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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

L'UNITÀ ITALIANA E LUCIANO MURAT RE DI NAPOLI

Seconda Edizione arricchita da una appendice

TORINO 1856

TIPOGRAFIA ECONOMICA DIRETTA DA BARERA

Via della Posta, num. 1

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AVVERTENZA

Quest’opuscolo è dettato con le intenzioni ed il fermo proponimento di sostenere un principio, e di tenersi lontano da ogni attacco personale contro coloro che propugnano il trionfo dì altre idee. Tutte le parole, dalla prima all’ultima, debbono intendersi così e non altrimenti; e se ve ne ha alcuna che mostri di avere un senso opposto, vien fin d’ora ritrattata. L’autore, che non è poi cosi testardo e cocciuto, come lo si vuol dar a credere, si è messo di buonissima voglia a leggere e rileggere Io scritto del signor La Farina. Per quanto gli è sembrato, esso non contiene nulla di nuovo; in maniera che 'l’antica sua fede nel risorgimento d’Italia con Luciano Murai e Vittorio Emmanuele, anziché rimanere scossa o indebolita per questa lettura, si è più saldamente afforzata e rinvigorita. Tutto ciò che dice il signor La Farina era stato anche detto e ridetto da altri a sazietà, e senza profitto, perocché le file dei Muratiani, invece di diradarsi, si sono considerevolmente ingrossate con la conversione di moltissimi, i quali, pochi mesi addietro, tenevano una opposta sentenza. V’ha però un pregio nello scritto del signor La Farina, che lo distingue dagli altri combattenti suoi correligionari. Questi, nel sostenere la loro tesi, principalmente si appoggiavano ad un argomento, che è il più fiacco ed il più ridevole, cioè che Luciano Murai sia uno straniero nel proprio paese; ed il La Farina ha creduto bene di non dovere adoprare quest’arma, che è proprio il telum imbelle, et sine ictu. Ciò onora il suo ingegno, e noi glielo dichiariamo per debito di giustizia. Ripensando meglio sulla cosa, il signor La Farina si accorgerà pure che le altre sue ragioni, più speciose che reali, spiombano a dritta e a manca, ed egli, uomo di cervello forse..... Ma lasciamo che il tempo, che è galantuomo, faccia il resto.

SECONDA EDIZIONE ARRICCHITA DA UNA APPENDICE

Il signor Giuseppe La Farina, siciliano, ha pubblicato negli scorsi giorni un opuscoletto di setto pagine in circa, col titolo: Murat e l’unità italiana. La stampa periodica piemontese ci ha badato poco o nulla, e può dirsi che la cosa sia passata in perfetto silenzio, se pure se n’eccettui un articolò nel Risorgimento, dell’avv. F. Poletti, che con buoni e sodi argomenti prende a combattere il La Farina nella parte più vitate della quistione da lui sostenuta.

L’obbietto poi dell’opuscolo, cui ora rispondiamo, si è di provare

1° che Murat a, Napoli non iscioglierebbe nessuna delle difficoltà esistenti, né quella della indipendenza, né quella dell’unità, né quella della libertà, ma invece creerebbe nuove divisioni interne e nuove influenze straniere;

2° che per ultimo l’unità d’Italia con Vittorio Emmanuele sia l’unica soluzione onorevole ed onesta, alla quale deve aspirare ogni buono Italiano. .

L’autore, per raggiungere con più agevolezza il suo intento, ci fa sapere che i Muratiani, a parlar con rigore, non formano un partito politico propriamente detto; che di essi non ve ne ha uno solo a Napoli ed in tutto il Regno; e che insomma questa sua predichetta, a quel che pare, è scritta unicamente così per passatempo, o per dar sulla voce a quattro o cinque scapati dell'emigrazione napolitana, i quali, non avendo, come lui e compagni, anima di forte tempra per resistere ai dolori ed alle privazioni dell’esilio, o peggio ancora, essendo cortigiani di principi, pedissequi o parassiti di ministri, questuanti di impieghi, di ufficii, di pensioni e di croci, si sono raccolti sotto la bandiera di un pretendente!

Ora noi, nulla curandoci delle ingiurie dirette od indirette che ci si scagliano sul viso, e che certo sono la condanna irrevocabile di chi le profferisce o le stampa, e del partito ch’egli rappresenta o crede di rappresentare, ci studieremo di mettere in piena evidenza

1° che l’avvenimento di Luciano Murat al trono delle Due Sicilie, nelle contingenze in cui versa l’Europa, è un fatto possibile, naturale, necessario, soprattutto perché la Francia e l’Inghilterra non vi si oppóngono, né vi si possono opporre;

2° che questo medesimo fatto è conforme ai patriotici desiderii degli uomini di onore e sinceramente italiani; giova pure agl’interessi del Piemonte, assicurandone e consolidandone le istituzioni costituzionali; e però deve riguardarsi come un vero benefizio per la salvezza di Napoli, la libertà e l’indipendenza d’Italia.

I. — L’avvenimento di Luciano Murat al trono delle Due Sicilie, nelle contingenze in cui tersa l’Europa, è un fatto possibile, naturale, necessario, soprattutto perché la Francia e l’Inghilterra non vi si oppongono, né vi si possono opporre.

Il signor La Farina afferma, che la ristaurazione del figliuolo di Gioacchino Murat sul trono di Napoli sarebbe agevole, se la Francia e l’Inghilterra vi mettesser le mani. La concessione, a qualche pare, è assai larga. Noi Muratjani ci contentiamo di meno: ci basta che le due grandi potenze occidentali non l’avversassero, e per ragioni che tutti intendono, la cosa andrà da sé. Il loro intervento non è né richiesto, né necessario, comunque ci sembri e legittimo e desiderabile, perocché noi consideriamo Ferdinando II e i suoi satelliti come fossero i pirati del Riff, messi fuori la legge, e contro cui, tutte le armi sono buone e giuste. Oltracciò la quistione napolitana, più che quistione politica, è quistione di umanità e di giustizia, ed il diritto pubblico positivo che regola i rapporti delle nazioni civili non ha guarentigie per un’orda di manigoldi e di ladroni, che oscenamente prende nome di governo napolitano.

Ma Francia ed Inghilterra potrebbero o vorrebbero attraversare od impedire in un modo qualunque l’avvenimento di Murat al Regno? Nessun uomo di buon senso saprebbe affermarlo. La Casa de' Borboni di Napoli è incompatibile col riposo, e diremo ancora coll’onore dell'Italia e dell’Europa. Tutto essa ha fatto, tutto essa fa per i perdersi, e si perderà di certo. Forse l’ultimo suo giorno non è Lontano. Che cosa, per esempio, vi guadagnerebbe Luigi Napoleone a tenerla in piedi? Egli, rammentiamolo bene, è l’erede di COLUI che dal campo di Schönbrunn, altiero di vittoria e caldo di vendetta, scrivea in un proclama queste memorande parole: LA CASA DEI BORBONI DI NAPOLI HA CESSATO DI REGNARE.

La perfidia, la crudeltà, i tradimenti, gli spergiuri, le iniquità di Ferdinando I, di Francesco I e Ferdinando II, che ha vinto il padre e l’avo, e che è pure l’eterno ed irreconciliabile nemico de' Bonaparte, sarebbero e sono per se sole potenti cagioni a disfarne per sempre sino il nome abborrito a tutti.

Il trattato di Vienna, com’è già noto, restituì i Borboni nella reggia partenopea. Di quel trattalo non dovrà restare una sillaba sola. La vera missione dell’imperatore è questa. S’egli non la compie, sarà perduto e per sempre con tutt’i suoi. Ma l’imperatore, grazie al cielo, sta bene in cervello, e adempie scrupolosamente ai suoi impegni. L’impero, non v’ha dubbio, è la pace, ma nel senso che dovrà distruggere combattendo tutti gli elementi della guerra. Per ora i primi colpi son toccati alla Russia, battuta ed umiliata nel mar Nero, e nella Crimea. Domani verrà la sua volta per l’Austria. Infatti la quistione napolitana è il principio della fine.

L'Austria sel sa, e sente mancarsi il terreno sotto i piedi in Italia al solo sospetto che Luciano Murat possa riguadagnare il trono del padre. Perchè mai ella si. mostra così irrequieta ed agitata? Che cosa è che tanto l'impaurisce? Sono forse i conati generosi ed impotenti de' mazziniani che le turbano i sonni?. Sono forse le minaccie degli unitarii colle loro fantastiche rivoluzioni ed insurrezioni che la spaventano? Niente di tutto questo.

L’Austria non ha nulla dà perdere coi mazziniani, la cui dissennatezza spesso le fornisce occasioni e pretesti per incrudelire di più contro gl’indomiti Lombardi, o meglio ribadirne le pesanti catene. L’Austria non ha nulla da temere dagli unitarii, in gran parte mazziniani rinnegati anch’essi, è che, come suoi dirsi, non sono né anche buoni ad unire tre pallottole in un bacino.

