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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

SCRITTI EDITI E INEDITI DI GIUSEPPE MAZZINI

VOL. IX - POLITICA VOL. VII

DIO e il POPOLO

ROMA

PER CURA DEGLI EDITORI

MDCCCLXXVII

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AL LETTORE

Ne' cenni che seguono è stato mio proposito de-lineare alcuni tratti della figura morale di Mazzini sì nella vita interiore e privata, come nella lotta ch'Egli sostenne contro governi ed opinioni ostili,durante il comune esilio dopo il 1849; abbozzando,nello stesso tempo, quanto me lo concedevano la brevità dello spazio e le scarse forze, il fondo del quadro storico, al quale appartengono gli scritti contenuti nel presente volume, a meglio chiarirne e concatenar negl'intendimenti nella mente di chi legge.

La prima parte del mio assunto dipendeva principalmente da rimembranze e documenti domestici miei e di persone a me congiunte; e questo mi scuserà dell'aver dovuto introdurre me stesso in varî luoghi del racconto. Il che ho fatto senza presunzione veruna, come dettava ad amico e discepolo la memoria dell'affetto, dei consigli, e sin de' rimproveri dell'Amico e Maestro.

Nel ricordare la storia de' tempi, non ho posto studio di parte, giudicando uomini e cose in relazione alfine patrio e nazionale, a cui erano volti i pensieri e gli sforzi di Mazzini e degli amici suoi. E di molte cose, pe' limiti prescritti al lavoro, ho dovuto, mio malgrado, toccare appena o tacere.

Ho stimato opportuno, per non ingombrare di troppi accessorila narrazione, aggiungere, in apposite note, varî particolari e documenti, connessi colle materie accennate nella medesima. Non ho inteso di fare opera d'arte.

Ho scritto, seguendo le sincere impressioni del passato, con animo riverente a nobili e care memorie; ed offrendo, per la parte mia, quel tributo ch'io poteva a un monumento, che qualcuno, più capace e più felice di me, potrà, un giorno, compiere e vestire di forma che duri.

Terrò lo stesso metodo ne' volumi che succederanno a questo, se,come spero, altri vorrà essermi cortese d'aiuto, somministrando, in aggiunta ai miei, ricordi e materiali all'impresa.

Bologna, febbraio 1877.

AURELIO SAFFI.

CENNI BIOGRAFICI E STORICI

A PROEMIO DEL TESTO

Dopocongresso di Parigi, una sorda agitazione s’andava propagando per tutto. Gli animi, sfiduciati d'ogni Congresso di esterno rimedio, si riconcentravano in sé stessi. La stampa — non la nostra soltanto, ma la regia e ministeriale — gridava insurrezione e guerra nazionale. (1)

IlConte di Cavour, commentando in Parlamento il famoso motto del suo Memoriale: riforme o rivoluzione,avea dichiarato impossibile la prima parte del dilemma, inevitabile, presto o tardi, la seconda, impotente la diplomazia a cangiare le condizioni dei popoli,ed atta solo a riconoscere i fatti compiuti.

E per venire ai fatti, parecchi pur fra coloro che dipendevano dai suoi consigli, pigliando sul serio le sue parole, s'accostavano ai nostri, iniziando pratiche dazione comune.

E a mezzo il 56, essendosi Mazzini recato all'uopo nascostamente in Genova, furono tentati moti nel Carrarese, che riuscirono a vuoto per le perplessità generate dall’equivoco delle due bandiere, avendo i cooperatori monarchici accettata e non attenuta la condizione d'inalzare bandiera neutra.(2)

Ma il Conte di Cavour, a temperare speranze e propositi, che oltrepassavano il segno della sua politica, raccomandava. poco stante, agi italiani di starsi contenti alla efficacia dei mezzi morali;lusingando, come voleva il fine a cui mirava. l'opinione nazionale da un lato, frenandola dall'altro. (3)

E alle Note irose dell'Austria rispondeva misurato e fermo; all’atteggiamento ostile della medesima a Piacenza e sul confine ligure, contrapponeva la soscrizione pei 100 cannoni da rinforzarne Alessandria; cercava inframettersi, in nome dei comuni interessi italiani, nella lite diplomatica mossa da Francia ed Inghilterra al re di Napoli; (4) favoreggiava le innocue dimostrazioni e i voti longanimi dei più pazienti. Ma la soscrizione promossa dai Genovesi pei 10,000 fucili da destinarsi alla prima provincia d'Italia che insorgesse ad iniziare la lotta liberatrice, fu, dopo qualche titubanza, vietata; agl'illusi che i mal riusciti tentativi respingevano ne’ regi domini, erano riservate le carceri di Sant’Andrea o la proscrizione in America. E la parte nostra, ostinata predicatrice di unità e di sovranità nazionale, era con assidua cura perseguitata ed attraversata in ogni suo atto.

Le cagioni di quest'altalena, che Mazzini descrive e giudica conforme al merito, nella sua Lettera ai Ministri Piem ontesi,del 31 agosto ’56, (5)stavano riposte in ciò che si andava macchinando, dietro le quinte, tra Parigi e Torino.

Sin dalla visita del re Vittorio Emanuele alla Corte imperiale nel 1855 e più chiaro durante il Congresso di Parigi nel 55 il Conte di Cavour ebbe indizio dei segreti pensieri di Luigi Napoleone intorno all'Italia. (6)

La guerra d’Oriente avea consolidato l’Impero fra i governi europei; la guerra all'Austria gli avrebbe aggiunto prestigio fra i popoli, offerto schermo contro i partiti ostili in Francia, e fatto strada ad ulteriori disegni. E le condizioni generali d Europa parevano ormai predisposte a secondare l’impresa.

Non erano da temere ostacoli gravi dall'Inghilterra, Malgrado le preoccupazioni austriache di alcuni fra i suoi uomini di stato, pei legami che la stringevano alla Francia, e pel favore dell'opinione pubblica al riscatto italiano; né dalla Prussia, per la rivalità germanica tra Berlino e Vienna, e per le mire del futuro primato; e la Russia ripagava l’ingratitudine Lorenese. accostandosi al Piemonte, e incoraggiandolo a proseguire i suoi destini. (7)

L’Austria era sola: e, sorgendo l'opportunità di una guerra, il Conte sapeva che l'armi francesi avrebbero spalleggiato l'esercito sardo. Or la politica dei ministri piemontesi, mirando allora, non a fondare nazione sull’ampia e vital base del diritto italiano, ma ad ingrandire lo stato, quanto le circostanze rendessero l'ingrandimento possibile e sicuro, s’arrestava, oltre quei termini, al vieto concetto di una lega o federazione del regno settentrionale coi principati esistenti, liberalescamente riformati, o con principati nuovi, se i vecchi resistendo, cadessero; salva in Roma la papale autorità, con forme di reggimento municipale, o somiglianti. Era concetto straniero, francese, napoleonico — non italiano: una patria a brani; l’indipendenza da un lato, a prezzo del vassallaggio dall’altro; piccoli e deboli stati, con malfermo vincolo tra loro, in balla di una Francia onnipotente e signora del nostro mare: — tali le sorti che gli auspici della monarchia preconizzavano, in que’ giorni, all’Italia.

Non ignorava il Conte di Cavour le mene dei Muratiani, né sembra che, fra' suoi più fidati amici, facesse buon viso all’idea della sudditanza di Napoli a principe e protettorato francese (8)Ma l’indole aristocratica della mente, la natura dell'ufficio suo e le cautele dinastiche, sconsigliandolo dall’avventurarsi al pelago della rivoluzione nazionale, e parendogli impossibile o rischiosa, con soli elementi italiani, senza il soccorso di Francia, la guerra all'Austria; gli era forza rassegnarsi a quella eventualità nel Mezzodì della penisola, come a condizione fatale del compimento del suo disegno nel Nord, salvo l'attendere dal tempo il beneficio de' casi impreveduti. Ad ogni modo, il movimento dovea scendere, governato, dall’alto, non sorgere e dettar legge dal basso.

Questo ingiungeva il Bonaparte e consigliavano i diplomatici russi; (9)questo voleva il Conte, e a questo applaudivano, per loro interessi, privilegi, superbie e mezze dottrine, patrizi, ricchi borghesi, letterati ed impiegati: ma con ciò periva l’Italia: periva, voglio dire, la essenza della sua personalità nazionale, e cadevano le più generose speranze dell'avvenire aspettato. Il che sentiva Mazzini, e s’affaticava a far che non fosse. Név’era modo di prevenire il danno, all’infuori di quello ch'egli additava; ché, in mezzo a tal rete di prepotenti ambizioni e di prestabiliti accordi tra i futuri liberatori, l’infelice programma di Daniele Manin e degli amici suoi, aveva faccia d’inganno, usato a velare,. inconsci gl’ingenui autori, il federalismo delle tre o quattro Italie. (10)

Sìè vero, che Manin medesimo ora parlava, nelle sue epistole agl’italiani, di unità monarchica, duce il re di Sardegna, ora di costituzione da imporsi, nelle due Sicilie, al Borbone; smarrendosi in contradizioni e in ubbie per ogni verso impossibili. E Mazzini era frattanto esattamente informato dei progressi della cospirazione murattiana, e degl’intendimenti dei napoleonidi nelle cose della povera Italia; dacché, per confidenze dei famigliari della casa con amici suoi, i misteri della corte imperiale scendevano sino al suo povero tugurioin Londra. (11)

Ilpericolo incalzava. Era tempo d’interrogare, con qualche animoso atto, i destini, e vedere, se una nazione di 6 milioni d'uomini, erede di un grande passato, dovesse rimanersi, per sempre, cieco ludibrio dei fatti, che l’arbitrio straniero imponeva alla sua passiva esistenza; o rifarsi, conscia di sé, ai liberi uffici del suo diritto e della sua storia. E gl'indizi dei tempi accennavano alla maturità del quesito.

Gli animi si scaldavano. I Lombardi riceveano l’amnistia e la visita dell'imperatore tedesco con odio avito; e all'insulto della straniera clemenza. rispondevano, spiegando, in apposite stampe, sotto gli occhi del Lorenese, tinto del miglior sangue italiano, le squallide forme dei loro martiri. (12)Cospiravano, avversi del pari a Murat, ma poco intesi fra loro, unitari monarchici e nazionali. I primi facevano assegnamento sugli aiuti della Gran Bretagna e del Piemonte; i secondi sopra sé stessi e sul popolo. (13)

Il governo britannico guardava, vegliando la trama francese, alla Sicilia; e i Siciliani piemontizzanti imprendevano pratiche coi capi della Legione Anglo-Italiana a Malta, e con Lord Palmerston, per tentare novità nell'isola. (14)E vi fu un istante, in cui il nobile Lord parve disposto a secondarli; in cui il ministro inglese a Torino sollecitava, Movimento income urgente, l’azione. (15)

Poi, com'è natura di tali ingerenze straniere, gl'incoraggiamenti cessarono; la Legione Anglo--Italiana era già stata sciolta, e chi faceva a fidanza coi sussidi dell'Inghilterra, al venir meno di quelli, rimase sospeso. (16)

Più fidi conforti avevam noi, perduranti sul nostro terreno, non dal governo, ma dal popolo della Gran Bretagna: e gli antichi Amici d'Italia,ricostituita la loro società, ricominciarono, nell'autunno del’56, una vasta agitazione, che continuò operosa in Inghilterra e in Iscozia, sino agli eventi del 59 e del ’60; efu non ultima cagione del piegare della diplomazia inglese in favore dell'unità d’Italia, conducendola a proteggere, col suo rifiuto (17)di secondare l’intervento proposto da Luigi Napoleone, i trionfali progressi dell’eroe di Marsala.

Intanto verso la fine del '56. apparivano qua e là, nelle due Sicilie segni forieri, avresti detto, del disfacimento del regno.

A mezzo novembre, il siciliano Bentivegna alzava nell'isola predestinata la bandiera italiana, e periva come sentinella perduta nei posti inoltrati del campo, alla vigilia della battaglia. Il giorno 8 dicembre, Agesilao Milano attentava, di mezzo alle file dell'esercito, alla vita del tiranno.

Quattro giorni dopo, lo scoppio delle munizioni da guerra sul battello a vapore il Carlo III, scuoteva dalle fondamenta la vicina reggia. E Pisacane meditava già la sua impresa. (18)

La meditava in Genova: — città, nella quale, per la tempra operosa dei suoi abitanti, nati alla libertà del mare, alle avventurose imprese, ai costumi democratici di razza commerciante e navigatrice; per la frequenza de' proscritti, ch'ivi convenivano da ogni parte d’Italia, affratellati dalla comune sventura; e pel genio del suo maggior cittadino, esule dalla piccola patria per la grande, era surto e cresciuto. in quegli anni, uno spirito che più non capiva nell’angusta cerchia del vecchio stato.

