spazio di 16 palmi quadrati e ce ne ha di più strette, vi stanno 9, 10 uomini e più in ciascuna. Sono nere ed affumicate come cucine di villani, di aspetto miserrimo e sozzo, con i letti squallidi e coperti di cenci che lasciano in mezzo pizzolo spazio, con le pareti nere, dalle quali pendono appese a piuoli di legno pignatte, tegami, piattelli, fiaschi, agli, peperoni, fusa, canocchie, ed altre povere e sudicie masserizie; una seggiola è arnese raro, un tavolino rarissimo. È vietato ogni arnese di ferro e perfino i chiodi, le forchette, i cucchiai, le bilance sono di legno ed invece di coltellaccio per sminuzzare il lardo usano un osso di costola di bue n. Nella state si arde come in fornace, e sempre vi è puzzo e fumo delle fornacette di tufo ammesse per cuocere v. Nel 1852 i condannati erano 758, dei quali 28 politici: ergastolani a vita Gennaro Placco di Civita in provincia di Cosenza, d’anni 26, studente, dannato a morte perché combatté a Castro vii lari dove fu ferito alla mano, Giovanni Pollaio di Palermo, proprietario, di 25 anni, dannato a morte perché combatté a Castrovillari, dove perdette un occhio, Filippo Agresti di Napoli, ex capitano di fanteria, d’anni 55, dannato a morte per la setta dell'Unità Italiana, Salvatore Faucitano, di Napoli, appaltatore, d’anni 44, per lo stesso reato, Luigi Settembrini, di Napoli, letterato, d’anni 40, lo stesso, Felice Barilla di Mojano, sacerdote, d’anni 43, dannato all’ergastolo per lo stesso processo, Emilio Mazza, di Napoli, scribente, d'anni 48, lo stesso, Michele Aletta, di San Giacomo in provincia di Salerno, proprietario, d’anni 59, dannato a morte per cospirazione e rivoluzione, Innocenzo Veneziano, di Bagnala, chirurgo, d’anni 49, dannato a morte per cospirazione, Filippo Falconi di Leonessa, in provincia di Aquila, d’anni 52, ex ispettore di polizia dannato all’ergastolo per cospirazione, Francesco Notaro di Sellingiano, provincia di Catanzaro, d’anni 55, proprietario, dannato all’ergastolo per cospirazione, Francesco Bellantonio di Reggio, di 24 anni, fornaio, dannato all’ergastolo per cospirazione, Ignazio Mazzei,di Tropea, d’anni 53, maestro di scherma, dannato all’ergastolo per cospirazione; condannati ai ferri Gaetano Margotta, sacerdote, di Mantella in provincia di Avellino, d’anni 47, condannato ad anni 13 per la setta della Società cristiana, Francesco Surace, sacerdote, di Stefani in provincia di Reggio, d’anni 40, dannato a 25 anni di ferri, per cospirazione, Domenico Cimino, sacerdote, di Petronia, in provincia di Catanzaro, d’anni 40, dannato a 25 anni per cospirazione, Raffaele Piccolo, diacono, di Castagna in provincia di Catanzaro, di 30 anni, dannato a 30 anni di ferri per cospirazione, Francesco Comità, di Carafa in provincia di Catanzaro, d’anni 61, proprietario, dannato a morte commutata a 30 anni per cospirazione, Cosimo Partigliene di Eboli, di 28 anni, proprietario condannato a 19 anni, per aver con parole sparso il malcontento contro il governo, Vincenzo d’Alessio, di Reggio, ex cancelliere di giudicato regio, d’anni 46, dannato a 25 anni di ferri per cospirazione, Giuseppe Chiavese di Giojosa in provincia di Reggio, farmacista, d’anni 34, condannato a 19 anni di ferri, per cospirazione, Nicola Laureano di Napoli, marinaio, dannato a 29 anni di ferri, per aver sparso il malcontento contro il governo, con parole e con canzoni cantate dal carcere, poi per aver fatto parte d’una setta detta repubblica, Giuseppe Abbagnale d’anni 34, a 24 anni di ferri Raffaele Ruocco, d’anni 50, a 24 anni Antonio Esposito, d’anni 49, a 20 anni Domenico Pozzalli, d’anni 35, a 24 anni Gaetano Mascolo, d’anni 26, a 24 anni, Alfonso Sabatino, d’anni 24, a 20 anni, tutti contadini di Gragnano presso Napoli, Angelo Stocchi, di Antrodoco, d’anni 25, contadino, dannato a 20 anni di ferri per omicidio provocato da una turba che voleva fargli dire per forza: Viva il Re, Pasquale Marino, di Laudano in provincia di Salerno, dannato a più che 30 anni per cospirazione e per aver eseguita una fucilazione nella rivoluzione del Vallo in gennaio 1848, Giandomenico Giuliano, Giuseppe La Longa, Michele Morandi, Angelo Mimeano, contadini ed artigiani, di Venosa in Basilicata, dannati all’ergastolo per aver ucciso popolarmente un medico che impediva loro la divisione dei terreni demaniali nel 1848. Morivano a San Stefano, Felice Petrassi nel 1847, Antonio Prioli nel 1855. «Io ora sono nell’ergastolo, scriveva Settembrini nel 1852 a Panizzi da San Stefano, non mi è permesso, né si permette a nessuno di scendere dal piano dove egli è, ed io per non mescolarmi troppo con gente efferata, non esco se non raramente dal mio camerino, meglio dal mio canile» (Lettere a Panizzi). «Come tutti gli altri ergastolani noi siamo senza catena, abbiamo cinque grani al giorno, un pane, le fave o la pasta e due volte al mese la carne di vacca «... «Nel camerino dove son io e Faucitano e che è largo 16 palmi e lungo 16, sono oltre sei persone... tutti condannati per omicidi e furti «... «La nuova generazione non pensa, non si ricorda più, non sogna le sofferenze inaudite di chi volle sacrificarsi per un’idea, di chi seppe sfidare il patibolo e sopportare il carcere duro e l’ergastolo per la libertà della patria. Oggi forse i più sorridono a tanta abnegazione, a tanto sacrificio e l’ergastolo e il patibolo sembrano utopie da romanzo, ma quei nove anni sono storia, sono realtà vera». Poi parlando della grazia, questo eroe senza rettorica scriveva al fratello, a Sto qui e starò qui; la forza mi ci condusse e la forza mi ci leverà quando che sia; io non ho volontà né chiederò mai nulla; la legge dice che sono un uomo morto, dunque non debbo nulla volere e nulla chiedere «... «dovendo soffrire, bisogna acconciarsi a saper soffrire con dignità ed a morirci ancora «... Più di uscire, più di vivere, io amo e venero qualche altra cosa; i miei figliuoli e tutti quelli che mi appartengono per sanertte non avranno mai ad arrossire per me «(Epistolario Settembrini): tali erano i napoletani unitari, epperciò si fece l’Italia. E nel 1855 segnando l’indole del governo borbonico e la fatalità che lo traeva al precipizio cogli eccessi della reazione, Settembrini scriveva a Panizzi: «Un avvocato C. M.... andava per gli ergastoli ad offrire commutazione di pena ai detenuti politici. Il Re al quale il M... parla direttamente conosce questo mercato, sa tra chi si divide il denaro, ed ama meglio che si creda che le sua clemenza sia venduta a prezzo, che si sospetti ch’egli faccia grazia per debolezza, anzi vuole che si sappia che cosi si esce «... u II governo per tutto ciò che ha operato in sette anni è fermamente persuaso che non può cangiar sistema; che se cangia sistema, egli cade; che se usa benignità è creduta debolezza dai popoli che non l’amano e non gli prestano fede; che se cessano le persecuzioni, nascono le rivoluzioni. Pel Re, per la Corte, per la parte realista amnistia suonerebbe rivoluzione; e forse non a torto si pensa così «, quando nel 1857 gli suggerivano di chieder grazia, il galeotto ammirabile scriveva: «l’onor mio è mio; la mia coscienza è mia, e nessuna potenza al mondo può strapparmi quest'unico bene che mi resta! Io dunque sono persuaso che facendo domanda di grazia nuocerei a me stesso ed alla causa comune, epperciò sono deliberato di non farlo mai a verun patto «... «Ah, mio Signore, in questo tremendo ergastolo io vado ogni giorno perdendo l’intelligenza, la coscienza, l’essere di uomo, e quel che più mi cuoce e m’arde l’anima e mi addoppia la pena, è che da sette anni ci vivo dell’altrui beneficenza «.

Alla Favignana stavano il generale Topputi, Angioletti, Celentani, Curzio, Ricciardi, il principe di Castelnuovo, i fratelli Gregorio e Francesco Ugdulena; la fossa del Marittimo adoperata anch’essa dal Borbone per prigionieri politici, era larga sei piedi, come descrive Pepe che l’aveva abitata, e lunga 22, di disuguale altezza, oscura tanto da non potervisi leggere, non coperta in alto. Vi si scendeva con una scala a mano in legno, mentre la fossa nel castello di Santa Caterina all’isola di Favignana era spaziosa, ma incavata nel sasso, umida, triste.

Con tali mezzi la dinastia Borbonica che pur trovò grazia presso Cesare Cantò, il quale affermava «che le confutazioni borboniche (Rassegna degli errori e delle fallacele pubblicate dal signor Gladstone, ecc. ), alle lettere di sir Gladstone, erano trionfali, ma non ebbero se non l’autorità di ciò che è soltanto vero «(Cronistoria, ni, 1,76), scavava con le sue mani la propria tomba.

3. — Napoli indipendente!

Nel 1851 il Re non permetteva ai napoletani di prender parte all’Esposizione di Londra perché non voleva che i suoi sudditi si inquinassero al contatto ed all’esempio della civiltà Europea. Il suo ideale era il Reame indipendente da tutti, concorde con l’Austria nei principii, tutt’al più Napoli egemonica in Italia in luogo del Piemonte costituzionale, che egli necessariamente abborriva. Il contingente annuale delle provincie napoletane dava 18,000 soldati e poiché dovevano servire per otto anni, gli rendeva disponibili 96,000 uomini almeno, come il Piemonte. Poi gli Svizzeri che costavano ducati 618,000 all’anno pari a L. 2,781,000 forniti di buoni letti, di buoni stipendi, di buoni uniformi che avevano diritto di ritenere, e di buoni bocconi, costituivano altri quattro reggimenti. Era un sentimento di dignità e di orgoglio che il Re Ferdinando «piccolo nelle cose grandi, e grande nelle piccole» aveva sempre nutrito e che gli faceva rispondere evasivamente alle proposte di Lega italiana presentategli in persona dal Granduca di Toscana. Prima aveva chiesto che le trattative seguissero a Napoli, poi a Baldasseroni, inviatogli perché si decidesse sul progetto, ispirato dall'Austria, ed ormai inteso fra Toscana, Roma, Modena e Parma, contraponeva un altro progetto che ne mutava le basi. Voleva si dichiarassero formalmente soppresse le costituzioni, voleva l’Austria esclusa dalla Lega, impedito di accedervi al Piemonte, non concesso il diritto di intervento all’Austria nel territorio della Confederazione in caso di disordini, vale a dire voleva assicurato il predominio di Napoli. Né all’Austria né ai principi italiani, i quali detestavano il Piemonte ed all’egemonia di lui e di Napoli preferivano il potente aiuto austriaco, potevano gradire tali fatti. Napoli adunque restava sola e piccola, per cui all'Inghilterra doveva concedere indennità per i sudditi danneggiati nell’assalto di Messina nella somma che l’Inghilterra esigeva.

Nel 1851 essendo perite pel terremoto 5000 persone nel distretto di Melfi, 700 nella città, il Re, provvido ed umano, che sempre compreso dell’altezza del suo ufficio, sempre aveva compiuto i doveri di re assoluto, visitava i luoghi col Principe Reale, meritando le benedizioni del popolo, come confessa uno storico liberale. Pel licenziamento del ministro Fortunato che Zini giudicava aspro, borioso, plebeo ed arbitrario, il gabinetto particolare del Re concentrava sempre più ogni potere. Nisco narra che il Re concedeva il vescovado di Aversa purché la regalia al guardasigilli Gallizia da 3000 ducati salisse a 6000. A Fortunato il Re sostituiva Trova che aveva la Presidenza e cedeva l’istruzione al cav. Francesco Scorza; agli esteri andava Don Luigi Caraffa di Traetto.

Nel 1852 il Re a mezzo di Castelcicala a Londra si univa alla reazione Europea per aiutare a cacciare i wighs di seggio diretti da Lord Palmerston, nell’interno a Peccheneda morto sostituiva direttore generale di polizia Oronzio Mazza, intendente di Cosenza, «di mente svelto, relativamente onesto, che rifuggiva dai ribaldi lucri, ma d’indole acerba e violenta, subitaneo ed impetuoso», «né a ragione, né a pietà cedeva, riteneva leggi e regolamenti fatti per chi ubbidisce, non per chi comanda». Eppure né il 15 maggio, né l’ergastolo a larga mano distribuito, né il regime assoluto brutalmente ristabilito, bastavano a soffocare il sentimento liberale. Timido, scisso per aspirazioni diverse e per inesperienze colossali, pure il 1848 non era stato inutile neppure a Napoli. Nel 1852, afferma la signora Jessie White Mario (Della vita di Giuseppe Mazzini) Giuseppe Fanelli u operoso quanto probo», tornava in patria ed aiutato da Nicola Mignogna, Giovanni Mattina, Teodoro Paterne, da Chiarini, Rizzo e Lancilotti, impiantava un comitato d’azione a Napoli e figliali in Salerno e nella Basilicata, ove i fratelli Maglioni, Pietro La Cava, Francesco Giura, Giuseppe Lazzaro ed i paesi di Padula, Matera e Lacerenza si riferivano a lui. Era il primo gruppo mazziniano che si costituiva nel napoletano, scarso di persone e d’influenze, ma che fino allora non aveva mai esistito. Un gruppo più forte, quello dei costituzionali, neppur esso disfatto dalle persecuzioni dei suoi capi; al cominciare del 1853 si raccoglieva, secondo riferisce Nisco, a Napoli in casa di Andrea Colonna di Stigliano, dove convenivano il di costui fratello Gioachino, il marchese Rodolfo d’Afflitto, Camillo Caracciolo marchese di Bella, Giuseppe Vacca, Antonio Ranieri, Giuseppe Ferrigni, Gennaro de Filippo, Francesco e Fedele de Siervo, i giovani e ricchi fratelli Baracco, Antonio Capecelatro, Pietro Campagna,» il più operoso», in quello di Ferdinando

Mascilli e dei fratelli Carlo e Luigi Giordano e nella libreria di musica dj Teodoro Cottrau andavano i più animosi come Cesare de Martinis, Giovanni Battista Ajello, Michelangelo Tancredi, Vincenzo de Felice, Nicola Atanasio, Luigi Pisciotti, i fratelli Forte, Francesco Masci, Giuseppe Gravina. Federico Burzotti, de Mata; altri si riunivano in casa di Carlo Mezzacapo di Monterossi ed in quella del prof. Francesco Pepere, questi in relazione con Avellino e nelle Puglie, Mascilli con La Farina e Manin. Davano denaro Errico de Gas, Luigi Balsamo, Giovanni. Battista Badarò, Girolamo Maglione, Raffaele Jesu, e sovratutti Giovanni Pangrati. Vi era anche una stamperia clandestina di Tomaso Tafuri, Fasciotti del consolato Sardo e Fagan della Legazione inglese aiutavano, sebbene si debba riconoscere che la grande maggioranza d’ogni classe della popolazione assisteva indifferente al lavoro dei pochi.

