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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO
Panteon dei Martiri della libertà italiana

CARLO PISACANE E COMPAGNI MARTIRI A SANZA

BENTIVEGNA  1863 VENOSTA Carlo Pisacane e compagni martiri a Sanza
Francesco Bentivegna

CARLO PISACANE E COMPAGNI MARTIRI A SANZA


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NOTIZIE STORICHE PER FELICE VENOSTA

Eran trecento: e ran

giovani e forti:

E sono morti!

MILANO 1863
PRESSO L’EDITORE CARLO BARBINI
Via Larga
(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)
1863 MONETA - VENOSTA Carlo Pisacane e compagni martiri a Sanza


ALLA

SANTA MEMORIA

DI

ENRICO TAZZOLI

APOSTOLO DEL VANGELO

MARTIRE DELLA FEDE ITALIANA

A MANTOVA

VII DICEMBRE MDCCCL II

Per gli Italiani tutti, almeno per tutti quelli che amano veramente la pa t ria, a qualsivoglia bandiera liberale appartengano, noi scriviamo questo libro, in cui narriamo di un uomo che, non pago dell’opera della parola, faceva olocausto della vita sull’altare della patria, cimentandosi in una spedizione che, coi più splendidi successi che mai ricordi la storia, fu ritentata tre anni dopo da Giuseppe Garibaldi. E quell’uomo è Carlo Pisacane, trucidato e fatto a pezzi da feroci terrazzani il 2 luglio 1857, mentre egli li voleva redimere dal crudo servaggio del Borbone. Noi diciamo di scrivere per gli Italiani tutti a qualunque opinione liberale appartengano, poiché a tutti i buoni deve essere sacro il culto dei Martiri. Sulle loro tombe cessi ogni gara ogni fronte s’inchini: in quelle tombe non stanno forse le ra gi oni del rapido nostro risorgere? Onorare gli nomini c h e fecero sacrificio della vita, null’altro chiedendo che la soddisfazione d’aver compiuto un obbligo, rammentarli in un modo che i superstiti e gli avvenire possano imitarli, atta patria sacrificando ogni cosa, gli è compito si santo che noi, a malgrado le mille difficoltà che ci si paravano dinanzi, con tutta la potenza dell'anima lo abbiamo assunto. Quando si ha la ferma coscienza di poter colla propria opera arrecare un bene qualunque all'umanità, o compire un dovere non vi è ostacolo che non sia da superare.

Milano, autunno 1862.

Felice Venosta

CARLO PISACANE E COMPAGNI MARTIRI A SANZA

........ E il popolo v'imparerà che quando l'Italia era tenebre e pianto sommesso, e l’Unità era battezzata sogno d’infermo, e la Libertà non era credula possibile, un altro popolo, nelle condizioni più sfavorevoli e contro i potenti, innalzò «ma bandiera di fede defluita e pubblicamente confess at a e parlò d'educazione di popolo e la tentò, d'azione e la tentò, di martirio e raffrontò col sorriso.

I

La rivoluzione romana era vinta. Il giorno 3 di luglio del 1849 la eterna città, quella su cui sono riposte le più nobili aspirazioni degli Italiani, dopo una strenua difesa, era ridotta al libito delle truppe di Francia: i nemici d’Italia, i nemici di Roma, potevano ormai dirsi contenti. Se la caduta di Roma Aveva resi più che mai baldanzosi i tiranni dilaniatori delle nostre belle terre, se dessi si studiavano di abbattere quanto era stato eretto dalla libertà, e cercassero a tut t’ uomo di soffocare nel sangue ogni palpito nazionale, non per questo gli Animi dei patrioti erano depressi. Questi generosi sulle rovine fatte dalle armi straniere, nel sangue sparso dai Martiri, Ira la concisione disordinata dei sentimenti e delle opere, scorgevano estollersi — decisa e tenace un’idea, la quale fiammeggiava siccome il faro dell'avvenire — la democrazia coi diritti imprescrittibili del popolo su quelli dell’assoluta potestà. Le passioni più sfrenate, le bramosie più illimitate cercarono deturparla; combatterla gli interessi più egoisti, la forza brutale, i pregiudizi più strani. Ma dessa, figliuola primogenita del Divin Verbo, stette e starà salda siccome il destino. Comeché i conati delle armi italiane fossero stati repressi, tuttavolta queste avevano riportata una grande vittoria: il prestigio era stato vinto: si erano misurate le forze: saggiati i mezzi nella lotta ineguale: corretti in gran parte gli errori: depurate le aspirazioni: concretate le direzioni degli spiriti: compromessi i partiti avversi, sia nella sterilità dei propositi, sia nei delitti del dispotismo. E codesti partiti, fradici di sangue e di lacrime degli immolati alla loro conservazione, profeticamente scriveva il Vecchi, debbono crollare e sparire in nome della felicità di tutti e della eguaglianza universale.»

Nel mezzo della fitta tenebra vedemmo le grandi fisonomie di Spartaco, di Epaminonda, di Ferruccio, di Giovanni Huss, spargere colle loro virtù una vivida luce, ed innamorare gli uomini del magnanimo esempio che offersero ai secoli. — Vedemmo allora unirsi in nobile connubio e la penna e la spada: il Pensiero e l' Azione. — E l’Italia, quantunque martirizzata dagli stranieri e dagli sciagurati principi viveva ancora, viveva e camminava, e l’un di più che l’altro s’andava facendo più grande sotto il peso delle sventure che la circondavano.


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II

Fra coloro che coll’ingegno e col valore cooperarono grandemente a prò della patria nostra nell’ultimo decennio, e che per essa fecero sacrificio della vita, scorgiamo primeggiare il nome di Carlo Pisacane. Generoso fra quanti mai n’ebbe l’Italia, egli volle con un pugno di prodi ritentare, ma pur infelicemente quella spedizione già fallita ai fratelli Bandiera, spedizione più tardi tratta a compimento da Giuseppe Garibaldi.

La vita di Carlo Pisacane fu tutta di virtuose opere, di generosi pensieri e di magnanimi affetti; quando si accinse all’azione era quasi sicuro della morte che P attendeva; tuttavia, porgendo un magnifico esempio agli Italiani, con animo fermo e deliberato, le andò incontro, come ad una festa da lungo tempo desiderata.

Coloro che piansero sul triste fato dei Bandiera, avranno, non ne dubitiamo, un pensiero ed una lagrima anco pel Pisacane e gli altri prodi che sug g ellarono col loro sangue la Fede Italiana.

All’alba del 22 agosto 1818, Carlo Pisacane sortiva i alla vita nella ridente Napoli, in quell’albergo di gentili spiriti e di profondi intelletti, in quella città si, ben composta di greca vivacità e di romana sapienza.

Il padre fu il duca Gennaro di san Giovanni, e la madre Nicolina Basile De Luna. Fin dalla più tenera età egli ebbe a pregustare le amarezze della vita; ché toccava appena i sei anni, quando perdeva il padre, il quale cotanto il prediligeva. Non furono per; altro da donna Nicolina risparmiate cure e premure alcune, perché il suo Carlo ricevesse quell'educazione che si convenivano e ai natali che aveva avuti in sorte, e alla dimostrata precoce svegliatezza di mente. E Carlo corrispose con affetto alle materne sollecitudini, mostrandosi amantissimo degli studi. L’animo suo fervido inclinava specialmente alle cose di guerra; e quest’inclinazione parve tanto forte alla( 1 ) genitrice, che, nel 1831, lo pose nel reale collegio militare della Nunziatella, dove i figli di patrizia famiglia o di militari si educavano al mestiere delle armi. Carlo in quelle discipline che ivi si insegnavano sempre fu de' primi; e nelle matematiche specialmente avanzò ogni altro; onde gli istruttori se lo tenevano carissimo.

Mentre trovavasi nel collegio fu pur paggio, per quattro anni, alla corte del re Borbone ed è questo, scrive un suo biografo, non lieve indizio di sua nobile indole, che, in quell’età giovanissima, così facile agli allettamenti ed agli inganni, si serbasse incorrotto e non bevesse il veleno dei consorzi cortigianeschi.

Passati, nel 1839, gli esami in modo luminosissimo, amante com’era pegli esercizi equestri, desiderò militare nella cavalleria. Ma non avendo potuto ottener. ciò, recavasi, come soldato gregario, nella città di Nocera, e dopo sei mesi di tirocinio, veniva ammesso nel corpo reale del Genio napolitano col grado di sottotenente. Innanzi entrare in collegio, nel 1830, egli aveva conosciuta una fanciulla dell’età stia, della quale sin d’allora si prese. N é il giovanile affetto fu dimenticato pelle lunghe assenze e per gli studi severi; che anzi, sempre più crescendo, si fece amore, e più violento riarse quando, uscito della Nunziatella, egli trovava la diletta fanciulla sposa ad altro uomo. 11 contrasto fra la passione e il dovere fu lungo; pur, come poscia vedremo, vinse l’amore.

La rinomanza che non tardò guari ad acquistarsi quale ingegnere abilissimo, fece sì che il capitano Fonseca lo domandasse in aiuto a condurre la ferrovia da Napoli a Caserta. Carlo adempié quell’ufficio con molta lode; ma i modi burberi del Fonseca mal si affacevano colla gentilezza di lui. Onde, stancò, chiese di essere tolto a que’ lavori. Ciò che ottenne; se non che, quasi in pena del passo fatto, veniva mandato negli Abruzzi, ove sen stette meglio che quindici mesi. Restituito alfine alla sua Napoli, fu pr o mosso al grado di primo tenente.

Nel tempo in cui fu in quella città gli accadeva un caso, degno di essere ricordato. Mentre una sera, ad ora inoltrata d’assai, moveva alla propria abitazione, un ladro improvvisamente sboccava fuori, gli si avventava alla persona, minacciandolo di morte se I non gli avesse dato quanto denaro per avventura ai trovasse avere in dosso. Carlo non era tal uomo da I inghiottirsi con santa rassegnazione le minacce del ladro. Comeché inerme, a fronte d’uomo armato, noa 1 stava punto in forse; si gettava risoluto sul malandrino, e tentava abbatterlo. Robusto ed agile come era, desso vi sarebbe riuscito; ma lo scellerato, vedutosi a mal partito, cavava di sotto un trincetto, e! gli traeva due colpi nel petto e nel ventre. Il povero Carlo, chiesto invano soccorso a poche pietose persone, a stento, sol per forza d’animo, condottosi alla porta di casa, ivi, immerso nel proprio sangue,; come morto cadeva. I chirurghi, pe’ quali mandò la famiglia di lui, dissero che essendo d’una ferita tocca l’ala destra del fegato non v’era luogo a speranze di vita. Se non che il vigore singolare che aveva d'animo e di corpo, e le pietose cure della donna del cuore vinsero la forza del male; si riebbe e sanò. Della qual cosa l'egregio chirurgo Coluzzo non rifinì di stupirsi, dicendo esser rerto il Pisacane serbato a cose grandi dal cielo, poiché tale pericolo, a nessun uomo superabile, avesse cosi felicemente, contro ogni giusta aspettazione, superato.

Guarito che fu, veniva richiesto dal capitano Gonzales per dirigere una strada all’Antignano; egli accettava, e moveva tostamente per quella volta.

L’odio, che presto senti nascersi in petto contro 1 tiranni d'Italia, massime contro il Borbone di Napoli; la lotta sempre più viva tra l'amore per la donna che avrebbe voluto far sua, e il rispetto alla sposa altrui, lo decisero a lasciare il paese nativo.

L’8 di febbraio 1847, partivasi da Napoli alla volta di Londra. Rimasto quivi alcun tempo si recava a Parigi, e, invano cercato di procacciarsi di che campare la vita, decideva arruolarsi tra le schiere dei soldati francesi, che partivano per la guerra contro gli Arabi dell’Algeria. E tanto più volontieri abbracciava tale determinazione; ché poteva addestrarsi di proposito nel mestiere delle armi, speranzoso, come era, di essere poscia in grado di esercitarlo a beneficio della patria e della libertà. Egli presentavasi al duca di Montebello, allora ministro della marina, il quale aveva conosciuta la famiglia Pisacane mentre era ambasciatore presso la Corte di Napoli; per le costui raccomandazioni veniva ammesso in qualità di sottotenente nel primo reggimento della Legione straniera, comandato dal colonnello Mellinet.

Carlo moveva per a Marsiglia; e, il 5 dicembre dello stesso 1847, partiva per l’Africa. Colà, nella rude guerra contro gli Arabi, non gli mancarono occasioni di guadagnarsi la stima e Valletto dei commilitoni.


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III

Gregorio XVI moriva in Roma il di 9 giugno dell’anno 1846 senza rimpianto alcuno, come eotoi che lasciava un tristissimo ricordo del suo regno: trilustre corredo di mali gittate sul capo a tre milioni d'uomini in faccia all'Europa civile. In sulla sedia, apostolica, col nome di Pio IX, il dì 16 giugno, saì Uva il cardinale Mastai Ferretti. Accanto al nuovo pontefice, vegliava un sacerdote Graziosi, suo confessore, il quale, onesto, educate a forti virtù ed abborrendo da tutte quelle turpitudini e tirannie del mostruoso governo clericale, esortava, consigliava e spronava Pio IX a bene operare. Pio, tremante innanzi al Graziosi, mostrava di ascoltare quell’ottimo sacerdote; s’infingeva il vero Vicario di Cristo, salvatore dei popoli; accordava le armi cittadine e lo statuto fondamentale, rendeva laico il ministero e parte del governo nelle province; e qual vero uomo di Dio mostrava di rompere i lacci, che come vassallo lo tenevano avvinto ai despoti della terra. E gl'Italiani imaginosi quant’altri mai, reputandolo l’angelo della carità e dell’amore, il Messia redivivo della libertà umana, il terrore dei tiranni, col nome di lui nel cuore e sulle labbra, fiduciosi, lavoravano a dar com p imento al miracolo che tutti i nostri grandi attesero senza m ai vederlo, la cacciata cioè ol t r’Alpi dello straniero e lo stabilimento dell'italiana nazionalità. Quel nome echeggiante coi segni della più alta venerazione era qual dardo avvelenato, confitto nel cuore dell'Austria e degli altri tiranni d’Italia. Il ministro austriaco, principe di Mettermeli, per questi ed altri avvenimenti, era frattanto venuto in pensiero sui destini dell’edificio da lui eretto sul sangue e sulle lagrime dei popoli. Quel solenne tranellatore, ad ovviare i preveduti mali e a rimettere gli ordini nel vecchio assetto, ricorreva agli espedienti di quella satanica politica che gli aveva procacciata fama fra gli uomini del dispotismo.

Le gazzette tedesche andavano pubblicando articoli ricordanti gli episodi delle fallite rivoluzioni degli anni trascorsi, e profetizzavano il vero sul carattere del maraviglioso pontefice, o ne dipingevano la mal ferma salute e la debolezza del senno. E mentre il conte di Liitzow, ambasciatore austriaco in Roma, con severe parole minacciava il Vaticano, la città forte di Ferrara veniva occupata dalle truppe imperiali, ed erano nell’alma città e nelle Romagne sguinzagliati emissari per sollevare gli animi perversi contro il novello papa e le tendenze oneste dei patrioti che lo sorreggevano. Il malvagio rimedio non sorti quell’esito che i tristi satelliti della vecchia tirannide speravano. I popoli che, innanzi tratto spensierati erano e soltanto bramosi d’una vita più felice, si posero in sulle guardie, gli scritti dell’Austria reputarono calunniosi e l’affaccendarsi paura; e, nelle proprie forze, scorsero la possibilità d’innalzarsi. La fama di Pio IX, accresciuta dall’amore di libertà e da quell’entusiasmo che soltanto le menti degli Italiani sanno creare, eccitava una sommossa in Reggio di Calabria; e la sacra fiamma si dilatava quindi a Messina, a Palermo e in altre terre siciliane. Quegli abitatori non chiedevano che le concessioni accordate ai Romani: milizia cittadina ordinata liberamente: franchigie del pensiero: sane leggi: una consulta noa serva, né corrotta. 1 Napoletani, alla loro volta, facevano eguali dimostrazioni, ma in modo pacifico, gridando osanna al pontefice e al re. Se non che il Borbone, scellerato quanto i Seiani ed i Tigellini, rispondeva alle giuste e nobilissime aspirazioni dei suoi sudditi coll’inviare forte nerbo di truppe nelle Calabrie e nella Sicilia, ove le prigionie, le fucilazioni, le stragi riuscivano a temperare la libera ed onesta voce, e coll’archibugiare e caricare alla baionetta l’inerme popolo napolitano, il quale, nella esalazione di poetiche speranze, bramava soltanto di amare il suo re e di benedirlo principe umano. Ma la legalità conculcata e depressa, forte de' suoi diritti, non doveva in Sicilia tardar guari a drizzare la fronte. Infrattanto il granduca Leopoldo di Toscana, sopraffatto dallo spavento, liberava dal carcere i cittadini colpevoli di stampe clandestine e di schiamazzi da piazze; licenziava la sbirraglia; istituiva la guardia civica ad imitazione di quella di Roma., e faceva promessa di importanti riforme governative.

Da l re di Piemonte, comeché innanzi tratto con qualche esitanza, si operava medesimamente, anzi con intendimenti maggiori; e i tre Stati, sino adesso divisi, intavolavano un trattato di alleanza reciproca, inauguratrice di una confederazione italiana, primo passo alla tanto desiderata unità della Penisola. Il re di Napoli, richiesto a far parte della lega, pareva dapprima volesse aderire; indi respingeva ogni proposta. I duchi di Parma e di Modena, senza mistero di sorta, si collegavano tostamente coll'acerbissimo nemico d’Italia, l’Austria.

«La ostinatezza di questi nel mal governo, scrive il Vecchi, giovava, anziché nuocere, alla causa comune, imperciocché i malcontenti' incontravano lietamente il martirio per un inno cantato a Pio IX; sorridevano nel pagare ammende; per aver dette parole di elogio al nome dell’arciduca Leopoldo; andavano allegri in carcere od in esilio per aver fatto plauso a re Carlo Alberto e all’Italia. »

Nelle due Sicilie i moti insurrezionali ebbero importanza di non lieve momento.

Il dramma che ci siamo accinti a descrivere svolgentesi nelle terre meridionali, tanto belle quanto straziate orribilmente dagli uomini colla pi ù cruda barbarie del dispotismo, noi crediamo pregio dell’opera intrattenerci in particolar modo a parlare di quelle.

Da Ferdinando il cattolico a Filippo IV, cioè dai 1500 al 1648, Napoli, sotto il dominio di Madrid, ebbe ventotto viceré, i quali, rubando ad un tempo e per la Spagna e per sé, avevano con ogni sorta di balzelli e di avanie ridotta nella più squallidi miseria quella regione privilegiata da Dio delle più rare delizie della natura. Salito al trono, Filippo l vide come difficile tornavagli conservarsi i possedimenti italiani; onde distaccava per sempre dalla sua corona il regno di Napoli, e lo dava a Carlo s u o figliuolo, nato dalle felici nozze con Elisabetta Farnese.