No. Lo sgomento dell’Austria non sono i sogni o le fantasie di quattro rompicolli, che ci parlano di patriotismo e d’Italia a tutto pasto, e che se fosse in poter loro ne perpetuerebbero i mali e le sventure. Lo sgomento dell’Austria sono gli eserciti riuniti del Piemonte e di Napoli, che le daranno l'ultimo colpo per salvare una volta i destini della patria nostra. E gli eserciti di Piemonte e di Napoli, ammenoché non voglia aspettarsi la fine de' secoli non potranno riunirli e raccoglierli sotto la bandiera italiana che i capi di due governi federati italiani, Vittorio Emanuele e Luciano Murat. Gli arcadi della nostra politica, le grandi teste quadre che non mancano dal Lilibeo alle Alpi, lo sappiamo, straluneranno gli occhi a queste nostre parole, daranno pure in escandescenze, faranno i diavoli e peggio. Né per questo noi ci commuoveremo: né per questo verrà impedito o indugiato il corso de' grandi avvenimenti, che sono già prossimi a compiersi, e che, volere o non volere, si compiranno in un tempo più o meno lontano.

E l’Inghilterra ha forse propositi diversi dalla Francia? Vediamolo. Taluni che rimasero estranei—al movimento ed al progresso delle idee e della civiltà, 0 non ne compresero lo spirito e la sostanza, cadono in errori assai grossolani, quando si fanno a giudicar l’Inghilterra di oggi come la si giudicherebbe 40 anni addietro. Sono de' poeti che non badano troppo agli. anacronismi, e però oggi, come 40 anni addietro, ripetono al modo de' pappagalli gli stessi spropositi e le stesse ingiurie contro la perfida Albione! Essi non sanno che, proclamandosi e praticandosi sul Tamigi il principio del libero scambio, la perfida Albione di una volta è divenuta, nel suo interesse bene inteso, l’amica sincera e leale de' popoli,, a qualunque razza essi appartenghino, sotto qualunque zona essi vivano. Non neghiamo che ora, come il per lo passato, è la legge dell'utilità cui ella ubbidisce, ma per buona fortuna questa medesima j légge, come la s'intende e la si applica da quel I savio governo, trovasi in perfetto accordo con la legge della giustizia, o meglio, con la legge della fratellanza e dell’amore di tutto il genere umano.

Ciò che muove l’Inghilterra, lo sanno sino i bimbi, non è l’ambizione di allargare ed estendere i suoi domini con la conquista. Possiede troppo,anzi più. del troppo. Invece le sue cure son tutte rivolte ad aprir nuovi ed utili sbocchi alle sue immense produzioni nelle varie parti del mondo, e con la libertà economica introdurvi pure e stabilirvi la libertà politica, di cui l’una mai non si scompagna dall'altra. Così ella si comporta nell’india, nel Canada, nel New-Brunswich, nella Nuova Zelanda, nella Giamaica, nella Guiana inglese nella Trinità, ecc., ed insomma da per tutto ove può sventolare il suo vessillo. Così è che le viene e le cresce forza, potenza e gloria.

Sembranti adunque vaniloquii da balordi quelli che sovente ci si ripetono da certi cotali politicastri da dozzina, che tanto abbondano in mezzo a noi, cioè che,' in una possibile conflagrazione di cose, l’Inghilterra disegni impadronirsi di questo è quel sito, di questa o quella parte d’Italia. Quando invece l’Inghilterra non può, né deve volere in Italia e fuori che popoli liberi ed istituzioni liberali, perché è con le nazioni libere e civili ch’ella fa i suoi traffichi maggiori, è in mezzo ad esse che il Suo commercio vieppiù si allarga, si sviluppa e le procura prosperità e ricchezza.

E giacché la storia, come dice il signor La Farina, deve servirti a qualche cosa, gioviamocene pel caso nostro. Consultiamola nella parte riguardante le statistiche doganali, e vediamo di attingervi qualche utile ammaestramento. Or bene, la verità che per noi si afferma, trova un riscontro eloquente nelle cifre numeriche ed inflessibili di quelle stesse statistiche, le quali, ei provano sino all’evidenza, che l’Inghilterra, guadagna molto più ora con gli Stati Uniti di America, che quando questi medesimi Stati si trovavano sotto la sua dipendenza, e provano pure che l’Alemagna, la Francia, il Belgio sono il vero mercato de' prodotti inglesi. Imperciocché le esportazioni della Gran Bretagna per le città Anseatiche, le quali costituiscono i depositi del suo commercio con l’Alemagna, sono quasi uguali da sé sole a quelle che fa nelle Indie, dove ella regna da sovrana sopra circa cento milioni di sudditi. Oltracciò E ammontare de' prodotti esportati per l'Alemagna pochi anni addietro elevossi a 158,155,250 franchi, mentre per le Indie Orientali appena ascese a franchi 160,861,410. Ed è cosi pure che la Francia riceve dall’Inghilterra tanti prodotti, quanti questa ne spedisce in tutte le colonie delle Indie Occidentali. E così che l’Olanda ne riceve una quantità la quale supera di pressoché sette milioni la somma de valori inviati dall’Inghilterra nella grande colonia del nord dell’America. E così che le esportazioni per la Turchia superano quelle de' possedimenti dell’Australia. Ed è così, infine, che Sappiamo che nell’anno 1846, sopra 1444 milioni di esportazione di prodotti fabbricati, ve ne furono 666 per l’Europa, 415 pei paesi fuori d’Europa, 160 per l’india Britannica e 203 per le diverse colonie, inglesi. Questi sono dati positivi e concreti, è senza elevarsi sino alle nuvole, ognuno che abbia un tantin di sale nella zucca, è al caso di comprepderli e valutarli. — Date libero il passo alla inglese marina mercantile, apritele i vostri porti, i vostri. mercati,'le vostre piazze, fate insomma che la circolazione sia liberale spedita da tutti quegl’impacci, da tutte quelle noie infinite, onde lo spirito poliziesco de' paesi governali dispoticamente si piace impedirla od annientarla, e l’Inghilterra. sarà la vostra amica, la vostra alleata più sicura. Guai se camminate per un» via diversa!

Ora, domandiamo noi, quali sono i rapporti commerciali tra Napoli e l’Inghilterra? Il Regno delle Due Sicilie, che la natura ha privilegiato di tutti i doni suoi, circondato da tre mari, così ricco, così portuoso, in certa guisa trovasi fuori il consorzio delle, nazioni. Ivi i produttori non vendono e non comprano liberamente, e l’arbitrio ed il capriccio di chi li tiene sotto duri, pesi, ora vi permette l’esportazione o l’importazione di questo o quel genere, di questa o quella derrata, ed ora la impedisce, e così rovina e scompiglia qualunque intrapresa industriale, e gitta pure lo sgomento fin tra gli speculatori più arditi.

La civiltà presente muove guerra alle barriere doganali, e a quanto insomma si pone come ostacolo all’andar rapido de' carri e delle merci da un punto all’altro del continente; ed il governo napolitano lavora in un senso opposto. Ivi non strade di ferro, ivi non vie rotabili; le cose, in conseguenza, sono immobili, e gli uomini pure, per le difficoltà della locomozione e gl’impedimenti di una politica ombrosa e. piena di sospetti e. di paure, si trovan chiusi e come bloccati ne’ loro piccoli paeselli, quasi. Ignoti gli uni agli altri, senza che neanche gli uniscano le relazioni epistolarie perocché la posta si trascina zoppicando per balze e dirupi, viaggia a tardissime tappe, e si richiedono non meno che sette giorni di cammino per una lettera da Reggio di Calabria alla capitale!

La Sicilia, questa Conca d’oro del Mediterraneo, spremuta da' tasse e balzelli di ogni maniera, messa a sacco e a ruba, da tutti quei feroci ed ingordi proconsoli che rappresentano il re a Palermo, trovasi pure in condizioni essai peggiori delle provincie continentali. L'alito del dispotismo, come il vento del deserto, vi ha disseccata ogni cosa. Iddio avea creata quella terra e quel Regno per essere il paradiso dell’Italia e del mondo, e invece l’ignoranza, e la brutalità selvaggia del più vigliacco de' tiranni vi ha aperto l’inferno a nove milioni di creature umane!

Come dunque è chiaro, gl’interessi commerciali dell’Inghilterra reclamano un mutamento fondamentale nel Reame di Napoli, e con esso pure di conseguenza un mutamento nel suo assetto ed indirizzo politico. Oltracciò le colpe del Borbone antiche e nuove verso il governo inglese sono gravi ed imperdonabili. Gravi son pure i pericoli cui inevitabilmente vanno incontro la pace ed il riposo dell’Italia e dell’Europa, se più a lungo s’indugia: nello infrenare la pazza oltracotanza di un despota incorreggibile, che si piace turbarla e comprometterla con atti tanto difformi dalla civiltà e mitezza dei tempi presenti. Sicché alle ragioni d’interesse e di utile si aggiungono pure le ragioni di dignità, di onore, di ordine e di sicurezza universale.

Gli uomini più eminenti della Gran Bretagna, e spesso ancora gli stessi ministri della regina Vittoria lo han dichiarato dall’alto della tribuna. Da otto anni in qua i clubs, i meetings, la stampa di tutt’i colori e di tutt’i partiti non hanno che una voce sola e conforme contro la Casa regnante di Napoli, ed a Londra, come un tempo a Roma, non si ode che il grido: Delenda est Carthago!