Da questa tendenza era uscita, nel '49, quella sollevazione del popolo genovese, contro la quale furono rivolte, con facile ed inonorato ardore, le armi, che i generali regi s eran lasciate cader di mano, contro il nemico d Italia, a Novara.

E da indi in poi, la generosa città, ospite e partecipe dei dolori, degli sdegni e delle speranze dell'intera nazione, senti il dovere di consacrare ai fratelli oppressi i benefici delle parziali franchigie di cui godeva.

Con questo intento, s’ erano in essa costituite da tempo società di borghesi e di popolani, in corrispondenza con Mazzini, (19)e v’era — monitore assiduo del pensiero italiano — un giornale, che, prima col titolo d'Italia e Popolo,indi, dal febbraio del ’57 in poi, con quello d’Italia del Popolo,fece prova di ciò che possa la potenza della parola. fatta servire a un giusto e nobil fine, sulle sorti di una nazione. (20)

Ivi adunque Carlo Pisacane concepì il disegno della spedizione di Sapri; e ne concertò con Mazzini i mezzi e gli aiuti, durante il soggiorno di questi in Genova, nell'estate del ’56.

S’era, negli anni precedenti, scostato da lui per opinioni discordi nelle cose politiche e sociali; reputando infruttuosa la rivoluzione, se prima non penetrasse nella mente del popolo il concetto dei beni sensibili da conquistare con essa.

E s’era dato a scriver libri con questo fine.

Ma accortosi, a breve andare, come uom pratico, che le dottrine e le riforme civili non approdano, dove, fra queste e il popolo si frappongono prigioni e patiboli, e che una sola e grande idea fremeva, matura ormai, nella coscienza dell'Italia — l'idea nazionale — a cui gli stessi freni del dispotismo erano scuola, più d ogni libro, efficace; senti risorgersi in petto la viva fiamma dell'azione,e ritornando a Mazzini con animo riconvinto, si diè tutto a tentarne la prova.

Per le cagioni dette, fu scelto il mezzodì della penisola, e stabilito di eseguire nell’anno seguente la spedizione. Genova, prendendo per breve ora possesso di sé medesima, avrebbe contribuito uomini, navilio ed armi all'impresa.

L’amico mio. che. pochi mesi innanzi, prima di lasciar l’Inghilterra — «intisichito nell’anima» dai tentennamenti italiani, e costretto per giunta a cercar lavoro per vivere, avendo dato del suo alla causa più del potere — cominciava a sentirsi scuorato e stanco; (21)ritornò a Londra nel novembre del ’56, tutto pieno di quei forti propositi e di quella nuova speranza.

Da Genova, da Londra, corrispondendo cogli amici inglesi e con noi, attendeva a procacciare aiuti morali e pecuniari al moto italiano, accennando all’indirizzo da darsi all’opinione pubblica, (22) non trascurando mezzo, per piccolo che fosse, di aumentare la somma, che Egli andava pazientemente raccogliendo all’uopo. (23)

Poco ei si ebbe dall’Italia, e quel poco, frutto in gran parte di offerte di poveri operai; il più gli venne — vergogna nostra — da offerte inglesi e scozzesi.

Fu per cura principalmente di Giacomo Stansfeld, di Pietro Taylor, e d’altri amici loro, istituita una commissione al doppio intento di chiarire, con della causa popolari comizi e letture, colla stampa, con petizioni al Parlamento, i veri termini della questione italiana, e di procacciare sussidi all'azione.

Nei primi mesi del ’57, ebbero luogo nelle principali città d’Inghilterra e di Scozia, numerose adunanze, presiedute da deputati della Camera dei Comuni, da magistrati municipali, e da cittadini autorevoli.

Non passava giorno, che, nei giornali della capitale e delle provincie non fosse impresso il nome d’Italia, ripetuti i discorsi degli oratori, divulgata nei circoli politici l’idea che non si trattava, fra noi, di riforme, ma d'indipendenza e d’unità nazionale.

Invitato da Stansfeld a contribuire l'opera mia a quel pubblico aringo, (24)percorsi io stesso varie città dei due regni, da Londra a Edimburgo e a Glasgow, fra le oneste e calde accoglienze al nome italiano,riportandone il lieto convincimento che, dove riuscisse all’Italia di sorgere a grandi fatti, il popolo della Gran Bretagna le porgerebbe, senz’altro, la mano a compiere i propri destini.

Fu ammirabile, come lettrice, in quel generoso movimento di gente straniera in favore della patria nostra, una giovane e gentil donna inglese, che le gesta di Garibaldi, la fama di Mazzini, e i dolori della nostra terra infelice, mossero, sin da que’ giorni, a torsi dal modesto ritiro della casa patema, onde propugnare, colla parola e colle opere, sulla scena del mondo, la causa del nostro riscatto. (25)

Coscienziosa, austera, eloquente nell’assunto ufficio, fervida della fede nel Vero, che spirava da ogni suo accento, vestita di gentile alterezza nella prestante persona, appariva come ministra di un dovere da compiere a quanti la vedevano e udivano, fra popolo usato a rispettare la dignità della donna, e a riconoscerla capace d’ispirazione èconsiglio anche nelle pubbliche cose.

Retribuivala, poco stante, il governo sardo con prigione ed insulti. (26).

Se ne vendicava la magnanima, facendosi, al fianco del prode italiano, di cui divenne consorte, suora di carità ai nostri feriti, nei giorni delle patrie battaglie.

Nella primavera del ’57, Mazzini, raccolto quanto gli era con dubbio strettamente necessario ai primi avviamenti del moto, si dispose a ripartire.

Serbo ricordo, fra le mie note, di un colloquio ch’io ebbi con Lui, ritornati, una sera, da casa degli Stansfeld al nostro alloggio, poco tempo avanti la sua partenza.

Gli erano giunte notizie da Genova degli apprestamenti dell’impresa.

Convenni seco sulla opportunità d’iniziare la rivoluzione nazionale nel Napoletano, a prevenire un moto, che pareva imminente, in favore di Murat: dissentii — e fu il primo, il solo dissenso che, in questione grave, m’avessi con Lui in quegli anni — sul modo della cooperazione di Genova: Parevami dubbia la riuscita, inevitabile una mischia colla guarnigione, difficile il convincere amici e nemici dell’intento, non politico, ma nazionale della sorpresa; certa, non riuscendo, fra le calunnie degli avversari e la sfavorevole impressione dei più, la disfatta morale della parte nostra, opportuno l'attendere che i primi successi della spedizione sollevassero gli animi ad aperta azione, rendendo impossibile al governo il resistere.

L’amico mio rispondeva ai miei dubbi, com'uomo che scorge da un’alta vista tutto un moto di cose, che l'occhio di chi guarda dal basso non può scoprire.

Il dualismotra Piemonte e Italia, Egli diceva, era cagione di funesti e immorali inciampi al dovere comune: Genova, levandosi ad aiutare la spedizione, avrebbe dato il segnale della solidarietà, che stringe tutti gl’italiani ad un patto: il tentativo, se fortunato, apportava incalcolabili vantaggi all’impresa, e offriva all'Italia un nobile esempio di città che sorge, non per interesse proprio o per mutare governo, ma per adempiere un debito, negletto dai governanti, verso la patria giacente: se infelice, avrebbe tirato sul capo di Lui la solita tempesta d’ingiurie, e dato breve trionfo alla politica degli avversari, ma non mutato corso alla legge fatale, che conduceva l’Italia a comporre in un sol tutto le sparse membra.

L’attendere l'esito del tentativo napoletano, nuoceva alla sicurtà e speditezza della cooperazione.

Ad ogni modo, il fatto stesso della sorpresa avrebbe rimosso il pericolo della lotta; edera convenuto che,affacciandosi tal rischio, non si farebbe. Io rimasi perplesso.

Egli mi strinse la mano, ripetendo in francese una frase che gli era usuale: «è d'uopo che il destino si compia.»

Più tardi, mi convinsi ch’Egli aveva ragione; e che, se i casi non contrariavano il disegno, le navi liguri avrebbero salvata la fortuna d’Italia, dando inizio italiano alla rivoluzione nazionale.

In principio di maggio, Mazzini andò a Genova.

Parte dei congiurati dovea imbarcarsi con Pisacane sul Cagliari il 10 giugno; una barca a vela, con altri compagni, movendo due giorni prima dal porto, attenderli a Portofino, recando loro 250 fucili e una provvista di munizioni.

Un migliaio d'uomini presti ad insorgere e a partire dietr’essi, mille fucili tra buoni e cattivi, e poco più di 50 mila lire, destinate ai primi bisogni della spedizione, erano i mezzi di cui Mazzini e i comitati genovesi disponevano.

Il giorno 8, Pisacane, ricevuti in sua casa alcuni giovani di buona volontà, desiderosi di aggiungersi agli altri, che avean giurato seguirlo, tenne loro questo semplice discorso che par d'eroe antico: (27)

«Noi dobbiamo portarci in una spiaggia del regno di Napoli, e, sbarcati colà, iniziare la rivoluzione. Le popolazioni ci aspettano. Alla notizia del nostro sbarco, le principali città d’Italia si solleveranno. La mina è apparecchiata dapertutto: occorrono solo i pochi che vi mettano il fuoco; e questi pochi sarem noi. Per arrivare più presto al luogo designato è necessario un vapore. Bisogna impadronirsene. Ma per tal fatto, non possiamo, qui in Genova, portare a bordo le armi, le munizioni, e gli uomini, che sono pronti come voi. Una barca a vela, che dovrà trovarsi sulla via che percorre il vapore, ci fornirà l’occorrente. Noi c’imbarcheremo, come passeggieri; saremo armati di pugnali e pistole; saranno con me parecchi bravi marinai, risoluti come voi a sacrificare la vita per la libertà. Essi s’imbarcheranno come uomini della loro professione, che vadano in Sardegna per loro affari; e basteranno per condurre a buon fine le operazioni da farsi sul vapore. Noi c’imbarcheremo con finti nomi. Gli altri ci seguiranno sulla nave. Al momento opportuno, io darò il segnale, ponendomi un berretto rosso in testa, e voi farete tutti il medesimo, perché possiamo conoscerci. A questo segnale assaliremo gli ufficiali del battello, obbligandoli a cedere il comando, e lo dirigeremo dove dobbiamo andare. Sono persuaso che non faranno contrasto, sapendo da noi il motivo del fatto, perché sono italiani anch’essi. Se resisteranno, allora ci abbisognerà vincere o morire.»

La mattina del 10 gli uomini destinati all'imbarco sul Cagliari,prendevano separatamente, e come ignoti gli uni agli altri, il biglietto di viaggio.

Il battello doveva partire alle 6 pomeridiane. A un tratto si seppe che la barca uscita il di innanzi, essendo stata sbattuta la notte dalla burrasca, e costretta a gittare in mare armi e munizioni, era rientrata in porto.

A questo colpo improvviso, Pisacane, temendo, per l’indugio, di funeste impressioni e pericoli in Napoli, deliberò di recarvisi subito e solo, profittando di un vapore da Napoli, postale che partiva la sera stessa da Genova, onde spiegare in persona agli amici la cagione del ritardo, e prendere con essi nuovi e migliori accordi.

Andò, vi si trattenne due o tre giorni, e tornò esultante d’entusiasmo, convinto che colà tutto era pronto, lo spirito pubblico unanime, l’esito certo: non mancava che la prima scintilla a far che l’insurrezione divampasse da un capo all'altro del Regno.

«Non badiamo al numero,» diceva egli a Mazzini, «pochissimi, dieci animosi, bastano.»(28)

Frattanto, a Genova nulla era trapelato del disegno. Il segreto fucustodito fedelmente da tutti; e stabilirono di rimettersi all'opera il 25 giugno, al ripartire del Cagliariper l'usato viaggio.

L’eroico drappello, capi Pisacane, Nicotera e Falcone Imbarco. — 26 uomini in tutto (29)— salì a bordo.

Una seconda barca a vela, con armi, marinai liguri ed altri patrioti, fra' quali Rosolino Pilo, andata loro innanzi, sbagliò strada o non fu veduta, per notturna nebbia, dal vapore, malgrado i fuochi e i segnali convenuti.

Il Cagliari,dopo breve bordeggiare presso il luogo designato all'incontro, non trovando la nave, avea proseguito il suo corso al Sud.