Il nuovo re si fece chiamare Carlo III per la grazia di Dio re del regno delle due Sicilie e di Gerusalemme, infante di Spagna, duca di Parma, gran principe ereditario della Toscana. Disegnò le armi innestando alle nazionali delle due Sicilie tre gigli d'oro per la casa di Spagna, sei di azzurro per la Farnese e sei palle rosse per quella dei Medici. La I bandiera volle bianca con in mezzo le torri di Ca] stiglia ed il rinomato vello d'oro della monarchia spagnuola. Nel 1735, cioè un anno dopo che era stato insediato nel nuovo regno, Carlo Ili, recatosi a Palermo e convocati nel Duomo i tre ordini dello! Stato che costituivano l'assemblea nazionale della monarchia rappresentativa, fondata dai Normanni in. Sicilia (1), saliva in sul trono, e, ponendo la mano sul Vangelo, ad alta voce, giurava di mantenere i diritti del popolo, le ragioni del parlamento e i privilegi della città. «Diciotto re, scrive La Cecilia, avevano giurato an ch 'essi di mantenere e garantire le libertà rappresentative della Sicilia: tutti osservarono que’ giuramenti; i successori di Carlo I II, Ferdinando I, Francesco I e Ferdinando II giurarono an c h'essi più volte di mantenere e garantire non solo le antiche istituzioni della monarchia di Sicilia, ma anche i nuovi patti costituzionali della moderna civiltà; i tre principi furono fedifraghi e spergiuri in faccia a Dio ed al popolo.»

Dopo secoli di straniera servitù, nella più bella parte d’Italia, erasi costituito un regno indipendente, che i trattati delle primarie potenze d'Europa garanti vano al ramo dei Borboni di Spagna, i quali presero il nome di Borboni di Napoli, a patto però che rinunciassero per sempre a riunire in una sola la corona delle due Sicilie e quella di Spagna e delle Indie.

Napoli sotto Carlo III cominciò a godere d’un savio governo. Bernardo Tanucci di Stia nel Casentino in Toscana, ministro di Carlo, dava tosto mano a riformare con savie leggi lo Stato, a riordinare la finanza e ad emancipare la corona da tutte le usurpazioni ed abusi della podestà ecclesiastica. Queste ultime radicali riforme sono le opere più sorprendenti di quel regno; imperocché per incuria dei viceré eransi talmente estesi i poteri della Chiesa, che il clero opprimeva i popoli ed imperava perfino sul governo. Infrenati i chierici, si pose mano sulle giurisdizioni ed immunità baronali. Si regolarono ed alleggerirono le imposte; si diede opera al catasto; onde fu contento il popolo è respirò; S’impinguò l’erario, e soperchiando gl'introiti ai bisogni si pensò ai monumenti di grandezza.» Allora, coma per incanto, sorsero palazzi, edifici, ospizi, teatri e monumenti d’ogni genere (2).

Moriva il re Ferdinando IT di Spagna senza prole, e lasciava vacuo il trono a Carlo III. Ma non potendosi, come accennammo, pe’ trattati, riunire in una sola le corone di Spagna e di Napoli, Carlo decise porre quest’ultima corona sul capo del suo terzogenito, il fatale Ferdinando, fatale a sé, fatale al reame delle due Sicilie. Come in quella di Spagna, costumavasi nella Corte di Napoli ad ogni giovine principe o principessa a dare un compagno coetaneo che con vocabolo spagnuolo chiamavasi il Menino. Divideva esso la tavola, i giuochi, gli studi coi reali infanti; ma se questi commettevano fallo, egli doveva sopportarne le reprensioni, i castighi a pane ed acqua e perfino le frustate. Compagno di Ferdinando fu un tal Gennaro Rivelli, figlio della di lui balia, ragazzo robustissimo, brutto però e di istinti feroci, e dedito ai vizi. Ferdinando venne da costui iniziato a vita incresciosa, e con esso lui ebbe comuni gli istinti rozzi, plebei ed impuri. Finite le pompe d'insediamento al reale, potere, il giovine Ferdinando corse difilato verso Rivelli, e tutto giubilante, s clamò.

«S a i che sono re e posso fare ciò che voglio, e tu, fratello di latte, sarai luogotenente mio. » « E fu vaticinio reale! scrive La Cecilia. E vennero i giorni in cui Rivelli fu luogotenente del re, ma di ferocissimi atti, di delitti spaventevoli a di lesa umanità.» Trascorsa una giovinezza nel più turpe modo che mai (3), addì gennaio 1767, compiendo gli anni sedici, età Maggiorenne stabilita da Carlo, Ferdinando si faceva proclamare sovrano assoluto e libero delle due Sicilie; e un anno dopo si univa in matrimonio con Carolina d’Austria. A quest'infame connubio, Napoli deve i primi Martiri della libertà italiana dell’età moderna.

Non importando punto allo scopo di questo scritto il narrare per filo e per segno delle sozzure a cui si abbandonò quella regale coppia (4), noi salteremo a piè pari allo scoppio della grande rivoluzione francese, rivoluzione che proclamava i diritti dell’uomó, e che, gridando guerra mortale alla barbarie dei vecchi troni, chiamava i popoli tutti a nuova vita. Narratori delle iniquità dei principi, dei delitti contro la libertà, del martirio dei popoli, ci atteniamo soltanto a quella parte delle generali vicende che aiutano ad intendere l’opera gloriosa dei Martiri.

Nel 1791, Ferdinando e Carolina, impauriti dalle idee di Francia, eccitavano contro di esse l'odio delle turbe ignoranti, usando a ciò l’opera dei preti e dei frati, i quali, mutando in tribuna i pergami e i confessionali, a tut t’ uomo predicavano contro gli ordini liberi. Anche le spie si affaccendavano a più potere: Carolina conferiva con esse nella reggia; magistrati, nobili, ecclesiastici si prestavano al compito infame. I libri di Gaetano Filangeri furono sbanditi e bruciati; vietati i giornali forestieri, vietate le adunanze dei dotti; e adoperata la frusta, come abbietti furfanti, contro i sospetti di essere amatori delle riforme francesi.

Il 4 ottobre 1794, Vincenzo Vitaliano, di ventidue anni, Emanuele De Deo, di venti, Vincenzo Galiani, di diciannove, gentiluomini per nascita, notissimi per ingegno, salivano il patibolo per avere, all'arrivo della flotta francese comandata dall’ammiraglio Latouche, salutata con entusiasmo la bandiera della libertà. Mentre i tre giovini versavano il loro nobilissimo sangue, le galere e le carceri si empivano d’ingegni preclari.

Le opinioni perseguitate diventano sentimenti: il sentimento produce l’entusiasmo, l'entusiasmo si comunica fra ogni classe; onde le opinioni perseguitate diventano generali e trionfano. Il sangue dei primi Martiri eccitò sdegno e amor di vendetta; il numero di quelli che odiarono gli ordini antichi andò ognora crescendo; e quello che innanzi tratto era amore di riforma diventò desiderio ardente di libertà.

Quindi nuove persecuzioni e nuovi martiri. Nel 1798 essendosi i Francesi, guidati da Championnet, impadroniti di Roma, la fama della Repubblica, inaugurata in Campidoglio, venne più tremenda che mai a disturbare i sonni di Ferdinando e Carolina. Onde, a malgrado della neutralità promessa all’ammiraglio Latouche, addì 22 novembre di quell'anno con un manifesto, il re dichiarava essere deciso a muovere col suo esercito per riconquistare al papa le terre che i Francesi avevangli tolte. E senza porre tempo; in mezzo proruppe negli Stati romani con cinquantamila uomini capitanati dal tedesco Mack; e marciando a grandi giornate, giunse a Roma il 29 novembre medesimo. All’avvicinarsi dei Napoletani, i Francesi, vedendosi in piccolo numero, si ritirarono da quella città, e con esso loro la più parte degli ama' tori della Repubblica. «Ma alcuni di questi, scrive il Colletta, confidenti alle regali promesse di clemenza o arrischiosi o dal fato prescritti, restarono: e nel giorno istesso furono imprigionati o morti: due fratelli di nome Corona, napoletani, partigiani di libertà, rimasti con troppa fede al re, furono, per comando di lui, presi ed uccisi. La plebe scatenata, sotto velo di fede a Dio e al pontefice, spogliò case, trucidò cittadini, affogò nel Tevere molti Giudei: operava disordini gravi e delitti.»

Championnet, raccolte tutte le truppe che qua e là aveva, batté da ogni parte il nemico; gli tolse molte armi e bandiere; e da assalito divenendo assalitore, mosse colle sue genti per alla volta di Napoli. Il re e la regina, non vedendosi nella capitale più sicuri, ai 21 dicembre partirono per la Sicilia, seco recando i mobili più preziosi dei regali palazzi, tutte le ricchezze dei musei, non che quale dello Stato, cento milioni di lire, e lasciando il regno senz’ordine, senza leggi e nella miseria. Non contento di ciò, volle Ferdinando, per soprassello; impartire barbarissime disposizioni, fra cui quella di abbruciare le navi dell’arsenale e del porto, perché non andassero in mano ai Repubblicani. E due vascelli, tre fregate e centoventi barche cannoniere furono arse in cospetto della città, che rimase mesta e costernala di quel tristo spettacolo.

Il generale francese, dopo una lunga battaglia, ai 22 gennajo 1799, entrò vittorioso in Napoli, e pro cl amò la Repubblica Partenopea. Mentre i buoni sostenevano i nuovi ordini della libertà e adoperavano ogni più onesto e generoso modo, i tristi facevano studio di male arti per rimettere in trono lo tirannide e la barbarie. Uomini di cattivo ingegno, ladri, assassini si posero alla testa della controrivoluzione nelle provincie. Essi erano chiamati amici ed onorati da Ferdinando,e da Carolina; ad essi si rivolsero i preti, i frati, i vescovi e gli altri amici del dispotismo; e ad essi fu anima e capo il cardinale Fabrizio Ruffo, uomo che lasciò di sé fama scelleratissima. Assuntosi quel porporato di sommuovere le Calabrie contro i Repubblicani, sbarcò sul lido calabrese nel febbraio di quel medesimo anno 1799; raccolse intorno a sé malfattori e briganti in gran co pia, e ne compose un esercito che chiamò della Salita li Fede ; d’onde venne poscia il nome di Sanfedisti a tutti i più perversi retrogradi. Ruffo s'impadronì di molte città calabresi; eppoi si diresse a Cotrone (5) ove, in nome della religione e del diritto divino de l re, fece nefandità non mai più udite. Tutti gli amanti di Repubblica vennero tratti a morte, anche negli li altri luoghi in cui esercito della Santa Fede entrava vittorioso. E fra questi, la sera del 24 febbraio, Giovanni Andrea Serrao, vescovo di Potenza uomo veneratissimo per dottrina, per intera religione e per santità di costumi.

I Repubblicani erano dappertutto i più virtuosi uomini della Nazione; sempre si comportavano da eroi: essi seppero morire e confermare col sangue la loro fede. Valorosamente resistettero, in sulle prime, alle orde del cardinale Ruffo; ma il combattimento era in armi dispare; epperò non potevano vincere. La vittoria de' B orboniani in nessun luogo fu allegra; imperocché i generosi combattenti per la Repubblica, nulla curando fuorché il proprio onore e il trionfo i della libertà, incontrarono con animo intrepido la morte, e con sublime calma contemplarono gli incendì delle loro città.

Dopo essere passato su mucchi di cadaveri de' suoi e dei Repubblicani, fra le fiamme, i saccheggi e le rovine, più coll'inganno che colle sue preponderanti forze, a cui si erano uniti e Russi e Turchi, l’esecrato Cardinale entrava in Napoli il 1 3 giugno, e dopo, giorni di ecatombi, il 30, alla rada, protetto dalla flotta inglese condotta dall'ammiraglio Nelson, giungeva: pure re Ferdinando. Suo primo compito fu quello di promulgare una legge contro i rei di stato, in forza della quale più di quarantamila cittadini erano minacciati della pena di morte, e un numero maggiore del bando. «E per conseguire i suoi feroci voleri, scrive il Vannucci, avea creata una Giunta di Stato composta di tristissimi uomini, più tristo de' quali era Vincenzo Speciale, nativo di Sicilia, spregiatore di ogni giustizia, furioso amatore della tirannide, insultatore crudele dei prigionieri, iniquo falsificatore dei processi: insomma schiuma di scellerato, e degno ministro alle ire di Carolina e di Ferdinando Borbone. » La persecuzione di questa tristissima coppia superò in crudeltà quella de' più feroci tiranni. Mentre contaminava le città col sangue degli uomini più venerandi, col commettere gli atti più arbitrari che mai, non risparmiava neppure le donne. L’ aver legami di parentela o d’amicizia con un fautore di Repubblica, l’aver soltanto mostrato, un senso di umanità pelle vittime, bastava per esporre le più nobili e virtuose donne agli strazi della plebe furibonda, alle ire della corte, alle vendette di Carolina. Le madri, le mogli, le sorelle dei Repubblicani vennero barbaramente trattate: non mancarono le condanne di morte: anche nobilissime donne offersero il collo al capestro, o tinsero i l loro sangue la mannaia del Borbone. Questo re, stretto dalle vittorie di Napoleone, nel 1806 dovette cercare di nuovo rifugio in Sicilia, scampando così la meritata vendetta. Ivi rimase dieci anni finché durarono in Napoli i regni di Giuseppe Bonaparte e di Giovacchino Murat.

Le sciagure dei Napolitani non ebbero termine sotto il governo di questi due re. Dessi mancarono alle loro promesse: colle prepotenze della conquista, colle immoderate gravezze, colle morti della più gagliarda gioventù in lontane guerre, avevano di molto irritati i popoli. Insopportabile fu più che l’altro il regno di Murat; e in uno scritto, che a suo luogo citeremo, Carlo Pisacane dimostra come l’Austria e Ferdinando II fossero molto più miti nelle loro misure di quel re francese.

Gli amatori di Repubblica, odiando qualunque dominazione straniera, si ritirarono sui monti degli Abruzzi e delle Calabrie; ed ivi, intenda cospirare contro i re, dettero principio alla sètta dei Carbonari, la quale presto divenne potentissima (6). Gl’Inglesi, che stavano in Sicilia a difesa del Borbone, si rallegrarono della mala contentezza che nasceva contro i Francesi; si rallegrarono dei sentimenti che animavano la sètta dei Carbonari, e con essi fecero pratiche, e promisero loro una costituzione se si adoperassero a richiamare l'antico re. La polizia di Giovacchino, venuta in grandi sospetti di queste pratiche, cominciò ad usare fierissimi modi: furono stabilite commissioni militari, vi furono condanne di morte. Ma il carbonarismo, perseguitato, s’ingrandiva e si estendeva in ogni luogo, in ogni ceto; e quanto più poteva lavorava alla rovina di Murat. E quando questi, muovendo contro gli Austriaci, chiamò gli Italiani all'indipendenza, niuno rispose all'appello, tanto i popoli erano stanchi delle fallite speranze.

Cadde Giovacchino; e tornò Ferdinando a gotizzare Napoli. Il Borbone, anziché dar sostegno e favore a coloro che avevano cooperalo al suo ritorno, anziché dare la promessa costituzione, si mostrò pronto a punire chi di libertà parlasse e pensasse. I Carbonari allora cominciarono a cospirare contro di esso. La rivoluzione di Spagna del 1820 vieppiù accese i desideri e le speranze di libertà. La materia era pronta: a destare vastissimo incendio bastava una favilla. Ai 2 di luglio di quello stesso anno i sottotenenti nel reggimento Borbone, Michele Morelli e Giuseppe Silvati, innalzando la tricolore bandiera, disertavano da Nola con alquanti sergenti e soldati. Ad essi si univano vari settari e il prete Luigi Menichini da Nola. Il grido di patria trovò ovunque favore; e la rivoluzione in quattro dì si operò da un capo all’altro del regno, con esemplare concordia, senza spargimento di sangue. In tant’armonia di tutti nello stesso pensiero, il re cedette ai desideri del popolo, e promise e giurò solennemente la costituzione di Spagna. Il giorno primo di ottobre si apri il Parlamento nella chiesa dello Spirito Santo, ed ivi il re col maggiore apparato giurò sul libro dei Santi Vangeli di difendere e conservare la costituzione, ed

Aggiunse che se mai mancasse al giuramento, invocava da Dio sul proprio capo la pena degli spergiuri.

I principi della santa alleanza, non assentendo al mutamento di Napoli, invitarono Ferdinando a congresso in Lubiana per trattare cose del regno. Il re accettò tosto l'invito, e comunicò al Parlamento la sua volontà. Dopo vario disputare, i rappresentanti del popolo commisero il gravissimo errore di lasciare che il re partisse. Nella vita delle nazio ni come in quella degli individui v’hanno istanti solenni, i quali decidono di tutto un avvenire; un’ispirazione lumi? nosa, uno slancio generoso possono essere l'origine di felicità e di gloria; un momento di debolezza costa soventi fiate anni di umiliazioni e di servaggio. L’errore del Parlamento napoletano fruttò larga messe di lacrime e di sangue a quella già troppo sfortunata terra. 11 re partì infatti, il 14 dicembre, giurando che andava qual mediatore di pace, qual propugnatore dei napoletani diritti, e aggiunse che, quando non ne conseguisse l’intento, a tut t’ uomo difenderebbe colle armi la costituzione. Tre mesi non erano per anco trascorsi, allorché giunse novella che Ferdinando tornava a Napoli con cinquantamila Austriaci, comandati da Frimont, per distruggere quella costituzione che aveva giurato difendere. In riscatto dello spergiuro il Borbone appendeva a Firenze in voto ricchissima lampada alla Madonna dell’Annunciata (7).

Alla nuova fremettero i popoli e corsero alle Armi. Condotti dai generali Carrascosa e Guglielmo Pepe, quarantamila uomini di truppa regolare, a cui si erano unite molte milizie civili, mossero contro il nemico. Ma i capitani erano discordi, grandissima la diffidenza fra generali e soldati. Pepe assalì il 7 marzo 1821 gli Austriaci a Rieti, e fu vinto. L'esercito napolitano si scoraggiò e si disperse; e gli Austriaci con gran facilità entrarono in Napoli ai 23 marzo, in mezzo allo sbalordimento dei cittadini, che «mesti pensavano alla perduta libertà e alla soprastante tirannide.» E questa all’usanza dei Borboni fu crudelissima, avendo trovato Ferdinando nello scellerato Canosa un suo degno ministro. L'effusione di sangue fu tale che perfin l’Austria se ne commosse. L’imperatore scriveva al generale Frimont comunicasse al re Borbone, come ei reputasse migliore politica quella di martirizzare senza spargimento di sangue i rei di maestà. Il Borbone rispose che di per s e stesso non farebbe grazia a niun condannato, m a che siffatte essendo le imperiali intenzioni, ad esse pienamente si conformerebbe. Epperò invece d’impiccare quelli già sentenziati alla morte, nel suo cuore magnanimo stabilì che patissero tre nt’ anni di ferri nell’orrida isola dì Santo Stefano.