Il governo poneva termine con larga spesa al bacino di carenaggio presso la Darsena a Napoli, opera certamente utile e decorosa, e il Re per l’inaugurazione condonava sei anni di pena ai 1100 forzati che vi avevano lavorato, non a Poerio, a Spaventa, a Settembrini.

Nel 16 maggio 1853 il Re emetteva decreto per punire la bestemmia dei militari con la pena dei ferri, dei civili colla relegazione e col confino. La malattia dell’uva faceva che i Comuni ponessero tasse a testatico. Il 1853 era un anno di carestia; in alcun luogo, specialmente nelle provincie lontane, la plebe sempre profondamente ignorante e rozza imbestialiva e saccheggiava i granai dei fornai e dei privati. Il governo faceva abbassare le mercuriali nei mercati e costringeva i fornai a vendere il pane a prezzo minore del costo. Poi veniva il cholera, in agosto morendo da 3 a 400 al giorno a Napoli, forse 20,000 i colpiti, metà i soccombenti fra i quali il ministro di giustizia Longobardi, due o tre generali, parecchi tra principi, duchi e baroni e il fisico Macedonio Melloni. (Zini Storia d'Italia, i).

Nell’estate 1854 a Potenza, narra Riviello, veniva uccisa a forza di colpi una donna pretesa avvelenatrice, nel paese di Santa Fede uno era arso vivo. Un manifesto 11 agosto 1854 dell'Intendente Spagnolio comminava da 50 a 100 legnate sia ai diffusori di materie anche innocue che venissero spacciate allo scopo di mostrarle velenose, sia a chi fosse sorpreso come conservatore o diffusore di materie venefiche. In occasione del cholera, constata Cesare Cantù, fra Teramo e Civita di Penna 15 persone venivano trucidate come avvelenatori, a Loreto negli Abbruzzi ucciso il Sindaco, il medico, e vari cittadini, altri a Chieti; i contadini del confine andavano a comunicarsi nelle Marche per paura di essere avvelenati nel-l’ostia.

«A non dire del popolo minuto delle città, e delle campagne condotto all’ultimo confine della ignoranza e della snperstizione, né del clero borioso e gaudente in alto, zotico in basso ed abbietto ciurmadore perpetuo di governanti e di governati, né del volgare servitorame cui lo stipendio non dallo Stato pareva toccare ma dai rilievi della mensa del padrone, la massa dei cittadini non legati da alcun vincolo ed utile particolare, per l’indole facile e calda e per la tempera falsata dalla educazione insipiente o codarda, appariva del turpe servaggio più presto inconsapevole che incurante, si entusiasmava alle pompe ed alle feste e plaudiva e delirava d’entusiasmo, come quando festeggiando per la proclamazione della Concezione Immacolata, a piedi e col capo scoperto, per lunga via accompagnava il simulacro della Vergine. La sera del 30 maggio 1854, onomastico del Re, gran popolo assisteva al passaggio sul mare d'una mole galeggiante con lumi e fuochi portante la scritta: Gloria a Maria Immacolata, Costanza e fedeltà al nostro adorato assoluto padrone Ferdinando II, e prorompeva in alte grida di viva il Re, il che spiega come il popolo di Napoli prendesse parte scarsa e lenta al movimento italiano, il quale esigeva un livello medio intellettuale relativamente alto.

Un giorno a Catanzaro, per una circolare male interpretata, tutti comparivano senza un pelo in faccia, e nelle provincie era frequente il caso che i gendarmi ovvero i birri menassero a forza nella bottega di un barbiere la gente che incontravano per via con barba un po’ prolissa.

I libri proibiti, carissimi entravano con copertine ascetiche: un barbiere di Reggio veniva condannato il 19 gennaio 1853 a 1000 ducati di multa per possesso dei cauti di Leopardi u contrari alla religione ed al buon costume».

Un altro processo aveva luogo nel 1854, per associazione illecita organizzata in corpo, con vincolo di segreto, costituente la setta l’Unità Italiana, che concludeva condannando Emilio Maffei, sacerdote di Potenza, a morte, a 14 anni di ferri Achille Argentini, architetto, di Sant’Angelo dei Lombardi, ed Emilio Petrucelli, legale, dimorante a Potenza, ad anni 7 di ferri Giuseppe Libertini di Lecce, e Giuseppe Grippo, civile di Potenza, con diminuzione della pena per grazia sovrana, Maffei passando al bagno di Nisida fino al giugno 1859, altre condanne avendo colpito Marchesiello Saverio, civile, Paorlio Ottavio, impiegato, Viggiani Domenico, proprietario, e gli artieri Michele Albano, Gerardo Grippo, Gerardo Cai vano, Gerardo Paolella, Angelo Rizzi, Rocco Sinigalli, Francesco Vicario, ed Antonio Oppido a Salerno.

Arrestati per la barba lunga, per i cappelli a larga tesa, venivano a giudizio, afferma Anelli, alla Commissione delle legnate, gli stessi vescovi facevano imprigionare o bastonare.

Ma ciò che costituiva l’incubo dei liberali napoletani non erano tanto i feroci, vale a dire le guardie di polizia di Napoli, odiose al popolo della capitale, sibbene le liste degli attendibili che allargandosi fino a 50. 000 e divenendo il grave pericolo del momento, dovevano gettare la base del nuovo movimento nazionale, come i carbonari avevano formata quella della rivoluzione del 1820. u Non vi era garanzia legale, scrive De Cesare, da invocare. Soggetto a speciale vigilanza della polizia, l’attendibile non aveva di fatto altra libertà personale che quella di starsene a casa. Non gli era conceduto di recarsi da un luogo all’altro senza speciale licenza della polizia, che di rado la concedeva o la concedeva per denaro. Il numero degli attendibili per causa politica salì a 50. 000. Essi entravano ed uscivano dalle carceri a capriccio della polizia che senza giudizio riteneva in prigione o ricusava mettere in libertà i sospetti di avversione al governo, quantunque i giudici li avessero assolti». «Nelle liste degli attendibili, scrive l’ufficiale piemontese Bianco di Saint-Jorioz in un libro sul Brigantaggio, si scorgono di sovente nomi di onesti e laboriosi artigiani, non sospetti in linea politica, ma dannati alla sorveglianza perché troppo onesti e morigerati, perché il loro stato finanziario andava migliorando mercé l’ordine ed il benessere di una regolare condotta... «bisognava invigilarli per sapere se la migliorata condizione, la onestà e saggezza dei costumi non fosse incentivo a gettarsi nella politica». «L’attendibile, aggiunge Raccioppi (Storia dei moti di Basilicata), era di regola chiuso a confine in una terra donde non poteva dipartirsi, doveva presentarsi ogni giorno agli uffici di polizia, escluso di diritto dagli uffici dello Stato e del Municipio, escluso dai gradi accademici e dal patrocinio innanzi ai collegi giudiziari. Era in essi sospetto l’assembrarsi a geniali convegni, ire a diporto alle propinque campagne, ricevere in casa ospiti o amici, usar di frequente una più che l’altra compagnia; il gendarme invigilava, investigava, ammoniva. In qualunque momento era soggetto a perquisizioni, ad arresti». «Recava sospetto il leggere qualsiasi gazzetta, il viaggiare, il raccogliersi in brigate a diporto».

Ristabilita la censura nel 1849, questa vietava libri pubblicati a Milano e a Roma, nel 1857 veniva affidata ai vescovi sulle scienze filosofiche ed il diritto naturale; le 15 scuole secondarie date ai Gesuiti «a settimanali pratiche devote sommesse», nei licei: «non sala di chimica, non musei di minerali ed erbari, non ospedali, non cliniche, non biblioteche», nel 1857 si vietava ai giovani delle provincie di rimanere a Napoli per causa di studi. I preti di campagna, precipua parte nei moti del 1848, erano frenati e repressi in ogni guisa, I vescovi avevano l’elezione dei maestri primari. Vigeva il divieto di servili opere la domenica, la chiusura dei pubblici ritrovi, la solennizzazione delle feste. Mancavano ponti, strade, porti, fari, asili d’infanzia e presepi, si costruivano chiese, oratori, monasteri. Nel 1853 14 nuove case religiose, nel 1854 10, nel 1855 12, altre fino al 1856 costruiva il piissimo re. Nel 1853 era ordinato che gli opifici avessero un prete, che i Consigli di guerra giudicassero della bestemmia dei soldati.

Tutte le ferrovie del Regno consistevano in due brevi tronchi, uno da Caserta fino a Capua, l’altro fino a Torre Annunciata e Castellamare, con diramazione a Nocera, accennante a Salerno. 11 re ordinava si eseguisse la strada per Nola, Avellino, Bovino, Foggia, Barletta e Brindisi, «ma non si poneva mano ai lavori». Coi ministri il re mostra-vasi spesso semplice e carezzevole. Nel 1853 la Civiltà Cattolica per l’attentato contro l’imperatore d’Austria vituperava le polizie come ignare ed impotenti. Avendole perciò il re tolto le franchigie di posta e di dogana, il padre Carlo Curci aveva stampato a Roma un opuscolo, Memorie della Civiltà Cattolica, contro tale persecuzione e allora il re aveva tolto ai Gesuiti le carceri e il seminario e ne aveva posto a sorveglianza le scuole, per cui la Civiltà andava a Roma.

Le comunicazioni tra le diverse parti del territorio del Regno, rileva Scialoja, continuavano difficili e dispendiose. «Porti rari e mal sicuri, ostacoli artificiali assai grandi, basterebbe quello del passo necessario per varcare i limiti di una provincia». a L’agricoltura nel maggior numero delle provincie è in condizioni affatto deplorabili».

Però Cesare Cantù non presenta un quadro cosi pessimista del Regno. Egli dice che nel 1852 il governo borbonico cominciava a pubblicare i rendiconti dell’amministrazione civile, pei quali istituiva Commissioni di statistica. Napoli aveva 673.000 abitanti, oltre 104.000 di popolazione fluttuante, in tutto 777.000, 27 alberghi di prima classe, 446 locande, 487 case ammobiliate, 117 trattorie, 1040 cantine, 30 botteghe da bigliardo, 777 caffè, 140 liquoristi, 73 case di pegni, 187 istituti d’istruzione ed educazione. L’industria era veramente bambina, pure nel'1853 presentava belle stoffe di seta, razze ovine, tessuti di Formello, Sora, San Leucio, cotonifici di Castellamare, Sorrento, Terra di Lavoro, Calabrie, Scafati, Giovinazzo, lino e canapa, armi, carta di Attina, di Amalfi, di Picinisco, di Carvello, di Sora, del Fibreno, e fabbriche prospere di guanti e cappelli. Pietrarsa fino dal 1846 costruiva le locomotive.

Scialoja però constata che nel 1856 le principali manifatture a Napoli erano dattorno alla capitale o sui confini delle provincie limitrofe di Salerno o di Terra di Lavoro. I distretti più lontani dalle coste erano un secolo più indietro delle altre provincie; spesso avveniva di viaggiare tre o quattro giorni nell’interno del Regno senza incontrare un albergo; in molti paesi viveva ancora l’usanza patriarcale di ricettare in casa i viaggiatori anche sconosciuti.

Nel 1854 Ferdinando richiamava in servizio il generale Del Carretto. Per la guerra d'Oriente il re vietava, sotto pretesto della loro scarsezza in paese, l’uscita degli animali e dei grani, urtando con ciò la Francia. Nello stesso anno la polizia indicava come sospetti «coloro che usassero cappelli di forma strana, a larghe falde o portassero lunga barba», ed ordinava vigilanza sui propagatori di notizie allarmanti, «i quali, senza pregiudizio dell’azione giudiziaria, dovevano preliminarmente punirsi dalla Commissione delle legnate»; dovevansi apprendere le lettere indirizzate alla posta a qualsiasi sospetto» e compilare l’elenco dei sospetti. Alla fine dell’anno il re toglieva la polizia al Mazza che aveva voluto cacciare da un palchetto del teatro del Fondo Giorgio Fagan, figlio d’una siciliana, addetto alla Legazione inglese, sospetto di rapporti coi liberali, licenziava alla guerra Ischitella, nemico del Mazza, che chiamava al Consiglio di Stato, univa la polizia all’interno affidato a Lodovico Bianchini invece di Murena che pel cholèra s’era ritirato, poi dava' a Murena i lavori pubblici, direttore non più ministro della guerra il colonnello Picenna, alla marina Antonio Bracco, brigadiere.

Nel 1855 veniva formalmente vietato a tutti i fabbricanti del Regno di nulla inviare all’Esposizione Universale di Parigi. La storia essendo vietata ai pittori (Smargiassi, Carelli, Palizzi), essi si rifugiavano nel paesaggio; quanto alla statuaria, si muravano le Veneri al Museo Borbonico... Crederete che la censura cancellava la parola eziandio, desinenza empia?». «Non vi sono né strade, né ferrovie, né fari sulle coste, né ospitali ben tenuti, né prigioni cristiane», cosi esclamava Marc Mounier nel 1860.