Il che saputosi dai genovesi il domani, li fece certi, che i nostri erano padroni del legno.

Il dado era tratto; la spedizione andava al suo destino urgeva sostenerla.

Pisacane avea sempre avuto saldo nell'animo il convincimento — e più, dopo la gita a Napoli — che la parte più rischiosa dell'impresa era il passaggio da Genova a Sapri.

«S’io riesco,» diceva, «ad eseguire lo sbarco, se non mi arresta qualche vascello da guerra del Borbone, potete ritenere sicuro il buon successo, e certo il trionfo della rivoluzione. (30).

Si discusse fra i capi-popolo se convenisse attendere od agire. Decisero, pressoché unanimi, di non frapporre indugio all'azione.

Gli uomini, dicevano, conoscono tutti la partenza di Pisacane; fremono d’impazienza; il segreto, serbato finora, potrebbe divulgarsi; la sorpresa divenire impossibile, e cambiarsi in sommossa contro il governo piemontese, senza scopo, senza utilità, e senza speranza di riuscita.

Anzi, per questa stessa considerazione, era imprudente l'aspettare notizia dello sbarco, lasciando che il governo, prevenuto del fatto, si mettesse in guardia.

Fu destinata al tentativo la notte del 29 al 30 giugno.

L’ordine dell'esecuzione era questo: (31)— sorprendere i punti principali o strategici della città, ad impedire momentaneamente l'azione delle autorità e del presidio; occupare l’arsenale della marina, quello dell’artiglieria, detto dello Spirito Santo, e la fregata ad elice, Carlo Alberto, ancorata nel porto, coi marinai della quale erano state prese le opportune intelligenze; caricare su quella quante armi e munizioni fosse possibile trasportarvi dagli arsenali, compresa una batteria da campagna, che si trovava allo Spirito Santo: imbarcarsi tutti sul legno medesimo, e partire per le coste napoletane.

Ad attuare il disegno, spartite le forze in più gruppi, l’un d'essi, composto in gran parte di marinai e di operai della Darsena, dovea impossessarsi dell'arsenale della Marina, un altro, pur di operai, dell’arsenale dello Spirito Santo; un terzo, di borghesi, del Palazzo Ducate, sede del governo; un quarto, del Forte dello Sperone, presidiato appena da una cinquantina di soldati; e finalmente un sesto, composto di emigrati residenti in Genova, servir di riserva in Piazza dell’Annunziata, pronto ad accorrere dove fosse necessario.

La giornata festiva, e il molto popolo sparso per la città, favorivano gli assembramenti, il moto, i convegni ne’ luoghi assegnati.

Gli uomini vi si accoglievano, sull’imbrunire alla spicciolata, quieti, senza destare attenzione o sospetto.

Pochissimi furono gli assenti. La città era. tranquilla ed allegra.

Nessun provvedimento rivelava che le autorità avessero sentore di ciò che stava per accadere. La sorpresa dovea aver luogo dopo la mezzanotte.

Presso gli arsenali, in apposite cantine, erano apparecchiati depositi d'armi, di attrezzi, di sacchi con polveri, per forzar porte od ostacoli; prescritto, con severi ordini, agli operai di non usare violenza contro i soldati e i custodi dei posti da assalire, se non per necessaria difesa; ingiunto a tutti, comeché non occorresse, di rispettare le persone, gli averi, le case dei cittadini.

Mazzini medesimo scrisse di suo pugno le norme da osservarsi, perché l’ordine pubblico non patisse danno e il moto popolare nota di tristi fatti: (32) documento che fusottratto agli atti del processo che poi segui, per aggravare l'accusa.

D’improvviso, verso le 10 della sera, si vide un insolito movimento negli uffici della polizia e della prefettura.

Un battaglione di bersaglieri, chiamato in fretta al Palazzo Ducate, si dispose a difesa, asserragliando le porte. Furono posti quattro soldati ad ogni finestra, spenti i lumi delle camere, i fanali delle vie contigue; nello stesso tempo, agli arsenali, e a bordo il Carlo Alberto,si facevano subiti provvedimenti per respingere un assalto.

Tutte queste notizie pervenivano contemporaneamente a Mazzini, ch'era in una casa poco discosta dallo Spirito Santo, presto a scendere in piazza cogli altri, all'ora stabilita. Il governo era evidentemente stato informato di tutto. (33)

Fallita l'occasione della sorpresa, l'azione si sarebbe ridotta a combattimento, la spedizione a lotta interna e di esito dubbio. Chiamati a consiglio i membri dei due Comitati, i più accesi massime gli operai erano pel fare ad ogni costo; gli altri opinavano che si dovesse desistere.

Prevalse, consigliante Mazzini stesso, quest'ultimo partito.

«Dopo breve discussione, considerando che non conveniva cominciare il movimento con una lotta contro il governo piemontese, il che, nel resto d'Italia, avrebbe fatto pessimo effetto; che, se a Pisacane riusciva di sbarcare, sarebbe stato ben presto, almeno in qualche scontro parziale, vittorioso; che tale notizia avrebbe eccitato a tal punto l'entusiasmo popolare, da poter forse compiere di pieno giorno e senza sangue, ciò che ora non poteva più il governo piemontese, il che, nel resto d’Italia, avrebbe fatto pessimo effetto; che, se a Pisacane riusciva di sbarcare, sarebbe stato ben presto, almeno in qualche scontro parziale, vittorioso; che tale notizia avrebbe eccitato a tal punto l'entusiasmo popolare, da poter forse compiere di pieno giorno e senza sangue, ciò che ora non poteva più eseguirsi di sorpresa; che, mentre l'esito della lotta era presentemente assai dubbio, tutto il lavoro preparatorio e i depositi delle armi rimanevano intatti;» fu, per queste e simili ragioni, a gran maggioranza deciso di rimettere a miglior tempo l'azione; fu ordinato agli uomini di sciogliersi; furono mandati messi, per lo stesso effetto, a quelli che dovevano operare al Forte dello Sperone e al Diamante.

E gli ordini furono puntualmente eseguiti, salvo. che dal gruppo del Diamante; il quale, introdottosi, al cader del giorno, nel Forte, per amicizia degli operai col custode delle armi, venuta la sera, disarmò il piccolo presidio, rinchiuse i soldati in una camera, e s’adoprò tutta la notte a mettere il Forte in istato di difesa; onde il messo, non trovando persona di fuori, ignaro dell'avvenuto, non seppe che farsi. E quella fretta inconsulta fu grande sventura, perché, nel primo tumulto, rimase ucciso, senza lotta, senza necessità, un sergente del presidio, per imprudenza o vano impeto d'un giovinetto armato di revolver, che forse maneggiava quell’arme la prima volta: grande argomento alle calunnie e alle invettive degli avversari, coltro un tentativo in ogni altra parte incontaminato.

Venuto il giorno, e non vedendo segno di mutazione alcuna nella città, né ricevendone avviso, quelli che avevano occupato il Forte, n’uscirono, disperdendosi in varie direzioni.

Alle 3 della notte, Mazzini lasciò, ultimo, la casa dove s’era trattenuto sino a quell’ora, e si recò, con Giacomo Profumo, in altro luogo più sicuro.

La polizia e le autorità, state rinchiuse, durante la notte, nel Palazzo Ducate, il domani e ne’ giorni seguenti, cessato il pericolo, procedettero, com'è costume, a visite sulle persone di quanti incontravan per via, a perquisizioni, ad arresti, guidate da cieco sospetto, più che da indizio di colpa, si che la maggior parte degli arrestati fu dovuta rimettere in libertà. (34)

Contro i rimasti in carcere e i contumaci, le ire di parte, governando ministri e magistrati, intentarono, con accusa d'alto tradimento,un processo, del quale toccherò tra breve.

Vittime devote alla immediata vendetta governativa furono, al solito, gli emigrati; molti dei quali vennero trasportati in America, altri cacciati a confino in piccole terre del Piemonte.

Mazzini, cercatocon ansia febbrile dai delegati della questura di Genova, sussidiati da cagnotti còrsi e francesi, che la polizia di Luigi Napoleone avea spediti espressamente da Parigi, non fu potuto trovare.

Condotto cautamente, per cura degli amici, dal primo nascondiglio all'abitazione del marchese Ernesto Pareto — quel medesimo ch'era stato mio ospite nel ’53 — vi stette in sicurtà alcuni giorni.

Poi, per lettere sequestrate alla posta, avendone la questura avuto sentore, gli agenti di questa perquisirono due volte la casa, rovistando per tutto, frugando coi ferri sin dentro ai materassi dei letti, e negli armadi della Marchesa; e non riuscendo loro di afferrare la preda, arrestarono per dispetto il Pareto, il quale fu sostenuto in carcere sino a che, dopo una terza visita andata a vuoto come le due precedenti, si persuasero che il gran colpevole, o non v'era mai stato, o se n’era ito.

Quale incanto il velasse, tra quelle pareti ospitali, agli occhi della sbirraglia, non saprei dire: so che, il di dopo la seconda perquisizione, di bel mezzo giorno, Mazzini, dando il braccio a Cristina Profumo, (35) se ne usci tranquillamente con essa di Casa Pareto, chiedendo, in sulla porta, ad una delle guardie, che ivi stavano tuttodì vigilando, che gli accendesse il sigaro; e, salito in una carrozza, che l’aspettava in una strada vicina, giunse felicemente a Quarto, in una casa di campagna, affittata all'uopo da Carlotta Benettini; dove si trattenne, sino a che non ebbe provveduto alla salvezza di molti fra i più sospetti e cercati, e ricevuto notizie certe del funesto esito della spedizione di Pisacane.

La brevità dello spazio, e la speciale natura del mio assunto non mi consentono di entrar qui nei particolari di quella ardimentosa ed infelice impresa.

Come succedesse a Pisacane d’insignorirsi del Cagliari,di assaltar Ponza, liberare i prigioni, scendere a Sapri, e come poi alla fidanza dell’eroe e al forte inizio de' suoi fatti mal rispondessero, con inesplicabile abbandono dopo le promesse date, i suoi w concittadini, è noto all’universale, e noti sono pur troppo i fieri casi e l’ultima strage dei generosi, che, per amore d’Italia, si avventurarono a crudel morte, fra gente ignara e selvaggia.

I loro nomi corsero e corrono ancora, come ricordo che fa tremar l’anima di pietà e di rimorso, per le bocche della generazione che li lasciò morire. E la mesta armonia di gentile poeta, rapito anzi tempo all'arte e alla patria, consegnò la loro memoria alla leggenda del popolo, come la voce della storia la tramanderà all'ammirazione dei posteri.

Dei capi, due — Pisacane e Falcone — lasciarono la vita sotto l’osceno macello, il terzo — GiovanniNicotera — uscito pressoché esanime dalle mani della brutale canaglia che li oppresse, sopravvisse con altri pochi a testimoniare, sfidando le contumelie dei giudici e il capitale giudizio, i nobili intendimenti e il fine italiano dell’impresa. (36)

Caduta pel momento ogni speranza, Mazzini, riannodate, quanto era possibile, le fila delle Associazioni Liguri, parti da Genova la sera dell’8 agosto, in compagnia di Giacomo Profumo, passò la notte a Rivarolo in Polcevera, e la mattina successiva, col primo convoglio, proseguì col compagno il viaggio, per Arona e il Lago, in Isvizzera, indi, pel Reno, in Inghilterra, con qual cuore può immaginarlo chi sappia leggere, nel presente volume, i veri caratteri dell’animo suo.

Sbarcato a Dover, andò a passare alcuni giorni cogli Stansfeld presso la marina di Hastings, per bisogno di solitudine amica, indi ritornò a Londra con essi. La lettera che segue dirà, meglio d’ogni mia parola, ciò ch’Egli soffriva. e pensava in quel tempo:

«Lunedì, 8 settembre

«Sono in Inghilterra, non in Londra, come sapete, e però non mi affrettai a comunicarvi il mio ritorno. Giunsi sconfortato, malaticcio, e, per giunta coll'indice della destra malato, tanto da impedirmi lo scrivere «voilà tout.» Ho, come sempre, tutta fiducia in voi e in Aurelio; e, una volta in Londra, v’avrei dato subito cenno di vita. Come potete ideare, ad ogni ritorno, a ogni anno, s’aggrava più sempre su me quel tedio della vita che non ha nome, e al quale porrei in qualche modo una conclusione, se il dovere e qualche affetto non mi confortassero a durare. Il ciarlar di politica m'è odioso, come tutto quello che non conduce a fare,unica idea che mi domini; però, per questa ed altre cagioni, ho bisogno di segreto con tutti.... Lasciate che mi credano in Italia, in provincia, qui, dove vogliono.