Quel re, che aveva sull’animo più delitti d’ogni altro tiranno, moriva, esecrato da tutti, il 4 gennaio 1825 (8). Il duca di Calabria, figlio di Ferdinando, veniva, per testamento olografo del defunto, confermato re; egli assumeva il nome di Francesco 2 . Questo degno erede dei Borboni pur spremé le lagrime ed il sangue dei popoli per mezzo dei preti, dei frati, dei crudeli ministri, e vieppiù di un suo rapacissimo servitore favorito, Michelangiolo Viglia, il quale insieme con una Caterina de Simone, aiutatrice delle bestiali lussurie della regina Isabella, pose a prezzo ogni cosa. Dando denari al Viglia si campava dalle condanne, si avevano impieghi civili, militari, ecclesiastici. Francesco sapeva di quelle turpitudini, ne godeva e diceva al Viglia: « Fa buoni affari e approfitta del tempo, che io non vivrò molto. » Nel 1828 gli abitatori del Cilento, stanchi del mal governo, si levarono a tumulto e si posero d’accordo coi liberali di Napoli e di altre provincie, i 6 onde proclamare una costituzione che liberasse i popoli dagli orrori del dispotismo. Francesco mandò i, contro gl’insorti il marchese De l- Carretto, generale comandante della Gendarmeria, con una truppa di sgherri, investendolo di pieni poteri. Il De l- Carretto fece orribili cose: mise a ferro e a fuoco intieri villaggi: fece macellare, condannare numero grande di generosi. Per ispaventare quel generale fece studio( ) di barbarie. Le teste tagliate sul patibolo erano per ordine di lui esposte in una gabbia 'di ferro e messe davanti agli occhi della moglie e dei parenti di quei! disgraziati (9).

Lo stupido e crudele Francesco Borbone moriva il giorno 8 novembre 1850. Nell'agonia della morte vedeva intorno al suo letto le ombre dei sa: criticati; onde negli estremi deliri, asseverano dicesse: Che son queste grida? Il popolo vuole la costituzione? Dategliela, e lasciatemi tranquillo.

Ferdinando II, il figlio di quell’I sabella che fu moglie di Francesco e donna di molli, saliva al trono il 10 di quello stesso mese. Le popolazioni, martoriate sino a quel punto e non rette, sorsero a nuova vita, notando nei primi atti del giovine principe sentimenti di giustizia, di assennatezza e di clemenza regale. Ferdinando biasimò il governo del padre, disse farebbe ogni sforzo per rimarginare le piaghe che da anni affliggevano il reame, promise giustizia, v igilanza e saggezza; e cominciò col dare alcune con c essioni e col diminuire il tempo di pena dei con da nnati politici. Ma non tardò guari a mostrarsi non d egenere della sua trista razza; si diede ai gesuiti, f u bigotto e feroce. Gli esili, le condanne e i macelli n succedettero senza posa dal 1832, anno in cui ricominciarono le cospirazioni (10), al 1859, tempo in cui

Vje. nosta. Pisacane 3

Vangelo della giustizia, librandosi sul capo del tiranno, lo chiamò a rendere stretto conto a Dio delle sue scelleratezze.

La congiura dei fratelli Rossaroll, quella del frate Angelo Peluso, la insurrezione di Catania e di Siracusa per opera di Salvatore Barbagallo Pittò e di altri generosi, quella di Aquila e di Cosenza, la spedizione dei fratelli Bandiera e consorti diedero principalmente luogo a strazianti ecatombi, a condanne numerosissime. E il macellamento dei generosi Bandiera coi sette loro compagni fu appunto quello che mosse a sdegno l’animo di Carlo Pisacane già amareggiato per le infamie del crudele Ferdinando.

Più sopra abbiamo detto come quest'insano re rispondesse nel 1847 ai popoli a lui soggetti, i quali non chiedevano se non quanto altri principi italiani avevano già accordato. Innanzi ci faremo a descrivere come egli mantenesse il giuramento di custodire gli ordini liberi, che, a ver dire, soltanto il timore avevagli strappato dalle labbra.


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IV

Ai 29 di gennajo 1848, re Ferdinando, innanzi all'aspetto ognor più minaccevole dei popoli napolitani e innanzi alle vittorie della insorta Sicilia, prometteva a' suoi popoli una costituzione. Ma non fu che all’11 febbraio, e, dopo mille incertezze, che quella promessa, suo malgrado, faceva un fatto compiuto. Cittadini di tutte le classi, dimentichi dei sofferti malanni, si affollarono in sulla piazza di san Francesco di Paolo, onde applaudire al re. Ferdinando, seguito dalla moglie, dall’erede al trono, dai suoi fratelli, fecesi al verone de, regale palazzo a ricevere l’omaggio della moltitudine. Alle voci di Viva Ferdinando II! — Viva la Costituzione! Viva l’Italia! — egli rispondeva portando la destra sul petto.

«E siccome, scrive il V ecchi, ad ogni tratto si faceva maggiore il numero delle genti affollate e il grido devoto ognor più crescente, quegli che ornai parca certo dell’amor de' suoi sudditi, esci dalla reggia per raccogliere davvicino il premio d’un’opera tanto desiderata, sì a lungo protratta. Allora l'entusiasmo divenne febbrile, e i saluti di onore confusi in uno solo, si mutarono in suono alto di festa, commoveutissimo. E chi baciava le mani del re; chi il lembo della sua veste; chi diceagli parole di grazie, di affetto; chi designavate il bal l o de ll’i taliana nazionalità; chi l’incoronatore delle sperante di molti secoli.»

Intanto se Napoli era in festa, la Sicilia era in guerra. Tutta l’isola in potere degli insorti, tranne la cittadella di Messina, asserragliata dappresso e mancante di viveri, Castellammare e Siracusa. Anco il reale palazzo era stretto dalla medesima necessità. Ma allorché un popolo intero accorre alle armi col grido «Si muoja senza infamia, si viva senza rimorso» non v'ha luogo,che a lungo possa resistere.

Stanca delle frustrate speranze di libertà, delle governative enormezze con cui si pretendeva acquetarla, la città di Palermo insorse il 12 gennaio 1848. Il grido della rivolta si diffuse per tutta Pisola; e Messina, Trapani, Catania, Termini, Siracusa, furono le prime a seguirne l’esempio. I preti, i frati, col Cristo |lla mano, eccitarono sulle serraglie il popolo ai sentimenti generosi e gagliardi, alla conquista de' propri diritti. A malgrado delle preponderanti forze che, ad istigazione del ministro Del Carretto, del monaco Code, suo confessore, e de' gesuiti, il B orhone aveva spedite nell’isola, i Siciliani furono vincitori; ma generosi, dopo la vittoria si accontentarono della costituzione di Napoli.

I fatti de' Siciliani vennero da tutt’ I talia applauditi. I popoli riformati inalberarono il tricolore vessillo e chiesero più che mai guarentigie costituzionali. I giornalisti, i comitati, le guardie civiche, le popolazioni d’ogni ceto, d’ogni sasso, nei teatri, nei cortili dei palazzi governativi o de' principi, colle deputazioni, cog li indirizzi, cogli inni, con mill e proteste di gratitudine e di affetto, senza posa chiedevano che i doveri del principe e del popolo venissero testimoniati da un foglio firmalo. Carlo Alberto era il primo a riconoscere un tale diritto e ad avvalorarlo. Il 10 febbraio, Pio IX indirizzava ai Romani un’allocuzione, in cui, rassegnando loro l’attuazione di parecchie importanti riforme governative, protestava che quando una guerra ingiusta fosse dichiarata « innumerevoli figliuoli, come la casa del padre, sosterrebbero il centro della cattolica unità.» E conchiudeva colle solenni parole: « Oh! benedite, gran Dio, all’Italia, e conservatele sempre questo dono di tutti preziosissimo, la fede! Beneditela colla benedizione che umilmente vi domanda, posta la fronte per terra, il vostro Vicario.» Ai 15 di quello stesso mese, Leopoldo di Toscana annunziava al suo popolo quella maggior ampiezza di vita civile cotanto conforme alle tradizioni del paese. Con tutto questo la lega italiana era rimasta un disegno e nulla più.

Nei ducati e nel Lombardo-Veneto, ove nella speranza di migliore avvenire animava quei popoli, accadevano frattanto moti di più o meno importanza; ma tutti dimostranti come del giogo straniero, gli abitatori di quelle terre ne avessero a esuberanza, E nella Lombardia e nella Venezia principalmente, ove, a malgrado della vigilanza austriaca, non si ignoravano punto il trionfo di Palermo, quello dii Napoli, le costituzioni date ai Romani, ai Piemontesi e ai Toscani, e la proclamazione della Repubblica in Francia, il desiderio di finirla una volta I coi ladroni del nord si faceva ogni di più gigante. Il 18 marzo 1848, all’annuncio della rivoluzione di Vienna, Milano più non si contenevate al mezzodì insorgeva terribile contro lo straniero, accendendo così in ogni terra lombardo-veneta la sacra fiamma della rivoluzione.

Ecco come i fatti di quell’epoca narra il Vannucci: « Il di 8 settembre del 1847 il popolo che a Milano f esteggiava il nuovo italiano arcivescovo e tranquillamente cantava inni di gioia, fu brutalmente assa li to a colpi di fucile e di baionetta: e non pochi caddero vittima della rabbia tedesca, e accrebbero il i numero dei Martiri. Al principio del 1848 a quelli; che pacificamente chiedevan riforme, Vienna rispondeva a furia di sciabolate. A Venezia furono incarcerati quelli che si sforzarono di provare che le ( 1 ) antiche leggi austriache avanzavano di gran lunga in bontà quelle di cui oggi menasi tanto rumore negli altri Stati Italiani: quelli che dissero il male degli Italiani soggetti all’Austria non doversi attribuire all’Imperatore ma ai tristi esecutori delle sue benefiche leggi. Pure i Lombardi e i Veneti non perdevansi di coraggio e continuavano a protestare in tutti 1 modi allora possibili. Ai primi del gennaio si accordarono tutti a guerreggiare l’Austria in una nuova maniera. Sapendo che dalla sola Lombardia il governo ritraeva annualmente circa a sette milioni dalla regalia del tabacco, stabilirono di non più fumare, e non si vide più per Milano un solo cittadino col sigaro. Solamente le spie e gli sgherri austriaci uscivano in frotta fumando, e il popolo li salutava con sonore fischiate. Allora il Radetzk y mandò fuori ordini di carnificina. I soldati divenuti vili assassini, corsero le vie e scannarono vecchi, donne e fanciulli. Aizzarono anche i poveri contro i ricchi, e sperarono di rinnovare gli orrori di Tarnow; ma non poterono condurre ad effetto l’empio disegno, perché Lombardia non era Gallizia. Le stragi di Milano si ripeterono a Pavia e a Padova, ove dopo lotta ineguale cogli oppressori vari scolari caddero Martiri della fede italiana. Da tutte le parti della penisola, già lieta di più liberi ordini, sorse universale la pietà e il compianto ai fratelli scannati, o chiusi per le prigioni o cacciati in esilio, o minacciati continuamente di morte da leggi di sangue. In tutte le città si fecero esequie alle vittime, e questo consenso di amore confortala gli schiavi fratelli, e li accendeva di più nel pensiero della vendetta. Stavano aspettando gli eventi per cogliere l’occasione, e gli eventi favorevoli giunsero. Alla nuova della rivoluzione di Vienna mandarono un terribile grido di guerra tutti quanti abitavano dal Po alle Alpi, da Venezia al Ticino. E Milano fece prodigi che non hanno paragone in nessuna storia del mondo. Il 18 marzo un popolo inerme si levò tutto concorde contro il nemico straniero forte di ventimila soldati ferocissimi e di innumerabile artiglieria, e lo cacciarono dalla città. Tutte le ca m pane suonarono a stormo: dapprima fu battaglia di bastoni e di sassi, e ogni contrada divenne od terribile campo di guerra. Ogni casa divenne una fortezza, ogni petto di uomo un baluardo inespugnabile. Ognuno aveva l’entusiasmo nel cuore, il valore nel braccio. Il coraggio era grande in tutti, quanto l'amore della libertà, quanto la coscienza del proprio diritto. Il Radetzky rintanato nel castello fui, minava le case: ma i cittadini non curando la morte accorrevano dove più minacciava il pericolo. Le barricate costruite dagli ingegneri della libertà ad un tratto per tutte le vie erano animosamente difese dai fanciulli stessi e dalle donne. Chi non poteva fare altra difesa gettava dalle finestre e dai tetti sassi, tegoli, legnami, olio bollente. Le donne fasciavano le ferite, incuoravano i combattenti, combattevano esse medesime. Ogni classe di cittadini in quelle famose giornate fece prove stupende, e con uno splendido tri onfo fu purgata la vergogna di 34 anni di turpe dominio. Ma il memorando trionfo non poteva ottenersi senza grandi dolori, senza grandi sacrifizi. Il sacro tempio della libertà non si fabbrica senza sangue, senza ossa di Martiri. E grande fu il numero dei Martiri che conquistarono e resero più preziosa la libertà' di Milano: molti caddero perché grande era la forza dei nemici, e più grande ancora la loro ferocia. Atti di esecranda barbarie commessero i manigoldi dell’Austria: si videro fanciulli crocifissi alle porte, famiglie intere abbruciate nei forni.

Le baionette tedesche levarono i feti dal ventre alle donne: vi furono violazioni orrende, mutilazioni crudelissime. Nelle giberne dei Croati fatti prigioni si trovarono mani di signore da essi tagliate per non perdere il tempo a levarne gli anelli preziosi. Al confronto delle tigri austriache comparirebbero umani e mitissimi gli antichi Ostrogoti.»


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V

Alla notizia della sollevazione di Milano e delle altre città della Lombardia della Venezia, tutti i liberali italiani si commossero e chiesero armi per volare in soccorso de' fratelli. Era un fremito universale. Gridando viva la libertà e l'indipendenza italiana, tutti i giovani più generosi movevano al Po, si mettevano alla dura vita dei campi, anelavano alle battaglie. Non mancarono sacerdoti che predicassero a nome di Cristo liberatore dei popoli, che a nome della patria e della religione conducessero alla pugna gli armati. Le vere madri italiane si staccarono i figli dal seno perché avessero pietà dell'Italia e la liberassero. Alcune donne presero anche il fucile e corsero alla battaglia.

I prodi Piemontesi e i volontari di Genova costrinsero il re Carlo Alberto a passare immediatamente il Ticino per dare la caccia all'Austriaco fuggente colla paura nel cuore. 1 volontari Toscani e Romani accorsero pieni di nobile ardore, e in quattro mesi di guerra mostrarono quello di che erano capaci il braccio e il cuore italiano, se l’imperizia dei capi supremi non si opponeva a ogni onorato disegno. Il tradimento poi e la viltà aristocratica resero impotente anche il prode esercito piemontese, che, dopo aver vinto nei più difficili scontri, fu costretto a fuggire vituperosamente per quindici giorni, e lasciare nelle mani dei Croati la stessa Milano chiedente la battaglia con grandissimo ardore. Il tradimento vinse i Romani nel Veneto, e i Toscani sotto le mura di Mantova. I volontari di Roma, di Bologna, delle Romagne, di Napoli, di Sicilia e della Venezia e gli emigrati venuti di Francia combatterono eroicamente a Treviso, a Cornuda, a Palmanova e sulle nude roccie dell’Osopo e del Cadore. A Vicenza vi fu lotta fortissima il 20 maggio ed il 10 giugno: parecchi dei nostri vi caddero dopo avere per quattro volte respinti i nemici dal monte Berico, dalle mura e dalle trincero. In altra parte combattevano i valorosi giovani di Toscana. Pieni di entusiasmo e di fede erano partiti in due colonne per le vie di Frizzano e di Boscolungo. Quando giunsero al Po, lo passarono con profondo sentimento di religione. Appena ebbero messo il piede sui campi lombardi, si atteggiarono a ineffabile sorriso: si irradiarono di nobile gioia al pensiero che era vicino il momento della prova contro Rabbonito Austriaco. Si accamparono sott o Mantova, a Curtatone, a Montanara, a S. Silvestro e alle Grazie. Sulle prime vi furono piccoli scontri nei quali i nostri rincacciarono gli Austriaci nella fortezza. Ma il 29 maggio il nemico usci fortissimo di fanti e di cavalli. I nostri erano circa quattromila con soli quattro cannoni: gli Austriaci erano trentamila con cinquanta pezzi d’artiglieria. Ma l’ardore di quegli arditissimi giovani e l’amore di patria per lungo tempo supplirono al numero e all’armi. Cinque ore i nostri prodi resisterono all'impeto e alla mitraglia tedesca. Alla fine non soccorsi da nessuno, molti morirono e molti più caddero prigioni, ma e nella morte e nella prigionia si comportarono con eroico coraggio. Tutti fino all’ultimo gridarono viva l’Italia. Molti di essi e per l’ingegno e per la dottrina erano le speranze più belle della nostra patria. I combattenti di Montanara e di Curtatone salvarono l’onore toscano, e mostrarono come la gioventù nostra sapesse tenersi sui campi di guerra, quantunque tre secoli di servitù cospirassero a snervarla e ad ammol Urla. A quella gloriosa sventura si commosse tutta Toscana: e ai valorosi che intrepidamente morirono, si fecero in ogni città esequie solenni, e si decretarono onori di epigrafi e di monumenti.

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Mancate le occasioni, Carlo Pisacane si era tenuto sempre lontano da ogni briga politica. Ma i grandi avvenimenti che occorrevano in Italia, i quali com e terremuoto scuotevano la terra, non potevano non commuovere l’animo di lui, ansioso com’era di pu guare pel risorgimento della terra natale. Ood'cgli alla voce della patria che alla battaglia chiamava tutti i suoi figli, come colui che riceveva finalmente un invito da lunga pezza atteso e desiderato non I poneva tempo in mezzo, e, il 24 marzo 1348, presentava al colonnello Mellinet le sue dimissioni, annunciando reputare sacro dovere l'accorrere in patria mentre essa aveva bisogno del soccorso d’ogni buon italiano. Il colonnello Mellinet sottoponeva, a malincuore, ai superiori la dimanda di Carlo; egli avvertiva essere la partenza di questi ubs grave per dita pel reggimento. II generale Cavaignac, allora 1 governatore generale dell’Algeria, spediva l’accettazione della dimissione, accompagnandola con lettera in data 6 aprile, in cui esternava a Pisacane il rincrescimene per il di lui allontanarsi dal suo corpo, d’armata. Non si tosto in possesso di questa lettera, Carlo partiva per l’Italia, apportando alla sua difesa I il tributo del suo braccio e de' suoi studi. Nel viaggio da Marsiglia a Genova appiccava amicizia col medico Giovanni Cattaneo già da molti anni emigrato in Francia e uno dei partecipi all’antica spedizione di Savoia; e fu con esso lui che, giunto i verso la metà di aprile a Milano, recavasi da Carlo I Cattaneo.