Francia dunque ed Inghilterra sono e debbono esser d'accordo nella quistione napolitana. Io non dirò ch’esse si spingano sino a pronunziarsi per la decadenza della dinastia borbonica, o ad operare di concerto nel senso di surrogarla con un Principe di altro sangue. A me, privato e modesto scrittore, non è conceduto spiar ne’ segreti dei gabinetti e dei governi. So non pertanto che le due potenze occidentali, almeno apparentemente, non vanno o non mostrano di andar tant’oltre. So che esse con una longanimità senza esempio nella storia diplomatica, quantunque abbiano coscienza del loro diritto e della, lor forza,. pure si rassegnano ad ingoiar bocconi amari, a sopportare ingiurie ed umiliazioni, e quasi. quasi a dichiararsi impotenti innanzi al Borbone, cui non chiedono pei popoli a lui soggetti che giuste moderate riforme, guarentigie legali, e forse anche la vita e la risurrezione dello Statuto del 1848. So che dalle Tuileries e dal Foreign Office s’insiste su questo punto, e si è fermamente risoluti ad insistere senza indietreggiar un passo, solo, sino quasi alle minaccio di venire alle vie di fatto.

Già questi medesimi, disegni si agitavano da lungo tempo. Non si aspettava che l’occasione opportuna perché li si effettuassero; e l’occasione non si è fatta attender molto, anzi ha precipitato gl’iudugi. Finita come per incanto la guerra di Oriente, i plenipotenziarii raccolti al Congresso di Parigi per segnar le condizioni di una pace onorata e durevole hanno fatto diritto alla causa di Italia, hanno riconosciuta la necessità di apportare un pronto refrigerio alle sue presenti sventure, ed implicitamente ed esplicitamente hanno così pronunziata la loro sentenza di condanna, in generale, contro tutti tiranni che contristano la nostra Penisola, ed in particolare, contro le enormezze e le scelleraggini del re di Napoli. Ora quella sentenza, inesorabilmente dovrà avere il suo corso, dovrà partorire i suoi effetti. Sicché, lo ripetiamo ancora un’altra volta, e lo si tenghi bene a mente, nella quistione napolitani vi è pieno e perfetto accordo tra le due grandi potenze. Negarlo sarebbe lo stesso che chiuder gli occhi alla luce del sole.

Intanto, spinte le cose sino al punto in che si trovano, la situazione di Ferdinando II è divenuta e di giorno in giorno diventa ancora più grave. Egli non ha che a scegliere tra due partiti entrambi rovinosi, entrambi a lui fatali, cioè, o cedere o resistere. Ma se egli cede, la rivoluzione bentosto ravvolgerà nel suo moto turbinoso, perocché la parola di. quel re è spregiata come la parola di un mentitore, e però non rassicura nessuno, non ispira né fiducia, né amore, ma diffidenza, odio e desiderio di vendetta. Altra volta un palco di morte surse in piazza del Mercato a Napoli pel giovane e sventurato Corradino, ultimo rampollo della stirpe sveva; e quello fu atto d’iniquità e d'infamia: domani forse un altro palco potrebbe rizzarvi il popolo, di Masaniello; e questo sarebbe atto e compimento di giustizia. Ferdinando II lo comprende bene, e però non può né deve cedere, ed infatti non cede:

Non gli rimane dunque che resistete, ed egli resiste. I consigli, le ammonizioni, sin le preghiere dell’Austria non lo commuovono punto. Scrive note insolenti, si fortifica a Gaeta, a Capri, a Pescara, lungo tutte le coste del mare; concentra i suoi Svizzeri ne’ castelli della capitale, arma la sua flotta, raccoglie grandi materiali di guerra, raddoppia i rigori polizieschi, prosiegue i giudizii contro i così detti "prevenuti politici, incarcera nelle Calabrie, nelle Puglie, negli Abruzzi, nella Sicilia, e coi nuovi e crescenti terrori si studia di persuadere al suo popolo, di cui ha stancata la pazienza, ch’egli è forte abbastanza, che non ubbidisce a nessuno, e che comanda da padrone assoluto in casa sua.

Ma la misura è piena, e convien che trabocchi. I segni forieri della tempesta moltiplicano in tutt’i giorni, e la rivoluzione regge minacciosa e tremenda nelle viscere del Vesuvio e dell’Etna. Noi abbiam fede che la rivoluzione sia certa, immancabile, imminente; e in poche ore si decideranno le sorti di quel disgraziato paese e l’avvenire di Italia. La propaganda rivoluzionaria l’ha fatta lo stesso re coi suoi arbitrii colle sue crudeltà, colla sua perfidia. Noi. gli siamo di tutto cuore obbligati. Mancava un elemento potente ed indispensabile, perché la rivoluzione si avesse sicurezza di buon Successo: questo. elemento era l’esercito. Ora l’esercito fa Causa. comune e si è congiunto col popolo.

«Sì, l’esercito napolitano, lo assicura e lo scrive con belle parole lo stesso La Farina, sente vergogna di continuare a farsi puntello di una politica riprovata da tutta Europa, odiosa ai popoli, spregiata sino dai despoti. L’esercito arrossisce di servire a tutte le libidini di tirannide di un governo sleale, spergiuro, insidioso, corruttore e corrotto; di farsi il manigoldo de' commissari di polizia, l’aguzzino e il carnefice di un popolo generoso e magnanimo, ridotto il più misero, tiranneggiato, torturato, vituperato popolo del mondo. Egli guarda con nobile emulazione l’esercito piemontese; sa che per ordinamento, per istruzione, per disciplina, per animo, non è inferiore ad alcuno; e non può non sentire indignazione e raccapriccio quando pensa che domani, oggi forse, potrebb’essere chiamato a spargere ih suo sangue, non per conquistar gli allori gloriosi di Peschiera, di Pastrengo, di Curtatone, di Goito e della Cernaia, ma gl'infami allori del 15 maggio e delle atroci espugnazioni di Messina è di Catania, vanto di orde barbariche.»

Adunque contro il popolo e l’esercito napolitano, che generosamente si dispone ad insorgere per cacciarsi dal collo il pesante giogo che l’opprime, e vendicarsi in libertà, non vi ha altra resistenza possibile che le armi disonorate e mercenarie degli Svizzeri. Sono sedicimila masnadieri e non soldati, obbrobrio e vergogna della libera Elvezia, anzi,della razza umana, marchiati d'infamia sulla fronte, che al cenno di chi li paga si tengon pronti a menar le mani e a far carne. Incredibile a dirsi! In uno stato di nove milioni di abitanti, Ferdinando II non ha altra forza, non ha altro sostegno che questo! Così è ch’egli alterna fra le audacie della ferocia e la viltà della paura, finché l’ora suprema non sia suonata, finché, levato il grido della riscossa, il popolo e l’esercito non si saranno impegnati nella lotta per combattere e vincere... e vinceranno, perché Dio lo vuole.

«La rivoluzione in Napoli (lo afferma un altro siciliano, il signor INTERDONATO). è una necessità. Come non vederlo? Ormai la vogliono tutti, l’aspettano tutti, e se non tutti, quasi tutti la suscitano... sino i reazionarii l’avvicinano e la spingono.»

A che dunque l’intervento armato della Francia e dell’Inghilterra? Per assistere ad un fatto compiuto. E qual sarà questo fatto? Vediamolo.

II. — L’avvenimento di Luciano Murat al trono di Napoli è conforme ai patriotici desidera degli uomini di onore e sinceramente italiani; giova pure a,gli interessi del Piemonte, assicurandone e consolidandone le istituzioni costituzionali; e però deve riguardarsi come un vero benefizio per la salvezza di Napoli, la libertà e l’indipendenza d’Italia.

Giacché la rivoluzione napolitana è un fatto che di necessità dovrà compiersi, e che da niuno che abbia buon senso o pratica della vita può rivogarsi più in dubbio, torna ora opportuno il venire indagando, non le cause che la producono, essendo già note e manifeste in tutte le cinque parti del mondo, ma il carattere e l’indirizzo ch’ella sta per prendere, e gli effetti che immancabilmente dovranno risultarne.

Lì giù, badiamoci bene, non si tratta di riforme più o meno ampie, di concessioni, di amnistie, di mitezza e temperanza di rigori, ma unicamente ed esclusivamente di guarentigie, perocché senza guarentigie le sciagure di quella nobile e travagliata provincia d’Italia non avranno mai fine. Questo che affermiamo non è mica un fatto ipotetico; ma reale e permanente, e quando tutt’altro mancasse per accertarsene, una prova vittoriosa noi l’abbiamo, e di data assai fresca, nel proclama che in grandissimo numero di copie si è distribuito ed affisso per Napoli e. pel Regno, e di cui i lettori hanno già piena conoscenza (1).

Il popolo istrutto dalla lunga e dolorosa esperienza di tanti anni, quasi accasciato sotto il peso d’innumerevoli ed immeritate sventure, che tutte gli derivarono dalla slealtà, dai tradimenti, dagli spergiuri della regnante famiglia borbonica, vede che la sola, la vera, l’unica guarentigia di sicurezza, senza cui ogn’altra è vana od illusoria, sta nel disfarsi,'e per sempre, di coloro che furono e sono l’origine prima de' mali che sopporta, della sua presente miseria, del Suo infinito dolore. Tutele arti, tutt’i mezzi, quali essi si fossero, stimai buoni, ed ottimi, e giusti, purché il conducano al conseguimento del fine, che è santo e benedetto. Nulla l’impaurisce, nulla lo ritiene, risoluto di vincere o morire.