«Vi son grato dell'affetto che mi mostrate, e desidero dal fondo del core che vi corra, comparativamente, lieta la vita.

«Le cose d’Italia sono com’erano; i tentativi falliti sono conseguenza di casi che possono riprodursi, ma che non cangiano la natura delle condizioni generali. Si può fare, vi sono elementi più che sufficienti. Una vittoria li porrebbe tutti in moto. Con questa convinzione, è dovere il tentare sempre, e se riesco a raccogliere mezzi sufficienti, ritenterò. Questo è ciò che or posso dirvi sommariamente....

«Desidero, or più che mai, che Aurelio scriva qualche cosa per l’Italia del Popolo, i cui collaboratori sono in prigione o dispersi..,. Gli scriverò tra non molto... Addio, vogliatemi bene, e credetemi tutti e due vostro aff.»

GIUSEPPE.»

Gl'intimi accordi dell’esser suo erano, come si vede, profondamente turbati. La sua salute andava deteriorando: «il dovere e qualche affetto» reggevano ancora l'animo invitto.

Credete voi che i casi avversi, la rovina de' suoi disegni, le grida del mondo, avessero scossa la sua fede nei destini d’Italia?

Uditelo; «I tentativi falliti non cangiano la natura delle condizioni generali. Si può fare, vi sono elementi più che sufficienti. Una vittoria li porrebbe tutti in moto. Con questa convinzione, è dovere il tentar sempre....»

E fu suo primo pensiero, ripresa lena, lo adempiere ciò che il dovere gli prescriveva in quelle congiunture: chiarire il vero sul tentativo genovese, mettere innanzi agli occhi degl'italiani le cagioni della loro impotenza. rivocarli alla fiducia nelle, proprie forze, (37) difendere infine non sò, ma gli amici suoi, da tristi avversari e giudici ancor più tristi. (38)

In Piemonte, a Genova, magistrati e gazzettieri governativi — facendosi plagiari, in cattivo italiano, delle Catilinarie di Cicerone e di Sallustio — spargevano menzogne di meditate rapine, d’incendi, di stragi di ricchi, e di ufficiali dell’esercito. (39)

Luigi Napoleone guardava con sospetto alla capitale della Liguria, come a vulcano ognor presto a vomitar fiamme devastatrici, ed esigeva repressione della libertà della stampa, relegazione di proscritti, rigor di giudizi. (40)

Alle calunnie partigiane dei nemici (41) s’aggiungevano le ingiuste opinioni degl'ignari, dei deboli, di quanti, pei benefici e per gli ozi del piccolo Stato, erano divenuti tiepidi cultori dell’intento comune. I meno intemperanti nelle censure, applicando criteri piemontesi più che italiani al fatto, lo biasimavano come attentato alla libertà.(42) e principio di guerra civile.

Altri sorgeva a combattere l'orgoglio di un uomo, che, al veder loro, sostituiva, tiranneggiando, all’Italia il proprio Io;e i censori di questa nuova specie di tirannide, chiamavano servi — apponendo loro ad arte, come marchio su gregge, il titolo di Mazziniani —gli uomini che, soli oramai, combattevano e morivano per liberare la loro terra infelice da' suoi veri tiranni. (43)

Incontro a questo frastuono di lingue bugiarde e crudeli, la fiera anima sua si levò sopra sé stessa e stette, guardando in faccia accusatori e giudici; e, degli uni e degli altri, securo in sé, compreso d’immensa pietà per l’Italia, e d’immenso disprezzo per la turba ingannatrice che la rendea nemica alla virtù de' suoi migliori, si fece accusatore e giudice Egli.

Ne’ sogni inquieti, nelle notti vegliate, le pallide forme. dei caduti per la patria, pareano affacciarsegli, (44)e chieder conto a Lui dell'inerzia dei fratelli superstiti. In quel travaglio dell'animo, dinnanzi alla «tremenda e solenne realtà» (45) che sospingeva il paese a riscuotersi, scrutava ad una ad una le cause che lo intristivano negl'indugi, e. sotto ciò ch'era guasto alla superficie, notava, con intelletto d'amore, i germi vitali del risorgimento vicino.

E l’Italia gli appariva, in que’ giorni, ondeggiante fra la velleità dei forti propositi e la incapacità delle forti opere, come l'Amleto del poeta inglese; ma non si, che la gagliarda virtù di qualche gran fatto non potesse cessare le titubanze, ed essere favilla a universale incendiò.

L’infelice contrasto della sua storia, segnata, negli ultimi tre secoli, di generosi moti di popolo e di pusillanimità patrizie e borghesi, non era ancor vinto da una comune strenuità d’intendimenti ed atti concordi.

Ferveva, nei migliori d’ogni ceto, nei giovani, negli operai, la coscienza del fine e del dovere, e il desiderio della lotta — massime in quelle regioni della penisola, dove il sentimento nazionale, nutrito d’illustri ricordi popolari, e provocato dagli stimoli della straniera importunità, si manteneva più vivo — ma difettavano i mezzi, l’ordinamento, il concorso di tutte le classi ne’ patri cimenti, perché la comunanza della nazione era, fra gl’italiani, idea da raggiungere e obbietto ai voti dei più generosi, non abito di avito costume.

E, dall'altro lato, fra gli uomini che avrebbero potuto, per condizione sociale e coltura, afforzare il legame dell’azione comune, prevalevano le considerazioni, che sogliono accompagnare i comodi della vita, gli onori posseduti o sperati, la vanità patrizia e borghese, la pedanteria letterata, scostandole dal contatto fraterno colla virtù popolana. (46)

E dietr’essi, la turba non curante di nobili cose e schiava dei propri interessi e piaceri, che in ogni ceto è volgo, preferiva naturalmente agli estremi rimedi i mezzani palliativi, e agli sforzi del valore nativo le combinazioni della fortuna. Le quali disposizioni degli animi volgari erano sillogizzate dai dotti in regole corrispondenti di prudenza politica, macchia v ellizzan do essi sull’Italia rinascente alla vitale unità dell’esser suo, come se la medesima fosse ancora un corpo senz’anima. (47)

Dimentichi delle prove, onde il popolo italiano s’era, dal ’48 in poi, annunciato all'Europa capace di forte e libera vita, rimbambivano, alla vigilia dei nuovi destini, tra le fasce di quella senile civiltà, che le arti del principato aveano lasciata intatta sotto la paziente servitù degli avi, e che mal s’accordava colle eroiche necessità del nazionale riscatto.

Condizione sì fatta di cose, e la morale impotenza, ond'era cagione, per l'egoismo degli uni, per la debolezza degli altri, per la preoccupazione di un intento parziale, sostituito alla universalità del fine italiano, sono con severa fedeltà, ritratte da Mazzini nello scritto intitolato «La Situazione», il quale, anche oggidì, mutati i nomi più che la sostanza delle cose, è specchio alle infermità dell'Italia, e può esserle guida a ritemprarsi in più salubre atmosfera.

Le accennate tendenze mettevano capo naturalmente al governo piemontese, (48) e, dietr’esso, per necessario legame di cose, alle intromessioni straniere nella questione italiana.

E della politica che alle medesime si confaceva, era mente e capo il Conte di Cavour; il quale curando, più dei principi, dei sentimenti e delle forze vive, che sollevano i popoli al compimento dei loro destini, i fatti e le forze materiali, che la opportunità del momento offeriva al fine particolare ch'egli s’era proposto, fu l’ultimo, e forse il più grande, degli statisti della vecchia scuola piemontese, ma non restauratore di patrie istituzioni né fondator di nazione.

La storia imparziale, giudicando le opere sue dai suoi concetti, e dalle circostanze di cui si valse a recarli in atto, non gli negherà il merito di una singolare accortezza nel volgere e far servire ai suoi divisamenti gl’interessi, gl’ingegni e le ambizioni altrui; e ricorderà com’egli, quando pareva più menomata, in Piemonte e fuori, la sua riputazione dall'infelice esito della quadruplice alleanza, sapesse, coll'italiano ingegno e volere, rifar sé autorevole, e rispettato il Piemonte fra i barbassori della diplomazia straniera, contribuendo, nei sinedri dei maggiorenti d’Europa, come Mazzini fra i popoli, a creare quella opinione favorevole all’Italia, avversa all’Austria, che fece, della caduta del suo dominio di qua dall'Alpi un evento atteso da tutti, e non contrastato da alcuno.

Ma il giudizio della storia non andrà disgiunto dai criteri della morale e dalle vere norme della grandezza dei fatti umani; e, misurandone l’importanza, dal frutto che recano alla educazione de' popoli, stimerà gran fallo dell’uomo e del sistema a cui obbediva, l’aver fatta venale la patria, sin dagli esordi del suo rinascimento, accoppiando la pura e inviolabile causa della sua indipendenza all'ambizione e all'armi di un usurpatore, che avea trafitto il core dell'Italia in Roma, e calpestata la libertà della Francia in Parigi.

Per l’opposto, il pensiero e la virtù di Giuseppe Mazzini non avranno men pregio di perpetua e nobil fama per le infelici lor prove, le quali tornano a biasimo, non suo, ma degli uomini e de' tempi, che mal corrisposero al dovere da Lui additato.

E sopra i temporanei disastri dell'arduo cammino ch'Egli percorse, primeggerà, nella memoria de' posteri, la verità del concetto, che il suo amor patrio inculcava, come condizione di grande, sincera e virile riscossa, agl'italiani, contro interessi e dottrine, che dimezzavano e corrompevano, sin dalla cuna, l’anima della nazione.

E, insieme alla verità del concetto, tanto più sarà ammirata, quanto più intesa da età migliori della presente, la incrollabile costanza, ond'Egli, risorgendo rinovellato di fede e di volontà da ogni caduta, si affaticava a far si che quanti avevano facoltà di contribuire, con mezzi più vasti e più efficaci de' suoi, all’impresa, s’adoprassero a vincer la prova.

«Non si tratta d’unirsi a me, o ad altri che sia:» — diceva Egli, offrendo agli avversari il suo luogo — «si tratta di unirsi tutti in un principio; ed è, che l'Italia può, vo l endo, iniziare con forze sue l'opera del proprio riscatto; che potendo, lo deve; e che fremer sempre giacendo è parte di codardi o di stolti.» (49)

E con pari grandezza d’animo, a chi, nulla facendo e aspettando salute alla patria da infidi auspici, avea in dispetto il suo fare, e lo accusava incapace e tiranno ad un tempo, Egli volgeva queste memorabili parole:

«Da ventisette anni, se credo a voi, io son fatalealla causa italiana; da ventisette anni, se credo ai gazzettieri tiepidi e non tiepidi, io non ho commesso se non errori; anzi fui parecchie volte dichiarato irrevocabilmente spento, nullo, e immeritevole che altri se n’occupi; e nondimeno, canuto per anni e cure, esau rito di mezzi miei, avversato da quanti governi, governucci, uffici di polizia e ritrovi di spie ha l'Europa — sì che io, dall'inglese in fuori, non ho un palmo di terra sul quale io non passeggi illegalmente e pericolando — risorgo a ogni tanto agitatore seguito, non potete oggimai dir da pochissimi, e ingrato, inviso a Poteri forti d’organizzazione segreta e pubblica, e d’eserciti, e doro; e taluni, se debbo credere alla stampa, pur d’opinione! Perché?

«Io dirò a tutti voi. tiepidi e irresoluti di fronte a una condizione estrema di cose, il perché; e v’insegnerò a un tempo come possiate spegner davvero la mia fataleinfluenza. Io non sono se non una voce che grida AZIONE; ma le condizioni d’Italia vogliono azione; e la parte migliore d’Italia, il popolo delle città e la gioventù non corrotta dagli ozi codardi, o dai sofismi dei mezzi intelletti, ha desiderio d’azione;.... e il bastone e la cuffia del silenzio di Napoli intimano azione; e i ricordi gloriosi del 1848, e la vergogna senza nome di un popolo che ha quei ricordi ed è nondimeno —. Belisario della libertà — condotto attorno dai suoi dottori a mendicare ai protocolli di tutte le conferenze una speranza ingannevole di miglioramento, comandano, dovere supremo, l'azione....

«Volete spegnere la mia fatale influenza? agite: fate meglio e più efficacemente di me; dove io, lasciato solo da voi tiepidi e molti pur troppo, tento su ciò che voi chiamate piccola scala, riunitevi a tentar su grande. Non importa — benché lo dovreste — congiungervi con me, con noi: importa che voi stessi vi ordiniate partito d’azione.... Predicate, tutti unanimi all’Italia che solo una via di salute e d’onore le avanza: prepararsi a sorgere con forze proprie, esorgere. Italiani voi pure, preparatevi e preparate.»