Pisacane credeva fosse tuttora quest’illustre sta I. lista membro di quei consigli e comitati che il caso aveva accozzato nei giorni della rivoluzione; e a lui domandava di essere ammesso nel nuovo esercito. lombardo. Cattaneo poteva soltanto offrirgli di presentarlo al generale Teodoro Lechi. «Mi sta a memoria, scrive Cattaneo, come lungo la via il popolo si fermava a mirare quel bel giovine in quell’insolito uniforme. Era con noi un altro officiale della Legione straniera, d’età pi ù provetto, Angelo Todesco, israelita di Trieste. Il generale li arruolò volontieri ambidue.» Narrasi che Lechi volesse affidare al Pisacane la cura di levare ed ordinare un reggimento, dandone a lui, come colonnello, il comando. Se non che egli rifiutava rispondendo: «Non essere venuto a bella posta dall’Africa, non corso sui campi ore si agitavano le sorti della patria diletta, per trascinare neghittoso la spada per le vie di Milano, ma per tingerla nel sangue dei nemici d’Italia; non ambire lu i comandi, non grossi stipendi, non onori; ma vita operosa e pericoli e battaglie; lo mandassero però ov’e’ potesse tosto affrontarsi coll'odioso straniero.» Lechi lo inviò come capitano nella legione Borra, che allora trovavasi ai confini del Tirolo, sul monte Nota.

Prima che partisse per colà, essendosi il Cattaneo avvisto dei talenti e dell’alto cuore di Carlo, lo pregava notasse in breve i suoi pensieri sul modo di ordinare quanto pi ù sollecitamente si potesse il nostro armamento; «imperocché, come accenna il citato Cattaneo, sebbene avessimo Venezia e tutta; Italia e la Sicilia, già si vedeva offuscar l’orizzonte, e dividersi i principi' per forza alleati. Il gran punto er a di ordinar l’esercito col numero di officiali che si aveva. »

Il giorno 19 aprile, Carlo presentava la memoria, la quale non venne pubblicata, « perché già era troppo tardi; e i savi non accettavano più consigli (11).» Fu soltanto nel 1860 che era resa di pubblica ragione nel Politecnico n. 45. Accenna Cattaneo che nella firma della memoria tra il nome e il titolo di capitano d’infanteria, v’era una riga mal cancellata che diceva: capitano nel reggimento della morte!

Ai confini del Tirolo, Carlo ebbe a sostenere diversi scontri coll’Austriaco, riportandone sempre somma lode di virtù e di coraggio. Lieto sen viveva sulle sorti della patria, quando la notizia degli eccidi e dei tradimenti accaduti il 15 maggio in Napoli, venne ad amareggiargli alquanto l’animo.

Il Borbone, quantunque l’11 di febbraio altamente dichiarasse voler accordare a' suoi popoli liberi ordinamenti e mantenere loro una sana costituzione, non aveva, il truculento, che cercato cogli intrighi e colle iniquità proprie della sua schiatta di guadagnar tempo, covando nel nero petto il modo di distruggere quella costituzione che cotanto abborriva. E più il popolo rispondeva con dimostrazioni e proteste, e vieppiù desso e i suoi sgherri con ogni sorta di trame, con tutte le arti più perfide preparavano la controrivoluzione. Con un decreto del 5 di aprile, Ferdinando aveva accordato ai deputati il diritto di svolgere e modificare lo Statuto. L’assemblea doveva radunarsi solennemente il 15 maggio. Il giorno 14 mentre i deputati di tutte le provincie si erano raccolti in adunanza preparatoria nel palazzo comunitativo di Mont’Oliveto, fu presentata loro una formola di giuramento che toglieva le facoltà concesse dal decreto del 5 aprile, e sanzionava implicitamente l’infame guerra contro la Sicilia. 1 deputati rigettarono questa formola unanimemente, e ne proposero un’altra che fu rigetta t a dal re. Quindi si cominciava una lotta vivissima fra i difensori della libertà e il dispotismo desideroso di aver occasione di scatenare i suoi cagnotti. Tutti gli antichi sbirri quel giorno uscirono fuori, sì mescolarono col popolo, e accrebbero la diffidenza con grida faziose. Si cominciarono le serraglie in Toledo e nelle vie vicine: la città era tutta commossa. I deputati fecero quanto più potevano per calmare gli animi, per trovare un modo di conciliazione: ma il tiranno, che innanzi tratto parve aderire alle domande, voleva la guerra e il macello. Verso la mezzanotte da più punti della città si seppe che le truppe uscivano dai quartieri, che molta cavalleria e artiglieria si schierava avanti al palazzo reale. Allora la guardia nazionale fu chiamata alle armi; allora le serraglie si fecero più spesse: allora incominciarono e il tumulto e la confusione. «Una voce copriva l’altra, niuno regolava quei moti, niuno li dominava perché niuno li aveva previsti, niuno sapeva il disegno di colui che gli era accanto ad innalzar le barricate: atti erano di furore per accingersi a disperata difesa contro le truppe reali, non disegni prefissi, concertati e diretti a mutamenti politici. Si trascinavano panche, tavole, vetture, si picchiava ad ogni uscio; molti senza ordine d’alcuno andavano a postarsi sulle terrazze, sui balconi: tutti operavano senza consiglio, ma senza proferirsi un sol grido contro la forma del governo costituzionale o contro il re stesso. Sol quando le mitraglie decimavano le vite di tanti prodissimi giovani, e la più 1 bella via di Napoli mutavano in campo di strage, allora si ripeteva a ragione: morte ai Borboni. (12)

Ferdinando stavasene frattanto nella reggia coi suoi sgherrani preparando la guerra. Aveva dato ordine ai comandanti dei forti di inalzare a un cenno bandiera rossa, e di tirare sulla città. Non pochi istigatori di rapine e di morte erano stati inviati fra i Lazzaroni a spargere oro, e a promettere il saccheggio delle case dei ricchi. Anche ai soldati fu promesso il saccheggio. E di codesto re, che cercava ester m inare i popoli, i quali, fidenti in lui, attendevano le promesse franchigie, di codesto re, che dall’uno all’altro punto del suo regno aveva steso un lenzuolo funereo, il d’Arlinconrt, vero scherano del dispotismo, non vergognava nella sua ITALIA ROSSA di dire «nessuno più di lui ebbe animo alieno dalla tirannia, e il cuore propenso all'umanità; ei fu sempre clemente e magnanimo.»

Dopo quella terribile notte venne un più terribile giorno. A un grido di all'arme, a una fucilata tirata non si sa da chi, gli Svizzeri e tutti gli gherri del re si lanciarono contro le barricate, nel tempo stesso che i cannoni fulminarono da tutti i castelli. Il forte della battaglia fu a Toledo, a S. Ferdinando e a Si Brigida. Dalle barricate e dalle case veniva una tempesta di fucilate continue. Per tre volte i soldati regi furono respinti. I nostri, sebbene in piccolo numero, sebbene senza munizione, senza capo e disgiunti gli uni dagli altri, fecero prodigi di valore. La pugna cessò, dopo sei ore di disperata ma generosa difesa da parte dei nostri, dopo prove di inaudita ferocità da parte dei soldati e dei Lazzaroni.

« Non è possibile, scrive il Vannucci, narrare tutti gli orrori di quella giornata d’inferno. Dappertutto strage, stupro e rapine. Spogliati i magazzini, spogliate alcune chiese, uccisi varii frati, rubata una sacra pisside. Fu superato il furore delle bande guidate nel 1790 dal Cardinal Ruffo, d’infame memoria. Vi furono famiglie intere distrutte, donne prima violate e poi spente, innocenti b ambin i gettati con le loro culle nelle vie e nei pozzi. Molte guardie nazionali perirono sulle barricate: 27 prigionieri furono condotti nei fossi del castello e fucilati subito alla presenza del conte dell'Aquila fratello del re. Furono assassinati circa dugento tra vecchi, donne e fanciulli. Parecchi morirono nel palazzo Gravina che fu dato alle fiamme. Ivi quattordici persone che si erano nascoste nelle cantine, nei giorni appresso furono travate cadaveri. Da molte donna li esigeva denaro e poi si straziavano e si uccidevano. La moglie di un Ferrari ucciso ne l palazzo Gravina, per salvarsi. dal fuoco dette ventimila ducati di gioie: e appena avuto il prezzo, gli sgherri la gittarono giù dal balcone. La vedova Benucci dette seimila ducati per salvare l'onor delle figlie: si prese il denaro e si tolse l’Onore. Alla figlia del marchese Vasatura, giovinetta di tredici anni, fu trapassato il ventre da cinque baionette, mentre sull’uscio chiedeva pietà. Angelo Santini fu ucciso nel Ietto. Era un giovine di 17 anni, nato in Terra di Lavoro, ricco di dottrine politiche. Aveva facile e calda eloquenza e di leggieri trasfondeva negli altri i sentimenti che gli agitavano il cuore. Egli per le vie di Napoli faceva alla plebe la spiegazione del Vangelo e delle libere dottrine insegnate da Cristo: predicava la religione, la libertà, la fratellanza, l’amore. Il despota napoletano lo odiava perché insegnava agli uomini a conoscere i loro diritti, e con ogni suo discorso diminuiva il numero delle anime schiave. Il 14 maggio predicò per l’ultima volta al popolo che commosso plaudiva e piangeva. Le sue parole in quel giorno erano più del solito malinconiche e commoventi. Tornato a casa, nella notte del 14 al 15, fu preso da febbre ardentissima, e stava in grande travaglio quando la città rintronava dei colpi del cannone e si contaminava tutta di sangue. Due giovani fratelli, la sorella e una fantesca a quell'orribile suono stavano raccolti e spaventati intorno al, letto dell'ammalato. Le finestre della stanza erano chiuse; da esse non era uscito alcun colpo: ma l’infelice era designato ai carnefici. Si cercò la Sua casa, si ruppe la porta, si invasero le stanze, si fece fuoco su tutti. L’ammalato giacente ai letto ebbe un colpo al cuore e morì nell'istante. Nello stesso modo furono spenti i fratelli e la sorella dell'infelice.»

Terminate quelle umane ecatombi, la città tutta rimase immersa in profondo lutto. Soltanto la reggia era in festa: gli sbirri e le meretrici esultanti. Il re e la regina sciamarono essere stato quello il più bel giorno di loro vita, e andarono nella chiesa del Carmine a render grazie a Dio della vittoria di sangue. In ogni altra parte la città era contaminata di strage, e trista per rovine ed incendi. Le case ( () della via di Toledo non avevano più vetri, né porte, le mura erano solcate dalle palle; la casa Lieto era crollante, il palazzo Civella devastato, il caffè Buono ( 1) e il palazzo Gravina distrutti dal fuoco; e i soldati. e i Lazzaroni continuavano furibondi nelle stragi e nelle rapine. Ad istigazione della polizia frotte di meretrici sozzissime andavano per le vie gridando viva il re, e unite a sbirri e a soldati facevano oscena guerra ai baffi e alle barbe dei cittadini. Chiunque fosse riconosciuto per guardia nazionale, per deputato o per liberale, era vituperato con parole e percosse. Lo stesso generale Gabriello Pepe fu svaligiato dagli Svizzeri e condotto al costello ove lo tennero due giorni in prigione in mezzo agli scherni di soldatesca vilissima.

La città fu tosto messa in istato d’assedio; la guardia nazionale, e l’assemblea furono disciolte, della libertà non rimaneva neppur l’apparenza. Molti dei. deputati che avevano durato intrepidi in faccia al pericolo e non si erano disciolti che per la violenza della forza brutale, dopo aver fatta e firmata una degna protesta, portarono la notizia di questi orrori nelle Calabrie. Tutti i liberali calabresi si commossero al tristissimo annunzio e gridarono vendetta. Si crearono comitati di sicurezza pubblica in Catanzaro e in Cosenza; molta gioventù corse alle armi, e si formò in Filadelfia un campo di ottomila volontari, desiderosi di vendicare i fratelli trucidati a Napoli. Il governo mandò contro di essi il generale Nunziante con forte nerbo di truppa feroce e di quantità grande d'artiglieria. Al ponte della Grazia al fiume Angitola si venne alle mani, e alcuni Calabresi si batterono da eroi; ma sopraffatti dalle artiglierie dovettero ritirarsi e sbandarsi. Fra quelli che ivi caddero Martiri della libertà sono ricordati Angelo Morelli e Giuseppe Mazzei, due uomini tenuti in pregio ed onore per la generosa indole loro. I soldati del Borbone lasciavano la desolazione in ogni luogo; rubavano e uccidevano anche chi li accoglieva con segni di gioia. I pochi abitanti rimasti a Filadelfia, dopoché si erano ritirati gli insorti, per campare dal flagello, mandarono una deputazione di sacerdoti alle truppe, invitandole nella città e assicurandole che sarebbero accolte amichevolmente. Le truppe entrarono il di 28 giugno; e l'accoglienza fu quale era stata promessa. Ma ciò non rese miglioro l a sorte degli abitanti. Furono invase le case: grandi le rapine e i guasti: poi ingiurie, percosse e uccisioni: contaminato l'onore delle donne, straziati i venerandi vegliardi, diciotto cittadini condotti in ostaggio. Otto furono uccisi, fra i quali due fratelli Federico ed Odoardo Serrao. Orribili casi avvennero anche al Pizzo, quantunque ivi pure si accogliessero i soldati con ogni guisa di dimostrazioni amorevoli. Alle gentilezze que’ berrovieri risposero colla strage e col saccheggio. Fecero fuoco contro le case e contro le persone: atterrarono colle scuri le porte, rapirono, distrussero, spogliarono uomini e donne. Poi ebbri di furore e di vino dettero di piglio nel sangue innocente: molti pacifici cittadini furono spenti o feriti.. Queste ed altre scelleratezze commisero in Calabria nel giugno del 1848 i soldati regi guidati da Nunziante, il quale nei suoi proclami diceva esser venuto a rimetter l’ordine, a frenar l’anarchia,; a proteggere le sostanze e le vite dei cittadini.

N é qui finirono i lutti e le stragi del 1848. Nel settembre la città di Messina pat ì rovine, incendio e massacro. I Borboniani vi fecero opere esecrate cosi che nella storia non trovano confronto.

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Carlo Pisacane, credente che i popoli avrebbero. saputo vendicarsi delle infamie del Borbone, non si perde punto di coraggio; cercò di attutire il dolore da lui provato giurando che avrebbe con tutte le potenze della niente e del braccio rimeritati i tiranni delle lagrime e del sangue versato dagl’Italiani. E mantenne la promessa. Combatté mai sempre con estremo ardimento, con somma sapienza; e ne’ dì della sconfitta colle armi della parola.

Il 29 giugno, il nostro Carlo s’ebbe in un combattimento da una palla ferito il braccio destro, e così miseramente che, ove non fossero state le cure della sua diletta amica, da lui ritrovata a Marsiglia, e quella del dottore Leone, a comune giudizio dei medici, era mestieri amputarglielo. Dopo trenta dì che s e n giaceva infermo a Salò, per ravvicinarsi dei nemici fu tratto a sicurezza a Milano. Ed era appena convalescente che già si affrettava ad offrire l’opera sua al Governo Provvisorio per la difesa della città minacciata dagli Austriaci. Ma coloro che reggevano allora la somma delle cose, calpestando l’onore della patria, a tutta possa si adoperavano, a stancare e a fiaccare l’impeto generoso delle genti, che ovunque volevano con guerra popolare prendere la rivincita di Custoza; onde all’offerta di Carlo rispondevano: «non esser lui atto a battaglia, malconcio com’era: pensasse alla propria salute e raggiungesse i feriti che il precedevano.» Della qual cosa egli molto si rattristò e si dolse cogli amici, dicendo: «costoro non hanno fermo proposito di resistere al nemico, né di far opera degna, di quel popolo che loro obbedisce.» E fu vero.

Caduta Milano di nuovo in potere di Radetzky, Carlo recossi sdegnoso in Isvizzera, ove si ridussero molti dei principali uomini d’Italia; e fu allora che per la prima fiata conobbe Giuseppe Mazzini.

D’animo ardentissimo, non poteva lungamente rimanersi neghittoso. Epperò, appena in sul cominciare del 1849 venne a cognizione che il Piemonte levava soldatesche per la riscossa e ordinava reggimenti nuovi, correva a Vercelli ad offrire la sua persona; e quivi veniva ammesso col grado di capitano nel 22° di linea. Se non che gravissimi tornandogli gli indugi, le esitanze, le ministeriali incertezze, non si tosto seppe che a Roma era stata, in sui primi di del febbraio, proclamata la Repubblica, egli chiedeva ed otteneva in breve regolare congedo dal ministro della guerra, e si affrettava a muovere per alla volta della città eterna, dove un irresistibile instinto gli presagiva che più gloriosamente avrebbe potuto consacrare l’opera sua a difesa della periclitante libertà.

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Mentre accadevano nel teatro della guerra le triste e fortunose cose per noi narrate, in Roma chiarivasi siffatto avvenimento che a non pochi parve incredibile. Pio IX, il pontefice che aveva benedetto all'Italia, l’iniziatore del movimento nazionale, l’atleta del cielo che aveva detto « Iddio è con noi » richiesto dagli Italiani si ponesse a capo della santa guerra, impastoiato com’era colla putrida e fangosa diplomazia di Vienna, si schermiva dicendo non poterlo pe r ché, padre di tutte le genti cristiane, quasi che si trattasse di una guerra di religione, anziché contro l’im peratore austriaco per quella libertà che egli stesso aveva proclamata. E il 29 aprile 1848, K pubblicava, un'enciclica in cui, grazie all'abborriment o che la Chiesa ha del sangue, abbracciava suoi figli i nemici della nostra nazionalità. Ma stretto dai Ro m ani ad aderire ad un indirizzo valido e sincero della guerra: che, dopo l’armistizio Salasco, volevasi riaccendere, fece mostra di acconsentire. Facendo tradimento della paura, all’alba del 25 novembre, deludendo la vigilanza della guardia civica, se ne fuggi da Roma, e presso il Borbone cercò un rifugio. Ed a Gaeta calò giù veramente la visiera: rifiutò l’accesso a tre ambascerie dei Romani che lo richiamavano e li fulminò d’interdetto. Allora i Romani, eletta a suffragio di tutto il popolo una costituente, si ricordarono che il poter temporale era un’usurpazione, e proclamarono, il 9 febbraio 1849, la Repubblica, la cui somma I venne dall’assemblea costituente affidata ad un triu m virato.