Una tale condizione di cose in uno Stato civile d’Europa riusciva tanto anormale e strana da richiamare l’attenzione e il biasimo dei liberali d’ogni contrada. Il 5 agosto 1855 lord Palmerston dava lettura alla Camera d’Inghilterra della seguente circolare di quell’anno del direttore di polizia di Napoli agli intendenti, giudici regi e sindaci: «Essi dovevano: 1° Vigilanza perenne sugli attendibili, ben rintracciandosi i loro movimenti ed i loro Comitati, le abituali loro riunioni, in quali siti precisamente e l’oggetto vero di esse; 2° Quali attendibili sono più frequenti nella lettura dei giornali, dove e quando si leggono, quali discussioni si fanno, in quale senso si apprendono le notizie, chi ne sia lo spacciatore; 3° Se gli attendibili fossero in contatto con persone influenti, quale ne sia la ragione; 1° Esaminare se il partito dei realisti si vedesse scoraggiato e dargli appoggio; 5° Seguire dappertutto i girovaghi, comici, ecc., ed ogni individuo che senza un oggetto ben noto si trasferisse da un Comune all’altro; 6° Vigilanza accortissima sulla corrispondenza epistolare ed aprirsi con la massima riserva le lettere dirette ai demagoghi; 7° Fare minuto elenco di coloro che fanno uso di cappelli di strana foggia e di barbe intiere; 8° Vedere quali case frequentano gli attendibili durante la sera». «Mi duole che il governo di Napoli ha commesso di recente atti di crudeltà e di repressione, i quali in verità non appartengono all’età in cui viviamo». Certo l’accusa era aspra, rivolta ad uno Stato indipendente, ma non era meritata? Al Congresso di Parigi il contegno del governo di Napoli incontrava nuove censure; Antonini, ministro napoletano a Parigi, riceveva ordine dal suo governo di protestare e di aggiungere che il re di Napoli aveva la coscienza di governare i suoi popoli conforme i dettami della giustizia e del dovere, che né gli assalti sfrenati della stampa quotidiana, né le dichiarazioni del Congresso lo indurrebbero a mutare, disposto come era a sopportare con rassegnazione qualunque abuso di forza anziché scendere a patti colla rivoluzione (Bianchi, St. della diplom. eur., VII).

Dopo il Congresso di Parigi Walewsky e Clarendon scrivevano il 21 maggio 1856 ai ministri inglese e francese a Napoli, suggerendo, nell’interesse della pace europea, che non si eccedesse nelle repressioni e si accordasse amnistia e riforme giudiziarie ed amministrative. Rispondeva il 30 giugno Caraffa di Traetto, ministro degli esteri, con aspra nota: a Perdonare, richiamare esuli già pentiti, porre intorno al trono uomini già condannati per misfatti di maestà, significa trionfo della rivoluzione già vinta. Napoli e Sicilia sono chete, si turberebbero seguendo stranieri consigli, si insedierebbe la fellonia protetta «il re non ammetteva intervento straniero nei suoi atti; che se ai faziosi venissero meno le istigazioni e le speranze di aiuti da fuori, il re avrebbe potuto rinvenire nel suo cuore la ragione di nuova clemenza.

Il 9 giugno 1856 aprivasi il dibattimento contro 11 cittadini, l’avvocato Nicola Mignogna, Raffaele Ruggero, monaco agostiniano, Angelantonio De Ciccoprete, Basilio Palmieri, avvocato, Antonietta Pace, religiosa, per faziosi disegni, e gli imputati, presidente della Corte speciale Grimaldi, in fama d’intemerato, procuratore generale Nicoletti, denunciavano le battiture, i maltrattamenti subiti; accusati dalle solite spie, essendo apparsi testimoni a difesa, il giudizio veniva rinviato con altro presidente a settembre. La sentenza giudicava non constare della congiura ma soltanto di un primo disegno, condannava Mignogna all’esilio perpetuo, De Angelis, Mauro e Ventre a 12 anni di ferri, ad un anno il frate Ruggero, a due anni il prete Cico, per non rivelazione. Ottenevano invece in quest’anno la grazia sovrana Liborio Romano, il medico Lanza, Pasquale Amodio.

Alla fine di luglio l’Austria pure suggeriva che il re piegasse ai desideri dell’Inghilterra e della Francia e mandava a Napoli il barone Hubner, il quale trovava che il re si preparava a resistenza, ed a lui si rispondeva meno aspramente ma senza nulla concedere. In ottobre, di fronte a cosifatta ostinazione, i ministri inglese e francese ritiravansi, e i ministri napoletani a Parigi e a Londra, i quali non si ritiravano, venivano licenziati.

Di fronte alle ordinarie regole internazionali, Ferdinando II, re assoluto per grazia di Dio, con l’assenso delle grandi potenze europee, e per opera della spada dei suoi antenati, aveva perfettamente ragione. Che cosa poteva interessare Francia ed Inghilterra se egli manteneva all’ergastolo i suoi sudditi ribelli? Se non avesse potuto reggere contro di essi, non aveva sempre pronta l’Austria per aiutarlo? Canofari, ministro del re a Torino, scriveva il 24 novembre 1856 al suo governo che il conte di Cavour gli aveva fatto intravvedere come l’unione di Napoli col Piemonte, sarebbe stata la miglior risposta alla Francia ed all’Inghilterra, e che uniti i due Stati avrebbero potuto dominare l’Italia, ma egli, Canofari, aveva risposto che era il Piemonte il quale voleva star lontano dal Pegno, a Napoli non accoglieva rivoltosi, né tollerava officine di calunnie e macchinazioni

Il re, rileva Cantò, «ammetteva che una Commissione delle legnate durava da mezzo secolo per frenare i lazzaroni n, e in verità se l’Austria adoperava verso i sudditi italiani il bastone, perché non avrebbe potuto adoperarlo Napoli che era indipendente e civile quanto l’Austria? Re Ferdinando trovava difensori contro la Vita di d'Ayala in Mario Musei, Pietro Ulloa e Francesco Sponzilli, poi generale dell’esercito italiano. Nel 1856 Agostino Magliani, poi ministro delle finanze d’Italia, allora funzionario di Napoli, sosteneva che il Reame aveva un bilancio modello, circa 430 milioni di lire sul Gran Libro napoletano, 90 milioni sul Gran Libro siciliano. Scialoja obbiettava che in 33 anni le tre ristorazioni borboniche, quelle del 1815, del 1821 e del 1819 avevano costato più di 660 milioni di lire. Ferdinando II in 33 anni di regno aveva bene diminuito il debito pubblico di 33 milioni di ducati, ma alla sua volta Scialoja constatava «l’esaurimento del prodotto del vino, lo scarseggiare di quello della seta, il grano a prezzi elevati ad onta dell’abolizione del dazio di importazione che fruttava da due a tre milioni al governo, ma innalzando di due lire all’ettolitro il prezzo del frumento pesava come un’imposta di 24 milioni sui consumatori; poche strade, poca industria, tributi sulla classe media.

Né il Congresso di Parigi, per quanto il Regno continuasse ad essere tranquillo, rimaneva senza ripercussione nel Napoletano. Nisco rileva che nel 1856 cominciavano a mostrarsi liberali non solo il conte Leopoldo di Siracusa, ma anche il principe Luigi di Aquila. Tutto un intrigo a favore di Luciano Murat, aspirante alla successione dei Borboni, si svolgeva allora in pari tempo. Nella seconda metà del 1856, narra De Cesare, Donato e Carlo Morelli, impenitenti nazionalisti calabresi, recavansi a Napoli ed in una riunione in casa di Andrea Colonna sostenevano doversi raccogliere le forze liberali per l’unione al Piemonte; «aderivano in Calabria i Baracco, i Berlingeri, i Guzzolini, i De Roberto, i Marincola, i fratelli Stocco, Filippo Satriano, Michele Simonetta e, più audace di tutti, Carmine Tallarico, farmacista di Carlopoli. Donato Morelli, Pietro Giordani preparavano il terreno in Calabria «(La famiglia Morelli). I fratelli Carlo e Luigi Giordano, Gennaro De Filippo, Ferdinando Mascilli e Andrea Colonna a Napoli accoglievano il concetto di un movimento liberale, non murattiano, per l’unione al Piemonte come fine ultimo. Era il primo sintomo nel Napoletano di corrispondenza al programma della Società Nazionale. Fino allora nessuno, ad eccezione dei pochi mazziniani, aveva parlato a Napoli di unità. Ora quella Calabria che nel 1799 aveva dato forza alle bande borboniche della Santa Fede, a mezzo delle più cospicue sue famiglie, in quella regione potenti e capaci di trascinare il popolo, gettava il primo germe del nuovo avvenire. Doveva parere difficile, ma incominciava a farsi almeno pensiero di maggiorenti, come non era mai stato.

L’8 dicembre 1856 seguiva un avvenimento impensato e grave. Alla rassegna in Campo di Marte tenuta dal re, un soldato usciva dalle fila dei cacciatori con la baionetta innastata e in presenza dell’esercito, ne assestava un colpo al re che, per l’impennare del cavallo, solo leggermente scalfiva al fianco sinistro, poi subito avventava un secondo colpo, stornato dal maggiore La tour che gettava a terra l’audace, mentre il re alle file che si scomponevano gridava, narra Ferdinando Galdi nel Ferdinando II: Ai vostri ranghi, e lasciava il cavallo per sedere in carrozza colla regina. Il soldato era Agesilao Milano, nato nel 1830 in San Benedetto Ullano di Cosenza, di civile famiglia di origine albanese, nel 1848 militante nelle bande di Ribotty, nel 1851 compreso tra i giudicabili della sua provincia, messo in libertà provvisoria, nel 1852 progettante, narra D'Ayala, di entrare nei Domenicani, poi aveva sostituito il fratello nella coscrizione del 1856; «dotato di una volontà indomabile e dura, di carattere cupo, dissimulatore e riservato «(Nisco, Ferdinando II e il suo regno), si fingeva idiota per non esser posto in gendarmeria lontano da Napoli, essendosi arruolato «col proposito fisso di uccidere il tiranno», e comunicava il suo progetto, afferma Nisco, ai mazziniani Giambattista Falcone e Giuseppe Fanelli. Dopo il colpo, rovesciato a terra, confessava il suo intento concepito «pel bene del suo paese». «Brutto d’aspetto, basso di statura, con volto volgare, che diventava nobilissimo quando si commoveva» (D’Ayala, Uccisi dal carnefice), nel processo, sempre mantenendosi dignitoso, rispondeva: «che aveva agito... perché Ferdinando è un tiranno; io voleva salvare la patria e l’Italia col sacrificio della mia vita, in modo che m’ero spinto al reato senza appoggio, senza speranza, senza lusinga d’onori, anzi nella certezza di dover morire». Il suo difensore avvocato Giocondo Barbatelli avendo cominciato la bella ed elegante arringa col proclamarlo pazzo, Milano protestava e diceva: «Ringrazio il mio difensore, sono sull’orlo del sepolcro ed ecco le mie ultime parole, se possono giungere al trono: il re badi a migliorare l’amministrazione delle provincie». Veniva fucilato il 13 dicembre, egli esclamando: «Dio mio, muoio come un ladro per la libertà d’Italia». Poteva essere un eccentrico isolato da ogni assenso del paese, ma certo si conteneva dal principio alla fine con risoluzione virile, la quale non poteva non colpire le imaginazioni meridionali; e il nome d’Italia veniva un’altra volta ripetuto sul luogo del supplizio da Agesilao Milano, come lo era stato dai fratelli Bandiera. 1844, 1856. La polizia arrestando vari cittadini, fra i quali Atanasio Damis, Francesco Masci e Ferdinando Mascilli, cercava complici, ma inutilmente.

Ferdinando il giorno dell’attentato di Milano era stato accolto con dimostrazioni entusiastiche dal popolo.

Il 17 dicembre 1856 saltava in aria la polveriera di un bastimento in porto, vicinissimo alla Reggia, con la morte di 17 persone; il 4 gennaio 1857 saltava in aria, pure in porto, la fregata a vapore Carlo UT, che stava per salpare con carico di armi e munizioni per la Sicilia, uccidendo 50 persone, ferendone moltissime, spegnendo il gas in tutta la città, nei quali accidenti molto probabilmente aveva mano il gruppo dei mazziniani che tali imprese considerava atte a destare e mantenere una tensione nella città. Il re si ritirava a Caserta, e Napoli rimaneva sempre più in mano alla polizia allora diretta da un Governa.

Il ministero napoletano del 1855-56, presieduto da Ferdinando Trova, senza portafoglio, il quale «scaltro e scettico in fondo copriva la scaltrezza con un manto d’ipocrisia untuosa» e il Re perché teneva il capo sempre chino a sinistra chiamava Sant’Alfonso alla Smerza (Memor, La fine di un Regno}, Pietro d’Urso, ministro alle finanze, il maresciallo principe d’Ischitella alla guerra e marina, Giovanni Cassisi agli affari di Sicilia, il brigadiere Raffaele Carascosa senza portafoglio, incaricato degli esteri Don Luigi Caraffa di Traetto, Scorza agli affari ecclesiastici e all’istruzione pubblica, Mazza alla polizia generale, Pionati alla grazia e giustizia, Bianchini all’interno, segretario particolare del Re il maggiore Severino «che poco sapeva leggere e scrivere ", con lo stipendio di 500 ducati al mese i ministri, e di 150 i direttori, rappresentava il meglio ed il buono del borbonismo assolutista, come la Università posta per reale decreto 23 dicembre 1852 sotto la speciale protezione di San Tommaso d’Aquino, professori Nicola Nicolini presidente della Corte Suprema di diritto e procedura criminale, Tenore di botanica, De Luca di economia pubblica, ed i licei che avevano cattedre di legge, quello di Aquila con cattedra di medicina legale, mineralogia e geologia, con facoltà di conferire i primi gradi in legge, medicina, matematica e fisica, costituivano tutta la scienza ufficiale.

4. — La spedizione di Carlo Pisacane

Nel 1856 non era certamente dal Piemonte, solo Stato costituzionale, solo cattivo esempio in Italia, che Napoli avesse a temere attacchi; il Piemonte non pensava affatto a Napoli e tutto il suo sogno pareva incarnato, come nel 1848, nella visione del Regno dell’Alta Italia per allora lontano; non era neppure dai costituzionali napoletani, calpestati in paese per frenarli e se lontani non alieni dalla dinastia borbonica, alla quale mai fino allora avevano negato fede; ma bene un pericolo poteva venire da quella pertinace setta mazziniana, cui avevano appartenuto i fratelli Bandiera, e che si era fitta nel cervello l’utopia dell’Unità Italiana, e non indietreggiava per seminarne il pensiero da qualsiasi sbaraglio. La corona d’Italia era bene stata offerta fino dal 1848 a re Ferdinando da qualche illuso nella sua intelligenza, ma dopo il 15 maggio la impenitente setta non poteva più pensare che a sradicare i Borboni.