Taluni poco o niente intesi delle cose di quel Reame, di leggieri s’inducono a credere che. tutto in Napoli possa o debba aver termine coll'abdicazione di Ferdinando II a favore del Duca di Calabria. Noi però asseverantemente affermiamo, che Ferdinando è tal uomo dà non sapervisi risolver mai, perocché quest’atto (ed egli il vede e il comprende) non salverebbe né lui, né la sua dinastia, in odio ed abbominio a tutti.

Vi ha pure chi afferma che le due potenze occidentali non sarebbero aliene dall’accettar questo come tentativo di probabile riuscita, od almeno più acconcio ad isciogliere una quistione così irta di pericoli e difficoltà. A creder nostro, il rimedio sarebbe peggiore del male; e quantunque ci sia ignoto quello che pensino, sul proposito la Francia e l’Inghilterra, pure non esitiamo a credere ch’esse sieno risolute di abbandonare il re di Napoli a se stesso, in balia del suo destino.

D’altra parte il popolo ora si è già spinto sopra un sentiero, da cui niuna forza può farlo Retrocedere, e la rivoluzione ha una bandiera, ed ha pure un nome, cioè la bandiera della libertà e dell'indipendenza d’Italia, ed il nome di Luciano Murat.

Questo nome è assai caro ai Napolitani, perché ricorda loro, nella presente miseria, il tempo felice di una volta, il regno di Gioacchino Murat. La milizia, la magistratura, il clero, la nobiltà, la borghesia, tutti gli ordini de' cittadini provano una specie di culto religioso per la memoria di quel grande e sventurato sovrano. Allora infatti per la prima volta il Reame di Napoli prese posto fra le civili nazioni. Allora i sacerdoti della giustizia congiunsero alla vastità della dottrina la santità della morale e del costume. Allora i ministri dell’altare splenderono di virtù cristiane e di sapienza evangelica. Allora animati i commerci, i traffichi, le industrie, protette e fiorenti le arti, le scienze, le lettere; promossa e diffusa la pubblica istruzione; migliorati o rifatti i Godici; creata una savia amministrazione municipale; tutelati l’onore, la proprietà, la vita, i sacri diritti della personalità umana. Allora, infine, tentata da Napolitani, e con armi napoletane, l’unità d’Italia, e sparsi pure semi non infecondi di libertà e d’indipendenza nella nostra Penisola. Oltracciò il popolo napolitano, al pari di qualunque altro popolo. del mondo, vive di ricordanze e di tradizioni, e le ricordanze e le tradizioni murattiane sono la parte più beffa della' sua storia, come le sventure della famiglia Murat sono la storia delle sue sventure. Adunque la rivoluzione che si matura in quel Reame non può iniziarsi, proseguirsi e compiersi che al grido universale, concorde e forte di Vita l'Italia! Viva Mwrat, re costituzionale!

Gli eventi mostreranno ai nostri avversarii se essi o noi ci siamo ingannati. Vedrà il signor La Farina che di Muratiani ve ne ha tanti nel Regno quanti sono gli abitanti di esso dal Tronto al Lilibeo; che ve ne ha in grandissimo numero nella Romagna, nella Toscana, ne’ Ducati e nel Lombardo-Veneto, fra gli uomini più eletti per ingegno, più noti per probità politica, per fede e devozione alla santa causa d’Italia; e però la passione gli ha velato l’intelletto, allorché' con poco o nissun riguardo ai nemici, che volea combattere, e dirò ancóra alla sua fama ed al suo nome, si è spinto a dire: che i Muratiani non sono che una congrega di uomini, alcuni sedotti dall'apparente agevolezza dell'impresa, altri mossi dall’odio contro i Borboni, altri desiderosi di recuperare la patria in qualunque modo la si recuperi; nessuno convinto sia quella la via migliore, più onorevole, più gloriosa; nessuno risoluto di perseverare in essa a qualunque costo!

Sì, noi gli rispanderemo di rimando, vi sono Muratiani devoti, operosi ed attivi nella Romagna, perché solo con Murat è sperabile e certa la redenzione di quella illustre provincia, che, prosciogliendosi dall’importabile dominio austro-teocratico-clericale, verrebbe, ad incorporarsi nel Regno della Bassa Italia, formando con la Toscana la parte più mobile ed importante di esso. Vi sono Muratiani ne’ Ducati e nel Lombardo-Veneto, perché solo con l’avvenimento di Murat al trono delle Due Sicilie è sperabile e certa la loro fusione ed unione durevole e perpetua col Piemonte, come fu proclamata e voluta dal voto spontaneo, solenne ed uniforme delle popolazioni nel 1848.

Le aspirazioni del signor La Farina, di voler cioè ridurre l’Italia dall’Alpi alla Sicilia sotto lo scettro di Vittorio Emmanuele, trovano una resistenza invincibile, almeno pel momento, e forse la troveranno per molto altro tempo ancora, nella tradizione storica delle provincia poste al centro e al mezzodì dell’Italia, nel giusto e legittimo orgoglio di Firenze, Roma, Napoli e Palermo, nei cauti consigli della politica passata e presente di Casa:. Savoia, e fino nei concetti di quegli stessi Piemontesi più arditi ed ambiziosi, che ad. ogni modo vorrebbero allargare ed estendere il territorio ed i confini. dello Stato. Molti di quei che pensano e credono il contrario, forse s’illudono in buona fede. ’Vorremmo illuderci anche noi, che quanto essi, e più di essi ci sentiamo e siamo italiani. Ma a che giova il nasconderlo? In politica non vi ha uomini più pericolosi de' facitori di castelli in aria.

Il signor La Farina, che è sì versato negli studi delle vicende storiche del nostro paese, meglio che altri potrebbe e dovrebbe considerare e comprendere l’importanza di queste cose che noi qui accenniamo di volo, e dar indirizzo ben diverso alle sue idee ed alle sue tendenze. Noi riconosciamo in lui mente lucida è svegliata, cuore riboccante di nobili e generosi affetti, e l’onestà di tutta la sua vita è un’arra di sicurezza per preservarci da ogni leggiero o menomo sospetto di secondi fini nella tesi che propugna e difende a suo modo. Ma Dio lo perdoni! egli facendo quel che fa, aggiorna lo scioglimento della quistione italiana ad un tempo né definito, né definibile; mette innanzi un programma non compreso, né accettato dalla universalità degl’italiani, senza che anticipatamente si fosse almeno posto di concerto col governo e col Re di Sardegna; e, quel che più monta, compromette le istituzioni e l’avvenire del Piemonte, e serve pure a maraviglia ai disegni dell’Austria. Proviamo a spiegarci più chiaro.

Perché Vittorio Emmanuele possa formar dell’Italia un Regno solo, e farsene capo e sovrano, non ha che a seguire due vie: o combatter per suo contò e con le armi sue contro i despoti che la tengono oppressa e divisa, ovvero gittarsi con piena ed intiera fiducia nelle braccia della rivoluzione, fortificarsi con essa e darle indirizzo. Collocato in questo bivio, ognuno che non sia affatto cieco degli occhi della mente, vede assai chiaro ch’egli, incamminandosi dall’uria banda, o dall’altra, corra difilato a gittarsi nel fuoco, e pone in gravissimo pericolo le libertà di cui gode il suo buon popolo da otto anni, e forse ancora la sua stessa corona.

Infatti il Piemonte solo non basta contro l’Austria, e questa sua impotenza, che si sentore non si dimostra, viene riconosciuta ed ammessa sin dallo stesso La Farina, il. quale sul proposito esce in queste parole: Non esigiamo dal Piemonte più di quanto può, per non perdere il diritto di chiedere quanto deve. Il Piemonte (sentite!) non può assumere su di sé tutto il peso della liberazione dell'Italia. La cosa è chiara come la luce del sole, e non abbisogna, di ulteriori commenti. Solo aggiungeremo che per buona ventura coloro che si trovalo al timone dello Stato Sardo, che certo sono uomini di polso, patrioti di forti e profondi convincimenti ed oltracciò dotati di uno squisito senno pratico ne maneggi politici, non si lasciano spingere a questi estremi da vuote declamazioni od esortazioni imprudenti, e forse ancora poco sincere del partito unitario, ma invece camminano per un'altra strada, tirano avanti e lasciano dire la gente.

Sanno essi (e chi nol sa?) che l'opinion pubblica de' buoni Italiani trovasi d'accordo nel voler libera e sgombra la sacra terra della patria dall'odiosa presenza dello straniero; ma sanno del parí, che a Torino, mai non si subirebbe un re napolitano, come a Napoli mai non și subirebbe un re piemontese.

È questo un bene? è questo un male? Noi nol diremo. È un sentimento che va rispettato; è un fatto che soli i visionarii potranno sconoscere,rivocare in dubbio, o non mettere a calcolo per le conseguenze che da esso posson discendere. No, non giova illudersi. Forse in un momento di entusiasmo dal Sebeto alla Dora potrebbe risuonar dolcissimo il grido di Viva Vittorio Emmanuele Re d'Italia! Forse, scosso il giogo della presente schiavitù, in mezzo alle feste ed ai tripudii della libertà riguadagnata dopo tanti martirii, dopo tanto sangue sparso, ventiquattro milioni d'Italiani - (lo concediamo) potrebbero raccogliersi e riunirsi sotto la bandiera piemontese; ma state pur sicuri che quella riunione sarebbe transitoria e passaggiera, e ben presto l'irritabilità di amor proprio, le gare e le invidie municipali,- per poco sopite e non ispente, rinascerebbero assai gagliarde e minacciose. Ad ogni modo queste difficoltà, che sono tutte interne, esistono, e per lo meno sarebbe imprudente consiglio il non volerle prendere in seria considerazione, o peggio ancora, negarle del tutto (2).