Quando Carlo Pisacane giunse a Roma, il piccolo esercito della nuova Repubblica era disordinato e disperso; ond’egli, che peritissimo era delle cose militari, espose al triunviro Mazzini i suoi pensieri sul modo di raccoglierlo e disciplinarlo. Piacquero tanto a Mazzini que’ disegni che, nella tornata del 16 marzo, propose all'assemblea si creasse una commissione sulle cose di guerra, la quale riformasse e le solda t esche che vi erano e ne levasse di nuove per provvedere alla salute della patria. Fu creata la commissione e fra quelli che ne fecero parte, per unanime voto, fu Carlo Pisacane. Coloro che in quel tempo lo conobbero asseverano che principal parte di lode a lui spetta delle buone cose operate da quella commissione, la quale tanto conferì a difendere la città contro le truppe di Francia e a mantenere la gloria delle armi nostre; e ad esso pur attribuiscono il vanto di aver ordinato il fatto d’arme del 30 aprile, di tanto onere al nome italiano. Comeché Carlo dissentisse da M a zzini su varie questioni, socialista e pur federalista allora essendo, tuttavia quegli sei tenne assai caro, lo elevò al grado di colonnello, e all'ufficio di capo di stato maggiore. Ma Carlo non si accontentò di far parte degli ordinatori dell’esercito; volle esser pur soldato di azione; trovossi in ogni combattimento, pugnando sempre con estremo coraggio. E ben ebbe ragione il Bertani, ne’ suoi Cacciatori delle Alpi, di chiamarlo il prode dei prodi; imperocché, degnissimo compagno dei Mameli, dei Manara, dei Daverio, dei Morosini, dei Dandolo, e di altrettali, operò fatti degni degli antichi romani.

« Fu a Roma, scrive Mauro Macchi, che Pisacane, avuta occasione di conoscere all'opera i due acclamati generali delle falangi repubblicane, Garibaldi e Roselli, già tra loro rivali e malvolenti, concepì contro di essi quel dispregio, che non temette più tardi di manifestare in pubblico, anche a costo di ferire le più popolari simpatie; tanto ih lui sempre prevalse, ad ogni altra considerazione, l'amore del vero (13)

Carlo innanzi tutto non ammetteva l'entusiasmo che i volontari sentivano pel Garibaldi.

«Guai, scriveva, allorché le masse giungono a credere all’inviolabilità ed all’infallibilità di un uomo. Guai allorché le masse si avvezzano alla fede e non alla ragione: è questo il segreto sul quale sino ad ora si è basata la tirannide, che ha trovato facile la strada al conseguimento de' suoi disegni; dappoiché il pensare é fatica dalla quale rifuggono le moltitudini, corrive sempre al credere. Indisciplina in pace e disciplina in guerra è la divisa di ogni rivoluzione, quella genera la discussione e crea il concetto ovvero la bandiera; questa unifica gli sforzi, ed invita il soldato a tener gli sguardi fissi sul vessillo e non già sul capitano. Poco monta che la mitraglia distrugga un generale: un altro lo rimpiazza, ma la bandiera non cambia, ogni milite deve averla scolpita nel cuore.»

Eminentemente dotto nell’arte militare non poteva poi riconoscere il si sterna di guerra adottato da Garibaldi, quell'indipendenza sua ad ogni disciplina, e quella cieca fidanza che ei riponeva nella fortuna. Vero è che Garibaldi s’inspirava al suo genio, e che d’allora in poi, fors’anco maturatolo a più severi studi, esegui cose che fecero maravigliare. E noi abbiamo ferma convinzione che se Pisacane fosse vissuto tanto da essere testimonio delle vittorie consensi e della spedizione dei Mille, avrebbe certamente rivocato il suo concetto su Garibaldi, e salvatore dei popoli non solo, ma grande capitano lo avrebbe salutato.

Incerto del partito da prendere, Carlo era rimasto in Roma anco dopo che i Francesi vi erano baldanzosi entrati. Esso, e mai seppene la causa, era on bel dì imprigionato, e rinchiuso in Castel sant’Angelo per otto giorni; da ove non usciva che per le molte istanze che fece al generale Oudinot la donna del suo cuore, la quale sempre lo aveva seguito. Appena fuori di carcere dovette partirsene; imperocché i vincitori tanto temevano dei vinti, di que’ vinti che dileggiavano come codardi ed imbelli, che gli contesero di rimanere in città fosse per un istante. E il nostro Carlo partiva ed imprendeva di nuovo la vita dolorosa dell’esule.


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V I

Caduta Roma, e con essa pur Venezia, la quale aveva durata una lunga e gloriosa difesa, gli uomini reggitori del movimento nazionale italiano si ridussero in I svizzera, e quivi a mezzo della stampa, di quella stampa che dal 1828, cioè dal tempo in cui l’unità d’Italia era riputata sogno da pazzo, cercò costantemente l’educazione del popolo (14), que’ generosi si diedero a raccogliere i fatti, a studiare le ragioni del loro esito, e, avvalorando il dire con esempi magnanimi, cercarono di facilitare quell’avvenire le cui fondamenta ormai erano state poste in Italia. Gli avvenimenti avevano dimostrato il paese educato; era adunque mestieri, non eccitarlo dopo il di d’una caduta, sibbene perfezionarlo, confortarlo alla risurrezione della patria. Fu a Losanna che gli Evangelisti della libertà presero stanza; e quivi, per azioni, fondarono la Società editrice, L’Unione, che s’ebbe un Comitato Direttore nelle persone di Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Mattia Montecchi. Precipuo scopo di quella Società era la stampa e la vendita di scritti scientifici, politici, religiosi e letterari, tanto italiani che esteri, i quali tendessero a mantenere e a sempre più inculcare negli animi lo spirito di libertà, di nazionalità, d'indipendenza. Essa veniva anche in soccorso degli uomini che vivevano nell’esilio a qualunque opinione liberale appartenessero, col pubblicare i loro scritti, assegnando loro. un equo compenso; così era ricostituita l’unità delle varie intelligenze.

L’opera collettiva iniziata in Losanna fu il giornale L’ Italia del Popolo, continuazione di quello pubblicato nel 1848 a Milano e nel 1849 a Roma. Questa rassegna non ebbe programma, e dove alle prime pagine si dichiara di non proporcene alcuno, dicesi che il programma è «nella parola uscita il 0 febbraio da Roma, madre comune e centro d’unità a tutte le popolazioni d’Italia — nella missione che la tradizione e la coscienza popolare assegnano al l’Italia. Gli effetti della libera stampa sono visibilissimi a chi nulla nulla voglia addentrarsi nell'esame delle presenti condizioni politiche. Ad essa devesi se l’Europa conosce i nostri dolori, le presenti nostre aspirazioni, le nostre guerre, i nomi dei santi che consacrarono a vittoria la nostra causa; ad essa devesi se il popolo italiano, attraverso le ecatombi politiche, portò nobilmente il lutto delle sue funeree condizioni; se la sciabola dei tiranni incontrò nell'occhio di lui quella misteriosa potenza, con ciii lo sguardo di Mario inerme fece cadere il gladio di mano allo schiavo armato; ad essa pur devesi la fraterna associazione nelle battaglie, nello scopo, nella bandiera; quella persuasione all’olocausto di ogni altro concetto al sommo, l'unificazione della patria; per essa dispar v ero i partiti, sorse la Nazione.

E quanta potenza e quanto felice successo s’avesse L'Italia del Popolo, ce lo dimostrano poi i pubblici fogli d’allora e le note della diplomazia.

La moltiplicazione di quella rassegna per mezzo di ristampe e di traduzioni fu portentosa; e il governo austriaco ne fu si fattamente atterrito che ne proibiva rigorosamente l’introduzione nelle terre a lui soggette, e condannava a cinque anni di fortezza il sacerdote Pietro Dallocca di Venezia perché possessore di due fascicoli dell' Italia d el Popolo. Non meno dell’Austria, la sua degna consorella, la Repubblica di Francia, ebbe timore della veridica stampa; essa,nel settembre 1849, proscriveva il giornale, e, in sui primi del 1850, si doleva amaramente « della stampa di giornali e di libri incendiari che, a malgrado del divieto, clandestinamente entravano in Francia.»

La guerra della polizia francese fu tale, che non solo venivano sequestrati i quaderni che entrassero nel territorio della Repubblica, ma, postergato ogni diritto internazionale, si sottraevano i pacchi che transitavano colla direzione per gli Stati Uniti.

Proscritto e perseguitato, Giuseppe Mazzini, come sempre, tenendo nell'esilio alta la bandiera che, supremo magistrato, aveva difesa in Rom scrisse nel l’ Italia del Popolo, a caratteri di fuoco, dell'assedio della città eterna, del valore dei combattenti per la libertà, usciti la vigilia dalle officine e dalle scuole e pur pari, e soventi fiate superiori in battaglia, alle truppe le più agguerrite del mondo. Scrisse della spedizione francese, complesso di menzogne, violenze e perfidie dal principio alla fine. Scrisse del popolo di Roma che, sorto appena da una abbietta servitù di dieci secoli, attinse nelle immortali tradizioni de' suoi padri un coraggio, una dignità, una costanza, uno spirito di disciplina, quali raramente si trovano nei popoli i meglio dotati, i più provetti, e ben più potenti che non esso e che lo posero in grado di resistere tre mesi, contro quattro potenze.

Gli altri cooperatori erano: generale Allcmandi, R. Andreini, C. Arduini, Bertani, De- Boni, Montecchi, Francesco Pigozzi, Carlo Pisacane, Maurizio Quadrio, Saffi, Pietro Sterbini, G. B. Varrò ed un Russo. Altri che restarono in patria non fecero palesi i loro nomi.

Fondato che fu il giornale l’Italia del Popolo, Mazzini cercò di ricostituire con una parte dei prò fughi italiani un’assemblea nazionale. Se non che il governo svizzero, resosi mancipio di Radetzky, espellendo i rifugiati, egli dovette trarre a Londra. Quivi costituiva regolarmente il Comitato nazionale italiano, in dipendenza ed in piena correlazione co ll’altro, che pur allora colà sorse, appellato Comitato democratico europeo. Il primo era composto di Mazzini, Saffi e Montecchi, il secondo di Mazzini, qual rappresentante l’Italia, Ledui-Rollin, la Francia, Ruge, la Germania, Darasz, la Polonia. Ambi i Comitati tennero sedute, e pubblicarono proclami che il giornalismo d’Europa diffuse e ripeté con molta compiacenza. Il Comitato nazionale italiano fu d’un’attività senza pari. A mezzo di emissari fidati, di scritti criptografici, veniva in poco tempo a stabilire centri repubblicani nello stato Romano e in quello di Toscana, nei Ducati e persino nel Napoletano. Scopo dei Comitati era quello della Giovine Italia, cioè di mantenere viva. nelle masse del popolo e colla voce e colla stampa la sacra fiamma di libertà; di accrescere sempre più il numero degli affiliati; di spiare, tergiversare possibilmente l’operato dei despoti; di favorire la fuga dei soci ohe fossero rinchiusi nelle prigioni; ed infine di raccogliere somme per soccorrere quelli che giacessero nelle prigioni, e per le imprese che si sarebbero tentate in favore della libertà. Di molti adepti trovò il Comitato, fra cui non pochi sacerdoti, i quali non avevano titubato un istante a scegliere fra la causa degli oppressi e quella degli oppressori. Il clero lombardo in particolar modo aveva nel seno uomini che sapevano dividere i dolori e le speranze dei loro concittadini, e che, come sacrilega, avrebbero respinta l’idea di separare i propri interessi da quelli della patria. Scevri dalla mollezza cittadina per rigore d’istituto, e dai pregiudizi della casta a cui appartenevano per la sacra famigliarità della scienza, fervidi del culto santissimo della libertà, essi trascorrevano in mezzo alla folla indifferenti agli uni, sospetti agli altri, incompresi dai più; ma spiati, inseguiti dagli sgherri di Vienna e del Vaticano; ma venerati, adorati nella eletta cerchia d’amici e discepoli, a cui apparivano quali erano, veri Apostoli di quel Dio tutto pace, tutto amore. Cooperando al grande scopo dell’indipendenza, dessi avevano la coscienza di preparare ed iniziare ad un tempo 1 indipendenza dei loro fratelli di istituto e di missione. A questa eletta schiera appartenevano i sacerdoti mantovani Tazzoli, Grioli, Grazioli; i bresciani Boifava, Pulusella, ed altrettali che, con esultante serenità, affrontarono, come i Martiri del cristianesimo, la morte per la fede italiana.

Le cospirazioni, ricominciate nel 1850, vennero mano ma n o attingendo il loro massimo grado di esplicazione; né bastarono a spegnerle le molte vittime immolate dall'Austria a' suoi furenti terrori. I governi dei desposta giacevano destituiti d’ogni forza morale, in mezzo ai cannoni ed alle baionette. Le forme ed il carattere del civile reggimento avevano ceduto il campo alla violenza della pressione militare. Se non che il Lombardo-Veneto principal: mente portava il lutto delle sue funeste condizioni.

Nessuna pace, nessuna transazione, nessuno sguardo, se non d’odio o di sprezzo, fra il soldato vincitore e il cittadino debellato. Le ire, le minacce, le carnificine di chi governava, rimanevano impossenti; alla pubblica opinione dava lingua e norma chi reggeva le fila delle associazioni segrete; lo spirito della democrazia, fatto anima dei privati convegni, era ad un tempo arbitro invisibile delle pubbliche piazze;; i vili del dispotismo ridotti al silenzio, alla dissimulazione, a tremare; i timorosi e i noncuranti di politica costretti a chinare anch'essi la fronte innanzi:ai grandi principi per cui vivono le società, l’amore de l la patria, della sua indipendenza, del suo benessere.

Il Comitato centrale aveva emesse cartelle per con; trarre il prestito nazionale; quelle cedole si diffondevano dappertutto in modo maraviglioso. Tipografi e litografi, sotto gli ordini dei comitati, supplivano il all’opera clandestina della stampa nazionale, alle cui esigenze non bastavano le introduzioni che si facevano dal Piemonte e dalla Svizzera. N é del tutto venivano neglette le armi; e le fila della vastissima trama si propagavano persino nelle schiere dell’esercito straniero. In tali circostanze non sembrava illusione, né i temerità il seguire una politica, la quale non desiderava che quanto l'eroismo può chiedere ad un popolo. L’eccezione era divenuta regola: il cospirare i era divenuto, per così dire, generale, pubblico, normale.

«Tutto cospirava, scrive il Polari, il dovere e la passione, la virtù e la sventura, la gioia e il dolore, le memorie del passato e le aspirazioni dell’avvenire, la vita e la morte stessa, il sorriso del cielo e la indignazione della terra. A crescere la tensione degli animi s’aggiunsero le imprudenze stesse di molti di coloro che partecipavano direttamente alle società i segrete, onde i divisamenti di queste furono divulgati e conosciuti ovunque, anco in quella parte del campo liberale che avversava i principii repubblicani del partito d’azione, anco nella cerchia privata di quelli che non osavano cimentarsi a' cotidiani pericoli; di quella procellosa politica.

« È mirabile a pensare clic, in tanta pubblicità di un’azione, il cui solo pensiero costava la vita, nessun nome venisse denunziato alle autorità. Il malcontento comune affidava i cospiratori. Il segreto della congiura durò a Mantova quattordici mesi.

«Ma non può fare che l’umana nequizia non appaia talora anco nello cose più sante. A Milano la precipitazione di alcuni agenti di Mazzini a valersi di ogni elemento per far numero, fu cagione che, essi, senza avvedersi del pericolo a cui s’esponevano, non d isdegnassero rimescolare la più fetida belletta della sentina sociale. L’opera d’uomini appartenenti al più infimo grado della società, rotti ad ogni vizio e ad ogni delitto, accettata come elemento di forza materiale, fu il principio dissolvente onde, nell’istante più prezioso, si rallentò quella violenta pulsazione del cuore lombardo, da cui, come da centro, dovea dilatarsi la vita del nuovo moto che si preparava. Alcuni di questi scellerati giunsero a minacciare di denuncia coloro che nelle classi ricche segnalava l’esempio delle virtù cittadine, per cavarne oro. Il tradimento e la sufficienza per le condanne del più remoto indizio, del minimo sospetto fatto sorgere dal. caso, iniziarono quella seguenza di sanguinosi giudizii che dal 1851 si estesero al 1853. »

Giorno per giorno si contavano le vittime. Molti figli del popolo caddero come i Romani di Tiberio; essi insegnavano ai fratelli a morire in silenzio. Il milanese Sciesa; il comasco Dottesio; il mantovano R oma; il bresciano Speri; il veronese Montanari; i veneziani Za m belli, Scarsellini, De Canal; il padovano Calvi e tant’altri generosi, non meno sereni dei sacerdoti di cui tenemmo parola, diedero la vita per la libertà.

Questa razza d’uomini esiste in particolar modo in Italia. Iddio li improntò d’un suggello di grandezza, ed infuse nel cuore di ognuno due supreme virtù operatrici di ogni miracolo: la fede e l’abnegazione. Questa razza di giganti si preparò alla vittoria col martirio, e prima di vincere, imparò a morire. Lungo tempo essi affrontarono l’ira dei tiranni, il patibolo, il carcere, l’esilio, sempre protestando, e simili alla idra della favola centuplicando le teste per ciascuna che ne troncava il carnefice. Sublimi gladiatori della libertà, i loro figli salutavano morituri quell'Italia per la quale davano la vita; e non eredità di lagrime, ma di esempi lasciavano. Il 1848, da Martiri, li creò combattenti. Le Cinque Giornate di Milano, il generoso eroismo di Brescia, quello di Bologna fecero impallidire la tirannide, che riscontrò negli schiavi la coscienza di un nerbo nel braccio.

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Gli articoli di Carlo Pisacane nell' Italia del Popolo tendevano principalmente a dimostrare come riescisse fatale alla libertà l’istituzione degli eserciti assoldati, e come fosse necessaria alla conquista dell’indipendenza l’attuazione del principio militare svizzero ed americano, per cui, all’uopo, ogni cittadino sa e può essere soldato. Nello stesso giornale egli parlò dei fatti di Roma sotto il punto di vista militare, e specialmente della spedizione di Velletri.

Dopo tre mesi di sosta a Losanna, Carlo recavasi a Londra, dove conobbe i capi della democrazia francese ivi rifugiati. Favellando seco loro, si addentrò in qu e ’sistemi sociali di cui egli cercava far tesoro, malgrado fossero altamente combattuti da Mazzini ed anco oppugnati dai rifugiati italiani. Vuo l si poi che a Lon dra per campare la vita desse lezioni di lingua italiana e francese.

Nella prima metà del 1850 traeva a Lugano, ove ravvivò l’amicizia con Carlo Cattaneo, pel quale nutrì i sentimenti della più alta ammirazione, come colui che professava le dottrine federative. Fu a Lugano che, nella calma di cui gli fu prodiga allora quella Repubblica, egli intese a importante lavoro, quasi a conforto delle sventure in cui versava l'Italia e a dolce rimembranza dei giorni degnamente spesi a pro della patria. Egli scrisse la narrazione su La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49, che è forse l’istoria più dotta per istudi militari, e più fedele di quante se ne scrissero da amici e da nemici, da nazionali e da forestieri, intorno a quella fase dell’italiana rivoluzione. Ecco come il coscienzioso autore parlava del suo libro: «Mentre una turba di scrittori, o servi di un partito ed apologisti di un uomo, o romanzieri più che storici, od ignoranti dei fatti e delle cause dei fatti, avevano completamente falsatola pubblica opinione riguardo agli avvenimenti militari di Roma, io fui il primo a parlare il vero, disprezzando i malcontenti e le suscettibilità che avrebbe sollevato il mio dire.»