Già nel 1854 Giuseppe Mazzini aveva proposto a Garibaldi di sollevare la Sicilia e poi Bentivegna vi si era alzato con pochi. Dopo l’insuccesso del tentativo di Antonio Panizzi di liberare Settembrini e i suoi compagni dall’ergastolo di Santo Stefano nell’estate 1856, mentre Mazzini trovavasi a Genova nascosto, Carlo Pisacane gli proponeva la spedizione di Sapri e Mazzini la accoglieva come sempre aveva meditato ed accolto progetti simili. Recatosi in Inghilterra per far denaro, tornava a Genova in maggio 1857. Pisacane doveva imbarcarsi il 10 giugno sul Cagliari con compagni, come marinai che si recassero a Tunisi, sul Cagliari, postale di Rubattino, diretto appunto a Tunisi, una barca con 250 fucili e munizioni doveva raggiungerlo in mare, partendo da Portofino. «Un migliaio di uomini pronti ad insorgere, 1000 fucili buoni e cattivi, e poco più di 50. 000 lire, 22. 000 fornite da Adriano Lemmi, erano i mezzi» (Saffi, Proemio alle Opere di Mazzini). «Non badiamo al numero, diceva Pisacane, dieci animosi bastano». H proposito era di sollevare il Cilento che nel 1827 come nel 1848 s’era mostrato deciso contro l’assolutismo. Anzi Mazzini afferma che alla spedizione lo chiamavano dal Regno e che allo sbarco Napoli non rispose per opera dei moderati, i quali sviavano i capi-popolo che avevano tutti aderito, prova manifesta dell’ignoranza assoluta in cui Mazzini e Pisacane vivevano dell’ambiente napoletano, a ben altro disposto che ad insurrezioni senza speranza di potenti aiuti, sebbene anche Raccioppi nella Storia dei popoli della Lucania che Pisacane faceva assegnamento, «e non a caso», sugli accordi in provincia di Basilicata. Genova e Livorno insorte, «dando il segnale che stringe tutti gli italiani ad un patto», avrebbero trascinato tutta Italia contro il Borbone.

Carlo Pisacane, duca di San Giovanni, ufficiale del genio a Napoli prima del 1817, anima della Commissione di guerra nella difesa di Roma del 1819, dove aveva sostenuto il concentramento a Terni ed a Bologna delle truppe disseminate, aveva avuta parte precipua al condurre ad unità quell’esercito, all’abolizione in esso di ogni privilegio, al miglioramento degli elementi direttivi, poi era divenuto capo di stato maggiore di Roselli, aveva avuto attriti con Garibaldi, e passava come ufficiale che non esitasse davanti ad alcun ardito consiglio per quanto contrario alle regole tradizionali delle arti della guerra. Aveva abitato dopo il 1849 in esilio con la moglie che aveva amato fino dal 1830 e non aveva potuto sposare che nel 1847, prima a Londra dove aveva dato qualche lezione di lingua, poi a Genova dove viveva in lieta povertà procuratagli da qualche lezione di matematica. Nel libro Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 giudicava severamente la condotta e il genio militare di Garibaldi. Pisacane coi capelli biondi e gli occhi azzurri sfol-goreggianti, energia temperata di dolcezza e di affetto, con la fronte alta che ne scopriva l’ingegno «dall’espressione del volto, dai moti rapidi non risentiti, dal gesto né avventato né incerto, dall’insieme della persona rivelava l’indole franca, leale, secura. Il sorriso frequente singolarmente sereno tradiva un’onesta coscienza di sé e l’animo consapevole di una fede da non violarsi né in vita né in morte» (Mazzini, Scritti editi ed inediti). Dissentiva da Mazzini nelle idee religiose e nella questione sociale, ma qui si trattava di patria e di libertà ed egli ardeva di agire, «perché quando trattasi di fare, accetta sempre», «nato per la guerra di sollevazione, dotato di quella potenza di iniziativa che trova la vittoria dove è il nemico». Nè Pisacane pensava come i Bandiera ad una spedizione su Napoli senza intelligenze con l’interno. A Napoli, prima di tutto, narra Nisco (Ferdinando II e il suo regno), al cominciare del 1857 Camillo Caracciolo di Bella, Francesco e Fedele De Siervo, Gennaro De Filippo, Giacinto Albini, Pietro Lacava, Francesco Pepere, Pasquale Rossi e Raffaele Lazzaro avevano fondato il Comitato dell’Ordine. La stampa clandestina, per opera di Lazzaro e Ghio e del tipografo Brancheis aveva ripreso vigore; nel giovedì santo alla passeggiata dei sepolcri, vi era stata una dimostrazione nazionale.

Il 10 giugno 1857 Pisacane si imbarcava coi suoi una prima volta per Napoli, ma la notizia che la barca a vela che doveva con Rosalino Pilo portare le armi, colta da un fortunale, aveva dovuto gettarle in mare, li faceva sbarcare; il nuovo imbarco veniva rimesso al ritorno del Cagliari pel 25 giugno. Pisacane correva frattanto solo a Napoli, dove era già stato, per avvisare del ritardo, ivi in casa di Giuseppe De Mata convenivano con lui Panelli, Lazzaro, Pateras, Giovanni Mattina ed Antonio Rizzo, e stabilivano che Napoli avrebbe aiutato; il Cilento doveva sorgere coi fratelli Magnoni. Il 25 giugno si tornavano ad imbarcare in 26 sul Cagliari, Pisacane, Giovanni Nicotera, nato nel 1828 in San Biase di Calabria, di nobile ma non ricca famiglia, figlio di una sorella di Benedetto Musolino, fin da giovinetto seguace della Giovane Italia, scolaro a Catanzaro delle scuole governative, nel 1847 tra i cospiratori e nel 1848 tra i combattenti in Calabria, poi salvatosi su una barca con Musolino, ed altri, combattente e luogotenente a Roma nel 1849, ferito il 3 giugno, in esilio scrivano a Torino nello studio dell’avvocato Mancini, e con essi Giovanni Battista Falconi, il confidente di Agesilao Milano, egli pure calabrese, ed il capitano sardo Luigi Barbieri, Gaetano e Felice Poggi, Cesare Fari-doni, Domenico Porro, Francesco Madusei, Lorenzo Giannoni, Domenico Rolla, tutti di Levici, Giovanni Gagliani, Amilcare Bonomi, Giovanni Sala di Milano, Carlo Rota di Monza, Achille Perucci, Domenico Mazzoni, Giovanni Camilucci e Cesare Cori, tutti di Ancona, Giuseppe Sant’Andrea di Castelbolognese, Federico Foschini di Lugo, Lodovico conte Negroni di Orvieto, Giuseppe Mercurio di Subiaco, Giuseppe Faelli di Parma, Clemente Conti di Faenza, Pietro Ruscani di Trevigiano, dei 26 che andavano a liberare Napoli i più di Lerici, tre soli napoletani.

Tutti firmavano sul Cagliari una dichiarazione; «Noi sottoscritti dichiariamo altamente che avendo tutti congiurato, sprezzando le calunnie del volgo, forti della giustizia della causa e della gagliardia del nostro animo, ci dichiariamo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non corrisponderà al nostro appello sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange dei martiri italiani. Trovi altra nazione al mondo uomini che come noi si immolino alla sua libertà ed allora soltanto potrà paragonarsi all’Italia, benché fino ad ora ancora schiava». «Io non farei il più piccolo sacrificio, scriveva Pisacane, per ottenere una costituzione neppure per cacciare gli Austriaci dalla Lombardia e riunire questa provincia al Regno di Sardegna. Per mio avviso la dominazione della Casa di Savoia e quella della Casa d’Austria sono precisamente la stessa cosa» ed esprimeva la speranza nella ripartizione dei prodotti per mezzo della concorrenza, «Impareranno i moderati come poche anime generose sappiano iniziare grandi fatti, non armate che di un pugnale». Quando la prima volta la barca delle armi non era arrivata, Pisacane aveva detto che sarebbe andato anche senza armi. Ora a bordo del Cagliari scoprivano 7 casse con 150 fucili diretti a Tunisi e se ne impadronivano.

Il 27 giugno sbarcati a Ponza arrestavano gli ufficiali sanitari ed il comandante dell’isola, a vere pur troppo, afferma Zini, alcune violenze,», ucciso il tenente Cesare Balsamo che voleva difendere il corpo di guardia, e liberavano e conducevano con sé 323 detenuti, quasi tutti malfattori comuni, dividendosi in tre compagnie, comandate da Nicola Giordano, Nicola Vailetta, Federico Prioli. Il 28 sbarcavano a Sapri nel golfo di Policastro, sul confine del Principato con la Basilicata, al grido: Viva l'Italia, Viva la Repubblica, da dove movendo per Lagonegro e Sala per la prossima valle di Diano e di Padula, per le alture, toccando Porraca, Casalnuovo, il Fortino, contavano arrivare al Cilento. A Sapri non trovavano il barone Gallotti, chiusa la casa del sarto che doveva essere aperta: al loro apparire gli uomini spaventati fuggivano, le donne chiudevano gli usci e urlavano dallo spavento», e gli insorti trovavansi in faccia alla guardia urbana armata di scuri, di falci, di roncole, di sassi (Bonola, I patriotti italiani. D’Ayala Morti combattendo), anzi le guardie urbane di Sapri, Torraca e Sala, 800 uomini davano loro addosso, fuggendo i ribelli e 8 battaglioni di cacciatori sbucavano dalle valli. Il 30 erano a Padula dove avrebbero dovuto trovare armati, ma nessuno c’era. Nell’attraversare Padula «il popolo li perseguitava, scagliando loro sassi, tegole e fin mobili sul capo». Le milizie di Sala li assalivano sulla collina San Canione, il maggiore di gendarmeria De Liguoro poi arrivava alle spalle col 7° cacciatori comandato dal tenente colonnello Ghio; gli insorti si sbandavano, lasciando nel combattimento 56 morti, 56 feriti, 203 presi, 35 fucilati o massacrati dal popolo, 50 con Pisacane, Nicotera e Falcone volgevano presso il Cilento su pei colli del Buonabitacolo. Il 2 luglio arrivavano presso Sanza sugli Appennini verso lo sbocco di vai di Diano; le guardie urbane, comandante De Petrinis, e una turba al suono delle campane a storno piombavano sopra di essi; a Sanza «uomini, donne, vecchi, fanciulli, armati di coltelli, di sassi, di fucili, urlando morte, morte, si scagliavano contro di essi e li accoppavano a colpi di scure come cani», gravemente ferito Nicotera, «aveva la destra forata da una palla, descrive Faldella, la testa ed il tergo tagliati da due colpi di scure, giaceva col suo gran cappello calabrese, lo sospettarono, lo riconobbero per un capoccia, intorno al suo corpo inferocì il vespaio degli assalitori, lo strapparono, lo denudarono, togliendogli perfino le calze, lo schernirono, lo graffiarono, lo punzecchiarono, lo trafissero, poi legato piedi e mani, lo ravvolsero dentro una coperta di lana, lo abballottarono, quindi caricatolo sopra una barella, poi sopra un ciucciariello, lo condussero in deposito; al suo passaggio le donne, le megere, lo maledivano e si avvicinavano per infliggergli profondi pizzicotti con bottoni roventi», ucciso anzi massacrato Pisacane nel passare un torrente, sebbene siasi detto che si uccidesse da se per evitare sevizie, deturpatogli il volto, per cui Alberto Mario ha scritto che non si sa né dove né come sia morto, morti Giovanni Battista Falcone, Luigi Barbieri, Colacicco Giuseppe da Napoli, Canti Filippo, Foschini Federico, Giannoni Lorenzo, Sala Giovanni, tutti spogliati, qualcuno denudato.

Il Borbone poteva legittimamente proclamare che era il popolo napoletano, il suo popolo diletto, che schiacciava i banditi i quali osassero minacciare l’amato Re; a Sapri, a Padula, a Sanza, tutti e tre i paesi erano piombati addosso ai forestieri; questa fedele imitazione della spedizione dei Bandiera, più infelice della prima, incontrava l’aggravante dell’ostilità aperta delle popolazioni rurali. A Corleto, racconta Raccioppi, si discusse se la Basilicata doveva insorgere, si decise pel no. Lo sbarco a Ponza fu detto un errore perché pose sull’avviso il governo, ma segui per provvedere armi. «Perdemmo l’uomo, scriveva Mazzini, che per quanti io conobbi identificava più in se il pensiero e l’azione, e le doti gene-Talmente disgiunte, scienza e spontaneità d’intuizione guerresca, energia e spontaneità d’istruzione generosa, energia e riflessione pacata, calcolo ed entusiasmo. Guardava dall’alto le cose e nondimeno ne afferrava i menomi particolari. Amava di amore intensamente devoto l’amica e la fanciulla che gli era figlia, ma non sacrificava a quei santi affetti un solo dei suoi doveri verso la patria. Moveva ad un’impresa che doveva costargli la vita e dava lo stesso giorno l’ultima lezione di matematica ad un allievo».

Eroico il capo, eroici i compagni suoi. Nel dibattimento a Salerno, cominciato il 29 gennaio 1858, procuratore generale Francesco Pacifico, presidente Domenico Dalia, giudici Pietro Ciceri, Riccardo de Conciliis, Francesco Carona e Francesco Politi, tra i difensori Diego Taiani, gli imputati esponevano della fame, della sete, delle immondezze, dell’aria pestilenziale da essi patite, non luce, non spazio, non giaciglio, che di paglia fracida, nessuna novità del resto per le carceri borboniche, Nicotera volendo giustificarsi della colpa attribuitagli di aver fatto rivelazioni, risollevata poi per ira di parte della Gazzetta d'Italia di Firenze, dimostrata sempre infondata, non essendogli consentito dalla Corte, deliberava di rimanere in silenzio e mandava ai giornali esteri una dichiarazione in cui scagionava tutti i partecipi della impresa, assumendosene là responsabilità a carico proprio, di Pisacane e di Falcone, sostenendo essere gli altri coatti, e protestava contro l’accusa di furto. Lo accusavano di rivelazione ed egli non aveva detta una parola né del Comitato di Napoli che conosceva, né dell’equipaggio del Cagliari predisposto dalla emigrazione a Tunisi, né della finzione della violenza contro i marinai, né delle cifre trovate sul cadavere di Pisacane, delle quali egli aveva la chiave (VILLARI. Cospirazioni e rivolte). Nicotera, piuttosto piccolo, tarchiato, dal collo taurino, con lineamenti forti e pronunciati, l’aria energica e quasi spavalda, temperamento sanguigno, irruente, indocile, insofferente di contrasti e di censure, davanti alla Corte mostravasi fiero, temerario. Avendogli il Procuratore generale dato una mentita sopra una circostanza, Nicotera gli scagliava addosso il calamaio di bronzo del cancelliere. Un altro giorno, avendo esso Procuratore generale chiamato la banda coorte di pirati, Nicotera diceva al Presidente: «Se ella non modera e non mette a segno quella bestia feroce lì seduta con la veste di Procuratore generale, sarò costretto a dare un salto dalla scranna ed a staccargli la testa dal busto» (Adriatico di Venezia, 14 giugno 1894).