Oltracciò v’ha gran numero di altre difficoltà che chiameremo esterne, le quali vengono dal diritto pubblico internazionale europeo, dalla diplomazia de' varii Stati, dalle mire politiche della Francia e dell’Inghilterra, ed anche dalle gelosie, dai timori, dalle apprensioni, dagli interessi opposti di altri sovrani, e via di seguito. E bisogna proprio collocarsi fuori del mondo, non sapere o non volere saper nulla di quanto ci circonda, per pensarla e discorrerla diversamente. Ma Vittorio Emmanuele ha di buon’ora valutata e compresa la situazione in che versa ed egli ed il Piemonte, ed ha preso pure, se non andiamo errati, il suo partito, che, torna inutile il dirlo, è l’unico partito possibile ed onorevole. Vittorio Emmanuele non entrerà solo, in campagna contro l’Austria.

Metterà forse al servizio della rivoluzione le sue armi ed il suo esercito? o si gitterà egli stesso nelle file de' rivoluzionarii per far causa comune con essi? Son certo che lo stesso La Farina, benché dica e scriva il contrario, sé come il conte di Cavour si trovasse alla presidenza del gabinetto piemontese, non si sentirebbe il coraggio di spingere il Re a questo passo. Il partito sarebbe giudicato da ogni buona ed onesto Italiano, audace, pieno di difficoltà e di pericoli, ed i più che hanno credito e nome non sarebbero in verun modo disposti a mettere in forse le sorti e l’avvenire del paese in un’impresa tanto arrischiata, che trascinerebbe ad una certa ed inevitabile rovina il Regno, la Dinastia di Sardegna e l’Italia. Ciò sarebbe il trionfo dell’Austria, ed allora i rivoluzionarii (non accuso, né intendo offender chicchessia) tratterebbero Vittorio Emmanuele al modo stesso che trattarono l’infelice e magnanimo padre suo Carlo Alberto nel palazzo Greppi in Milano, gridandolo traditore, e scaricandogli contro i loro fucili.

Il signor La Farina non la intende così, anzi porta opinione ben diversa dalla nostra, e però si propone un dubbio, ch’egli stesso risolve a suo modo, scrivendo in questi termini: Ma se Casa di Savoia, egli dice, non si mostrasse pari all’altezza dell’impresa, se il Governo piemontese non avesse animo abbastanza audace e risoluto per pigliare ciò che gli è offerto? Se la corona di ferro, che sta a Monza e star dovrebbe a Roma, non trovasse un principe, che osi stender la mano e cingerla da sé 'alla sua fronte, senza ministero di vescovo e di pontefice, e dire: guai a chi la tocca? Alle quali dimande risponde nel seguente modo: Se la Casa di Savoia ed il governo piemontese non risponde al nostro appello tal sia di loro. La storia terrà conto del nostro sacrifizio e della nostra abnegazione, e noterà la pochezza dell'animo. loro. Il Governo piemontese si sarà coperto di vergogna in faccia all’Italia e in faccia all’Europa, cadrà maledetto dai popoli e dispregiato dai despoti: Vittorio Emmanuele si sarà tolta dalla fronte quella aureola che. attira verso di lui gli sguardi di tutti gl’italiani; e l’uno e l’altro avranno fatto più che metà di cammino in quella via, che diritta diritta li guiderà ai piedi dell’Austria e del pontefice.

Queste parole cosi rotonde e sonore hanno il grave difetto di non persuadere alcuno, e molto meno se ne commuovono i ministri del Re di Sardegna. Noi dubiteremmo forte della loro sapienza governativa, e del loro ben noto patriotismo, se si comportassero altrimenti. Ma ad essi non isfugge alcuna delle ragioni innanzi arrecate, e tutt’i loro atti, nella questione che ci occupa, sono il comento più ampio, la prova più convincente di quanto affermiamo.

Soprattutto l’illustre generale Lamarmora, l’eroe della Cernaia, bada poco o nulla ai canti bellicosi de' nostri ventimila poeti, che a bocca squarciata non rifiniscono di gridare abbasso l’Austria! Fuori i barbari! Egli sa per esperienza che ad isnidare i barbari o gli Austriaci dalle fortezze di Mantova, di Peschiera e di Verona ci vogliono ben altri argomenti che gli inni di. guerra dei nostri novelli Tirtei. Ci vogliono eserciti regolari, ben disciplinati ed agguerritile l’eloquenza irresistibile delle bombe e dei cannoni. I mazziniani e gli unitarii tutt’al più sarebbero un inutile ingombro, anzi un vero imbarazzo nel giorno della lotta, e perciò li si lasciarvi in disparte come le ciarpe vecchie da mandarsi al rigattiere.

Invece il Governo Sardo usa vigilanza, preveggenza ed accorgimento, si’ apparecchia, si fortifica e si tien pronto agli eventi. Permette che una soscrizione spontanea si faccia pel dono di cento cannoni ad Alessandria; i ministri vi. contribuiscono largamente essi stessi come semplici cittadini, ma vieta in pari tempo (e tutti gliene danno lode) che abbia corso una soscrizione di r ben altro genere per diecimila fucili, messa innanzi dal Profeta dell’idea, ed accolta con tiepidezza ed indifferenza sin dagli stessi suoi correligionarii e dal pubblico. Ciò ha un significato assai grave. Ciò in altri termini vuol dire che dalla rivoluzione e dai rivoluzionarii il Governo Sardo non aspetta nulla, non accetta nulla, perché la guerra che deve farsi, debb'esser fatta con armi buone e giuste; e perché si ricorda bene del Timeo Danaos, et dona ferentes. Infatti le profferte de' mazziniani e degli unitarii racchiudono un inganno, una vera insidia, contengono delle condizioni che si pongono come perentorie e sono impossibili: nel fondo si traducono in un’abdicazione del Re di Piemonte. È meglio, scrive sul proposito l’avvocato Poletti (Risorgimento 6 settembre 1856), dichiararsi schiettamente suoi nemici; almeno egli saprà su chi possa contare nell’intrapresa, e ne’ limiti che gli sarà dato condurla

Per contrario, Luciano Murat sul trono di Napoli rassicura il presente e l’avvenire dei Piemonte, ed è pure un nuovo e poderoso elemento di forza per tutelare il pacifico sviluppo di quelle libere istituzioni che mancano alle altre provincia della Penisola, le quali vivamente le reclamano, e che solo per questa via e non altrimenti potranno e dovranno conseguirle. I nemici del Regno di Piemonte sono pure i nemici del Regno di Napoli, e però la federazione tra Vittorio Emmanuele e Luciano Murat non ha nulla di fattizio o di artificiale, ma nasce e viene spontanea dall’uniformità de' desiderii e delle tendenze, e dall’identità del santissimo scopo comune ad entrambi, cioè l'indipendenza e la felicità della patria comune. Sicché l’amicizia tra i due capi de' due Stati dell’Alta e della Bassa Italia sarà amicizia sincera, e quindi ferma e durevole, namque eadem velie, atque eadem nolle, ea demum firma amidtia est.

Oltracciò la rivoluzione di tutto il popolo napolitano che chiama a suo re Luciano Murat, figliuolo di un altro gran re, senza nulla disorganizzare o distruggere, ma Solo spostando, o diciam meglio, sostituendo ad un,uomo indegno un altro che si mostra ed è degnissimo di prender le redini del sommo potere e dargli indirizzo secondo i bisogni del tempo e della civiltà, vi rimane intatto un esercito di circa a centomila uomini, una marina militare provveduta di tutto punto, e Vi dà belle mani fortezze di prim’ordine, porti ben muniti dalla natura è dall’arte, arsenali, provvisioni da guerra di ogni genere, e, per giunta, erario ricco.

Il Piemonte, come ora lo si trova costituito, tiene alle sue porte un. implacabile e potente nemico, che lo insidia e. Io minaccia; tiene nemici i principi che contristano i Ducati, la Toscana, la Romagna e Napoli, e non ha forze sufficienti per resistere a tutti. Per procurarsi un appoggio al di fuori e non rimaner quasi isolato nelle possibili eventualità di una guerra, si è con audace e generoso proposito gittato nella lega della Francia e dell’Inghilterra, sacrificando per giunta e sangue e danaro. Certo la posizione è migliorata d’assai, ma non ispira un’intiera fiducia, non dilegua tutt’i timori, perocché le leghe possono rompersi, ed infatti si rompono.

Adunque al Re di Sardegna, nell’interesse di provvedere a sé ed all’Italia, conviene in tutt’i modi cercar gli elementi di forza e di sicurezza nel seno della stessa Italia. E questi dementi non possono offrir gli si che da un Sovrano di un Regno italiano federato ed amico, Ossìa quello e questi si aiuteranno e fortificheranno a vicenda, e l’uno e l'altro saranno due capi della stessa famiglia, i cui membri si manterranno più uniti e più amorosamente stretti fra loro per l’uniformità degli statuti politici, de' codici, del sistema doganale e di commercio, de' pesi, delle misure, delle monete, per la facilità ed agevolezza delle comunicazioni morali, e materiali da Torino a Palermo, e soprattutto per un’idea veneranda e sublime, che comprende e domina tutte le altre, l’idea di uno Stato che si chiami e sia Italia.