Esempio raro a' dì nostri, zeppi d’uomini vantatori, Carlo in questo libro non una fiata registrò il suo nome, quantunque avesse, come vedemmo, operale di molte cose tanto in Lombardia, quanto durante il memorando assedio di Roma.

Parecchi mesi passò in fraterna dimestichezza con Carlo Cattaneo, Filippo De-Boni, Mauro Macchi e Francesco Dall’Ongaro; « e, scrive il Macchi, presto abituatomi alla cara consuetudine di sua compagnia, non dimenticherò mai il dolore che sentii dentro di me, il giorno in cui ci diede addio, per raggiungere incognito quell’egregia signora, che aveva abbandonato la primitiva famiglia, i parenti, gli agi domestici, il paese nativo, tutto, per dividere le tribolate sorti del profugo politico: tanto forte fu l’affetto, che egli aveva saputo inspirarle con le rare virtù, e con la gentile persona.»

Infatti in sullo scorcio del 1850, stanco di vivere sotto cielo straniero, Carlo recavasi a Genova, ove, riunito alla donna del suo cuore, che ansiosa ivi stava ad aspettarlo, approfittò di quella calma di spirito che dona la domestica pace, e che forma il più desiderabile fra i beni di questo mondo, per dedicarsi a tutt’uomo a quegli studi, dai quali era convinto potesse esclusivamente derivare il trionfo della causa nazionale. Innanzi tratto dovette tenersi celato; imperocché il governo gli negava d i poter rimanere in Genova; e tanto vi restò che alfine ne ottenne l’adesione. E allora, per accudire con minori distrazioni possibili agli studi suoi, ritirossi ad abitare fuor di città sull’ameno colle di Albaro, dove era soltanto visitato dai più intimi amici.

Nel 1851, il genovese editore Giuseppe Pavesi faceva di pubblica ragione il libro su La guerra combattuta in Italia per noi accennato. Carlo si appalesa in esso Apostolo di que’ principi politici, filosofìci e sociali, i quali formano accumulativamente simbolo della religione razionale. In varie pagine poi comprova come vano sia l’attendersi schietto ed efficace sussidio dai principi e dalla diplomazia a promuovere la causa della rivoluzione, e come la conventuale disciplina, inflitta alle truppe assoldate valga assai meno dell’entusiasmo proprio delle milizie cittadine a conseguire la vittoria nelle battaglie della libertà. «Tutti, proclama egli, debbono essere militi, e soldato nessuno. Nelle guerre nazionali il popolo tutto deve radunarsi al campo; né deve esservi distinzione fra il soldato ed il cittadino; per cui la guardia nazionale riesce una di quelle assurde instituzioni, figlia del dualismo costituzionale, la quale rappresenta l’ esercito del popolo posto a fronte coll’esercito del principe.

Quanta verità siavi nel primo assioma, senza che noi aggiungiamo parola, sufficientemente lo comprovano i fatti che accaddero in Italia in questi ultimi mesi. La rivoluzione italiana fu avvinta e resa impotente dalle misure di repressione prese da un ministero, sia per debolezza o per servilità mancipio di un despota straniero, nel momento appunto in cui, in un più nobile slancio che mai, voleva compire l’opera iniziata ne' campi di Palestro.

Giuseppe Garibaldi, il rappresentante della vera rivoluzione attiva italiana, noi io vedemmo osteggiato, e anco combattuto ogni qua l volta si accinse con cuore al completamento dell'unità nostra. E perché? Perché il popolo italiano, abbindolato da una serva politica, vive nell’inerzia; postergando la dignità di popolo libero, non assecondò il valoroso capitano. La Cattolica, il Volturno, Sarnico ed Aspromonte stanno là per far accorti que’ pusilli che tuttora aspettassero dalla diplomazia il totale affrancamento d’Italia. Questo non potrà operarsi se non quando gl’italiani lo vorranno per fermo. Mostriamoci degni adunque una fiata delle speranze che la patria ha in noi riposte. Mostriamoci pensanti e liberi; spingiamo sempre avanti il governo; poiché governo vuol dir timone della nave; e, il timone' va dietro al remo e alla vela e non avanti. Vogliamo e otterremo.

Mentre abbiamo la ferma convinzione di quanto esprimemmo, non possiamo ammettere il modello d’armamento da Carlo proposto. Finché l'Italia non sia tutta libera; finché avrà ai confini potenze rette cogli attuali ordini militari; e quello che è più, fin ché dall’Alpi al mare il popolo non sia educato al vero amore di patria, l’Italia, diciamo, non potrà, neppure in parte, adottare quel sistema militare. Con due eserciti stranieri, l’uno a Roma, a Venezia l’altro, cinto da numerose turrite mura, noi più che mai sentiamo il bisogno di un forte esercito stanziale; il quale, composto di reclute tolte ad ogni classe di popolo, non dovrassi riguardare come una egemonia militare, d’obice alle nostre più care aspirazioni. Esercito e cittadini devono formare una sola famiglia; allora non vi sarà più timore che desso abbia ad essere posto anziché alla custodia della nazione, alta difesa del principe. Gol sistema di fortificazioni che trovasi adottato nel Lombardo-Veneto in particolar modo, in una guerra contro l’Austria, durante la quale si avrebbe a stringere d’assedio non una fortezza, lottare con preponderanti forze a quelle appoggiate, un corpo di soldati volontari, per numeroso che fosse, non potrebbe a lungo sostenersi. Senza quell’abitudine del campo, che soltanto coi molti esercizi si ottiene, senza quella suprema abnegazione a sopportare qualunque privazione, qualunque disagio, senza masse compatte e ben ordinate, mai un esercito riuscirà a proseguire l’emancipazione italiana. Mille esempi troviamo nelle istorie come in una lunga 'guerra i corpi di volontari si andassero mano mano assottigliando per modo da rendere alfin vano ogni conato. Non crediamo con ciò di condannare all’ostracismo i corpi dei volontari. In una guerra nazionale li riputiamo anzi utilissimi, operanti di conserva cogli stanziali. Lo vedemmo nel 1859, per non citar altri esempi, come la vittoria di Garibaldi a Varese ed a Como preparasse quella di Magenta. Concludiamo dicendo che sembraci non attuabile, pel momento almeno, in Italia, il sistema militare che con Pisacane, pur Cattaneo propugna, sistema che se ai tempi de' Romani poteva sussistere, non lo può adesso essendo di gran lunga le condizioni d’Italia mutate.

Carlo Pisacane, il quale scrisse il libro di che parliamo in tempi in cui l’unità della patria nostra i era riputata un utopia, ammette essere sommamente esiziale l'anteporre il concetto della semplice indipendenza e quello della libertà; imperocché « se il pensiero della nazionalità bastò per promuovere l’insurrezione, non poteva bastare a conseguire la vittoria; ragione per cui la parola d’ordine non avrebbe dovuto quind’innanzi essere guerra allo straniero; ma guerra ai tiranni. Deplora le prove fatte dal partito nazionale e d'associazione italiana, il quale immola la libertà all’unità;» dovendo la preoccupazione dell’unità nazionale essere proposta, non preferita alla nazionale libertà, per la ragione, che i mezzi vanno subordinati allo scopo. — Afferma che il suffragio universale, irrecusabile come principio, non può venire applicato senza le debite cautele di modo, di tempo, di luogo, di cose e di persone; affinché non avvenga che il popolo, una volta padrone di sè, non faccia uso de' suoi diritti, che per votare di nuovo la propria servitù, pago solo di essere per una volta tanto chiamato sovrano. Riconosce, che se talvolta si può imprecare all’uno od altro governo, che imperversi a Parigi, non è lecito mai tener broncio al popolo di Francia, e tanto peggio muovergli insulto, come fanno pur troppo molti dei nostri; essendo un fatto, che «mentre il governo francese bombardava Roma, la nazione francese operava in Italia una salutare invasione di idee;» come pure è un fatto, che se noi ci adopreremo a diffondere le idee di Francia, invece di ciecamente oppugnarle, esse «valicheranno le Alpi prima delle sue armi, e basteranno a compiere la rivoluzione italiana.» De v oto ai principi della scuola razionalista e sociale, non esita a proclamare, come «la miseria e la religione sieno i primi ausiliari dei despoti; che stolto è il credere, ch e si possano salvare le nazioni marciando alla guerra con l’insegna del privilegio e del cattolicismo,» e non deve fare meraviglia se la rivoluzione del 1848 fu dappertutto sconfitta, dal momento che si ebbe dovunque la dabbenaggine di far cantare il Te Deum, e benedire la bandiera dai preti cattolici; che la religione, insomma «è l’ostacolo più potente, che si opponga al progresso dell’umanità.»

E siccome il Pisacane era uomo logico, franco ed intero, così alle convinzioni sue coscienziosamente conformava le opere; e non solo s’asteneva da ogni pratica cattolica, ma quando, nel 1853 gli nasceva una bambina, l’unica che gli sopravviva, si ricusò di portarla alla Chiesa per le consuete cerimonie lustrali, e di farla inscrivere su i registri clericali. «In quella vece, scrive il Macchi, ricorse all’opera ben più competente di un pubblico notaio, dando cosi l’esempio di una condotta, che, ove fosse imitata, varrebbe più d’ogni altra cosa ad accelerare lo scioglimento del problema religioso, il quale pesa, come incubo, su l’età nostra. Sì, ad accelerare il trionfo del Vero, più d’ogni propaganda filosofica, varrebbe il proposito in ogni cittadino, che abbia perduta la fede nella mitologia papale, di non permettersi alcuna pratica, che sia propria dei credenti, come, per umani riguardi, finora troppo spesso suc cede. »

Cario aveva allora la ferma idea che non si dovesse dar mano a congiure, e a promuovere insurrezioni, ove prima non si fosse guadagnato nelle moltitudini coll’apostolato della parola, non solo il consenso degli animi, ma eziandio l’effervescenza degli spiriti, in favore di quel principio, che si vorrebbe sostituire all’ordine attuale. «Senza di che, scriveva egli, il dar di piglio alle armi solo per obbedire alla parola d'ordine di un caposetta, riesce un vero maleficio.»

Apriamo il suo libro; sin dalla prima pagina leggiamo l’epigrafe, colla quale suolsi formulare il pensiero fondamentale dell’opera. Essa dice: — «Le rivoluzioni materiali si compiono, allorché l’idea motrice è già divenuta popolare.» E su questo concetto ritorna ad ogni tratto nel corso della medesima, quasi fosse dominato da quell'idea unica e fissa, quasi sentisse la necessità di protestare a priori contro quei tentativi di sommossa cui sapeva esclusivamente intenti taluni de' suoi vecchi compagni. Egli infatti soggiunge: «— È un errore reso comune i n Italia, che ha fatto credere ad ardenti patrioti nella possibilità di ottenere una rivoluzione cospirando, ed è costato moltissime vittime. — Le cospirazioni e le congiure, cosa affatto individuale, non possono che attaccare gli individui; esse strozzano imperatori, pugnalano despoti e ministri, decidono le sorti di due candidati ad un trono, ma non potranno giammai compiere una rivoluzione. La loro efficacia è in ragione inversa della istruzione di un popolo; la libera espressione del pensiero, la discussione, il culto del vero, sono in opposizione con le congiure, le quali richiedono simulazione e deificazione di individui.» — É inutile, che un popolo svinca per un momento con le armi, imperocché esso dovrà sempre d i nuovo soccombere «ogni qualvolta i destini di una nazione sono retti da individui, senza esservi un’idea nelle masse che tracci loro la via da seguirsi.»

«L’Italia è schiava, perché manca nel popolo la; rivoluzione delle idee, che dee sempre precedere la rivoluzione materiale.... Un popolo, che insurge prima che sappia quali rimedi bisogna apportare t a' suoi mali, è perduto. Se il concetto, che informa la rivoluzione, non ha tracciata la via, ed iniziate le ii radicali riforme sociali, il governo sorto dalla rivoluzione non farà che sostituirsi al caduto. — L’immenso sviluppo del progresso umanitario cammina da sé, e restringe in un piccol cerchio l’influenza dei rivoluzionarii italiani, capace solamente di generare moti parziali, inconsiderati, riprovevoli, che si spengono nell'isolamento senza propagarsi, come l’incendio di una nave nel mezzo del l’Oceano. — Insorgere e vincere non basta agl'Italiani: ma bisogna che essi sieno pronti a sostenere i una guerra con una delle più formidabili potenze mi litari del mondo; quindi la necessità che un esercito sorga subito, numeroso, compatto. I battaglioni accozzati in pochi mesi non sono che feccia di plebe; ardente in ammutinarsi, e codarda in ordinate battaglie.... Quindi solo un concetto chiaro, pratico, che prometta al popolo un cambiamento di Stato, può spingerlo volonteroso alla guerra, ed unificarne, gli sforzi. — Quali sono le riforme desiderate dai repubblicani addetti al partito rivoluzionario italiano? Si ignora: l’ignorano essi medesimi, e pretendono che il popolo, per conquistare questo futuro incognito, compia la rivoluzione, ed attenda che Dio comunichi le tavole della legge ad un nuovo Mosè. — Le numerose legioni del popolo non potranno avere altra bandiera, che questa: la nazione tutta guerriera; gli strumenti del lavoro in comune; P educazione universale, gratuita, obbligatoria.

«Questo è il germe della futura rivoluzione, che i pensatori dovrebbero, svolgere, elaborare, discutere, formulare rendere popolare. Ma queste verità vengono negate dal partito rivoluzionario. Ed ecco perché dopo molti inutili tentativi, suggellati col sangue di numerose vittime, non esiste un’idea, non un principio. Che se la causa italiana nel 1848 fu perduta, malgrado il buon esito della sollevazione pronta, universale, trionfante, la causa si è, che il popolo mal rispondeva ai bisogni della patria, mancando la rivoluzione delle idee.»

Così il nostro Carlo scriveva allora. Ma a poco a poco egli dovette riconoscere quanto la voce della stampa liberale, grido di coscienza italiana, avesse operato nelle masse educandole ai sentimenti di patria e di libertà, eccitandole ai più nobili sacrifici.

E se non ammetteva pienamente che il principio dell'unità fosse passato nel petto d'un intero popolo, tuttavia riputava esistere da noi la rivoluzione morale. Quando poi pensava ai dolori d’Italia, alle sue vergogne, ai suoi doveri, l’anima di lui si intendeva con quella di Mazzini in un solo palpito d’opere e d’azioni. Infatti non tardava guari a gettarsi nel partito d’azione; e ciò che innanzi tratto dannava, ammetteva poscia, scrivendo, che «la sola opera che può fare un cittadino per giovare al paese, è quella di cooperare alla rivoluzione materiale, epperò cospirazioni, congiure, tentativi, ecc. sono quella serie di fatti attraverso cui l’Italia procede verso la sua meta. Il lampo della baionetta di Milano (Agesilao) fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti dai dottrinari.»

I vari tentativi dei patrioti per iscuotere il giogo di servitù, comecché falliti, non furono in fatto giammai sterili. Imperocché, come altrove dicemmo, dando luogo per parte dei tiranni a persecuzioni ed a morti, queste non facevano che sempre più accrescere la fede politica, la quale si andava dilatando dall'un capo all'altro d’Italia. No, la compassione o il timore mai ci soffermò sulla via; ma come Vuoisi nelle ossidioni delle terre murate, la caduta di quelli che ci precedettero accrebbe l’indignazione ai nostri cuori. La storia è la vera maestra della vita; e se noi avessimo chinato il capo allibendo innanzi al ferro del despota, anziché riguardare a coloro che s’ebbero grandi pensieri e consumarono nobilissime imprese, saremmo rimasti nell'ignoranza del conce tt o nazionale: l’Italia adesso non sarebbe tutta concorde in un solo pensiero: Unità e libertà: il popolo italiano non divenuto rivoluzionario. Si, diciamo rivoluzionario. Quando nell’anno 1848, Milano, vincitrice del nemico che da tant’anni l’opprimeva, coronava la vittoria colla magnanimità, proteggendo gli agenti di un’abborrita polizia o ignorandoli, mentre nel Castello si fucilavano e si immolavano vittime e se ne abbruciavano i cadaveri, Milano, con altre città operanti con pari generosità, diede alla parola rivoluzione un significato tutto nuovo. Prima del 1789 l’educazione dei popoli facevasi nel sangue. Nell’ora della liberazione si opinò d’aver fatto un primo passo verso la civiltà, semplificando la morte, e la rivoluzione si credette forzata di far tavola rasa, divorando i suoi avversari. Ma la luce scaturì, progredì l’umanità, dissipossi lo spettro. E l’anno 1848 provò che colla parola rivoluzione non intendevasi distruggere, annientare, bensì migliorare, fondare, creare, moltiplicare le ricchezze, fecondare il suolo, istruire gli ignoranti, soccorrere i deboli, aiutare gli operai, sviluppare il credito, costringere gli elementi ad obbedire e servire. E quel nobile esempio di generosità e di maturo senno politico offerto dappertutto dal popolo italiano negli anni 1859 e 1860 all’Europa civile, chiaramente ci dimostra sotto il vero significato l'odierna parola rivoluzione.

Facendo tesoro di molle buone letture, Carlo Pisacane, nel romitaggio d’Albaro, meditò anco e scrisse i Saggi storici politici militari sull'Italia.

«Il bisogno, egli dice, di formarmi un convincimento che, essendo norma delle mie azioni, fra il continuo mutare degli uomini e delle cose, mi avesse mantenuto sempre nel medesimo proposito, fu la cagione principale che mi determinò a questo lavoro.»

Convinto che ogni nazione ha il proprio essere, la propria coscienza, che risulta dall’indole del popolo, dalle tradizioni, dalle condizioni in cui si trova, dalle aspirazioni ad un avvenire, e che la rivoluzione altro non è che la libera manifestazione di queste facoltà nazionali, non trasmissibili da nazione a nazione, come non lo sono fra gli uomini, Carlo senti ripugnanza per quegli scrittori che volevano concedere tale supremazia alla Francia, da distruggere affatto i principi della rivoluzione che essi stessi propugnavano. Per non incorrere nel medesimo errore, e’ si diede a cercare l’essere dell'Italia, non in Francia, ma nell'Italia stessa, nelle sacre pagine della sua storia, nelle dottrine de' suoi filosofi, nelle aspirazioni de' suoi Martiri, nelle tendenze del popolo. Durante questo studio, una delle idee che richiamò tutto il suo pensiero fu l’ordinamento militare. Egli andava seco meditando il caso in cui la scelta dei capi potesse esser fatta da un uomo che, soggiacendo alla forza delle proprie passioni, od a quella degli amici, ricadesse nelle inconvenienze della monarchia; se eletti dal popolo incapace a discernere l’altrui merito e facile a lasciarsi trascinare dall'andazzo del tempo, dai vanti affascinatori, dalle: declamazioni di cui si avvolgono gli scaltri per estorcere il suffragio; era pur suo pensiero trovare i mezzi d’impedire che l’esercito formasse sètta senza dissolvere l’indispensabile coesione de l le file di discacciare la tema di subire il militare dispotismo senza tarpare le ali all’ingegno del generale ed ammorzarne l’energia; di ridonare infine al paese le tante braccia che i vecchi sistemi tengono inoperose, e, redimendolo dalla necessità di un esercito stanziale, aprirgli una vena di gloriosa ricchezza.