Con sentenza 19 novembre 1858 venivano condannati a morte Nicotera, Giovanni Gagliani, Nicola Giordano, Nicola Vailetta, Luigi La Sala, Francesco de Martino, Giuseppe Sant’Andrea, 9 all’ergastolo, 9 a 30 anni di ferri, 52 a 25 anni, Bonomi a 9 anni di fortezza, 80 ad un aumento di prigione, 56 messi in libertà Accordata la commutazione ai condannati a morte, ricusavano di gridare: Viva il Re, e gridavano invece: Viva l'Italia. Così finiva questa spedizione consimile a quella dei Bandiera, condotta invece che da tre veneziani da tre napolitani, i quali avrebbero dovuto conoscere meglio il loro paese, seguita nel 1857 invece che nel 1844, quando cioè anche a Napoli il bisogno d’una scossa tragica riusciva meno urgente, però non inutile, una spedizione prematura che veniva accolta con selvaggia avversione da quelle popolazioni rurali che tre soli anni dopo sarebbero accorse acclamanti incontro al vittorioso Garibaldi, ma pur questa, per l’audacia che s’imprime nelle menti meridionali, per la prova d’abnegazione disperata di alcuni valorosi, definitivamente giovevole alla causa nazionale. Caratteristica spiccata di questa generazione italiana del risorgimento i prigionieri di Sanza dopo tre anni di atroce carcere alla Favignana, invece di ritirarsi rifiniti alle loro case chiedendo un impiego od una decorazione, domandavano come compenso a Garibaldi: concedeteci di combattere con voi come soldati; è per tali casi che il Risorgimento italiano si comprende.

I mnrattiani a superare i quali mirava fra il resto la spedizione, atterrati dall’audacia dei repubblicani, non osavano più muoversi da Marsiglia come avevano ideato.

5. — I Borboni sempre eguali

Ferdinando II ha avuto la fortuna di trovare difensori anche quando la sua dinastia per un definitivo decreto nazionale identico al decreto Napoleonico, aveva cessato di regnare. «Era nel suo carattere, scrive Cesare Cantù, fermezza del volere e dell’animo, e alle rimostranze inglesi e francesi dopo il Congresso di Parigi diceva ai suoi: sopra di me non sta altri che Dio. Affermava che aveva chiesto ai prigionieri una sola parola per liberarli e che l’avevano ricusata. Ufficialmente rispondeva: crederebbe offesa la dignità propria dalla ingerenza nelle cose del suo Regno delle potenze occidentali, in caso di bisogno avrebbe respinto la forza con la forza. Non avverte lo storico che quando Francia ed Inghilterra si limitavano a dar suggerimenti al Re, il Re protestava la dignità propria e l’indipendenza ed affermava non spettare a Napoleone che aveva domato nel sangue la rivoluzione consigliare riforme, ma quando i sudditi minacciavano soltanto l’estensione dei suoi poteri, allora la dignità e l’indipendenza gli permettevano di chiamare in proprio soccorso gli aiuti stranieri.

Cantò ricapitola le benemerenze di Ferdinando II: a restrinse ai chierici i privilegi del pubblico insegnamento, non fu ligio ai Gesuiti, non strinse nuovi concordati, lasciando al Giudice della Monarchia in Sicilia autorità quasi assoluta in materia di Chiesa, riordinò in meglio il corpo degli ingegneri, fondò un ricovero di orfani della Basilicata, trasformò in porto il lago Averno e lo uni con canale al lago Lucrino e al mare, alienò beni demaniali e in Venosa li distribuì ai poveri coltivatori». Ma la storia moderna che non ha affetti, né odi, né passione di incrudelire sui vinti, completa il quadro, raccogliendo tutti i fatti.

Quanto alla dignità ed al sentimento della indipendenza essa stabilisce che la restituzione del Cagliari, finché veniva reclamata dal solo Piemonte, troppo piccolo e non disposto a far la guerra per cosi poco, recisamente veniva negata, ma poi quando per l’arresto con esso di due macchinisti inglesi il gabinetto Derbv-MalmeBburv annunciava che faceva suo il reclamo del Piemonte, finiva con la restituzione del Cagliari, con un’indennità agli inglesi di 3000 sterline, con dichiarazione del governo del Re in data 8 giugno 1857: «non aver mai imaginato di poter aver ragioni da opporre, non per bisogno di mediazioni perché tutto riferito all’assoluta volontà del governo borbonico», cessione ragionevole, ma inevitabile per un piccolo Stato che sempre aveva ceduto al più forte risoluto, all’Inghilterra nella questione degli zolfi e dei marinai del Cagliari come agli Stati Uniti nella questione dei danni alle loro navi, come avrebbe dovuto cedere in ogni occasione, ad onta di qualsiasi teatralità di indipendenza.

Quanto al disinteresse, cosi nel 1816 come nel 1852 i due Ferdinandi avevano dichiarato il Museo Borbonico, raccolto col denaro del pubblico erario, «di nostra libera proprietà allodiale, indipendente dai beni della Corona», con riserva la facoltà di disporne, inintelligenti appropriazioni di fronte alla loro inutilità nel caso di un disastro.

Quanto all'assolutismo, Ferdinando II con decreto 1857 riordinando il suo gabinetto politico stabiliva che i ministri non si riunirebbero più a consiglio e prescriveva reali registri con note caratteristiche, nessuna nomina senza permesso del reale gabinetto.

Quanto all'indipendenza dalla Chiesa tutta la storia dei Borboni stabiliva, che mai nessun Stato civile, ad eccezione della Spagna in determinati momenti, aveva fatto alla Chiesa tante concessioni, quante Napoli dopo il 1848. Dopo il 1848, rileva Scialoia, il governo napoletano congiungeva la direzione del culto con quella dell’istruzione pubblica e con lunga serie di decreti e di rescritti a rifaceva il diritto pubblico ecclesiastico interno secondo il desiderio dei vescovi, ai quali concedeva la revisione dei libri e la suprema revisione delle scuole». Ferdinando, riconosce lo stesso Cantò (Cronistoria iii, 1, 186,188), «completava con decreti il Concordato del 1818, accordando facilitazioni al clero, l’uso delle vie legali pei loro legati, la censura ecclesiastica sulla stampa, il diritto d’ispezione ai vescovi sulle pubbliche scuole», affidava, quindi toglieva ai gesuiti le carceri e gli ergastoli. Poi con rescritti 3 maggio e 15 agosto 1856 ordinava che i luoghi pii dessero ai Vescovi parte delle loro rendite e dei fondi stessi lasciati dai testatori. Con decreto 5 gennaio 1857 concedeva seppellimento in chiesa e cappella gentilizia agli ecclesiastici ed ai patroni, con decreto 6 maggio privilegio ai preti di far trattare le loro cause a porte chiuse e di espiare le pene correzionali nei conventi; con 4 decreti del 18 maggio concedeva larghezze di vendite, di affittanze, di impieghi, di beni e capitali di mense vescovili, badie e benefici, e di ammettere le prove equipollenti per dimostrare le qualità ecclesiastiche e beneficiarie, e permetteva ai vescovi di convocare sinodi provinciali e di stamparne gli atti, riconosceva infine alle mani morte il diritto di accettare donazioni e testamenti senza sovrano permesso. Con decreto del 27 maggio affidava ai Vescovi la revisione della stampa data per legge 16 agosto 1850 al Consiglio d’istruzione pubblica, aboliva la pena prescritta dall’art. 245 delle leggi penali contro i parroci che benedicessero matrimoni senza la preventiva promessa davanti all’ufficiale civile, stabiliva la procedura per le sentenze delle curie in cause ecclesiastiche, determinava l’azione civile per l’esecuzione dei legati di messe, aboliva il regio exequatur per le nomine, le dispense fatte dalla curia, e per le sentenze delle cause d’appello a Roma relative a scioglimento di matrimonio e di provviste di benefici, dichiarava i vescovi ispettori nati di tutte le scuole private e pubbliche (Nisoo, Ferdinando II e il suo Regno).

«Basse le imposte e alta la rendita, ma Stato misero» sintetizza Raccioppi. Nel 1857 venivano ammessi all’università di Napoli solo gli studenti delle provincie di Napoli e di Terra di Lavoro, gli altri dovevano rimanere nelle famiglie per dare poi gli esami a Napoli, dopo ottenutane autorizzazione. «I rapporti degli allievi delle scuole di Napoli, aggiunge De Cesare (Delle condizioni economiche e morali delle classi agrarie nelle tre provincie di Puglia) erano come 1 a 55, mentre in Svezia erano come 1 a 6, in Lombardia 1 a 16, nell’Italia Centrale come 1 a 30». «I pochi plebei che mandano a scuola i loro figliuoli li affidano ad un monaco, ad un prete, a qualche altra scuola privata. Le scuole se gratuite e pubbliche sono frequentate da pochissimi, e questo perché sono mal servite».

Quanto alla polizia dal 1856 in poi era in mano a Luigi Aiossa direttore generale di essa e dei lavori pubblici, calabrese di una delle più ricche famiglie del circondario di Gerace, già intendente generale a Salerno u dove aveva fatto qualche bene», «era un omaccione enorme con un tal quale talentacelo e un’ignoranza fenomenale». Nel 1857 venivano arrestate centinaia di persone, poi messe in libertà. Al principio di quaresima un ordine prescriveva ai soldati l’obbligo di presentare i certificati di confessione.

Il 4 marzo affiggevasi sulle muraglie della città un proclama apocrifo di Ferdinando ii che ristabiliva la costituzione ed accordava un’amnistia generale. Ma la fine del 1857 toglieva il buon umore; un terremoto recava la morte a 9237 persone nella Basilicata e nei Principati, colpite specialmente Montemurro e Saponara. Raccolte sottoscrizioni di soccorso in Italia ed in Europa per un milione, afferma Roller: Un tremblement de terre a Naples «veniva in gran parte malversato dagli ufficiali distributori».

Una convenzione con la Repubblica Argentina per deportare in quello Stato i condannati politici veniva firmata il 13 gennaio 1857, ma l’Argentina non la ratificava.

Quanto alle scienze ed alle arti Napoli non brillava. Si poteva raccogliere una lunga filza di nomi di letterati, pittori, maestri di musica, scultori ed architetti: Arabia, Proto, de Giosa, Mercadante, Pacini, Petrella, Ricci, Morelli, Mancinelli, Cammaranno, i Palizzi, Vertunni, i Balzico, i Catalani: se emergevano le arti, la letteratura sentiva del sepolcro. Gli scrittori in fama di alta dottrina avverte Raccioppi (Carlo de Cesare, Archivio Storico Italiano, 1883) non si occupavano che di archeologia. Veramente dotto, non «sommo», e con scarsa efficacia nell’ambiente letterario lavorava Trova che traeva a sé pochissimi in studi di storia, i quali non trovavano a Napoli né agevolezze di ricerche, né conforti di governo, né curiosità del pubblico esinanito. Gli studi economici avevano avuto un certo rigoglio con De Agostinis ed altri, nel primo e civile periodo di Ferdinando, ma nel secondo periodo erano divenuti materia sospetta; pure onoravano il nome napoletano Manna, Scialoja giovanissimo, e pochi ancora. Carlo de Cesare, dopo aver cominciato dal 1846 al 1848 con alcuni versi, divenuto perciò sospetto, il 1848 fu il principio di una novella epoca per lo spirito della civiltà napoletana; da quei liberi impulsi vennero aperti altri orizzonti all’intelletto dei giovani, cui aveva contribuito Trincherà con la pubblicazione alla macchia dell'Abrens, filosofo e socialista del diritto, poi con la traduzione dell’economia politica di Pellegrino Rossi. Raccoltisi e rinvigoritisi gli spiriti con la reazione, poiché bastava aver pubblicato qualche poesia o aver fatto parte di un circolo per essere segnato, nel 1849 in aprile il generale Marcantonio Colonna essendosi recato in Terra di Bari dove eravi stata una società di progressisti umanitari baresi, a ristabilire l’ordine, voleva arrestare De Cesare, che per due anni doveva vivere alla macchia. Arrestato poi per un moto al luglio 1852, non trovategli colpe, doveva compiere un corso di esercizi di pietà nel convento dei Paolotti a Bari. A questo giungeva, nella seconda metà del secolo XIX, il governo borbonico. Dal 1857 al 1859 De Cesare scriveva a Napoli due opere di giurisprudenza e molteplici scritture di dottrine economiche nei giornali letterari del tempo U Diorama e il Nomade, mandava anonime scritture alla Rivista Contemporanea di Torino ed all'Archivio Storico Italiano di Firenze, imperocché verso il 1856 «la reazione allentava la sua prima rigidità». «Il giureconsulto Nicola Nicolini faceva male a vederlo nei consigli della Corona senza che dell’ingegno e dell'equità sua si avvantaggiasse punto la patria». Per poco fino al 1849 Roberto Savarese aveva aperto una scuola privata di diritto «che per profondità e freschezza di dottrina non era forse seconda a quella delle maggiori Università d’Europa». Di filosofi viveva Galluppi, al quale non veniva permesso di pubblicare tutto quello che pensava di San Tommaso filosofo nel primo volume della sua Storia della filosofia, poi mediocri De Grazia e Winspeare da giureconsulto divenuto filosofo nei suoi tardi anni. Giunti insegnava scienze giuridiche a unico che irraggiasse qualche riflesso nelle dottrine economiche sulle teoriche del codice civile». «Letterati, romanzieri e poeti, meno un cenacolo di calabresi, inconcludenti». u La scuola del Puoti detta dei puristi o dei grammatici col maestro che sollevò ad intenti civili lo insegnamento della nuda parola, aveva criteri filologici e letterari angustissimi e una maniera di scrivere pesante e fredda, ma sollevava gli spiriti all’idea di grandezza e nobiltà di una patria più grande di Napoli». Altra scuola dicevasi dei lassisti o dei romantici, cui era capo il più battagliero, Cesare Malpica, a vivo e pronto ingegno, per la facilità di uno scrivere colorito e sciolto e per le teoriche picciolo di un romanticismo sentimentale che guastò molte teste». Nella bottega di caffè del palazzo Buono in via Toledo Mal-pica dava lezioni di lettere e spiegava Dante, traduceva dal francese novelle e studi. Quest’era tutto quanto di vivo esisteva a Napoli nel periodo ultimo borbonico, mentre i naturalisti e gli archeologi non costituivano che la scienza morta.