Dietro tutto ciò non sappiam comprendere, e preghiamo il signor La Farina ad ispiegarceli meglio, come una rivoluzione in Napoli nel senso muratiano, consentita dal massimo numero o dalla quasi totalità degli abitanti di quel Reame; che torna di utile agli interessi morali e materiali di tutte le provincie della Penisola; che meglio fortifica e rassecura le libertà e avvenire del Piemonte, possa poi produrre una controrivoluzione in senso. tutto opposto nella Sicilia. Il nostro contraddittore mette questa come un’ipotesi possibile; noi invece, ed egli ce ne scusi, la consideriamo come uno di quei mostruosi assurdi che non meritano di tenersene conto o di venir seriamente confutati. Ben vi fu chi disse che la Sicilia col moto del 1848 si divise dall’Italia, e che esso ebbe inizio e compimento sotto gl’influssi municipali, e niente italiani e nazionali; e certamente niuna ingiuria. deve sembrar più atroce ed ingiusta di questa innanzi al tribunale della storia e della coscienza, Ma il signor La Farina, scrivendo al modo che scrive, accredita in certa guisa quella falsa accusa che, per altro, i suoi concittadini ed egli pei primo ha respingo con nobili ed eloquenti parole in una sua opera messa in luce pochi anni addietro (3).

Cresciuto in. mezzo ai dolori ed alle agonie dell’esilio, educato alla scuola della sventura ed ai grandi esempi del padre suo, che fu guerriero invitto, principe glorioso’ e magnanimo, Luciano Murat non vive che per l’Italia, non pensa che all’Italia e per aiutarla, come egli stesso ce lo assicura, darebbe sino ultima stilla del suo sangue.

Non sono né gl’intrighi, né i maneggi né i raggiri, di uomini prezzolati, ambiziosi, di dubbia coscienza, fede incerta, seguaci di tutte le bandiere e di tutt’i partiti; non sono le arti oblique ed insidiose della diplomazia, le astuzie della politica, l’arbitrio o la forza de' potentati che ora lo chiamano a Napoli o in certa guisa loimpongono a quel nobile. e disgraziato paese; ma il voto uniforme e spontaneo di tutta una gente, che a lui si affida, che in lui spera. Solo i nemici di Luciano Murat, che sonpure gl’inconscii nemici d’Italia, ne calunniano persino le intenzioni, gli attribuiscono colpevoli disegni, lo vogliono far credere strumento di nuova tirannide, principio ed origine di mali più gravi al Regnoed all’Italia. Per riuscir meglio nello intento stampano e diffondono proclami in nome di Murat, né’ quali rifulge la malizia e la perfidia di chi li scrive; mettono, in giro uno schema di costituzione muratiana, non sappiamo se più insulsa od assurda, e con uncinismo veramente ributtante acculano i Muratiani come disertori del partito nazionale; che per cupidità di lucri e di onori; si adoperano a pro di un uomo, di un principe straniero, nell'interesse esclusivo di una. famiglia e de' suoi partigiani abusando del sacro nome d'Italia per riuscir meglio nelle loro idee, ma in sostanza non d'altro pensosi che di procacciarsi ozii o dovizie, un riposo qualunque od un qualunque modo di risorgere a nuova e splendida posizione!

(4)

La risposta a queste ingiuriò e a queste calunnie la daranno, e fra breve, i moti di Napoli, e l’Italia.

APPENDICE

Senza tema di essere accusati di vanità, possiamo ben dire che il presente opuscolo è stato accolto con indulgenza e forse con alcun segno di favore dal pubblico.. La stampa di oltremonte, come l’Indépendance Belge,e soprattutto il Siècledi Parigi, senza contar moltissimi fra i più chiami e spassionati patrioti delle varie provincie della Penisola, ci han dette parole di conforto e d’incoraggiamento,, facendo piena ed intiera adesione alle nostre idee. Oltracciò, da parte ogni altra cosa, l’argomento più eloquente e vittorioso, che meglio ci rassicura e ci rallegra, è al certo la vendita quasi istantanea dei nostro libriccino. Nel giro di una settimana la prima edizione di esso si è già esaurita, le richieste ci vengono da ogni parte, e però di buonissima voglia ora mettiam fuori la seconda, arricchita da un articolo assai pregevole per profondità di vedute politiche, e per sentimenti eminentemente italiani, e scritto dal signor Bianchi-Giovini, uno dei più abili ed acuti pubblicisti di cui si onora il Piemonte. Ecco l’articolo come lo si legge nel giornale L’Unione, anno III,. n°. 276, ottobre 1836.

LA QUESTIONE MURATIANA

Questa questione, rimasta assopita colle ferie a cui vacò la diplomazia e la politica generale, si ridesta ora in fàccia al movimento, abbenchè lento e circospetto, che si danno Inghilterra e la Francia, e che Sembra da lontano minacciare il trono di Ferdinando Borbone.

Su quest’argomento noi ci siamo già spiegati altre volte; e alle condizioni che premisimo allora, siamo ancora dello stesso parere. Le condizioni sono, che il ritorno. dei Murat al trono di Napoli serva di leva all'affrancamento e all’indipendenza di tutta l'Italia, e aggiunga una nuova orza per conservarla; e che Luciano Murat aiuti i Siculi-Napolitani a liberarsi dal giogo, borbonico, e non pretenda che quegli abbiano a fare una rivoluzione a loro rischio e a suo profitto: una mano lava l’altra, dice il proverbio, Siccome questa seconda proposizione. includerebbe un assurdo, a cui non può pensare il figliò di Gioacchino, così crediamo inutile di discuterla. Resta quindi, soltanto la prima.

La questione dell’indipendenza è di tutti; ma nel modo d'intenderla. nella sua applicazione, i campi si dividono in due: quello degli unitari e quello dei federali. Tralasciamo le questioni secondarie di repubblica e non repubblicani e ci atteniamo al principio generale.

Un’Italia unita sotto una sola forma dì governo, col suo centro in Roma, è, senza dubbio, un magnifico pensiero, un’aspirazione grandiosa, ricca di storiche rimembranze, e che grandemente solletico l’orgoglio nazionale. Ma resta a vedersi se tutto ciò che è concepibile è fattibile; e se ciò che potrà essere fattibile in una data epoca, con date circostanze secondate da un’analoga potenza di genio umano, abbia ad essere fattibile sempre, in tutti i tempi e a fronte delle circostanze anche più sfavorevoli.

Non v’ha dubbio che l'emigrazione avvicinando Siciiiani, Napolitani, Romani, Toscani, Lombardi, Subalpini, ba fatto dimenticare le rispettive denominazioni geografiche, e riconoscerli figli d’una isola e medesima patria, malia: come la rivoluzione di Francia fece scomparire colà le antiche denominazioni di Bretagna, Guasconia, Delfinato, Provenza, Poitù, ecc., ecc. Ma in Francia la rivoluzione travolse tutta intiera la nazione francese, in Italia soltanto una eletta di individui. Quindi la trasformazione nazionale che si operò in questi, si può mai credere che siasi egualmente operata nelle moltitudini che rimasero stazionarie Sul rispettivo loro suolo, e ché il carattere dei governi italiani tenne costantemente separate le une dalle altre?

Come dunque si potrà ottenere una consistente unità italiana, quando l’opinione per essa non si è ancora formata nelle masse, che più delle altre devono contribuire alla sua conservazione: o quando per conservarla bisognerebbe usare la forza? Ma siccome questa costringe e non persuade, così da essa si otterrebbero risultati contrari allo scopo che uomo si propone.

Evvi un'altra difficoltà, ed è: che dal momento in cui l'Italia, cominciò ad essere separata, cioè dalla caduta del regno Gotico, si osservarono in essa due grandi divisioni, ciascuna delle quali ebbe una vita sua propria. Malgrado le suddivisioni politiche che s'introdussero dopo il mille, malgrado la moltitudine di repubbliche surte principalmente dopo l'imperatore Enrico III, la storia dell’Italia superiore è una sola, i grandi interessi di quei suoi municipii sono identici, si sviluppano sotto l'influsso di una civiltà comune e di quasi comuni istituzioni, e quasi uniforme è il loro movimento. La storia li comprende tutti io un gruppo, e la guerra o la pace, il commercio 0 l’industria, li lega sì fattamente tra di loro, che l'uno non può fare un movimento senza che l'altro o lo segua o vi si opponga.

L'Italia meridionale ebbe invece uno sviluppo affatto indipendente dalla superiore, a cui non si collega che per intervalli e per cause transitorie; perché del resto ha una storia a sé. Nell’Italia superiore l'elemento governativo è repubblicano, che poi degenera in monarchia dispotica; nell'Italia inferiore è la monarchia dispotica che sì trasforma in monarchia costituzionale, essendovi il dispotismo attuale di data assai recente. Ciascuna dunque dette due Sezioni ha usanze, consuetudini ed amministrazione, che differiscono essenzialmente che si potranno, col tempo ravvicinare; ma ai tempi che corrono quale sarebbe la mino vigorosa che potrebbe di un sol punto, fare di tutta l’Italia un insieme, ridurla ad una amministrazione uniforme, sottoporla ad una medesima legge, darle una vita ed un movimento unitario? il solo genio di Napoleone! ne sarebbe stato capace; ma simili genii non nascono a tutte le ore: è già molto che qualcuno ne apparisce di secolo in secolo.