Tali e siffatte questioni Carlo ne’ suoi Saggi st orici politici militari cercò risolvere; ma come nel libro sulla Guerra dei due anni seguì un sentiero diverso da quello già percorso dagli altri scrittori in fatto di milizie; quivi pure propugna i sistemi americano e svizzero, come quelli che soli ponno tutelare i diritti dei cittadini.

«Gli scrittori di cose militari, dice egli nella prefazione del libro, facendosi stranieri alla politica e alle leggi sociali, han voluto ragionare solamente della milizia. Questo è possibile discorrendo dell’arte, ma non già della costituzione militare; così governandosi, le loro riforme valgono quanto il cangiamento e la soppressione di qualche membro in una macchina, che, serbando intatto l’incastellamento e la ripartizione, rimane invariabile nell’effetto. Il considerare come un sol corpo tutto lo scibile umano, e il riconoscere la nullità di qualunque scienza, che, staccandosi dal tutto, pretenda progredire da sé, è dottrina che in Italia trovò il germe e gittò le radici. Questa dottrina è quella che lega indissolubilmente la costituzione militare alla civile, nonché l’arte militare con esse. Il Macchiavelli sentì il primo la necessità di quest’armonia, la quale disconosciuta, almeno nell’applicazione da' moderni, ha ridotto ad una lettera morta le costituzioni scritte col sangue de cittadini. Ora finalmente il bisogno d'uno statuto militare, che sia conforme al reggimento adottato dalla società, anzi ne derivi come conseguenza, pare sia divenuto, per le tante catastrofi il problema più importante dell’epoca col quale invariabilmente connettesi quello del rinnovamento civile. Così dagli studi medesimi mi fu dato ottenere un convincimento in politica, e formulare una costituzione militare necessaria agli Italiani, tanto per guerreggiare da liberi cittadini e non da schiavi la guerra del risorgimento, quanto per costituirsi a g u erra vinta.»

Intorno a questo sistema militare ambiamo espressa l'opinione nostra, né qui giova ripeterla.

Conservando il concetto cardinale del militare ordinamento da esso lui propugnato, Carlo ripartì il: suo libro in quattro saggi: Cenno storico d’ Italia, Del l’arte bellica in Italia, La Rivoluzione, Ordinamento e costituzione delle milizie italiane.

Quantunque terminasse que’ saggi nel 1855, e se, ne fosse potuta conoscere l'importanza da alcun i. frammenti che vennero inserti, in via di appendice, in un giornale genovese, giacquero pur tuttavia per ben tre anni inediti, non essendo riuscito mai quel valente uomo a trovare un editore che avesse vo luto assumersi l’incarico di pubblicarli. E chi sa per quanto, tempo sarebbe stato ad essi negato l’onore della stampa, ove, in seguito alla catastrofe che a Carlo tolse. la vita, non si fossero accinti a procurarne la pubblicazione i tre concittadini commilitoni, Mezzacapo,. Cosenz e Carrano; «i quali, scrive il Macchi, intesero con ciò di adempire due debiti; l’uno di i porre ad atto l'ultima volontà dell’autore: l’altro di offerire agli amanti d’Italia, qualunque sia la loro opinione, opportuna occasione di dare una testimonianza di affetto all'ingegno ed al valore di un illustre Martire della libertà italiana.»

Trovando cotanta riluttanza ne’ genovesi editori, Carlo non ebbe amore ad ordinare il suo scritto; e come egli stesso nel Testamento politico ricorda «non lo condusse a forbitura di stile » . Ed è forse pur necessario d’ammonire, ove qualche critico volesse per minuto analizzare il libro, come a coloro che si accinsero alla sua pubblicazione, quantunque vi spendessero tutta quella fatica e quello studio che a cosa propria si consacrano, non sempre venne fatto distrigare il senso ed il ragionamento di alcuni periodi in cui Pisacane, piuttosto che scrivere in modo che altri intendesse, parve volere accennate e appena notate le proprie idee in guisa da ricordarle a sé stesso.

Oltre agli scritti di cui abbiamo tenuto parola, due altri ne abbiamo di Pisacane, ove non si voglia pur computare una viva polemica che da Genova sostenne col generale Roselli, quando questi pubblicò le sue Memorie intorno ai fatti militari di Roma, la quale trovasi inserta nel giornale La voce della Libertà (settembre 1853, n. 260, 261, 262). Il Roselli si mostrava offeso nelle Memorie per averlo Pisacane ne’ suoi scritti detto debole, e per aver dichiarato che la sua debolezza fu causa di errori. Se il generale si fosse accontentato di mostrare come quegli si fosse ingannato, e in quelle circostanze non si potesse usare severità, Carlo non gli avrebbe certamente replicato; ma non entrando in franca discussione, accusandolo di mala fede, e dichiarando che si era espresso cosi sul conto suo per trarre qualche opinione più favorevole a sé dal pubblico, egli non poteva tacere.

Carlo fu tra i primi che combatterono le pretensioni di Murat al trono di Napoli, mediante i due scritti per noi leste accennati. Il primo, che ha per titolo Italia e Murat, fu pubblicato nel giornale il Diritto del 1855, n. 227, ed è firmato di conserva con altri emigrati politici delle provincie meridionali; l’altro è individuala; e venne innanzi tratto inserto nell' Italia e Popolo del 1856, n. 263, indi da Carlo diffuso nel settembre di quello stesso anno pelle provincie meridionali. In questo articolo e’ cerca dimostrare per filo e per segno i danni arrecali a quelle regioni dall'occupazione di Murat, e le sevizie patite da quanti erano ivi amatori di libertà, ammonendo cosi ognuno a non prestar fede alle promesse dello straniero.

Nel 1856 Carlo recavasi nuovamente a Genova, ove si dava ad insegnare le scienze matematiche, presso alcune famiglie di amici, se non che, né al merito, né al buon volere rispondeva fortuna; e mentre a tanti abbonda il superfluo e di che profondere in lascivie ed in crapule, a lui, che per la patria aveva dato il sangue, ed era pronto a dare la vita; a lui degno, per virtù,e per dottrina, di laude e di premio, appena appena riusciva con molta fatica a procacciarsi di che campare la vita. Alfine otteneva l’incarico di fare gli studi d’una ferrovia da Mondovì a Ceva; ed ancora i Monregalesi conservano di lui dolce memoria.


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VII

Il 15 maggio 1849, anniversario delle carnificine di Napoli, le truppe di Filangeri, in numero di diciassette mila uomini, entravano in Palermo; così, dopo aver difeso a palmo a palmo i terreni su cui sventolava la sacra bandiera e avervi lasciato di molte vittime, la rivoluzione siciliana veniva assopita. Il principe di Satriano e Maniscalco, il primo traditore, il secondo feroce, furono destinati dal Borbone a conculcare quel popolo generoso; ed essi risposero in modo da appagare le ferine brame di Ferdinando. Alcuni arditi giovani sdegnarono soffrire le verghe di quei due truculenti sgherrani del dispotismo; e il 27 gennaio 1850, gridando libertà, insorsero alla Fiera Vecchia. Il popolo era stanco della lotta sostenuta; desso alla vista della bandiera tricolore non seppe trovare l’antico siculo entusiasmo; la forza accorse; sei di |uei giovani furono arrestati, e l'indomani, nel luogo istesso dell'insurrezione, vennero fucilati.

«Cosi, scrive Oddo, al martirologio italiano furono aggiunti sei nomi, e fra questi quello di Nicola Garzilli, gio v ine avvocato, nelle lettere e nelle scienze versatissimo, di mente sublime, di cuore impareggiabile.»

Dopo il martirio di quegli eletti uomini, si formò una società segreta, che fu appellata Associazione unitaria italiana, la quale, inspirandosi nel Comitato di Londra, aveva per iscopo la costituzione in tutti i comuni dell’Isola di Comitati filiali, e di mantenere sempre acceso nel popolo l’amore di libertà, di raccattare denaro per la causa del riscatto, e di tenere la Sicilia avvinta al grande rivolgimento italiano che preparava la democrazia. Il truce Maniscalco venne verso il 1854 a capo di scoprire alcune fila della trama; e’ fece trarre, carchi di ferri, nelle prigioni di Palermo i più audaci dell’Associazione, i quali vi languirono fin sullo scorcio dell’agosto 1856. Essi pure allora non s’ebbero piena libertà; imperocché Maniscalco, posto in sulle guardie dai tentativi d’insurrezione che venivano di quando in quando succedendosi in parecchi punti della penisola, si faceva disprezzatore d’ogni regola di morale e di giustizia, e li condannava arbitrariamente a domicilio forzoso sotto la sorveglianza immediata della Polizia.

Tre mesi appena scorrevano, quando all’alba del 23 novembre, il barone Francesco Bentivegna di Corleone, Salvatore Spinuzza di Cefalù ed altri elettissimi giovani inalberavano in Taormina la bandiera della libertà. Non risposero alla santa chiamala che Mezzoiuso, Ciminna, Villafrate, Ventimiglia e Cefalù: muti rimasero gli altri paesi di Sicilia. Non si perdettero tuttavia di coraggio i capi dell’insurrezione, e quantunque le truppe regie, comandate dai tenenti-colonnelli Marra e Ghio, in forte nerbo, e un distaccamento di guardie rurali, capitanate dal sindaco di Belfrate, si scagliassero contro di essi, si difesero strenuamente per alquanti giorni, facendo pagar cara ai Borbonici la vittoria. Bentivegna, Spinuzza, Luigi Pellegrino di Messina, i fratelli Botta di Cefalù, Francesco Bonafede di Gratteri ed altri cadevano nelle mani dei vincitori. I palermitani Luigi La Porta e Francesco Riso, il trapanese Mario Palizzolo e Vittorio Guarnaccio di Mezzoiuso con pochi riuscirono a sfuggire dalle loro mani; alcuni di questi poterono imbarcarsi per l’estero.

« Mi disseterò nel sangue dei rivoluzionari » sc l amò il direttore di polizia Maniscalco, allorché erasi in ogni luogo soffocata l’insurrezione; e Ferdinando Borbone disse contento: «La diplomazia ammirerà anco una fiata la sagacia e la fortezza, del mio governo.» Se non che gli sguardi di Europa tutta si rivolsero verso la sicula terra; la stessa diplomazia pronunciò parole di compassione; e Ferdinando e Maniscalco capirono che, ove si fosse versato molto sangue, sarebbero stati messi al bando dei popoli, avrebbero suscitato il corruccio di qualche potenza. Tuttavolta vollero sangue. Francesco Bentivegna e Salvatore Spinuzza, il primo per sentenza d’un consiglio di guerra, il secondo per quella della Corte marziale, cadevano fucilati il giorno 7 dicembre. Altri venivano pur condannati a morte; ma rimessi alla clemenza sovrana, la loro pena era commutata in diciottenni di ferri nell’orrido fosso di Favignana (15). Tutti gli altri, fatti pur segno dall’ira del tiranno, venivano confinati per anni nelle più anguste prigioni a vivere vita miserrima.

Francesco Bentivegna apparteneva sì ad una illustre famiglia, ma era popolano di cuore. Natura lo dotava di anima ardente ed avversa ad ogni tirannide. L’odio alla dominazione borbonica era in lui un furore. Cospirò e combatté per la libertà. Nella prigione, parlò poco, pensò molto; senonché la sua fronte fu sempre serena, l’anima tranquilla, il cuore speranzoso della libertà italiana. Colà s’ebbe la visita della vecchia madre e d’alcuni amici. Prima di morire chiese un sorso di caffè; non volle essere bendato, e, scopertosi il largo petto, cadde ucciso dalle palle del Borbone, gridando: Viva l’Italia.

Salvatore Spinuzza aveva mente avida di sapere, animo pietoso verso i bisognosi che sovente il circondavano. Niuno abborrì più di lui il dispotismo, niuno più di lui amò la libertà. Le carceri, le incessanti sevizie, le scellerate persecuzioni di alcuni suoi, concittadini non gli fiaccarono l’animo, non ne indebolirono i forti propositi. Giovine eroe, Spinuzza cadeva quando la nostra patria abbisognava del sangue de' suoi figli.

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Erano appena scorse ventiquattr’ore dacché il Borbone si bruttava del sangue di que' due generosi, che egli impallidiva innanzi alla baionetta di un giovine soldato.

Per antica costumanza il giorno otto dicembre, Ferdinando doveva passare una grande rassegna al campo di Marte. Meglio di venti mila uomini, comandati dal tenente-generale Del Carretto, erano sotto le armi. Il re, circondato da numeroso stato maggiore, si recava al campo. Sfilavano i battaglioni di fanteria, quand'ecco dalla settima compagnia del terzo cacciatori, esciva un soldato, che, novello Scevola, con baionetta spianata, con passo fermo, muoveva innanzi al tiranno, lo colpiva alla coscia, ritornava alla percossa, ed avrebbe triplicato il colpo, se il conte don Francesco della Tour, tenente-colonnello degli Usseri della Guardia Reale, veduto il fatto, non si fosse spinto col ca vallo sul soldato e stramazzato non lo avesse al suolo.

Quel cacciatore era Agesilao Melano o Milano. Aveva sortita la vita nel 1830 da civile famiglia nel comune di S. Benedetto Ullano, nella Calabria Citra, uno dei villaggi appartenenti alle colonie greche. Lo studio delle lingue e delle storie antiche gli aveva nutrito di buon’ora il pronto ingegno ed infiammato il nobilissimo cuore. Sin da giovinetto gli apparvero meravigliosi gli eroi delle Repubbliche di Grecia e di Roma. Ogni loro detto e fatto gli diventò famigliarissimo; di tutta la sapienza antica fece tesoro nella mente. Questo amore per le forti virtù e per la grandezza degli antichi uomini liberi si accrebbe in lui nel collegio Italo-Greco, ove recavasi a compire gli studi. Essendo scritto sul suo petto:

« Il giusto, il ver, la libertà sospiro »

non poteva non mostrarsi qual fosse a' professori, mancipi del despota. Le libere aspirazioni altamente esternava; cercava infonderle ne’ compagni. Ferdinando non sopportò tale propaganda, e in sull’aprire del 1848, lo fece espellere dal collegio.

D’allora in poi Agesilao prese parte attivissima alle società segrete, e cospirò quanto più potè alla cacciata dei Borboni da Napoli; e più d’una fiata, facendo pur parte di bande insurrezionali, si trovò in conflitto colle truppe del re. Un dì giurò di togliere dalla terra quell’inumano uomo, e per meglio accostarlo, cinto e ricinto com’era di baionette, nel maggio del 1856, si inscriveva fra le reclute dell’esercito, e veniva destinato al 3° battaglione cacciatori, settima compagnia. Nel servizio militare si mostrò puntualissimo; ma cercò sempre di tenersi lontano dai compagni. Il di della parata della Concezione, fu da lui fissato per trarre a compimento il fatto disegno. La vigilia gli annunciarono che non farebbe parte della rassegna. Agesilao si recava dal capitano; e tanto pregava che ne otteneva facoltà. Appena gettato a terra dal tenente-colonnello della Tour, al quale per tal prodezza venne conferita la croce del R. Ordine di S. Ferdinando e del Merito, corsero in un batter d’occhio molti gendarmi e soldati; e richiesto perché avesse voluto tentare la vita del re, imperterrito rispose: Per liberare la terra da quel mostro. Il Consiglio di guerra del corpo, cui presiedeva l’aiutante Pianelli, venne tosto riunito. Questo gli fece soffrire ogni orribile tortura perché svelasse i complici. Rispose aver solo a complici le nefandità del Borbone. Lo torturarono ancora in modi che più non consentono essere narrati. — Io non ho altri complici che i delitti del Borbone, rispondeva sempre alle reiterate domande. — Vedendo come nulla potevasi strappare dalle labbra del fiero soldato, il Consiglio dannavalo alla forca col quarto grado di pubblico esempio.

Il dì 13 dicembre 1856, alle dieci e mezza, dopo la degradazione militare, Milano, vestito dell’abito di prescrizione, a piedi scalzi, con appeso al petto un cartello che lo qualificava parricida, doveva salire l’infame gibetto, eretto nel largo detto Cavalcatolo fuori Porta Capuana. Egli vi trasse ritto, senza impallidire, e morì gridando: Viva l’Italia. Narrasi che tanto eloquente mostrossi in materie religiose, che i due fra t i che lo assistettero negli estremi momenti l’udivano senza fiatare ed avevano cera di penitente a fronte del condannato.

L’anima di Agesilao Milano era pura, gentile come quella di fanciulla non uscita dalle braccia materne; innamorata della virtù, d’ogni be l la magnanima cosa. Come sì fiero proposito vinse Agesilao? Contemplando il lagrimoso spettacolo della sua patria, non iscorgendo che la potente ingiustizia, non udendo che singulti e gemiti, il suo cuore sentì le angosce di tutti, credette in Ferdinando il sostegno e la causa di tante calamità, la sua coscienza condannò quel monarca, e consacrò sé e Ferdinando alla morte. Perirono entrambi. Il monarca e il soldato ora sono davanti al tribunale della storia.

Napoli al tristo fato di Agesilao si commosse; e voile, nella mattina in cui doveva essere condotto allo estremo supplicio, dimostrarlo coll’unico atto che le fosse permesso.

Come d’antico costume, i confratelli di Vertecoeli, un’ora prima che si annunciasse l’aurora, si posero ad andare intorno per la città, chiedendo con voci pietose l’obolo per celebrare la messa a suffragio del condannato. Mai elemosina non fu più abbondante; mai non così spontanea, generale. Non vi fu finestra che non si aprisse al grido della santa messa; cittadini d’ogni classe gareggiarono a chi più avesse potuto gettare di danaro nella borsa dei confratelli.

Altri fatti da non tacersi sono i seguenti:

In Napoli vi ha un cimitero, il quale conta trecentosessantacinque fosse; una appunto per ogni giorno dell’anno. É il cimitero dei poveri e dei giustiziati. Ogni giorno si dissuggella il coperchio di una di quelle fosse. All’indomani suggellano la fossa di ieri e ne aprono un’altra, e così sempre. Avvenne che il giorno dopo in cui Agesilao Milano fu giustiziato e sepolto, i becchini, venuti in quel cimitero a dissuggellare altra fossa, trovarono che quella che avevano suggellata il giorno prima era riaperta. Esterrefatti si peritano da prima ad affacciarsi alla buca, poi s’appressano, vi guardano dentro, e scorgono che il cadavere di Agesilao era stato nella notte involato da quel luogo d’ignominia.