In tali condizioni e sebbene al giornalismo fosse concesso di occuparsi, oltre alle lettere, di economia politica e di filosofia, unico campo della vita letteraria rimaneva la rivista ebdomadaria, come l'Omnibus, il Lucifero, il Salvator Rosa, il Poi io rama, ma mentre Cesare Cantù sostiene che a Napoli gli studi erano fiorenti, Raccioppi constata invece la loro inferiorità generale e la gravezza della censura preventiva. Fra le riviste periodiche più sode le Ore solitarie si industriavano di aprire uno spiraglio al nuovo progresso degli studi civili sotto la direzione dell’avvocato Pasquale Stanislao Mancini, più antica e più autorevole la rivista del Progresso che aveva avuto a scrittori i più sodi ingegni della città, scesa poi per effetto della censura; gli Annali Civili erano una palestra grave, decorosa e ben pagata «ma dischiusa dal beneplacito del ministro dell'interno ai benemeriti ed ai ben pensanti, fatta ad echeggiare le lodi, non sempre immeritate, dell’amministrazione pubblica».

L’amministrazione borbonica non meritava sempre biasimo e qualche lavoro eseguiva; completava San Francesco di Paola, il palazzo Reale, e quello di Caserta, alcune chiese, il cimitero, il palazzo delle finanze, quello dei Tribunali, teatri a Messina ed a Bari, cattedrali a Capila ed a Gaeta, tendenza caratteristica per le chiese ed i teatri, ma poi migliorava anche i porti di Bari, Gallipoli, Molfetta e Brindisi. Dopo ciò si comprende anche una voce favorevole ai borbonici: Giovanni Cassisi ministro fino alla morte di Ferdinando II negli Atti e progetti del ministero degli affari di Sicilia conclude «che erano floridi i commerci, cresciute di valore le terre, aumentato il salario degli operai, abbondante il numerario, sicure le città e le campagne, bilanciate le entrate con le spese, non accresciuto d’un centesimo il debito consolidato, la rendita a 105 ¼», colà la prima strada ferrata d’Italia, nel 1832 il primo ponte sospeso sul Garigliano, abbondantissimi i «poeti» che inneggiavano al Re, sbilancio dal 1848 al 1859 di soli 134 milioni di lire, mentre quello del Piemonte saliva a 370, e con tanti «poeti», non ponti, non strade, non agricoltura, esercito e flotta che scomparivano al primo pericolo come nebbia al sole, corruzione in ogni ramo della amministrazione, Stato non di secondo ordine ma di quarto, indietro di mezzo secolo in confronto ad ogni altro Stato civile d’Europa.

Ferdinando II negli ultimi anni del suo regno in preda a tristezza passava il suo tempo a Gaeta a costruire casamatte e batterie o a Caserta in mezzo ai soldati, ed appariva ormai piuttosto infastidito che compiaciuto del potere, finiva col detestare le pompe, col lasciarsi vedere il meno possibile, «regnava e governava quasi scetticamente, non dandosi pensiero dell’avvenire, conoscendo i suoi strumenti e in fondo disprezzandoli». Ma occorsero le insistenze costanti della Francia e dell’Inghilterra per indurlo il 27 dicembre 1858, nello stabilire che le ribellioni future si punissero da consigli di guerra con danni ed interessi contro i rei, vale a dire con la confisca, a firmare non la grazia ma la commutazione della pena dei ferri nel bando perpetuo in America ai 66 seguenti condannati politici del 1852: Raffaele Crispino, Francesco de Stefano, Nicola Nisco, Aniello Ventre, Carlo Poerio, Giuseppe Pica, Raffaele Ruocco, Gaetano Mascolo, Domenico Bozzelli, Giuseppe Albagnole, Luigi Tortoriello, Antonio Esposito, Alfonso Sabatino, Luigi Leanza, Luigi Palumbo, Girolamo Palombo, Lorenzo Jacovelli, Michele Pironti, Cesare Braico, Vincenzo Dono, Giuseppe Caprio, Stefano Mollica, Giustino Faivano, Carlo de Angelis, Pasquale Lamberti, Carlo Pavone, Giuseppe Passolani, Giovanbattista Ricci, Ovidio Serino, Vincenzo Greco, Luigi Parente, Angelo Salza, Pasquale Montano, Emilio Petrucelli, Achille Argentini, Giuseppe Del Drago, Nicola Schiavone, Domenico Romeo, Sigismondo Castromediano, Domenico Dell'Antoglietta, Angelo Pellegrini, Pietro Manelli, Achille Grilli, Raffaele Mauri, Stanislao Lomenza, Giuseppe Pace, Leopoldo La Costa, Domenico Damis, Luigi Praino, Antonio Garcea, Angelo Raffaele Piccolo, Francesco Saverio, Comità Domenico, Sacerdote Cimino, Ferdinando Bianchi, Giuseppe Cimino, Nicola Palermo, Francesco Sorace, Stefano Sorace di Francesco, Rocco Gerace, Giuseppe Tripepi, Girolamo Zerbi, Raffaele Travia, Vincenzo Cuzzocrea, Giorgio Filace, Antonio Nicolò, e la pena dell'ergastolo commutata nello stesso bando a Giuseppe Dardano, Silvio Spaventa, Filippo Agresti, Felice Barilla, Salvatore Fancitano, Luigi Settembrini, Giacomo Longo, Mariano delli Franci, Michele Aletta, Francesco Presenzano, Filadelfo Sodano, Vito Porcaro, Ignazio Mazzeo, Antonio Pucci, Tommaso Notaro, Rocco Morgante, Emilio Maffei, Filippo Falconi, Camillo de Girolamo, Emilio Mazza, Michelangelo Colafiore, Antonio Lo Presti, P. Girolamo da Cardinale, Innocenzo Veneziano, Francesco Simone, Francesco Bellantonio. Imbarcati per l’America nel gennaio 1859 su nave regia e poi trasbordati con l’obbligo di trasportarli a Nuova York sul David Stewart, Raffaele Settembrini, figlio di Luigi, ufficiale della marina inglese, recatosi a Cadice e riuscito ad imbarcarsi in qualità di servitore sulla stessa nave, vestito il suo uniforme, induceva il capitano a condurre i prigionieri in Inghilterra. Subito si costituiva colà un Comitato di cui facevano parte Lord Straftesbury, de Landsdowne, il conte di Carlisle, Granville, Palmerston, Russel, Gladstone, Panizzi, vale a dire i più cospicui uomini di Stato inglesi, che raccoglieva per le vittime del Borbone soccorsi per L. 450,000, mentre gli ergastolani venivano accolti per tutta l’Inghilterra con festosa cordialità.

Nel gennaio 1859 venivano celebrate le nozze del principe ereditario Francesco con Maria Sofia di Baviera sorella dell’imperatrice d’Austria, a gentile e bella persona, mente sveltissima, indole vivace». E il 22 maggio Ferdinando II reduce da quelle nozze alle quali si era recato in cattive condizioni di salute, moriva, dopo aver sostenuto di fronte alle richieste dell’Austria le neutralità, imperocché l’esercito eragli necessario per frenare la rivoluzione. Aveva vissuto 45 anni, regnato 29, ed aveva giovato più d’ogni altro a far compiere un gran passo alla persuasione che la dinastia borbonica era incompatibile con un governo ragionevole, e che l’indipendenza del Reame delle due Sicilie non costituiva che una minorità perpetua, una impotenza assoluta ad essere qualcosa nel mondo.


Capitolo VII

La Sicilia

1 - Reazione borbonica

Qui almeno non v'era dubbio. In ogni grado, in ogni condizione poteva esservi come vuole Anelli (Storia d'Italia, III, 325, 326) una gara, una smania di proporre feste, luminarie e panegirici al ristaurato Borbone, potevano i corpi municipali mandare centinaia d'indirizzi al Luogotenente generale «2pacificatore e restauratore », e decretare statue equestri -una commissione di decurioni di Palermo, composta del Pretore principe di Manganelli, del cav. Gioachino Longo, del barone di Stefano, del dott. Giuseppe Marsala, del barone Parisi, e del cav. Gioachino Filangeri, poteva ben recarsi dal Re per ringraziarlo delle concessioni fatte alla Sicilia e chiedergli la grazia di erigergli una statua, e pregarlo si degnasse rivedere Palermo, e potevano le plebi festanti benedire ed onorare «2quasi alla divina il Re », e Pari e non pochi deputati potevano disdire uno per uno con speciale indirizzo il voto per la decadenza del 11 aprile 1848, il solo dùeca di Cesaròrifiutandosi col dire che spettava al Parlamento disdirsi e si riconvocasse; «era un momento di stupore e di viltà», ma ad onta di tutte le apparenze esteriori, ad onta di qualsiasi dichiarazione ufficiale, quasi sempre menzognera, nella coscienza della popolazione nulla era mutato dal 1848, anzi, se era possibile, le stragi di Messina avevano accresciuta la irreconciliabilità8tra risola ed i Borboni. Potevano esservi partiti e modi di vedere sulla opportunità, sulla tattica della opposizione al Borbone, ma la coscienza pubblica rimaneva tale e quale; l'odio ai Borboni ed ai napoletani, il culto della indipendenza isolana erano generali e profondi.

Dopo il 1860 il ministro Della Rovere difendendo nel Parlamento italiano un generale accusato di violenze diceva che i Siciliani erano «barbari ». Barbari veramente non si potevano dire, ma mantenerli quanto piùpossibile lontani della civiltà, questo certamente aveva costituito uno degli studi piùattuati del governo di Napoli.

Quella popolazione di 2,231,020 abitanti nel 1853 -4540 per miglio quadrato -poteva trovarsi come si trovava senza strade, senza ponti, senza scuole -due erano le strade maestre che correvano da Messina a Palermo, una di 170 miglia lungo il Tirreno, l'altro di 221 miglia, entrambe mancanti di molti ponti, poche altre segnalate carreggiabili in buona parte dell'anno impraticabili, congiungevano appena qualche cittàcapoluogo di provincia o distretto (Zini, Storia d'Italia) e quanto ad istruzione Lanza di Brolo contava nel 1859 a Palermo 5727 alunni e 3000 fanciulle nelle scuole primarie, 16 biblioteche, 14 istituti scientifici, 1156 studenti all'Università, e il suo organismo sociale poteva continuare a presentarsi medio-evale coi suoi 61 duchi, 117 principi, 217 marchesi, piùdi mille baroni e 200 nobili; -Palermo nel 1856 aveva 184,541 abitanti -coi loro privilegi e le tradizioni ancora feudali, coi suoi 7000 ecclesiastici godenti una rendita di 3 milioni di ducati, poteva offrire un carattere diverso dalle altre popolazioni d'Italia, specialmente di quelle settentrionali, ma le superava tutte per fervore di indipendenza locale.

In questo paese insorto nel 1812, insorto nel 1820, insorto nel 1837, insorto nel 1848, con sempre crescente larghezza di assensi, non poteva venire adottato dal governo che il sistema della durezza, e il napoletano generale Carlo Filangeri, duca di Satriano, comandante l'esercito di occupazione e Luogotenente interinale dell'Isola, lo adottava. Al suo entrare a Palermo 500 cittadini erano cacciati nelle prigioni e nelle casamatte delle fortezze, esuli Ruggero Settimo, Giuseppe La Farina, Francesco Ferrara, il marchese Faldella di Torrearsa, il barone Vito d'Ondes Reggio, il principe di San Giuseppe, il principe di Scordia, Michele Amari, Francesco Crispi, l'avvocato Calvi, La Masa, i Basile e tanti altri, 25,000 persone emigrate; 35,000 soldati mantenevano l'ordine. Nel 1849 nel cimitero dei padri Capuccini a Palermo i borbonici trovato il cadavere del colonnello Ascanio Enea vestito dell'uniforme siciliano, laceravano le vesti e ne portavano in un'asta per la cittàil teschio (Di Marzo Ferro, Un periodo di Storia di Sicilia dal 1774 al 1860, n).

Satriano riceveva un maggiorasco in Sicilia di 12,000 ducati col titolo di duca di Taormina. Il 2 agosto 1849 egli rimetteva in vigore l'imposta fondiaria secondo le norme del 1833 e del 1846, il 23 ripristinava il macinato, i dazi doganali, la lotteria, poste e procaccio, tari a cantaro sulla esportazione dello zolfo, fissava una tassa sulla carta bollata e sul registro, imponeva una tassa annuale sulle finestre e sui terrazzi. Con ordinanze 1 e 3 settembre 1849 dichiarava nulle tutte le vendite dei beni ecclesiastici e dello stato, eseguite durante il periodo della rivoluzione, reintegrandosi  lo Stato, le Chiese gli stabilimenti pubblici nel possesso dei beni assegnati, senza compenso pei compratori, non ricono sciuto il debito della rivoluzione, sciolti i Comuni da tutti i debiti contratti durante essa, con offesa di una quantità di interessi.

Il 16 settembre 1849 il ministro d'Inghilterra a Napoli sir Guglielmo Tempie con nota al cav. Fortunato, presidente del Consiglio e ministro degli esteri del Reame, chiedeva si restituisse ai siciliani l'antica costituzione, ricordando «che non si puògiustamente ritenere avere il popolo siciliano perduto l'antico e riconosciuto diritto»  rispondeva il 23 settembre Fortunato che la costituzione era caduta in obblio, e il richiamarla in vigore sarebbe stata una perdita di tempo. Il Re non consentiva che alcuna potenza si immischiasse a scrutare il suo diritto sovrano, interponendosi tra il principe e i sudditi. Ma il 27 settembre il Re proclamava con atto sovrano -queste erano le concessioni che sostituivano la Costituzione -la separazione amministrativa della Sicilia e la sua indipendenza dai ministri di Napoli, rimanendo comuni «le spese di guerra, di marina, degli affari esteri, e della Casa Reale. Il Luogotenente veniva investito di ampi poteri ed assistito da un consiglio di Stato. La consulta di Sicilia veniva trasportata a Palermo con un Presidente e 7 consiglieri siciliani per dar pareri, richiesta, su tutti gli affari ' piùgravi, con maggiori attribuzioni relativamente al contenzioso amministrativo e al giudiziario. Cessava la pubblicitàdegli uffici pubblici e dei benefici ecclesiastici. Era ristabilito in Napoli il ministero di Sicilia, creato nel 1822, soppresso nel 1824, ripristinato nel 1833, nuovamente abolito nel 1838, rimesso ora, nominato ministro il siciliano cav. Giovanni Cassisi che aveva rifiutato il commissariato civile nella spedizione Satriano.