Quando poi tutti questi ostacoli interni fossero superati, rimarrebbero ancora li esterni, che sono tutt’altroche da disprezzarsi. Se tanto dobbiamo combattere, se tanta fatica ci costa per ottenere l’indipendenza nazionale, ossia che l’Italia sia degli Italiani e non degli stranieri, a qualunque condizione; a quanta maggiore fatica, moltiplicata per quadrati e per cubi, non dovremmo andare incontro, quando attaccando il carro innanzi ai buoi, volessimo imporre anche la condizione dell'unità? L’Inghilterra, sarebbe la sola a cui forse gradirebbe, perché per mantenere la sua influenza sul continente ha bisogno di un potente alleato, e non le dispiacerebbe che quest'alleato fosse anche una ragguardevole potenza marittima onde sbilanciare la marina francese. Ma per questo appunto la Francia, che abbiamo più vicina, si opporrebbe ài concetto dell’unità italiana. Non parliamo dell’Austria, che vi ha un interesse immediato, e che profitterà di ogni ancorché minima circostanza per fomentare sospetti è gelosie, e trovare alleati od aderenti per avversare non solo l’unità, sì ancora l’indipendenza di un paese in cui ella si crede e vuole farsi credere necessaria. E quantunque la Russia e la Prussia non si trovino in buoni termini coll’Austria; se la seconda ha detto che gli interessi della Germania nulla hanno a che fare sul PO e si fermano alle pendici delle Alpi; se all’altra non farebbe difficoltà ove gli Austriaci fossero cacciati al di la del Brennero e della Ponteba, non si deve credere perciò che vedrebbero con indifferenza la formazione improvvisa di un grande Stato, il quale, a cavallo di due mari, per la sua popolazione, per la sua forza, per le sue ricchezze, graviterebbe con tutto il suo peso sull’Oriente, su questo gran punto di contestazioni presenti e future, e lo ridurrebbe a sua disposizione; senza dire del nuovo peso che arrecherebbe sulla bilancia politica dell’Europa, e che ne altererebbe le relazioni.

Noi, come Italiani, farciamo bene a. pensare ed a promovere tutto ciò che può favorire il bene presente e futuro delle nostra patria, ma non dimentichiamo che anche gli altri pensano ai loro interessi, pel vantaggio dp’ quali sono sin di troppo disposti a sacrificarci; non dimentichiamo neppure che per noi si tratta di una. cosa che non esiste ancora; laddove li Stati di cui parliamo esistono come potenza materiale e morale, hanno molta forza è molla autorità e possono per conseguenza farci tutto il male che vogliono e impedirci assolutamente di esistere, se innanzi di esistere pretendiamo ad una esistenza che minacci quella degli altri.

Certamente che, fantasticando alla Mazzini, tutto si risolve con un tiro di penna; se poi anche si risolve in un fiasco, come gli è successo nel decorso di cinque lustri, poco importa. Ma alla serie dei fiaschi giova a lutti di. porre un termine e di cominciare invece ad esaminare le questioni nazionali non come un oggetto d’immaginazione, ma quali si presentano nella serie dei fatti, e si coordinano con altri fatti da cui non possono rendersi indipendenti.

Quando le osservazioni si basino su questi principii, facilmente si rileverà, che ai tempi che corrono,e cogli elementi che si possiedono, la questione dell’unità nazionale è tuttavia immatura; e che malgrado la sua importanza ci conviene per ora di metterla in seconda linea, e innanzi di essa propugnare quella della indipendenza, ottenendo la quale, e con essa solidi mezzi per guarentirla anco in avvenire, potremo vantarci di avere ottenuto molto, lasciando alle generazioni venture il dovere di far altrettanto, di proseguire l’opera e di portarla al suo compimento.

L’avvenimento di Murat, re delle Due Sicilie, deve di necessità contribuire immensamente alla indipendenza di tutto il resto dell’Italia.

Si suol dire che Luciano Murat a Napoli sarebbe niente più che il fattorino dell'imperatore de' Francesi. Questo si potrebbe ammettere se Napoleone in fosse cosi potente come lo era suo zio; se come Napoleone I possedesse tutta l’Italia dalle Alpi al Garigliano ed al Tronto, e la Germania dal Reno ad Amburgo; se al paro di lui avesse vinta l’Austria ad Austerliz e a Wagram, la Prussia a Jena, la Russia a Friedland; se come lui potesse scrivere in un decreto la tale o tale dinastia ha cessato di regnare, e creare o de porre a capriccio i re, e dettare da Parigi leggi all'universo. Ma Napoleone IH è nulla di lutto ciò: egli è un sovrano potente, ma la sua azione esteriore è limitata da quella di altre potenze; e uno Stato di nove milioni, indipendente, non si lascia cosi facilmente pedanteggiare da uno Stato più forte, è vero, ma che non ha veruna autorità sovra di esso, e che non è neppure suo vicino.

Si arroge che Luciano Murat a Napoli non potrebbe regnare se non col mezzo di Napolitani, in Sicilia col mezzo di Siciliani; ministri o consiglieri francesi non sarebbero tollerati; e i nazionali sono troppo gelosi della dignità patria per sacrificarla ad interessi non non nazionali II rifiuto del re Bomba a non volere i caritatevoli aiuti dell'Austria parte forse da lui solo? No, esso è nel carattere di tutti i suoi ministri e fautori, dei quali anche i più tristi abborrono l’intervento austriaco; e vorrete supporre più tristi o dappoco di loro gli uomini liberali, che necessariamente circonderebbero e consiglierebbero il nuovo re? Tale supposizione è da sé sola un’ingiuria.

Murat a Napoli porta seco due conseguenze: l'una naturale, l'altra politica, ossia la caduta del regno temporale del papa e la riunione in un solo Stato dei paesi giacenti nella valle del Po. Senza questa riunione, né converrebbe all'Inghilterra un cangiamento dt dinastia a Napoli, né converrebbe al Piemonte, e meno ancora converrebbe all’Italia.

E qui confessiamo ingenuamente che ciò che più pregiudica alla causa di Murat in Italia, e la rende meno accettevole, è la sua inazione, personale (che potrebbe tuttavolta essere apparente) e la politica oscura ed ondulante dell'imperatore, il quale, quantunque si veda che non si trova coll'Austria in quella Intimità cordiale che pretende la ciarliera Gazzetta di Perona, cionulladimanco egli si mantiene sempre in tali termini equivoci o semiequivoci, che lasciano molto da sospettare. Ma se d'altra parte l'opinione dei patrioti italiani, senza cessare di essere cauta, si mostrasse meno ostile o diffidente verso l’imperatore de Francesi, non potrebbe ella influire anche sull’andamento della sua politica verso l’Italia? Se invece di ostinarsi a propugnare una unità italiana sine qua non, che urta contro scogli formidabili, e ad esigere dal Piemonte l’impossibile, si accomadassero a progetti più in armonia colle presenti condizioni in Italia, e che meno offendono i pregiudizi della diplomazia, dalla quale non possiamo emanciparci, e che incontra maggior numero di fautori o minore di avversari, sarebbe un aggiungere facilità al conseguimento di un primo e più indispensabile desiderio, qual è quello di rendere l’Italia agl’italiani e di eliminarne gli stranieri, e l’Austria sopratutto, nostra capitale irreconciliabile nemica. Sia pure Murat a Napoli; ma via gli Austriaci dal Lombardo-Veneto; via i duchini e ducuzzi, vili tirannelli di Parma e Modena, e questi sei milioni d’italiani siano riuniti sotto lo scettro del re di Sardegna e formino un solo corpo politico. Tutti sanno che la valle del Po è la chiave di tutta l'Italia, e ben custodita questa, anche l’indipendenza del rimanente è al sicuro. L’Italia meridionale non può nulla tentare contro la settentrionale, e questa non ha interesse a molestare quella: entrambe invece sarebbero consigliate dalla rispettiva conservazione, non a raccomandarsi l’una all’Inghilterra, l’altra alla Francia, sibbene a stringere una federazione perpetua, che unisca le loro forze e mutuamente le assicuri.

A questo discorso ci ha tratto l’opuscolo intitolato: L'Unità Italiana e Luciano Murat re di Napoli, di un anonimo, che però tutti conoscono, e che confuta un altro opuscoletto: Murat e l'Unità Italiana del signor La Farina. L’anonimo, che è pure nostro amico, adopera all'incirca gli stessi argomenti esposti qui sopra da noi, e che svolge coll’abituale sua vivacità e facondia; indi conchiude con queste parole:

«Il Piemonte, come ora lo si trova costituito, tiene alle sue porte un implacabile e potente nemico, che lo insidia e lo minaccia; tiene nemici i principi che contristano i Ducati, la Toscana, la Romagna e Nate poli, e non ha forze sufficienti per resistere a tutti. Per procurarsi un appoggio al di fuori, e non rimaner quasi isolato nelle possibili eventualità di una guerra, si è con audace e generoso proposito gittate nella lega della Francia e dell’Inghilterra, sacrificando per giunta e sangue e danaro. Certo la posizione è migliorata d'assai, ma non ispira un'intera fiducia, non dilegaa tutti i timori, perocché le leghe possono rompersi, ed infatti si rompono.