Cosi parlava il magnanimo.

«Io non sono se non una voce che grida azione:» — ed era ben altro. Egli era l’interprete di quella legge storica della vita italiana, che fece la patria nostra debitrice, d'età in età, de' suoi grandi rinnovamenti civili al genio iniziatore, non de' suoi principi, ma del suo popolo. Gli abili espedienti del ministro sardo doveano riuscire alla tregua di Villafranca e alla pace di Zurigo: gl'infelici successi di Mazzini preparare l’Italia ad affermarsi nazione. Nel momento supremo, due eserciti stranieri s’accampavano nelle nostre contrade; tra protettori vittoriosi, e nemici non vinti che a mezzo, un doppio pericolo ci soprastava: le forze piemontesi, ricche di valore, scarse di numero, e le inermi città italiane, non erano in grado di far fronte all'arbitrio dei vecchi e dei nuovi signori: la monarchia era impotente a salvarci. Il nodo, che avvolgeva le nostre sorti, non sembrava potersi risolvere con argomenti umani: dignus Deo vindice nodus:e il Dio vindice de' nazionali destini fu il popolo delle cento città d'Italia, levatosi unanime a proclamare l'unità della patria.

Ma io non devo precorrere col mio discorso gli eventi allora non preveduti.

In quei giorni, l'intero paese giaceva afflitto dalle sciagure presenti, e incerto dell avvenire. Due processi di lesa-maestà lo funestavano, annunziando nuove vittime.

L'idea di una patria sola, dalle Alpi al mare, era giudicata con eguale bilancia a Genova e a Salerno. Ma il pubblico accusatore del Regno costituzionale sembra voler vincere di velo quello del Regno assoluto; e, apponendo titolo non vero a cospirazione non consumata, (50)chiede dodici teste, fra le quali, prima, quella di Mazzini contumace, sperando forse che la vuota sentenza bastasse a decapitarne l'idea.

Mazzini, narrando i fatti, confutando l'accusa, giudicando i suoi giudici, li ammonisce, non per sé (51), ma per gli amici suoi e per l'onore del loro paese, di non mercarsi, col Codice alla mano, l’infamia.

«Condannate, se osate; ma badate che, superiore alle formule legislative di un giorno sta la legge eterna, che decretava l’Italia nazione: badate che santo e profetico d’avvenire vicino è palpito di solidarietà, di fratellanza italiana, che spingeva quegli uomini, il cui fato pende da voi, a fare; badate, che a Giudici Italiani, i quali, nel 1858, pronunziassero, gl'italiani, che volevano morire o vincere con PISACANE per la LIBERTÀ DELLA PATRIA, meritavano il patibolo e la galera,né Dio, né gli uomini perdoneranno.» (52).

I giudici condannarono. (53)

Nessuno de' vecchi stati italiani seppe morire di bella morte; e lo Stato piemontese, pure ostentando italianità, volle lasciare incisa anch’esso, nell’ultime pagine della sua stona, una trista nota di corruccio e di vendetta.

Ma trascorsero appena due anni, e il delittodel ’57 divenne, nel 60, virtù e gloria nazionale. E come l'un pensier dal l’ altro scoppia,e l’esempio de' forti è sprone ai generosi, la folliadella spedizione di Sapri fu seguita dalla spedizione dei Mille, la notturna congiura del 29 giugno, dall’aperta cooperazione di tutta Italia alla maravigliosa impresa, in quella stessa Genova, che prima la concepì. E giunta l’ora, l’esule di Caprera, destatosi, come leone, dal solitario riposo, recava sulla nave che salpò da Quarto, alle ultime prode de' nostri mari il pensiero dell’esule di Londra, e la fortuna d’Italia.

Agli Stati defunti e ai giudici dei loro processi, Dio e gli uomini non perdoneranno; degna pena, l’oblio; ai nomi dei condannati dalle loro sentenze — precursori, militi ed eroi della unità della patria (54) — e a Genova, che fu scala al grande acquisto, la memoria dei secoli serberà onorato luogo ne fasti dell’umana virtù.

APPENDICE

A.

I documenti che seguono, serviranno a dare un’idea esatta ai lettori de' principi e delle tendenze che informavano il movimento dell'opinione inglese in favore della Causa d’Italia, nel 57 e negli anni susseguenti.

L ’Italia per g l’ Italiani — A ll’ Editore del Times

Londra, 21 ottobre 1857.

SIGNORE,

Nel chiedervi d’inserire nel vostro Giornale la risposta del signor Saffi all'invito fattogli dal Comitato del «Fondo per l’Emancipazione d’Italia,» di dar letture in alcune delle città che si sono dirette a noi per questo, è mio desiderio ed intento di porre sotto gli occhi de' vostri lettori ciò che può chiamarsi il programma de' patrioti italiani, onde (per citar le parole di un altro della loro schiera (55), «posta daparte per ora ogni politica discussione intorno alla forma del governo, tentar di sorgere colla nazione per la nazione, lasciando a questa il provvedere, dopo il riscatto, all’ordinamento delle proprie sorti.

Noi crediamo che gl'Italiani, ammaestrati da secolari sofferenze, educati, dalla parola e dall'esempio de' loro migliori, alla religione della patria, sono oggidì preparati a recare in atto i precetti di questa religione, e a rivendicare a se stessi il loro paese.

E pel fine appunto di assisterli ne’ loro sforzi, i membri di questo Comitato si studiano di eccitare la mente inglese a cercare e raggiungere il vero di questa grande questione italiana. Noi domandiamo ai nostri compatrioti aiuti morali e materiali a sostegno della giustizia e della verità contro la tirannia e l’ingiustizia: e, nel caso presente, richiamiamo in particolare la loro attenzione al dovere, che ha ogni uomo fra noi, di dire apertamente e francamente, che, se l’Inghilterra rifiuta di soccorrere le oppresse nazioni nella loro lotta per l’indipendenza, ricovrandosi dietro la dottrina del nonintervento, essa dovrebbe almeno mantenere intera tale dottrina in favore degli oppressi, impedendo ad altri Poteri d’intervenire tra questi e gli oppressori.

……………………………………………………………………………………………….

Colla speranza che altri membri s’ aggiungano al Comitato, ed altri cooperatori vengano a dar mano con noi alla buona Causa, credetemi, signore

Vostro etc.

GIACOMO STANSFELD.


Nella mia risposta all'invito del Comitato Inglese, scusata la insufficienza de' miei mezzi pel difficile aringo, e accennato all'ordine delle materie da svolgere, dicevo:

Io non esporrò la questione sotto parziali aspetti d’idee politiche, repubblicane o monarchiche, perché non credo che qualsisia formola prestabilita d’ordinamento Statuale possa giovare a scioglierla. Non si tratta al presente de' miei convincimenti individuali sulla forma di governo più atta a promovere le migliori tendenze dell'umana natura; e, sul terreno pratico, io sostenni sempre, che né individui né parti politiche hanno il diritto di mettersi al di sopra della volontà generale di un popolo, o di forzarlo con mezzi illegali ad accettare le loro opinioni. Io riconosco quindi, pel mio paese, il principio universalmente riconosciuto come fondamento al diritto pubblico di ogni gente civile: spettare, cioè, alla nazione, emancipata che sia dalla servitù straniera e domestica, il decidere, per mezzo de' spoi legittimi rappresentanti, la questione degli ordini dello Stato in quella forma che meglio convenga alle sue tradizioni, a' suoi bisogni presenti, e agli uffici a cui aspira nell'avvenire. E qui devo affermare, contro i falsi giudizi che corrono intorno alle cose nostre, che non v'ha, nel nostro campo, patriota sincero, il quale neghi questo supremo principio di giustizia sociale, o miri ad attraversarne l'adempimento, nel giorno in cui possa esser dato alla nazione di praticarne le norme. Se v'è tendenza esclusiva fra noi, la medesima ha luogo nel campo monarchico, anziché nel repubblicano; il che proviene dall’idea che la grand’opera della liberazione d’Italia dal dominio militare dell'Austria, possa e debba compiersi per mezzo della Casa di Savoia.

Or la Casa di Savoia, nell'ora solenne della riscossa, dove in lei sia favilla di virtù e valore, potrà avere non indegna parte nel gran dramma, e la nazione potrà darle premio proporzionato ai servigi: ma la guerra dell'indipendenza italiana, s’ esser non debba una ripetizione del tristo giuoco che finì a Novara, non può concepirsi possibile senza il concorso di tutte le forze vive del paese, dalla Sicilia all'Alpi.... Gl'Italiani devono apparecchiarsi ad una eroica lotta; ad una di quelle classiche lotte, le quali, come la guerra persiana, creano il carattere di un popolo. Ma chi oserà prescrivere anzi tempo, e tenere in Berbo un sistema bello e fatto di politiche istituzioni, da indossarsi a nazione novellamente surta, ad arbitrio di una parte o di un potere qual che si sia?

La indipendenza d’Italia, o potrà o non potrà conquistarsi nel corso del viver nostro. Se è destino che noi non dobbiamo raggiunger l’intento, le discussioni intorno alla costituzione della patria futura sono oziose parole senza soggetto: — dispute bizantine intorno al nulla. A fare che il pensiero diventi realtà, occorre agl'Italiani la ferma persuasione della possibilità dell’effetto, e la virtù di potentemente volerlo. Noi dobbiamo stringerci tutti quanti insieme nel campo comune della preparazione alla lotta, suscitando negli animi nostri tutte le facoltà necessarie alla grand'opera; e. quanto all’assetto politico delle nostre relazioni interne, aspettare che gli ammaestramenti dell’esperienza e le circostanze de' tempi ci additino la via, rispettando sopratutto il fondamentale e inalienabile diritto della nazione di statuire liberamente il modo e la legge del proprio governo.

In questo programma soltanto possono, in Italia, le diverse i {»arti politiche accordarsi patriotticamente fra loro; e, comeché affermazione sia per apparir nuova alle menti preoccupate in contrario, è questo per lo appunto il programma, che fu sempre propugnato, fra noi, da quegli uomini, i quali sono considerati da molti come demagoghi e capi di non so che fazione anarchica nel nostro paese. Ma non v'ha cosa che sia tanto fraintesa e falsata, quanto la Verità e il Diritto; e i più nobili intendimenti sono di frequente ludibrio alla cecità degl’ignari o de' tristi…

Cercato di mettere in chiaro, per gl'inglesi, che la prima condizione d’ogni progresso civile per noi, il delenda Carthago dell'Italia odierna, era la cacciata degli Stranieri dal nostro suolo, io proseguiva a dire:

Gli uomini di Stato della Gran Bretagna e gli amici inglesi dell'Italia hanno a persuadersi fermamente di questo — che, cioè, la vera, la grande, la effettiva questione, ond'è agitata la vita italiana, non concerne riforme e riordinamenti parziali di reggimento, non mira ad ottenere che il re di Napoli o il papa concedano e giurino oggi di nuovo ciò che si riterranno, spergiurando, domani, come fecero sempre, protetti dall’Austria oda altri stranieri; ma bensì a liberare da ogni esterna ed interna servitù una intera nazione, sì che la medesima possa tornare signora de' propri destini. Queste è il supremo bisogno, questa la meta a cui tendono, con crescente forza e rapidità, tutti gl'interessi e tutti gli affetti del popolo italiano, irrevocabilmente ridesto alla coscienza della sua individualità nazionale. Esso guarda alle Alpi, come a naturalconfine segnato da Dio agl'interni uffici e alle mutue carità della sua convivenza sociale. Che hanno da fare con ciò soldati, pubblicani, e carnefici austriaci? Che frutto ne colgono la civiltà, la pace, il buon ordine della società europea? Forse che l’eco delle campane de' nostri cimiteri e delle funebri salmodie sui cadaveri de' più generosi italiani, periodicamente assassinati dall'Austria, è suono carezzevole all’orecchio dell'Europa civile, in mezzo alla vantata umanità del secolo decimonono?

Questo stato di cose non può durare: ed è vano il ripromettersi che una sì gran questione possa risolversi od acquetarsi, mercé la semplice azione de' consigli della diplomazia. Sopita un istante, si risveglierà, dopo brev'ora, più ardente, e più minacciosa che prima alla pace europea. Le concessioni stesse, che, per amore o per forza, fossero per ottenersi dalle mani de' nostri padroni, non farebbero che aggiunger esca alla sacra fiamma, oggi appena compressa sotto il peso di due occupazioni straniere. Può darsi, che gl'Italiani.... abbiano da traversare ancora molte e severe strette, avanti di conseguire il fine, a cui tendono, per natura di cose e per legge d’eterna giustizia. Ma ogni nuova prova contribuirà, non ad abbatterli, bensì a rafforzarli nel compito loro, perocché questo non consista in un superficiale e, per così dire, estrinseco affaccendarsi di sette politiche, ma sia profondamente radicato nella sostanza stessa delle intime condizioni e necessità di tutto un popolo.