Con decreto 18 dicembre il re Ferdinando liquidava a carico della Sicilia un debito per contributo di spese comuni di  ducati 4,942,578, stabiliva un'altra somma di 2,000,000 per spese di guerra, ducati 240,000 pel maggiorasco eretto in pròdi Satriano, ducati 896,291,64 per la mobilia del palazzo Reale in Palermo, edifici militari e forti. Crescevansi al 5 gli interessi del 3 e del 4 sui due mutui dell'affare zolfi aumentando di ducati 22,743,84 annuali; un credito della tesoreria senza interessi veniva iscritto al 5 %  in annui ducati 84,001. Riunivasi tutto in ducati 17,320,993 ma per arrotondare la cifra si ponevano ducati 20,000,000 «per rb fare i danni dei passati rivolgimenti», stabilivansi senza causa altri ducati 2,629,007 a debito, istituendosi nel 1851 il Gran Libro del Debito Pubblico della Sicilia (Memorie Storiche critiche sulla Rivoluzione Siciliana), il che si riteneva dai siciliani un indebito sfruttamento della Sicilia fatto a vantaggio dei napoletani.

Filangeri scioglieva «la benemerita» milizia cittadina, «per restituire i cittadini alle domestiche cure », l'ironia aggiunta all'arbitrio. Al dipartimento della polizia era addetto Salvatore Maniscalco, tenente di gendarmeria, giàparte nella polizia di Del Carretto, e prevosto dell'esercito di occupazione. La fucilazione per ogni trasgressione alle ordinanze di Sa- triano era il rimedio ad ogni male. Narra Bracci nelle Memorie storiche intorno al governo della Sicilia che un negoziante Mazzara veniva fucilato perchèin uno dei suoi fondachi frequentato da molta gente veniva trovata un'arma.

Le leggi eccezionali che duravano per 7 anni venivano eseguite col massimo rigore. Ad onta di ciòla sera del 27 gennaio 1850 una mano di giovani male armati e peggio ispirati attaccava le pattuglie in piazza Fieravecchia, dispersi dopo breve lotta, arrestati senz'armi il giovane avvocato NicolòGarzilli, Giuseppe Caldara, Giuseppe Garofalo, Vincenzo Mondino, Rosario Aiello e Paolo de Luca, veniano fucilati sulla stessa piazza l'indomani. I Comuni di Sicilia mandavano un indirizzo di compiacenza al Re per tale fucilazione.

Congiuravano il dott. Onofrio di Benedetto, il cav. Giuseppe Vergara, Salvatore Cappello, Giuseppe Benigno, Gioachino Sirugo, Biagio Fingitore e Domenico Minnelli e diffondevano un proclama in nome del Parlamento di Sicilia. Giuseppe Vergara, Onofrio di San Benedetto, Tommaso Lo Cascio, Luigi La Porta, Biagio Privitera, Vittoriano Lentini e Giuseppe Benigno si costituivano in Comitato segreto centrale con diramazioni per tutta l'isola, il padre capuccino Giuseppe da Partanna nelle provincie di Girgenti e Trapani, Enrico Amato, Pietro Lo Squiglio, Enrico Parisi a Messina, Giovanni Canzoneri, Antonino Raccuglia, Andrea e Giuseppe Scognamilli, Marco Emanuele dei Marchesi di Villabianca, Paolo Salamone nostromo di mare. Per le Cartelle del prestito di Mazzini venivano arrestati i due fratelli Castagna mercanti ed il sacerdote Papanno che moriva in carcere. In Messina venivano sottoposti alcuni a crudeli trattamenti, che i giornali chiamarono «la cuffia del silenzio », a Palermo si infliggevano mortali battiture agli arrestati, uno in un sacco veniva tuffato in mare, e la gendarmeria per suo conto imitava la polizia. Un fuoruscito Patti, richiamato con insidia, narra Bracci, veniva assassinato.

Nel 1850 le casse di Corte venivano rese indipendenti dal Banco di Napoli. Le compagnie d'armi dell'epoca Aragonese, riattivate nel 1810, soppresse nel 1837, venivano riamesse; Messina riaveva il porto-franco.

A Messina nel 1856 in estate le morti di elideràsommavano quasi a seicento. Con decreto 12 febbraio 1852 Ferdinando ampliava i limiti del porto-franco messinese e concedeva anche di poi notevoli benefici favorendone l'Università, il Banco, la cassa di sconto, l'ospizio provinciale, il teatro, come aveva donato una magnifica lampada a Maria Santissima della Lettera, per cui il 3 ottobre Messina lo riceveva con calorose dimostrazioni. Però, secondo Di Marzo Ferro, Giovanni de Marco, fonditore di cannoni, per aver rifiutata l'offerta fattagli da Maniscalco di divenire capitano di artiglieria, veniva tenuto tre anni in duro carcere.

Nel gennaio 1852 il Comitato mazziniano di Palermo pubblicava un manifesto per sconsigliare dall'assistere all'apertura der nuovo teatro in onore della madre «del fulvo Caligola », per cui non vi andavano che 58 persone. Giovanni Corrao si offriva di tagliare la testa u all'Oloferne », delle due Sicilie e Messina tentava di allacciare i Comitati. Raffaele Vii- lari nel volume Cospirazione e rivolta svolge la storia del movimento dei rivoluzionari siciliani, specialmente dei messinesi, e stabilisce che mai dal 1849 al 1859 cessava per un solo istante di tentare di disfarsi con qualsiasi mezzo d'un governo abborrito.

«Nell'inverno 1851 il cav. Giovanni Murazza fu visto a capo di una banda armata sulle montagne di Tortorici e San Salvatore. Sbandato dopo tre mesi, veniva processato e col fratello Antonino stava a parte dei lavori del Comitato rivoluzionario».

Un Comitato a Messina, presieduto dal giureconsulto De Luca, al quale prendevano parte il presidente Federico Jeni e l'ex-capitano delle guardie municipali, predicava prudenza ed impediva nel 1852 a Peppino Minicastro di stilettare il re, col concorso di Gabriello Beaumont, Giovanni Vadalà, Peppino Ruggeri, Giovanni Coglitore, Pietro Minecci, Antonio De Stefani, Giacinto Rigamo. Allora i figli del maresciallo Statella, Vincenzo ed Alessandro, specialmente Vincenzo, futuro compagno di Garibaldi, procuravano di sollevare in segreto la sorte dei prigionieri. Vi era un gruppo Betti, uno dei fratelli Agresta, uno dei fratelli Beusaja, in relazione a Malta con Nicola Fabrizi, Francesco Crispi, Giovanni Tamajo, il vecchio Onofrio Giuliano, Rosalino Pilo, Salvatore Sant'Antonio, Rosario Onofrio, Luigi Miceli, Francesco Savona. Un altro Comitato a Malta era presieduto dall'avvocato Calvi, con programma di autonomia fino al 1858. A Messina cospiravano l'avvocato Giovanni Pirrotta, Giuseppe Caccopardo, Michele Spadaro, Pasquale Lo Surdo e il padre teatino Lan- dolina. Nel 1856 per una dimostrazione ad un ammiraglio piemontese di passaggio veniva sfrattato l'ex-deputato barone Arezzo.

Filangeri frattanto, col trascorrere degli anni, andava mitigando i rigori polizieschi, allargando la censura dei libri, indulgendo ai percossi per le colpe della rivoluzione, restituendo taluni agli uffici da cui erano stati rimossi. Con rescritto dell'aprile 1852 otteneva di negoziare un appalto per 700 miglia di nuove strade carreggiabili e lo avrebbe conchiuso con una societàdi capitalisti esteri capitanata dal francese Amato Taix. Ora questa societànon si obbligava a costruire tutta la rete delle strade entro cinque anni, stabiliva che i lavori dovessero dividersi in piùsezioni, a scelta della societài tratti di cui credesse occuparsi, dimodochéeseguendo quelle sezioni che per la qualitàdel terreno e dei materiali le convenivano, lasciava i tronchi piùdifficili da parte. Per queste ragioni il ministro di Sicilia a Napoli proponeva fosse respinto il contratto, ed il Consiglio dei ministri e la Consulta manifestando lo stesso avviso, il re negava la sanzione, allegando non volere impacci con forestieri, poi negava un appalto che Filangeri voleva conchiudere con uno di Girgenti per non arrischiare con uno solo la ingente intrapresa, infine decretava si ponesse mano ai lavori per 70 miglia all'anno. Filangeri faceva diffondere che le strade non si facevano per opposizione del ministero. Poi chiedeva che la rendita di annui* ducati 12.000 pel suo ducato di Taormina venisse trasportata sul debito pubblico di Napoli, ma per t l'opposizione di Cassisi non lo otteneva. Per pretese della Casa del principe di Paternò, di cui egli aveva sposato la figlia, voleva una somma dal convento dei Benedettini di Catania e da altri Comuni di quella provincia, somma che la Consulta di Palermo riduceva e liquidava in once 48.000, pari a franchi 612.000, ed il Consiglio di Stato di Napoli ammetteva. Per queste differenze con Cassisi, Filangeri offriva al re la propria dimissione con amare parole, sperando con ciò indurlo a licenziare Cassisi. Il re invece sulla fine del 1854 le accettava e il 7 gennaio 1855 gli sostituiva il maresciallo di campo principe di Castelcicala Paolo Ruffo, nominato in pari tempo comandante generale delle armi, altro napoletano adunque, e «di mente piccola e di piccolo con-. siglio », ligio a Cassisi, «stupidissimo », secondo di Marzo Ferro, «ignaro di pubblica amministrazione e di ogni cognizione di governo », secondo Bracci, per cui si diceva a Palermo essere mandata da Napoli u la statua ». Castelcicala, dopo patito un tentativo di assassinio per mano del giovane forense Francesco Callotti, abbandonava allo scaltro Maniscalco ogni potere, e Maniscalco era «cucito a filo doppio »col generale Salzano, comandante della piazza e provincia di Palermo, u non meno tristo di lui »(Bracci, Memorie storiche intorno al governo di Sicilia).

Peròle pene degli editti di Filangeri venivano mitigate. Una questione pendeva per debiti della Sicilia; questi debiti, oltre di somme derivanti da antiche liquidazioni fatte dal governo napoletano, si componevano di pesi comuni non pagati dalla Sicilia nei mesi della rivoluzione, da simili pesi di data corrente, dai crediti del Banco di Napoli, per le fedi di credito del Banco di Sicilia e di due milioni di ducati per e la spedizione del riacquisto della Sicilia. Il totale ammontava a piùdi 13 milioni di ducati. Per opera del ministro di Sicilia Cassisi, crede Bracci, «sempre mal giudicato nell'isola », finteròdebito veniva ridotto a 10 milioni, ottenendo il ministro di consolidare con la istituzione del Gran Libro * separato la separazione amministrativa della Sicilia, creando un'annua rendita di un milione di ducati rappresentante il capitale di 20 milioni al 5 per coi quali venivano pagati tutti i creditori, mentre la rendita arrivava al tasso di quella di Napoli ».

2 - Il tentativo di Francesco Bentivegna

Giàfino dalla istituzione del Comitato di Londra nel 1850 gli esuli siciliani di parte repubblicana unitaria, primi fra i quali Michele Amari in Parigi e Francesco Crispi, allora a Torino, s'erano dati a nutrire nell'isola un'attiva propaganda in nome dell'idea nazionale. Quel lavoro era secondato dai Comitati di Genova e di Malta, dove Nicola Fabrizi e piùtardi Crispi, Emilio Sceberas, maltese, Giorgio Tamaio, Onofrio Giuliano miravano a provvedere armi e consigli (Saffi, Proemio al voi. XI degli Scritti di Mazzini). Mazzini, Crispi ed altri dei loro, trovarono sempre il modo di far entrare in Palermo, in Messina, e qualche volta in altre cittàdell'isola, non solamente le loro corrispondenze, ma le cartelle del prestito nazionale, il giornale Pensiero e azione, le Avvertenze per le bande e tutte le stampe circolari che andavamo pubblicando in Inghilterra e in ìsvizzera, propaganda che trovava qualche adesione specialmente nelle classi medie in Sicilia, dove peròla grande maggioranza rimaneva per l'autonomia, adesione data piòper la fiducia di una sollevazione che gli unitari facevano sperare prossima ed efficacemente aiutata, che per la virtùdel loro programma. In ogni modo era la prima volta nel secolo che una vera propaganda unitaria corresse l'isola, imperocchéquella di La Farina, anteriore al 1848, era rimasta isolata, non offrendo alcuna probabilitàdi risultato.

Ora alcuni siciliani come a Messina Pancaldo, Bensaja, Betti, Pellegrino, Raffaele Villari, e nel palermitano il giovane barone Francesco Bentivegna di Corleone, giàdeputato nel 1848 e maggiore al comando militare di Corleone, e Luigi La Porta di Girgenti, erano affigliati a Mazzini, del quale seguivano entusiasticamente, afferma Saffi, i principii e la fede, e tra gli esuli Michele Amari, Crispi e La Farina, un nucleo dunque unitario dentro e fuori. Nel 1855 La Farina proponeva a Ruggero Settimo di scrivere «l'odio contro i Borboni, grandissimo nel 1848, èoggi immensamente accresciuto. Vi ècospirazione universale e permanente contro il governo, tutti anelano a liberarsene in qualunque sia modo. In Sicilia non vi èalcun partito, ma ogni partito puòtrovar seguaci (La Farina, Epistolario, i) », e il 1860 dimostrava la veritàdi tale operazione.