«Adunque al re di Sardegna, nell'interesse di provvedere a sé ed all'Italia, conviene in tutti i modi cercar gli elementi di forza e di sicurezza nel seno della stessa Italia. E questi elementi non possono offrirglisi che da un sovrano di un regno italiano federato ed ed amico, ossia quelli e questi si aiuteranno e fortini Selleranno a vicenda, e l’uno e l'altro saranno due capi della stessa famiglia, i cui membri si manterranno più uniti e più amorosamente stretti fra loro per l'uniformità degli statuti politici, dei codici, del sistema doganale e di commercio, dei pesi, delle misure, delle monete, per la facilità ed agevolezza delle comunicazioni morali e materiali da Torino a Pace termo, e soprattutto per un'idea veneranda e sublime, che comprende e domina tutte le altre, l'idea di uno Stato che si chiami e sia Italia.»

E concludiamo anche noi che la questione murattiana, considerata imparzialmente e fuori dei pregiudizi di partito, è questione italiana, anzi principio della soluzione di tutte le altre questioni di papa, di Austriaci, di duchini di Parma coi loro correggitori mandati da Vienna, o di Modena coi loro gesuiti e il loro governo da usuraio, o di Toscana col loro vassallatico austriaco e la loro ipocrisia.

A. BIANCHI-GIOVINI.

Il Piccolo corriere d’Italia,giornaletto che vien fuori la domenica, è in collera per la pubblicazione del nostro opuscolo, e nell’annunziarlo ai suoi lettori, non solo ne guasta il titolo, e ne foggia uno a suo modo, ma per leggerezza, o per altre segrete cagioni ancora, ne altera la sostanza, e ci fa dire per suo conto il contrario di ciò che noi abbiamo detto e stampato. Vi è stato chi, calunniando la lealtà di carattere veramente cavalleresco del signor La Farina, ci voleva dare a credere essere egli l’autore dell’articoletto del Corriere. Noi abbiam respinto un’accusa cotanto ingiusta, perocché riteniamo per certo, che ove al signor La Farina fosse piaciuto di entrare in polemiche, anziché attenersi al partito più deplorabile delle ingiurie e de' sarcasmi, avrebbe invece elevata una discussione dignitosa e pacifica, e quale si conviene a chi si dice difensore d’Italia e dell’onor nazionale. Il signor La Farina deve sapere, e non dubitiam punto che lo sappia, che il giornalista è un soldato, e il giornale è un’arma, che convien sempre usare onoratamente. Ecco l’articoletto del Corriere:

È comparso uno scritto intitolato Luciano Murat e l’Unità italiana. È una risposta allo scritto col medesimo titolo di Giuseppe La Farina. Lo scrittore anonimo dice che gli Unitarii sono nemici del re di Piemonte, che lo vogliono spingere alla rovina e cose simili. Questi argomenti avevano una qualche speciosità quando furono per la prima volta adoprati dall'armonia e dal Campanone: ora sono un po' logori e sudici. In quanto a Murat, l'anonimo dice che la Francia e l'Inghilterra gli vogliono dare le Due Sicilie, e pare accenni anche alla Romagna e alla Toscana. Sta a vedere che gli daranno pure il Piemonte, e che noi saremo giunti all'unità, prendendo l'Italia dalla coda! Altro argomento: dal Tronto a Lilibeo non c'è alcuno che non sia per Murat... Via via, l’anonimo dice queste cose per ridere! In tutti i casi ci sarà permesso almeno chiedere come va che Murat se ne stia a Parigi e non a Napoli.

Il Dirittopoi, anno III, n° 242, non serba né moderazione, né misura, ed accecato dallo spirito di parte, volontariamente si condanna all’ira, e con una condotta che non vogliamo, né sappiam qualificare, ci mette in bocca parole che non profferimmo, né ci sentiamo il coraggio di profferire. Ce ne spiace, non per noi, ma per la dignità della stampa trascinata nel fango delle passioni più colpevoli ed odiose, e ce ne duole pure per l’onore di coloro i quali, mentre si spacciano apostoli di libertà e di liberalismo, non disdegnano di spingere la intolleranza per le altrui opinioni diverse dalle loro fino al punto da dimenticar quei riguardi, che ogni uomo che si stima deve a se stesso, e che la civiltà e la buona educazione vuole pure che si usino verso degli altri, fossero anche nostri capitali nemici.

Noi, p. es., nella prima edizione del nostro opuscolo, pag. 38, linea 18, abbiamo stampato questa proposizione: Solo i nemici di Luciano Murat, che son pure gli INCONSCIInemici d'Italia,ec.; ed il Diritto,con uno scopo certamente vituperevole, sopprimendo a bello studio la parola inconscii,si permette dire, che avevamo avuta impudenza, (sic!) di scrivere che i nemici di Luciano Murat sono pure i nemici d'Italia.

Cotesta del Dirittonon è solo impudenza, ma audacia, o qualche cosa di peggio, che nel comune linguaggio si chiama ed è falsità.

Nello stesso numero 242 del Dirittotroviamo un altro articoletto, che ci ha fatto ricordare dell’Ordine, giornale della Prefettura di polizia in Napoli ai bei tempi del Peccheneda. Noi infatti vi abbiamo scorta una delazione nella sostanza e nella forma. Gli occhi nostri si sono conturbati, e non è ora senza ribrezzo che c’induciamo a riprodurre in tutta la sua luridezza la detta scrittura, che non abbisogna di comenti, perché i lettori la giudichino e la ritenghino per quello ch’essa veramente è. Eccola:

LE ADULAZIONI MURATTIANE. — Un emigrato napolitano che al soldo e per conto dello stato governato dalla Casa di Savoia scrive lettere segnate colla falsa sigla F. all’Independence, coglie ogni circostanza per incensare la futura dinastia murattiana. Il sedicente signor F. che ha taciuto dell'opuscolo sulle cose di Napoli del La Farina e del duca di San Donato, di cui però si occuparono pressoché tutti i giornali d'Europa, non trova parole abbastanza lodative per magnificare un'operetta anonima murattina di cui pochi finora si curarono, talmente essa è declamatoria e inconcludente.

Convien dire che gli stipendi savoini non bastano. Avviso ai redattori del bilancio interni.

NOTE

(1)Si può leggere questo proclama nell'Opinionedel 14 agosto, ed In quasi tutt’i giornali del Piemonte.

(2)Se veramente il Piemonte disegnasse di assorbire tutte le altre provincie d’Italia e farne un Regno solo, perché poi non concederebbe' la cittadinanza almeno a tutti quegli esuli napolitani, toscani, romani, ecc., che vengono a domandargli rifugio ed asilo? Usa, è vero, con essi di una larga e generosa ospitalità, ma li lascia fin senza la tutela ed il presidio di una legge, che valesse a guarentirli da arbitrii non commessi, ma possibili. Veda adunque il signor La Farina ch’egli ci vuol vender lucciole per lanterne.

(3)

Istoria documentata della rivoluzione siciliana e delle sue relazioni coi governi, italiani e stranieri (1848-1849), di Giuseppe LA FARINA, CAPOLAGO, Tipografia Elvetica, 1850.

Ancora, ci rincresce che forse la troppa foga di difender la sua tesi ha fatto dimenticare al signor La Farina quei riguardi che si debbono all’onore ed inviolabilità altrui. da ognuno che prende la, penna in mano o stampa. Perché, per esempio, calunniare Aurelio Saliceti, ed affermar sul. suo conto quelloche viene solennemente smentito dai fatti? Perché mettergli in bocca parole che egli, ministro di Ferdinando II nel 48, non ha mai profferite, né poteva profferire, cioè che sarebbe agevole schiacciar la Sicilia cogli applausi di tutta Italia?

«Il Saliceti, succeduto al Borianni, fu uno di coloro, scrive il Leopardi, cap. XXIII,Narrazioni storiche,che firmarono Ratto sovrano del 6 marzo, con cui si concesse all’isola uno. Statuto, un Parlamentò e un governo suoi proprii e affatto separati da quelli del continente. Solo vincolo tra i due regni l’autorità dell’unico monarca, esercitata da un viceré, scelto fra i principi del sangue o fra i più cospicui Siciliani, da. un Segretario di Stato residente in Napoli, da tre ministri, e da uh direttore residente a Palermo', tutti isolani. Regii decreti nominarono viceré Ruggero Settimo de' principi di Fatalia; segretario di Stato il Commendatore Gaetano Scovazzo, ministri il principe di Scordia, Pietro Lanza, il marchese di Torrearsa, Vincenzo Fardella e Pasquale Calvi; direttore Mariano Stabile; degnissimi cittadini che si trovavano alla testa della rivoluzione siciliana. Ogni controversia sugli interessi comuni ai due Stati dell’unica monarchia,, si risolverebbe dai due parlamenti: se questi non s’accordassero, sarebbe sottoposta ai parlamenti di Piemonte e di Toscana: ove anche questi dissentissero, il pontefice deciderebbe come arbitro inappellabile.»

Bisogna esser giusti cogli stessi nemici, e non avremmo voluto ricordar questa massima al signor La Farina.

NOTE

(4)Vedi il giornale il Diritto,19 settembre 1856.




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GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

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GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano






Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le d鶥loppement in駡l et la question nationale (Samir Amin)










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