………………………………………………………………………………………….

Se il Comitato approva il programma di cui è cenno nella presente, mi porrò all'opera, alla quale m’invita etc....

Vostro di cuore

A. SAFFI.

Il Times,pubblicando le due lettere qui sopra tradotte, ne traeva argomento ad uno di que’ suoi articoli alla magistrale, coi quali, presa l’imbeccata dalla Legazione Sarda, soleva ammonire gl'Italiani di non volere «nelle fata dar di cozzo. I Giornali liberali, caposchiera il Dailv News,diedero cordiale conforto e vasta pubblicità all'opera degli Amici d’Italia, inserendo nelle loro colonne gli atti della Società, e le relazioni de' Comizi popolari e delle Letture. L'Italia e Popolo(1856),e l'Italia del Popolo(1857), ragguagliarono i loro lettori de' progressi di quella generosa agitazione del popolo inglese in favore della emancipazione italiana.

B.
Dichiarazione de' Marinai Liguri e Anconitani, partiti sul Cagliari con Pisacane

Il documento che pubblichiamo onora gli uomini che lo firmarono, il Partito al quale appartengono, la piccola ma generosa e veramente italiana città, nella quale i più tra quegli uomini ebbero culla. È una dichiarazione dei marinai genovesi e anconitani, che salparono sul Cagliarialla volta di Ponza, insieme a C. Pisacane; e la lasciarono in mano amica, solo compenso ai supremi pericoli ch'essi andavano lietamente ad affrontare per la Causa Nazionale. I figli del popolo furon raccolti, senza scelta ed esame speciale, da parecchi nuclei d’affratellati al Partito: raccolti in un subito, poco tempo prima del fatto. Fu dette» loro: Volete avventurarvi a rischi di morte, per giovare ad un' impresa dalla quale può venir giovamento alla Patria comune? Essi avevano fede nell'uomo che proponeva; accettavano volentieri, e risposero: poco ci cale della vita, se possiamo sperare che il sacrificio giovi alla Nazione dalla quale e per la quale nascemmo. Soltanto prometteteci di pubblicare, quando che sia, la dichiarazione che vi consegniamo, perché il nostro popolo non disconosca i motivi che determinano la nostra accettazione. Noi adempiamo oggi, mestamente orgogliosi, all'ufficio che ci assumemmo.

Mestamente orgogliosi: è dolore il registrare continuamente fatti di martirio, quando basterebbe unirci a volere perché la vittoria coronasse la nostra bandiera; è orgoglio santamente italiano il poter dire all'Europa: ecco gli uomini che i venduti ai governi di fatto dichiarano aneli oggi incapaci di libertà,

I più tra quegli uomini appartengono ad una delle migliori speranze d’Italia, la marina Ligure: sono figli d’una piccola città, Lerici, gemma della Riviera orientale, che diede da ormai trent'anni prove continue di bella devozione alla Causa nazionale, e nella quale ogni uomo che s’incontra, è pa triota: gli altri sono d’Ancona, città che durò virilmente contro gli Austriaci nel 1849. Dio conforti nei patimenti quei che sopravvissero al nobile tentativo. La Patria non dimenticherà più mai i loro nomi.

G. MAZZINI.

I Marinai Liguri — ai fratelli d'Italia

Noi partiamo. Partiamo, non allettati da quelle speranze di guadagno e di gloria, che spingevano i Padri nostri a portar la Croce rossa di Genova in Affrica e in Asia, e fare del Mediterraneo il Mare nostro:partiamo, non costretti da invasione straniera o da crudele tirannide domestica a lasciare il suolo nativo, per cercare altrove un asilo alle nostre famiglie, e alle nostre credenze.

Cittadini d'uno Stato comparativamente sicuro in Italia, vivevamo sulle nostre navi e nelle nostre case, senza temer che lo sgherro del tiranno venisse a toglierci ai nostri bambini, o a rapire i figli nostri a noi. E tuttavia non ci sentivamo liberi e felici. Dal Nord e dal Sud ci giungeva il pianto e il fremito di genti schiave e martirizzate! e quel fremito e quei lamenti avevano suono italiano. Il lungo gemito che usciva dai sotterranei di Mantova, di Pagliano e di Montefusco, l'eco delle fucilazioni di Milano e di Carrara, il sordo rumore del bastone di Napoli e di Roma, che solcava, disonorando, membra italiane, ci piombavano sul cuore e turbavano i nostri sonni. La coscienza ci dice: FINO A TANTO CHE20 MILIONI D’ITALIANI SONO SCHIAVI, NON ABBIAMO DIRITTO DI ESSER LIBERI SE NON A PATTO DI CONSACRARE LA VITA ALL’EMANCIPAZIONE DI TUTTI.

La piccola Patria di Genova e di Piemonte non ci basta più, e aspiriamo alla Grande Patria, che le Alpi e il mare hanno tracciato a 25 milioni di fratelli.

E perciò partiamo. Partiamo con Italiani d’ogni provincia, a tentare la prova per la quale ogni provincia italiana ha già tante volte dato i suoi martiri. I Bandiera e Scarsellini, Ruffini e Masina, Caraffa e Milano, e tanti popolani, oscuri e poveri come. noi, ci hanno trasmesso un sacro legato: noi lo accettiamo, e se non ci è dato eseguirlo, lo trasmetteremo ad altri più fortunati di noi.

Siamo ben pochi a tentare la prova, perché chi governa non ama l’Italia, e avversa chi s’adopra a liberarla.

Nei giorni delle glorie di Genova uscivano i suoi figli a generose imprese. Partivano per liberare Sardegna e Corsica dal giogo saraceno, a redimere la repubblica di Gaeta' dal dispotismo aragonese: ma abbandonavano il porto a vele e bandiere spiegate di pieno giorno, e un immenso popolo dai muri del molo, da' campanili e dalle alture li confortava simpatico d’applausi e d’auguri. Noi, da un governo egoista e codardo siamo costretti a involarci fra le tenebre, a guisa di contrabbandieri, e a celare i nostri propositi quasi fossero delitto.

La prova è difficile; il nemico che intendiamo assalire è forte di soldati stranieri e di cieca milizia propria: la provincia, io cui speriamo piantare la Bandiera Italiana, è abitata da gente buona ma ignorante, a cui forse si farà credere essere noi masnadieri, o pirati scesi al saccheggio. Forse ci toccherà d’essere accolti, come il drappello dei Bandiera, quali nemici dei nostri fratelli.

E sia pure! Poveri popolani, non abbiamo se non la vita da dare all'Italia, e di gran cuore l'offriamo. Accolga Dio il sacrificio e lo ponga sulle bilancie dei destini d’Italia.

Se l’impresa riesce, secondateci, fratelli di Genova. Non cedete a nessuno il vanto d’inalzare secondi lo Stendardo Italiano: fatelo sventolare sulla Lanterna, sui forti e sulle navi. Trasformate lo Stato Sardo in provincia italiana, e se il governo resiste, compite la trasformazione senza di lui e contro lui; le navi, le armi, i tesori e i figli di Genova, non ad una famiglia, ma all'Italia appartengono.

Se cadiamo, non ci piangete. Noi diciamo coi fratelli Bandiera: «la nostra morte sarà più utile alla causa italiana che non una vita sterilmente prolungata.»

Se non ci è dato più vedere le nostre Riviere bagnate dal mare, date una carezza d’affetto agli orfani bambini ch,e lasciamo fra voi: educateli nella religione della Patria: raccogliete la bandiera che, nel morire, ci sarà sfuggita di mano; e se — libera l’Italia dalle Alpi al mare— vi sovverrà dei morti fratelli, ergete allora — non prima — A COLOBO CHEPER LA PATRIA HANNO INCONTRATO LA MORTE, UNA TOMBA. Una tomba, in terra libera e per mani libere, consolerà le anime nostre.

VIVAL'ITALIA!

Genova, 12 luglio 1857.

PORRO DOMENICO DI LERICI. — BARBIERI LUIGI I d . — POGGI GAETANO I d . — POGGI FELICE I d . — FARIDONE CESARE I d . — MEDUBEI FRANCESCO I d . — GIANNONI LORENZO I d . — ROLLA DOMENICO I d . — MAZZONI DOMENICO DI ANCONA. — PERITOCI ACHILLE I d . — COBI CESARE I d . — OAMILUCCI GIOVANNI I d .

NOTE

(1)Oltre il Diritto—sinceramente liberale e italiano — l’Espero,l'Opinione,il Pontida,il Cittadinod’Asti,l'Ecodel le AlpiCozie,e gli altri diari governativi, gareggiavano nel «brontolareminaccie, profetizzando un torbido avvenire.» Vedi l’Italiae Popolo,dell'aprile 1856; e gli estratti, ivi recati, dei Giornalicontemporanei.

(2)Mazzini, LaBandiera della Nazione,p. 173 del Testo.

(3)«Narrammocome il conte di Cavour, tornato di Francia, si procacciasse ildestro d'invigorire gl'influssi egemoniaci del Piemonte, e disvegliare nella penisola una poderosa agitazione civile. Ma dato ch'egli ebbe arditamente il primo impulso, il sagace statista si poseall'opera del far procedere il moto tranquillo e ammisurato entrogli stretti termini dell'attuabile ne' mezzi e nel fine. » Storiadella Dipl. est. in Italia. vol. VII, p. 326.

(4)Ivi, Vol. cit.

(5)A pag. 191-97, del Testo.

(6)(1)Storia della Dip l .Vol.cit. capit. VI, § VI, pagina 226 e seguenti.

(7)Ivi cap. IX, p. 37273.

(8) Storiadella Dip l .Vol.cit. p. 329-30.

(9) Loc.cit.

(10) «...Se il Manifesto (di Manin) è ricevuto, Manin è capo: ilfederalismo è il programma comune: gli unitari si dichiaranosoddisfatti di un Corpo Italico simile al Corpo Germanico, conprincipi, duchi, re, e città anseatiche...» Sirtori,Lett.cit. a Mazzini.

(11)Ilmedico di Luigi' Napoleone, Conneau, amico un tempo di Mazzini,amico pur tuttavia dell’Italia in senso Napoleonico, era a partede' segreti, e ne parlava co’ suoi intimi; questi con chi neavvertiva Mazzini; il quale avea, inoltre, fonti di notizie esattesugli affari riservati della Diplomazia, fra' suoi amici inglesi,invigilanti la politica imperiale.

(12)N. Bianchi, Stor.c it .p.352353.

(13)Illungo ed operoso amore, con cui, durante il decennio susseguente al’49, fu nutrito, in Sicilia, il pensiero dell’unità nazionale,preparandola agli eventi del ’60, meriterebbe particolare notizia,che non m'èconsentita dallo spazio. Cooperarono constantementealnobile intento. Michele Amari, Francesco Crispi, ed altri generosifra i Siciliani, e, col Nestore de' patrioti italiani NicolaFabrizi, da Malta, gli amici, ch’ivi, e nelle segrete leghedell’isola, s’ispiravano alla sua fede e virtù.

(14) LaFarina,.Epistolario,Vol. secondo, Lettere del ’56 e del 57, in principio del volume.

(15) Ivi.La Farina era, in que' giorni, bramoso d’azione come Mazzini,giudicandola, come Lui, necessaria a salvare l’Italia davergognosa servitù e da funesti protettorati. Nell’aprile del’56, scriveva a Giuseppe Oddo, a Malta: Io sono stato finoracontrario ad ogni movimento, nella convinzione che i tempi non eranoopportuni. Ora però sono persuaso, che se noi lasceremo passarequest'anno, faremo un grande errore; perché da qui ad un anno chisa quali mutamenti potranno seguire nella politica europea. Animoadunque, e rimettiamoci all'opera con fede e con zelo.» E il 23novembre, a Vincenzo Cianciolo, a Genova: Venga il tempo del fare,ed allora tutti gli uomini che vogliono fare davvero, sarannoconcordi. Animo dunque, e pensate che la salute d’Italia puòdipendere da'primi cinquanta generosi, che osino levare la bandiera dellarivoluzione.» Pardi sentire Mazzini: ma se Mazzini faceva o li sollecitava a fare,tutti addosso! — Le incoerenze di La Farina e compagni, sonoottimamente giudicate, nell'Epistolario,da due lettere di Guerrazzi, a p. 53, e 59, del voi. cit.