Nel gennaio 1853 Bentivegna con La Porta di Ciminna, Lentini di Trapani, Enrico Amato di Palermo, Spinuzza di Cefalù, avevano formato una banda nei piani della Grazia presso Palermo, in un paese dove l'abbondanza e l'uso delle armi e le difficoltàdella circolazione rendevano le bande facili e frequenti piùche in ogni altra regione, ed era rimasto perciòin carcere un anno. Ora il 22 novembre 1856 mentre stava a Corleone a domicilio forzato, aiutato dal cav. Di Marco, marito di una sua cognata, dai fratelli Figlia, da due Romano, zio e nipote (D'Ayala, Uccisi dal carnefice), Bentivegna, severo e tranquillo, radunava 300 armati, organizzati col lavoro di piùmesi, a Mezzojuso, comune siculoalbanese a venti miglia da Palermo, e vi alzava bandiera tricolore italiana, sollevava Villafrate, Baucina, Ventimiglia, Collesano nel distretto di Termini, anticipando, afferma Di Marzo Ferro, perchèricercato dalla polizia, la rivolta che d'accordo con Salvatore Cappello, Tondùed altri, doveva scoppiare solo il 12 gennaio 1857. Alessandro Guarnieri, Carlo e NicolòBotta, ed Andrea Maggio, contemporaneamente investivano le prigioni e ne traevano il liberàle ed ardente comm. Salvatore Spinuzza, disarmavano gendarmi e guardie urbane. Il sotto-intendente Parise, afferma Nisco, colle truppe del generale Ghio, affrontava Bentivegna, impegnando un combattimento, al quale (Bonola, 1 patriota italiani, III) Bentivegna, Spinuzza, Luigi Pellegrino da Messina, i fratelli Botta da Cefalù, Francesco Buonafede da Gualtieri, Luigi La Porta da Girgenti, Francesco Riso (?) da Palermo, il trapanese Mario Palizzolo, Vittorio Guarnaccio dàMezzojuso partecipavano, certo le bande venivano disperse. Bentivegna tradito, dice Zini, dai fratelli Milano di Corleone, suoi fami- gliari e beneficati, presso i quali s'era ricoverato, dovendo poi essi, ad onta di una decorazione e di un impiego ottenuti a compenso del tradimento, espatriare per fuggire la pubblica esecrazione, veniva arrestato. I piùeminenti avvocati offri- vansi a difendere Bentivegna ed eccepivano la incompetenza del Consiglio di guerra, costituito dopo sorta la banda. La Corte criminale avocava a sèla causa, ma ad onta di ciòil Consiglio di guerra condannava a morte Bentivegna, lo faceva trasportare a Mezzojuso, e quando la Corte di Cassazione si riuniva per pronunciare la sua decisione sulla competenza, sapeva che il Bentivegna era stato fucilato il 23 dicembre. Salvatore Spinuzza, arrestato a Petineo, dopo vigorosa resistenza, veniva a sua volta fucilato il 14 marzo 1857. Seguivano numerosi arresti, 800 fu detto, e l'UnitàItaliana aveva cosìper la prima volta in Sicilia i suoi martiri. Pellegrino, i due Botta, Bonafede condannati a morte ottenevano commutazione a 18 anni di ferri nel fosso di Favi gnano. Maniscalco non risparmiava soprusi, violenze e vittime; la Corte criminale di Trapani poneva in libertàalcuni arrestati dopo due anni di carcere. Maniscalco, narra Oddo (I mille di Marsala), assegnava loro il domicilio forzoso; l'ispettore di polizia Bajona in Cefalùadottava, narra Di Marzo Ferro, storico siciliano, come strumento per soffocare le grida dei tormentati, la cuffia del silenzio: u consisteva essa in un cerchio di acciaio, facile ad allungarsi ed a stringersi per essere adattato alla testa di diverse grandezze, in una mentoniera di fil di ferro destinata a chiudere la bocca, serrando forzatamente la mascella inferiore contro la superiore, in una correggia di cuoio per assicurare la mentoniera dietro il collo del paziente, in un semicerchio di acciaio per mantenere fermo sulla testa il detto cerchio ed in una vite di richiamo sullo stesso semicerchio per innalzare la mentoniera sino ad impedire l'apertura della bocca ed i gemiti del torturato ». Anche la cuffia del silenzio venne negata dagli storici amici dei Borboni, ma Zobi nel Saggio sulle mutazioni politiche ed economiche avvenute in Italia dal 1859 al 1868 afferma che trovòaccennata la cuffia del silenzio nei documenti originali veduti nell'archivio del dicastero di pubblica sicurezza in Palermo, anzi aggiunge la incredibile circostanza, se col regime borbonico potesse esservi qualcosa di incredibile, che da esso archivio si ricava come alcuni resistenti a quella orribile tortura erano quindi rinchiusi in succhi e gettati in mare nella parte piùrecondita del golfo palermitano, per renderli docili ad accusarsi nei costituti cui erano in seguito sottoposti. Certo i detenuti per causa politica in Sicilia nel 1855, secondo il dispaccio 20 luglio 1855 di Cassisi a Castelcicala dallo Zobi accennato, erano 1313. In tal modo Maniscalco disponeva la Sicilia, nella quale il regime borbonico era profondamente odiato, ad odiarlo sempre più.

3 - Gli ultimi anni

Nell'anno 1857 il governo napoletano pubblicava un Memorandum, nel quale si studiava di presentare come favorevoli le condizioni dell'isola. Diceva che le gabelle vi erano minori che in tutti gli altri Stati e la imposta fondiaria elevavasi di anno in anno, segno di aumentata produzione, il valore degli immobili si accresceva e cosi il commercio e l'industria avevano nuova vita. Il governo di Ferdinando II aveva dato ogni opera a sollevare il benessere materiale del paese. Aveva aperto la strada all'estinzione del debito fluttuante e cercato di stabilire l'equilibrio fra l'entrata e Tuscita. Pensava di venire in soccorso alla deperita industria con dazi protezionisti e conchiudeva all'estero trattati di commercio. La marina si era accresciuta dal 1840 al 1850 di 866 legni sebbene piccoli e la bilancia del commercio piegava a favore del paese. Ma le risposte erano semplici e perentorie: i cittadini erano caricati del 30 per % di gabelle; nella Mostra internazionale di Parigi il Regno delle Due Sicilie non si trovava in grado di formare un gruppo proprio e doveva prender posto nel riparto Romano. Anche i ben intenzionati dazi protezionisti recavano in fin dei conti piùdanno che vantaggio. Il governo defraudava il paese di una piùelevata civilizzazione e soffocava lo spirito di intraprendenza delle popolazioni. Il partito unitario riassumeva con ben maggiore energia, ma eguale mancanza di particolari, le lamentanze del paese nel proclama 14 maggio 1860 del Comitato di Messina e sua provincia, riprodotto da Raffaele Villari: «Cosi restaurato, la proprietàpubblica fu messa a ruba, ogni diritto divino o umano conquiso, le catene a piùgiri messe al collo e ai piedi dei piùgenerosi, degli uomini di mente, a tutti coloro che al miglioramento della umana razza dirigevano i loro conati. Condannati pria che giudicati, arrestati per semplice sospetto, e avvolta in misteriosa tenebra la causa, torture e nuovi strumenti di tormento adoperati sulle vittime del dispotismo per estorcere confessioni, ogni civile coltura proscritta, la ignoranza in trionfo, l'amministrazione del denaro pubblico negletta, arbitaria, tendente solo a ricavare piùche si potesse e mantenere la sbirraglia, i soldati indisciplinati, barbari, servire alle sue gozzoviglie e capricci », questo il governo borbonico.

Una sentenza del 1858 della Gran Corte speciale di Catania condannava a 28 anni di ferri Luigi Pellegrino, tre a 14 anni di ferri, sei a due anni come non denuncianti, imputati di aver tentato di raccogliere bande armate allo scopo di saccheggiare i denari pubblici, cambiare il governo, ed eccitare i sudditi ad armarsi contro l'autoritàregia.

Il bilancio delle finanze siciliane del 1858 dava per le entrate ducati 10.150.709 28, pari a L. 43.140.514 44, le spese ducati 10.275.378 98, pari a L. 43.670.105 66, delle quali non 100.000 per la istruzione.

I veri padroni della Sicilia erano Maniscalco e Salzano. Maniscalco poteva arrestare e condannare. «A compilare processi non erano sempre necessarie confessioni spontanee o testimonianze. Bastonature, sedie ardenti, zeppe fra le unghie, pere d'angoscia e tutta quella farragine di strumenti di tortura che il dottore Raffaele denunciònell'Opinion National del 1857 all'Europa civile, provvedevano ampiamente alla scoperta o alla supposizione degli autori del reato ». «Si adoperavano, spiega Rey, lo scudiscio, il nerbo di bue, apparecchi speciali di tortura ». Victor Hugo confermava che nel 1860 a Napoli ed a Palermo si applicava la tortura: «Uno sbirro, Bruno, tiene gli accusati legati col capo in mezzo alle gambe fino a che confessano. Un altro sbirro, Pontillo, li pone a sederle sopra una griglia ed accende di sotto il fuoco; èquesta la sedia ardente. Un altro sbirro, Luigi Maniscalco, parente del capo, ha inventato uno strumento, vi si introduce la gamba od il braccio del paziente, si gira una vite e quel membro èfrantumato, e questa èla cosìdetta macchina angelica. Un altro sospende un uomo a due anelli con le braccia ad un muro, con i piedi al muro di contro e ciòfatto, salta su queirinfelice e ne disloca le membra. Vi sono le manette che frangono le dita della mano; v'ha il cerchio di ferro che stretto da una vite si pone al capo e serve a far schizzare gli occhi dalla fronte. Alcuno riesce talvolta a fuggire, come accadde a Casimiro Arsimane; sua moglie, i suoi figli, le sue figlie sono presi, messi in sua vece sulla sedia ardente. Il capo Zafferano finisce in una spiaggia deserta, su questa spiaggia alcuni birri portano dei sacchi, in questi sacchi vi sono degli uomini; si immerge il sacco nelle acque e vi si mantiene fino a che piùnon si dibatte; allora si tira fuori il sacco e si dice all'essere che vi èdentro: confessa. Se ricusa, si immerge di nuovo nell'acqua. Fu in questo modo che mori Giovanni Vienna da Messina. A Monreale un vecchio sospettato di patriottismo, mori sotto il bastone, la figlia incinta, denudata, èpure morta sotto il bastone «(Bonola, I Patriota Italiani, III). Tutto ciòèromanzo o storia? Puòessere e deve essero esagerazione tragica, nèvi ha controllo come sarebbe necessario per constatarne la verità. Ma certo era opinione generale che il governo borbonico adoperasse in Sicilia la tortura, perchèl'isola si presentava selvaggiamente indomabile. Cobden: Notes sur ses voyages, corresp. et souvenirs, scriveva, per esempio, nel 1860: «Temo forte che la condizione degradata delle popolazioni siciliane ponga Garibaldi in gravi impicci e in gravi difficoltà. Èuno dei popoli piùignoranti e piùavviliti d'Europa. Tutte le isole del Mediterraneo, la Sardegna, la Corsica, l'isola d'Elba e la Sicilia contengono popoli molto meno civili della terraferma *, ed anche l'aspro giudizio aveva una parte di verità.

Comunque, dopo la repressione del tentativo Bentivegna, Mazzini riconosce che in Sicilia fu tregua «e la direzione cadde in uomini circospetti ai quali mancava la necessaria energia di carattere ». La Farina, divenuto cavouriano, stava ai cenni del ministero piemontese, la Sicilia non era ancora pronta ad un moto generale. Verso la fine dell'anno 1858 Maurizio Quadrio, amico di Mazzini, si recava a Messina con lettere ed istruzioni per una guerra di bande ed annunciava un prossimo sbarco di Lamasa, ma inutilmente.

Nel 1859 si voleva tentare una insurrezione che la pace di Villafranca arrestava. Eseguiti i soliti arresti in massa, si attribuiva a Maniscalco di aver detto: u Non siete piùnel 1848, il minimo tentativo di ribellione sarà, annegato nel sangue, e Palermo si ricorderàdi Maniscalco se pure in Palermo resteràanima vivente»(Rey, Storia del risorgimento politico d'Italia).

Anche Maniscalco diceva la sua parte di vero; non si era infatti piùnel 1848; anzi il 1848 aveva servito a dimostrare ancora una volta come una Sicilia autonoma sarebbe stata una Sicilia serva ed impotente. Quel pensiero unitario che nel 1848 appena veniva concepito da poche individualità, s'era fatto ragionamento di logica evidenza, culto ed amore di un certo numero di intelletti aperti che lo avevano sostenuto, propagato, propugnato con fervore e vigore. L'UnitàItaliana nel decennio diveniva un partito anche in Sicilia, e se una propizia occasione si fosse presentata, l'odio ai Borboni da Maniscalco acuito, avrebbe ben potuto servire di strumento opportunissimo agli unitari. Ma Maniscalco ed il governo di Napoli non lo credevano possibile e nel 1858 avrebbero giurato che il loro regime del terrore solo serviva a rinsaldare la loro forza.



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Pisacane e la spedizione di Sapri (1857) - Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito
1851 Carlo Pisacane Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49
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1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. I HTML ODT PDF
1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. II HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. III HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. IV HTML ODT PDF

1849

CARLO PISACANE Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma

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La quistione napolitana Ferdinando di Borbone e Luciano Murat

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ITALIA E POPOLO giornale politico Pisacane murattisti

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Italia e Popolo - Giornale Politico N. 223 Murat e i Borboni

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1857

La Ragione - foglio ebdomadario - diretto da Ausonio Franchi

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GIUSEPPE MAZZINI La situazione Carlo Pisacane

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ATTO DI ACCUSA proposta procuratore corte criminale 2023

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Documenti diplomatici relativi alla cattura del Cagliari - Camera dei Deputati - Sessione 1857-58

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Difesa del Cagliari presso la Commissione delle Prede e de' Naufragi

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Domenico Ventimiglia - La quistione del Cagliari e la stampa piemontese

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ANNUAIRE DES DEUX MONDES – Histoire générale des divers états

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LA BILANCIA - Napoli e Piemonte

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Documenti ufficiali della corrispondenza di S. M. Siciliana con S. M. Britannica

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Esame ed esposizione de' pareri de' Consiglieri della corona inglese sullaquestione del Cagliari

1858

Ferdinando Starace - Esame critico della difesa del Cagliari

1858

Sulla legalità della cattura del Cagliari - Risposta dell'avvocato FerdinandoStarace al signor Roberto Phillimore

1858

The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

1858

Ricordi su Carlo Pisacane per Giuseppe Mazzini

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CARLO PISACANE - Saggi storici politici militari sull'Italia

1859

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Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

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Giacomo Racioppi - La spedizione di Carlo Pisacane a Sapri con documenti inediti

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NICOLA FABRIZJ - La spedizione di Sapri e il comitato di Napoli (relazione a Garibaldi)

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BELVIGLIERI - Storia d'Italia dal 1814 al 1866 - CAP. XXVII

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Atti del ParlamentoItaliano - Sessionedel 1871-72

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Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

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F. Palleschi - Giovanni Nicotera e i fatti Sapri - Risposta alla Gazzettad'Italia

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Gaetano Fischetti - Cenno storico della invasione dei liberali in Sapri del 1857

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GIUSEPPE RENSI Introduzione PISACANE Ordinamento costituzione milizie italiane

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LUIGI FABBRI Carlo Pisacane vita opere azione rivoluzionaria

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RISORGIMENTO ITALIANO - Nuovi Documenti sulla spedizione di Sapri

1919

ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

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MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

1927

NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano


























Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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