(16)Epistolario,vol.Il, pagina 30 — Lettera di Ribotti a La Farina.

(17)Risposta di lord John Russell alla proposta francese d’interventomisto a Napoli, prima che Garibaldi passasse lo Stretto.

(18)La prima idea di una discesa nel napoletano fu suggerita da undisegno inglese, rimasto incompiuto, di liberare Settembrini e isuoi compagni di carcere a Ventotene. Panizzi, amico di Settembrini,avea raccolto, in Londra, una somma di circa 2,000 sterline, per lacompra di un battello a vapore da destinarsi all’impresa. Ilministro inglese a Torino, Sir James Hudson, ne parlò a Bertani;questi a Garibaldi, allora in Genova, e disposto a tentare il colpo.Giacomo Medici fu incaricato della compra del vapore,il quale, essendo di poca portatae fluviale, al passaggio dello stretto di Calais andò a fondo.Bertani insistette indarno per tentare la prova con mezzi maggiori,guardando alla liberazione de' prigionieri e del paese ad un tempo:ma non se ne fece altro. Pisacane fece suo il concetto lasciato amezzo da altri, volgendolo a più generale intento; d’onde laspedizione di Sapri.

(19) Inuna Relazione sui fatti di Genova del ’57, eh io devo allagentilezza di Giacomo Profumo, il quale ebbe parte in quei fatti, èdetto: «A Genova s’era formata, sino dal 1852, Un’Associazionedi patrioti borghesi pel Tiro al Bersaglio, capitanata da AntonioMosto, da Burlando, e dal professor Savi, direttore dell'Italiae Popolo. V’erano pure molte e fiorenti associazioni de' migliori giovanioperai, ma senza scopo politico ben determinato, e senza legamecolla borghesia. Per suggerimento di Quadrio, che trovavasi allorain Genova (185556), si formò un’associazione segreta fra glioperai, con intento decisamente politico, e n’erano capi Castelli(morto), i fratelli Casareto, Casacci a, ed io. Si formò altresì,fra la borghesia, un Comitato segreto (Giunta d’Azione), compostodei sunominati, Mosto, Stalloe Burlando, e di Mangici e Ramorino. Savi ne fu escluso perlasciarlo interamente alla Direzione del Giornale. Io era anellodi comunicazione fra l’uno e l’altro Comitato. Scopo d'entrambeera di prepararsi a provocare, o a sostenere ogni movimentoinsurrezionale che potesse sorgere in qualsiasi parte d’Italia.»

(20)La lotta del Diario Genovese contro tutto ciò che, dentro e fuori,batteva, insidiava, avviliva l'Italia, vorrebbe per sé sola unastoria. E Maurizio Quadrio fu, per vari anni, il più assiduocampione di quelle battaglie del pensiero. Il fiero Valtellinesenascosto la più parte del tempo ne' diversi rifugi che gliapprestavano gli amici, talora in qualche soffitta di poveri operai,povero anch'egli, indomito, austero, e pur riboccante d'affettigentili non dava mai tregua al campo nemico. Sotto il modesto velodell'anonimo, la sua parola interpretava la coscienza di tutto unpopolo. Mandavano di tanto in tanto opportuni scritti al Giornalevari esuli di parte nostra, fra cui, Luigi Pianciani, e FedericoCampanella, il quale ultimo, maneggiando a maraviglia l'arme delridicolo, imprimeva, con giocosa arguzia, nell'animo dei lettori, lepiù serie verità, e trafiggeva, scherzando, gli avversari. Vicollaboravano, in Genova, Bartolomeo Savi, ed altri; e vi faceva lesue prime armi, come scrittore, Alberto Mario, apparecchiandosi, frai giovani del tempo, colla prodezza dell'ingegno devoto alla patria,a quella volontaria milizia, ch' ebbe tanta parte nell'opera dellasua redenzione.

(21)Estratti di lettere di Mazzini del '56:

Ame: « Ebbi la tua. Come dici, i fati sono avversi. D'Italia, ciarleumbre e toscane, nelle quali non credo. Io, morointisichito ne ll’ anima.Pergiunta sono.. in crisi finanziaria più che noiosa. Ho bisogno discrivere: non so cosa, né per chi; poi abborro lo scrivere;preferirei trovar da ricopiare, tradurre, collazionare, lavoromeccanico — non di pensiero....»

Ap. 318 del Testo, nello scritto LaSituazione,dice «grido ai ricchi d'Italia, date, perch'io ho dato, sì chepoco m' avanza da dare. »

(22) Ame, da Londra, il 21 novembre ’56: «... Gl'inglesi non hannobisogno che loro si provi che siamo malcontenti: lo sanno. E inoltrenon v'è che da citare i passi delle Conferenze, i brani de' discorsi ministeriali alla Camera qui, etc... L’importante è dichiarire le idee su ciò che vogliamo: una Patria. Vogliamo esserNazione — e importa discutere la questione Piemontese, unica chenon intendano: dichiarare che non ci preme d essere governati un po’meglio, a brani: non cerchiamo panemet circense —miriamo più alto: esser Nazione e rovesciare il Papato.»

(23) Apersona amica, da Genova, 27 ottobre ’56: «Nonvi risposi, perché davvero navigo in acque tali da prender tempo,lena e tutto a un povero diavolo che comincia a sentirsi spossato.Ma vi fui gratissimo delle vostre linee; e penso sovente a voi e avoi tutti…Odo che Remeny(esule ungarese, e celebre suonatore di violino) è tornato almondo, e la sorella vostra mi scrive che dura nel pensiero dieseguire la promessa (di un concerto per la Causa d’Italia).Ditegli da parte mia quanto può rafforzarvelo. Non creda gl'indugiprova d’impossibilità: vogliamo fare, e faremo per Dio, se nonmuoio o non mi cacciano in Alessandria. Ma ho bisogno, come alloragli diceva, d'aiuto; ed è veramente un errore colpevole quello chefa ch’io, mentre tutti convengono che il ridestarsi dellenazionalità è in nostre mani, sia lasciato solo a tentarlo, senzaaiuto finanziario da un solo Ungarese, Polacco o Tedesco. Predichidunque e suoni»… «Eroarrabbiato con Aurelio per un’ultima lettera che mi scriveva,tutta letterata, scettica, alla Leopardi: ditegli, che il suo prontoaccettare la proposta della Commissione (degli Amicid’Italiaper le Letture e i Comizi da essi promossi sulla questione italianaetc, )mi ha riconciliato.Quanto alle sue Letture scriverò a lui stesso. Non ho bisogno didirvi, fate quanto potete per aiutare il moto a favoredell'E mancipationof It aly ,E mio interamente: ho bisogno assoluto d'aiuto finanziario pel Iodicembre,aiutate adunque. Il fratello si dichiara entusiasta di Palmerston;Dio lo benedica! non vorrei che dimenticasse, che l'Austria statuttavia solanei Principati...»

(24)Sul movimento dell’opinione inglese in favore della Causaitaliana, e sull'indirizzo dato al medesimo, d’accordo con noi,dalla Societàdegli Amici d'Italia,vedi nell’Appendice A, la lettera di G. Stansfeld al Timesaproposito della mia risposta all’invito delle Letture.

(25) MissJessie Meriton White, oggi moglie di Alberto Mario.

(26) Dopoi fatti di Genova.... «Una donna straniera, la cui devozione allacausa Nazionale Italiana dovrebbe fare arrossire ogni Italiano chela sa trattenuta in carcere da un Governo nostro, fu derisa,calunniata da parecchi giornali di Torino, e la Gazzettadel Popoloinsinuò che si sarebbe dovuta trasportare condue ditaalla frontiera.» Mazzini,a p. 263 del Testo.

(27)Traggo questi particolari della vigilia della spedizione da unaMemoriainedita di Giovanni Gagliani,di Milano, uno de' seguaci di Pisacane, da lui scritta, nelcarcere, alla madre di due suoi compagni, la signora Odile Poggi. Leparole riportate qui sopra furono dirette da Pisacane a lui eall’amico suo, Carlo Rota di Monza. È mio intendimento dipubblicare per intero, nel Giornale IlDovere,questo documento pieno d’affetto, e importante come ricordostorico, insieme ad alcuni cenni di Giovanni Nicotera sugli ultimimomenti di Pisacane. Ambedue questi documenti narrano i fattianteriori al processo, e i trattamenti (quello del Gagliani inparticolare) sostenuti in carcere: ma non parlano de' procedimentigiudiziari, se non quanto ai risultati finali.

(28)Relazione Profumo, citata più sopra.

(29)Eccone i nomi:

CarloPisacane — Giovanni Nicotera — Giovanni Battista Falcone —Luigi Barbini, di Lerici — Gaetano Poggi, id. — Felice Poggi,id. — Cesare Faridoni, id. — Domenico Porro, id. —FrancescoMedusei, id. —Lorenzo Giannoni, id. —Domenico Rolla, id. —Giovanni Gagliani, di Milano — Amilcare Bonomi,id. — Giovanni Sala, id. — Carlo Reta, di Monza Achille Perucci,di Ancona Domenico Mazzoni, id. — GiovanniCamilucci, id. - Cesare Cori, id. Giuseppe Sant'Andrea, di CastelBolognese Federico Foschini, di Lugo — Lodovico conte Negroni, diOrvieto — Giuseppe Mercurio, di Subiaco— GiuseppeFaelli, di Parma Clemente Conti, di Faenza— PietroRusconi, di Treviglio (Prov. di Bergamo).

VediAppendice B. — Dichiarazione de' Marinai Liguri e Anconitanisaliti sul Cagliari.

(30)Relazione citata.

(31)I particolari che seguono, sono tratti, quasi letteralmente dallaRelazione Profumo, e, in alcuni punti, dalle mie rimembranze di ciòche n’udii da Mazzini, e recentemente, in Genova, da FeliceDagnino, Casareto, Martini ed altri, ch'ebbero parte ne’ fatti.

(32)Se pure qualche istruzione mia, o d'altri, è caduta elemento diprocesso, ogni uomo potrà chiarirsi che s’insisteva per questo:non violenze; i soldati piemontesi sono italiani, che bisognaconquistare alla patria comune.... Le ultime linee ch’io scrissiprima della sera del 29 farebbero arrossire, se apparissero mai nelprocessò, parecchi tra i calunniatori. LaSituazione,p. 265.

(33)E solo all'ultim'ora il che sembra indubitato. De' sospetti checorsero sulla sorgente delle informazioni, come non accertati daprove positive, è debito non tener conto né far ricordo.

(34)Fra questi, Miss White su ricordata, dopo due mesi di carcere; ned'altro colpevole che d'aver propugnato, nel suo paese, la causad'Italia, in nome, non della monarchia piemontese, ma della Nazioneitaliana. Vedi, nel num. 289 dell'Italiadel Popoloanno 1857, i documenti da lei comunicati a Giacomo Stanfeld sullasua prigionia, e sui procedimenti delle autorità sarde in que’giorni.

(35)Figlia di Carlotta Benettini. Quest’ultima, morta tre anniaddietro, ha lasciato nobile ricordo di sé, fra i popolani diGenova, pel suo amor patrio, per la sua virtù e costanza ne’sacrifici fatti e ne’ servigi resi alla Causa del paese, e per lasua devozione a Mazzini, che fu sovente ospite in casa sua, durantele sue visite segrete alla città nativa.

(36)Queste linee erano scritte, quando fu mossa alla fama de' fattipatriotici di Giovanni Nicotera la guerra che tutti sanno, né horagione di mutarne oggi sillaba. Nicotera può aver trasceso — perla febbre di dolore e d’ira che gli ardeva dentro — Parlandosdegnosamente durante il processo, de' fautori di Murat,che tutti i veri italiani consideravano, in que’ giorni, traditoridel loro paese e peggio che stranieri, ma non voluto consciamentefarsi delatore pur de' nemici. Ed era suo dovere il rivendicare,come fece, il carattere italianoed unitariodella spedizione. Lo schizzar fango e veleno sulle più forti paginedel martirio nazionale, è profanazione degna ai chi non ebbe mai onon ha in core la patria. Io parlo qui del Nicotera di Roma, diSapri, e di Favignana, non del Ministro. Il patriota sepperesistere, impavido, al pericolo della morte: l’uomo politicocedette al romore e alle lusinghe della vita.

(37)Collo scritto «La Situazione,» pagina 261 e seguenti del Testo.

(38)«Lettera ai Giudici nel processo pei fatti del 29 giugno» pagina342 e seguenti.

(39)Scritto cit. p. 263-66.

(40) «Genova,ei diceva coi suoi intimi, ha nel suo seno il cavallo di Troia. In quella città vi è uno stato di cose capace di comprometteregravemente il Governo Sardo… Ove, in tempo utile, non provvegga atagliar il filo che annoda le varie macchinazioni settariche operative in Genova, l’Italia andrà sossopra.» N. Bianchi, Stor.etc. voi.cit. p. 382. Dopo i fatti del giugno, dopo gli encomi tributati davari diari liguri e piemontesi, anche di parte moderata, comel'Espero,allasentenza assolutoria della Corte d'appello di Torino, sopra alcunepoesie pubblicate in onore di Agesilao Milano, e dopo l'attentato aiOrsini, le doglianze del governo imperiale contro la stampa, controla magistratura, contro la polizia dello Stato Sardo, (È venneropiù gravi. Il protettorato Napoleonico minacciava di convertirsi inbalìa assoluta. Cavour attenuò l’importanza del moto genovese, ne’ suoi dispacci a Villa marina; resistette alle pretese controla stampa (Bianchi, p. 395); protestò che né re, né ministricederebbero ad esigenze di reazione contro gli ordini costituzionalidello Stato (p. 399). Nondimeno la polizia francese padroneggiava lapolizia sarda, addottrinandola nel mestiere, con segreti agentiinviati ad assisterla; i sequestri rendevano illusoria la libertàdella stampa; e i rifugiati italiani, esclusi dalla legge comune interra italiana, erano fatti ludibrio al più sfrenato arbitrio. Lacosa andò tant'oltrecontro que’ poveri Iloti, che parecchi fra gli esuli piùautorevoli, d’ogni opinione, accordatisi con Agostino Bertani,protestarono energicamente in nome dell’umanità, della giustiziae dell’onor del paese, e mossero rimostranza ai ministri, chepromisero più mite trattamento all’emigrazione. Vedi, nel N° 229dell'Italiadel Popolo(an.1857),la nobile lettera del Bertani in proposito, insieme al documento,con cui uomini nati in Italia chiedevano a governo italiano ilrispetto di quel diritto di asilo, che l’Inghilterra manteneva, inque’ medesimi giorni, inviolato a' proscritti stranieri, checercavano rifugio in essa dalle persecuzioni de' loro governi.

(41)Smentite dagli stessi ministri in Parlamento.

(42)Ausonio Franchi, fra gli altri. LaSituazione,p. 271.

(43) Ivi, p. 289-291.

(44)«Ione so,» parla de' ricchi fra i patrioti, che perdettero figli,fratelli, o padri, nelle nostre battaglie... Come possano ritrarsitranquilli la sera nelle loro stanze, e giacere, senza che i pallidivolti d'uomini che s’ assisero a mensa, o a colloqui amichevolicon essi, e morirono poi di laccio, di piombo, o suicidi comeRuffini e Pezzoti, s’ affaccino ne’ loro sogni a suscitarenell’anima loro la coscienza ch'essi hanno i mezzi di liberare ilpaese, e non ne usano, m'è arcano… A me quelle sembianze passanoinnanzi ne’ sogni inquieti, e rinfiammano la mia passione dipatria e, il proposito di dir pace a quell'anime sante, econsacrarvi, fino all'ultimo giorno, pensieri, parole ed opere...»ivi, p. 31718.

(45) La Causa d’Italia è realtà tremenda e solenne: tremenda, perché ogni anno, e più sempre frequentemente, si muore per essa: solenne, perché è decretato che debba vincere. Tra queste due certezze, l’inerzia, in chi si dice patriota, è delitto. Ogni vita che si spegno dovrebbe creare un rimorso in chi puì accelerar la vittoria, e noi fa.» Ivi, p. 318.

(46)Vedi, intorno a ciò che qui si accenna in compendio, i capitoliIII,IV eV, dello scritto cit.

(47)Ivi, cap. IX, p. 332 e seg.

(48)D'onde il dualismotra Piemonte e Italia, deplorato in più luoghi del presente volume,e combattuto con ogni sua possa da Mazzini.

(49)La Situazione,» p. 310.

(50)L’accusa incolpava gl'imputati «d'avere, con direzioni,eccitamenti ed atti di esecuzione, preso parte alla cospirazione,che si tentò di porre in atto la sera del 29 giugno.... del qualeattentato erascopo cambiare e distruggere il governo legittimo dello Stato, esostituirne altro —reati previsti dagli articoli 185 e seguenti del Codice Penale.

(51)«Lettera ai Giudici,» in principio, p. 342 del Testo.

(52)Ivi, ultime parole della Lettera.

(53) Il pubblico dibattimento cominciò il 4 febbraio 1858. Accusatorpubblico, Luca Galiani — Corte d'Appello composta del presidente Murialdo e dei ConsiglieriVassallo, Parodi, Mangini, Crocco e Morelli, e dei Consiglierisupplenti Amaretti e Figari. Avvocati difensori: Cabella, Bozzo Andrea e Pantaleo, Tofano,Leveroni, Zuppetta, Carcassi, Castagnola, Celesia, Boldrini,Merialdi, Bruzzo, Gianelli, Castiglione, Ronco, Cavagnaro, Parodi,Cavagnino, Romagnoli, Molfino, Chiodo, Maurizio. Il 21 marzo,l'accusatore pubblico chiede dodici teste, quelle cioè di Mazzini,d' Ignazio Pittaluga, di Antonio Mosto, di Mangini, di G. B.Casareto e di Lastrico, contumaci: di Moro, di Deoberti, diSanguineti, di Canepa, di Banchero e di Ricchiardi, presenti. Ilavori forzati a vita per Oliva, Taschini, e Bolgiano. ― 20 annidi lavori forzati per G. B. Capurro, non ancora diciottenneimputati.

Ela Corte d'Appello sentenziò: — a morte, Mazzini, Mosto, Mangini,Casareto, Lastrico e Ignazio Pittaluga, contumaci: — a 20 anni dilavori forzati, Antonio Pittaluga, Figari, e Rebisso,contumaci; Moro, Deoberti, Sanguineti, Oanepa, Rancherò eRicchiardi, presenti: — a 13 anni id. Marchesi: —a 12,Battitore, Armellini, e Agostino Castelli, contumaci; Stallaggi,Canale, Oliva e Taschini, presenti: — a 10 anni, Stallo,Castello Domenico e Stefano, Giacomo Profumo, Pedemonte, Tassare eRoggero, contumaci; Savi (Direttore dell'Italiae Popolò),Demartini e Devalasco, presenti: — a 7 anni, Capurro G. B. minored'anni 18.

(54)La maggior parte de' condannati di Genova accorsero, primi, com’ènoto, dal carcere ai campi delle patrie battaglie, e fecero partedella spedizione dei Mille.

(55)Mazzini.


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CARLO PISACANE Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma

1855

La quistione napolitana Ferdinando di Borbone e Luciano Murat

1855

ITALIA E POPOLO giornale politico Pisacane murattisti

1856

Italia e Popolo - Giornale Politico N. 223 Murat e i Borboni

1856

L'Unita italiana e Luciano Murat re di Napoli

1856

ITALIA E POPOLO - I 10 mila fucili

1856

Situation politique de angleterre et sa conduite machiavelique

1857

La Ragione - foglio ebdomadario - diretto da Ausonio Franchi

1857

GIUSEPPE MAZZINI La situazione Carlo Pisacane

1857

ATTO DI ACCUSA proposta procuratore corte criminale 2023

1857

INTENDENZA GENERALE Real Marina contro compagnia RUBATTINI

1858

Documenti diplomatici relativi alla cattura del Cagliari - Camera dei Deputati - Sessione 1857-58

1858

Difesa del Cagliari presso la Commissione delle Prede e de' Naufragi

1858

Domenico Ventimiglia - La quistione del Cagliari e la stampa piemontese

1858

ANNUAIRE DES DEUX MONDES – Histoire générale des divers états

1858

GAZZETTA LETTERARIA - L’impresa di Sapri

1858

LA BILANCIA - Napoli e Piemonte

1858

Documenti ufficiali della corrispondenza di S. M. Siciliana con S. M. Britannica

1858

Esame ed esposizione de' pareri de' Consiglieri della corona inglese sullaquestione del Cagliari

1858

Ferdinando Starace - Esame critico della difesa del Cagliari

1858

Sulla legalità della cattura del Cagliari - Risposta dell'avvocato FerdinandoStarace al signor Roberto Phillimore

1858

The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

1858

Ricordi su Carlo Pisacane per Giuseppe Mazzini

1858

CARLO PISACANE - Saggi storici politici militari sull'Italia

1859

RIVISTA CONTEMPORANEA - Carlo Pisacane e le sue opere postume

1860

POLITECNICO PISACANE esercito lombardo

1861

LOMBROSO 03 Storia di dodici anni narrata al popolo (Vol. 3)

1862

Raccolta dei trattati e delle convenzioni commerciali in vigore tra l'Italia egli stati stranieri

1863

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1863

Giacomo Racioppi - La spedizione di Carlo Pisacane a Sapri con documenti inediti

1864

NICOLA FABRIZJ - La spedizione di Sapri e il comitato di Napoli (relazione a Garibaldi)

1866

Giuseppe Castiglione - Martirio e Libert࠭ Racconti storici di un parroco dicampagna (XXXVIII-XL)

1868

Vincenzo De Leo - Un episodio sullo sbarco di Carlo Pisacane in Ponza

1869

Leopoldo Perez De Vera - La Repubblica - Venti dialoghi politico-popolari

1872

BELVIGLIERI - Storia d'Italia dal 1814 al 1866 - CAP. XXVII

1873

Atti del ParlamentoItaliano - Sessionedel 1871-72

1876

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1876

Gazzetta d'Italia n.307 - Autobiografia di Giovanni Nicotera

1876

F. Palleschi - Giovanni Nicotera e i fatti Sapri - Risposta alla Gazzettad'Italia

1876

L. D. Foschini - Processo Nicotera-Gazzetta d'Italia

1877

Gaetano Fischetti - Cenno storico della invasione dei liberali in Sapri del 1857

1877

Luigi de Monte - Cronaca del comitato segreto di Napoli su la spedizione di Sapri

1877

AURELIO SAFFI Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini (Vol. 9)

1878

PISACANE vita discorsi parlamentari di Giovanni Nicotera

1880

Telesforo Sarti - Rappresentanti del Piemonte e d'Italia - Giovanni Nicotera

1883

Giovanni Faldella - Salita a Montecitorio - Dai fratelli Bandiera alladissidenza - Cronaca di Cinbro

1885

Antonio Pizzolorusso - I martiri per la libertࠩtaliana della provincia diSalerno dall'anno 1820 al 1857

1886

JESSIE WHITE MARIO Della vita di Giuseppe Mazzini

1886

MATTEO MAURO Biografia di Giovanni Nicotera

1888

LA REVUE SOCIALISTE - Charles Pisacane conjuré italien

1889

FRANCESCO BERTOLINI - Storia del Risorgimento – L’eccidio di Pisacane

1889

BERTOLINI MATANNA Storia risorgimento italiano PISACANE

1891

Decio Albini - La spedizione di Sapri e la provincia di Basilicata

1893

L'ILLUSTRAZIONE POPOLARE - Le memorie di Rosolino Pilo

1893

 MICHELE LACAVA nuova luce sullo sbarco di Sapri

1894

Napoleone Colajanni - Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane

1905

RIVISTA POPOLARE - Spedizione di Carlo Pisacane e i moti di Genova

1895

Carlo Tivaroni - Storia critica del risorgimento italiano (cap-VI)

1899

PAOLUCCI ROSOLINO PILO memorie e documenti archivio storico siciliano

1901

GIUSEPPE RENSI Introduzione PISACANE Ordinamento costituzione milizie italiane

1901

Rivista di Roma lettere inedite Pisacane Mazzini spedizione Sapri

1904

LUIGI FABBRI Carlo Pisacane vita opere azione rivoluzionaria

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Giudizi d’un esule su figure e fatti del Risorgimento

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Lettera di Carlo Cattaneo a Carlo Pisacane

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - I tentativi per far evadere Luigi Settembrini

1911

RISORGIMENTO ITALIANO - La spedizione di Sapri narrata dal capitano Daneri

1912

 MATTEO MAZZIOTTI reazione borbonica regno di Napoli

1914

RISORGIMENTO ITALIANO - Nuovi Documenti sulla spedizione di Sapri

1919

ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

1923

MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

1927

NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano





Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)















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