Dicono che riferito il fatto al Borbone ne avesse immenso terrore. La sua polizia, ed era famosa, frugò, perquisì uomini e case, sguinzagliò tutti i segugi, le migliaia di spie ebbero ordine di scoprire, di trovare almeno un indizio. — Trovarono niente 1 E sì che un cadavere non è cosa che sia facile ad essere trafugata, ed agevole a celarsi.

La salma di Agesilao era stata collocata in onorato sepolcro.

La viltà e la paura auspicavano al Borbone perché era rimasto salvo nella vita. Bassi ed alti cortigiani proposero di innalzare sul luogo una cappella alla Vergine in rendimento di grazie; ma il Dio delle giustizie volle che il religioso edificio rimanesse incompiuto. Frattanto che i più s’inchinavano davanti al fortunato superstite, un signore vestito a corrotto si recò ad una delle principali e più frequentate chiese di Napoli. Domandò del parroco e gli disse che avendo perduta persona a lui molto cara, e ne portava il lutto, desiderava che piamente le fossero fatti splendidi funerali, non badare a spesa di sorta, voler anzi pagar subito, ma la chiesa all’indomani fosse tutta a gramaglia, con molto decoro di cerei, di musica, ed una messa parata fosse cantata per suffragare il defunto che egli piangeva. Il parroco chiese allo sconosciuto signore chi fosse questo suo parente. A questa domanda l’interrogato rispose con un singhiozzo e tergendosi una lagrima, e poi, quasi come chi sopraffatto da una grande passione non può più proferire parola, tratta una borsa pesante la pose nelle mani del prete dicendogli: «Per lei e pei poveri.» E s’incamminò. Ma poi sovvenendosi come di cosa obbliata, ritornato indietro, disse: — Reverendissimo, non pensi al catafalco, che a questo ho già provvisto; ella faccia parare la chiesa, e domani un’ora prima verranno alcuni operai a rizzare la tomba dipinta a nuovo. E partì.

Il reverendo rimase a contemplare la borsa, che era molto pesante, e fingendo commozione, disse:

«Quel povero signore è tanto addolorato che bisogna gli sia morto qualche stretto parente, o padre o madre.» Al l’indomani la chiesa era parala di nero. —

Vennero alcuni operai portando tavole e telai dipinti cogli emblemi delle tombe, e drizzarono nel mezzo un semplice ma alto e decoroso catafalco.

Figurava una tomba di marmo bianco a quattro lati. — Agli angoli quattro statue velate. Nei campi nessuna iscrizione, nessun nome.

All'ora convenuta si accendono i cerei, e la messa incomincia. Nel momento solenne in cui le gravi note dell’organo intuonano il Deprofundis, le pareti della tomba per un lume interno diventano trasparenti ed appariscono ai quattro lati, scritte in rosse, le seguenti parole:

AD AGESILAO MILANO
SOLENNI ESEQUIE.

Chi vi dirà il terrore dei preti!

Fu fatta ricerca dello sconosciuto, ma non fu mezzo a ritrovarlo.

Finché in Napoli durò il governo dei Borboni, gli spasimi di Agesilao continuarono, anche oltre la tomba, su tutti i parenti, su tutti quanti egli s’aveva cari. Il Dittatore Garibaldi, appena fu a Napoli, esercitò un atto di giustizia, ricordando con una pensione la famiglia Milano. Ma il regio ministero non credette decoroso di conservargliela, e gliela toglieva. Dessa trae stentata la vita, mentre un G h io, un Marulli, un Marra, uno Sponzilli, ed altrettali borboniani fruiscono di lauti assegnamenti.

In Torino, nel 1857, un artefice, che ha cuore, r itraeva le sembianze di Francesco Bentivegna e di A gesilao Milano sopra una medaglia che qui fedelis si mamente riproduciamo; e l’avv, Giuseppe De l Re, i mmi grato napoletano, scriveva un Carme intitolato A gesilao Milano (16).


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VIII

Gli ultimi avvenimenti di Sicilia e. di Napoli commossero altamente l’animo di Carlo Pisacane. E traboccò poi di sdegno, quando il Borbone, rifatto dalla paura, e reso vieppiù esacerbalo dall'esplosione di una polveriera e di una fregata per opera del Comilato napolitano, volse l’animo alle maggiori repressioni, perseguitando perfino i vecchi, le donne e i fanciulli (17). Allora Carlo gettossi a tutt'uomo nel partito d’azione. Terenzio Mamiani aveva detto: un tiranno che opprime il suo popolo, le sacre carte confermano il popolo nel sacro diritto di spegnerlo.» Vincenzo Gioberti aveva detto, piangendo su i generosi Bandiera, che meglio invidiava la loro sorte che la potenza di re Ferdinando. Carlo pensò di proposito a siffatte sentenze, e si convinse che la salute e la salvezza della patria stava appunto in ciò che prima aveva gridato cagione di sua rovina.

Fin da quando dimorava in Albaro, egli aveva strette relazioni di congiure e di arditi disegni c oa Napoli. Allora si concretavano i mezzi, una spedizione veniva stabilita, ed esso accettava di assumerne il comando, che a lui, come a quello che di militari discipline era peritissimo, affidavano gli uomini dell’emigrazione napolitana residente in Genova e del partito d’azione.

Innanzi agire volle chiarirsi dello stato di quelle contrade e degli animi. Affidandosi ad un passaporto e alla lingua inglese, che parlava perfettamente, in sullo scorcio del maggio 1857, penetrava in Napoli, si affiatava coi principali cospiratori, dai quali aveva l’assicurazione che il paese trovavasi in condizioni tali da sorgere in un solo pensiero al benché lieve impulso. Certi Pàteras e Fanelli, dei più influenti del Comitato napolitano, gli facevano inoltre solenni promesse di aiuti d’uomini e di denaro.

Carlo era convinto che si dovessero, avanti tutto rivolgere gli sforzi alle terre del Cilento, terre di poesie, di memorie e di sventure. Ivi la libertà era sempre stata tenuta ih pregio, ei Cilentani per acquistarsela non avevano perdonato né a fatiche, né a pericoli. La carcere, l’ergastolo, l’esilio, il capestro, furono i mezzi che la tirannide sempre usò per ispegnere nel loro cuore la fiamma di libertà; ma dessi anziché spegnerla, non avevano fatto che ingrandirla e nobilitarla. A ragione gli uomini della congiura potevano avere certezza di pronti e potenti mezzi rivoluzionari.

Sapri fu il punto fissato per lo sbarco, e il dì della partenza da Genova il 14 giugno dello stesso 1857; la spedizione sarebbe stata appoggiata da tentativi su Genova e sulla Toscana.

Il giorno 10 Rosolino Pilo faceva collocare in una paranzella delle armi, e, accompagnato da venti giovini, partiva dalla spiaggia. Pilo doveva rimanere in mare, sempre al largo una trentina di miglia, verso Portofino, sino al giorno 14, e, a un dato segno, trasportare le armi sul piroscafo che si sarebbe sequestrato. In que’ quattro giorni di attesa il mare si fece burrascoso in modo che, il giorno 13, Pilo dovette gettare le armi in acqua e retrocedere in Genova. Pisacane rimase colpito alla notizia; riflettendo come l’accaduto potesse, essere causa di seri inconvenienti, decise di partire tosto per Napoli per avvisarne il Comitato, e con esso combinare il tutto per un altro dì. Parti infatti, e veniva stabilito il 25 dello stesso mese di giugno.

Certo delle promesse avute, speranzoso che le tradizioni avrebbero desio le popolazioni e pronte a vendicarsi del Borbone, Carlo sen viveva profondamente credente nell'efficacia dei perigliosi tentativi. E la sera del 24, mentre tutto era stabilito, egli affidava alla carta il suo testamento politico, riassumendo tutte le sue teorie in queste due parole: Libertà ed as sociazione.

Ecco il testamento.

«Nel momento d’imprendere un’arrischiata impresa, voglio manifestare al paese le mie opinioni, onde rimbeccare la critica del volgo, corrivo sempre ad applaudire i fortunati e maledire i vinti.

« I miei principii politici sono abbastanza noti; io credo che il solo socialismo, ma non già i sistemi francesi informati tutti da quell’idea monarchica e dispotica che predomina nella nazione, ma il socialismo espresso dalla formola Libertà ed Associazione, sia il solo avvenire non lontano dell'Italia, e forse dell’Europa: questa mia idea la ho espressa in due volumi, frutti di circa sei anni di studio; non condotti a forbitura di stile per mancanza di tempo, ma se qualche mio amico volesse supplire a questo difetto e pubblicarli, gliene sarei gratissimo. Sono convinto che le ferrovie, i telegrafi, il miglioramento dell'industria, la facilità del commercio, le macchine, ecc. ccc., per una legge economica e fatale, finche il riparto del prodotto è fatto dalla concorrenza, accrescono questo prodotto, ma l’accumulano sempre in ristrettissime mani, ed immiseriscono la moltitudine; e pp e rciò questo vantalo progresso non è che regresso: e se vuole considerarsi come progresso, lo si deve nel senso che accrescendo i mali della plebe, la sospingerà aJ una terribile rivoluzione, la quale, cangiando d’un tratto tutti gli ordinamenti sociali, volgerà a profitto di tutti quello che ora è volto a profitto di pochi. Sono convinto che l’Italia sarà libera e grande oppure schiava: sono convinto che i rimedii necessari come il reggimento costituzionale, la Lombardia, il Piemonte, ccc. ecc., ben lungi dall’avvicinarla al suo risorgimento, ne P allontanano; per me, non farei il menomo sacrificio per cangiare un Ministro, per ottenere una costituzione, nemmeno per cacciare gli Austriaci dalla Lombardia ed accrescere il regno Sardo: per me dominio di Casa Savoia o dominio di Casa d’Austria è precisamente lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costituzionale del Piemonte sia più dannoso all'Italia che la tirannide di Ferdinando II. Credo fermamente che se il Piemonte fosse stato retto nella guisa medesima degli altri stati italiani, la rivoluzione sarebbe fatta. Questo mio convincimento emerge dall’altro che la propaganda dell’idea è una chimera, che l’educazione del popolo è un assurdo. Le idee risultano dai fatti, non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero quando sarà educato, ma sarà educato quando sarà libero. Che la sola opera che può fare un cittadino per giovare al paese è quella dì cooperare alla rivoluzione materiale, epperò cospirazioni, congiure, tentativi, ecc., sono quella serie di fatti attraverso cui l’Italia procede verso la sua meta. Il lampo della baionetta di Milano fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti dai dottrinari, che sono la vera peste del nostro, come di ogni paese.

«Alcuni dicono che la rivoluzione deve farla il paese:, ciò è incontestabile. Ma il paese è composto d’individui, e poniamo il caso che tutti aspettassero questo giorno senza congiurare, la rivoluzione non scoppierebbe mai; invece se tutti dicessero: la rivoluzione dee farla il paese, di cui io sono una particella infinitesimale, epperò ho anche la mia parte infinitesimale da compiere, e la compio, la rivoluzione sarebbe immediatamente gigante. Si potrà dissentire dal modo, dal luogo, dal tempo di una congiura, ma dissentire dal principio è assurdo, è ipocrisia, è nascondere un basso egoismo. Stimo colui che approva il congiurare e non congiura egli stesso: ma non sento che disprezzo per coloro i quali non solo non I vogliono far nulla, ma si compiacciono nel biasimare; e maledire coloro che fanno. Con tali principii avrei! creduto mancare ad un sacro dovere, se vedendo la possibilità di tentare un colpo in un punto, in un luogo, in un tempo opportunissimo, non avessi impiegato tutta l’opera mia per mandarlo ad effetto. Io non ispero, come alcuni oziosi mi dicono per schermirsi, di essere il salvatore della patria. No: io sono convinto che nel Sud la rivoluzione morale esista: sono convinto che un impulso gagliardo può sospingerli al moto, epperò il mio scopo, i miei sforzi sonosi rivolti a mandare a compimento una congiura, la quale dia un tale impulso: giunto al luogo dello I sbarco, che sarà Sapri nel principato citeriore, per per me è la vittoria, dovessi anche perire sul patibolo. Io individuo, con la cooperazione di tanti generosi, non posso che far questo e lo faccio: il resto dipende dal paese e non da me. Non ho che i miei affetti e la mia vita da sagrif i care a tale scopo e non dubito di farlo. Sono persuaso che se l’impresa riesce, avrò il plauso universale; se fallisce, il biasimo di tutti: mi diranno stolto, ambizioso, turbul e nto, e molti, che mai nulla fanno e passano la vita censurando gli altri, esamineranno minutamente la cosa, porranno a nudo i miei errori, mi daranno la colpa di non essere riuscito per difetto di mente, di cuore, di energia.... ma costoro sappiano che io li credo non solo incapaci di far quello che io ho tentato, ma incapaci di pensarlo. A coloro poi che diranno Timpresa impossibile, perché non è riuscita, rispondo, che simili imprese se avessero l'approvazione universale non sarebbero che volgari. Fu detto folle colui che fece in America il primo battello a vapore; si dimostrava più tardi l'impossibilità di traversare l’Atlantico con essi. Era folle il nostro Colombo prima di scoprire l’America, ed il volgo avrebbe detto stolti ed incapaci Annibale e Napoleone, se fossero periti nel viaggio, o l’uno fosse stato battuto alla Trebbia, e l’altro a Marengo.

«Non voglio paragonare la mia impresa a quelle, ma essa ha un testo comune con esse; la disapprovazione universale prima di riuscire e dopo il disastro, e l’ammirazione dopo un felice risultamento. Se Napoleone, prima di partire dall’Elba per isbarcare a Fréjus con 50 granatieri, avesse chiesto consiglio altrui, tutti avrebbero disapprovato una tale i dea. Napoleone aveva il prestigio del suo nome; io porto sulla bandiera quanti affetti e quante speranze h a con sé la rivoluzione italiana; combattono a mio favore tutti i dolori e tutte le miserie della nazione italiana.

«Riassumo: se non riesco, dispregio profondamente l’ignobile volgo che mi condanna, ed apprezzo poco il suo plauso in caso di riuscita. Tutta la mia ambizione, tutto il mio premio lo trovo nel fondo della mia coscienza, e nel cuore di quei cari e generosi amici che hanno cooperato e diviso i miei palpiti e le mie speranze; e se mai nessun bene frutterà all’Italia il nostro sagrificio, sarà sempre una gloria trovar gente che volonterosa s’immola al suo avvenire.»

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V erso le ore sei pomeridiane del giorno 25, Carlo Pisacane, Battistino Falcone di Acri, Giovanni N icotera, seguiti da ventidue giovini prodi, sforniti di tutto, ma infiammati del santo amore di patria si imbarcavano, come passeggieri, sul Cagliari, bastimento a vapore della Società Rubattino, che da Genova faceva vela per Tunisi toccando la Sardegna. Niun sospetto nasceva su di essi; tranquillamente erano lasciati passare dai Carabinieri e dalle Guardie di pubblica sicurezza che la Questura, in sentore di qualche colpo ardilo, teneva non in poco numero sguinzagliati lungo il porto. Quando furono lontani dal lido si gettavano sul capitano del piroscafo, Antioco Sitzia, e sui marinai e colla forza li costringevano a cedere il comando, racchiudendoli sotto coperta. Rosolino Pilo con una barca piena d’armi e di polvere, anco questa volta, doveva, a venti miglia dalla spiaggia, raggiungere la spedizione. Una fitta nebbia gli impediva di scorgere il Cagliari, e sconfortato, doveva riprender terra, abbandonando tutto il carico, il quale era catturato dall’ I chnusa, piroscafo che il governo sardo aveva mandato contro i congiurati.

Attesa invano, anco dopo lunghe ricerche, la barca, sorse in alcuni della spedizione il dubbio se convenisse, quasi inermi, proseguire il viaggio, o procrastinarlo ancora. Pisacane, Falcone e Nicotera decisero di continuare essendo ormai il dado gettato. «Impareranno i moderati, esclamò Pisacane, come poche anime generose, sappiano iniziare grandi fatti, armate d’un pugnale soltanto.» Quindi dettava la seguente dichiarazione:

« Noi qui sottoscritti, avendo tutti congiurato, forti nella giustizia della nostra causa e nella gagliardia del nostro animo, ci dichiariamo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non ci asseconderà, noi senza maledirlo sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange dei Martiri Italiani. Trovi altra nazione uomini che, come noi, s’immolano per la loro libertà, ed allora solo potrà paragonarsi all’Italia benché sia tuttora schiava.

Carlo Pisacane, di Napoli.

Giovanni Nicotera, di san Biaso (in Nicastro).

Giov. Battista Falcone, di Acri (Calabria).

Giovanni Gagliani, di Milano.

Giovanni Sala, idem.

Amilcare Bonomi, idem.

Pietro Rusconi, di Treviglio (Lombardia).

Carlo Rota, di Monza.

Luigi Barbieri, di Lerici (G e novesato).

Lorenzo Gianoni, di Genova.

Domenico Rolla, idem.

Gaetano Poggi, idem.

Felice Poggi, idem.

Cesare Faridoni, idem.

Domenico Porro, idem.

Francesco Medusei, idem.

Giuseppe Faielli, di Parma.

Federico Foschi ni, dilìgo (Romagna).

Luigi Conti, di Faenza.

Giuseppe Sant'Andrea, di Bologna.

Cesare Achille Perucci, di Ancona.

Cesare Cori, idem.

Domenico Mazzoni, idem.

Giovanni Camillucci, idem.

Lodovico Negroni, d’Orvieto.»

Mentre volgevano la prua verso l’isola di Ponza, ove in orride prigioni stavano rinchiuse alcune centinaia d’infelici condannati politici, a un congiurato veniva in pensiero di rovistare il piroscafo se mai per avventura vi fossero armi. Sotto coperta discopriva sette casse con 150 fucili, che un armaiuolo genovese spediva a Tunisi, e poca polvere, rimasta sul legno dall’epoca della guerra di Crimea. Non è a dire come a quella scoperta giubilassero i nostri giovini generosi; trassero da questo lieto pronostico pell’esito dell'impresa. Durante il viaggio essi si occuparono a far cartucce, e a ventilare sempre più il piano di azione.

Il giorno 27, alle ore 4 pomeridiane, il Cagliari, con a poppa la bandiera piemontese, a prua una piccola bandiera rossa, sotto pretesto di avarie, dava fondo innanzi a Ponza. Il capitano del porto si recava a bordo per dar pratica al legno; ma a viva forza era ritenuto prigione. In pari tempo Pisacane con ventun compagni, a mezzo delle lancie, scendeva a terra e d assaltava il posto doganale che si trovava sulla marina e lo disarmavano; indi aggredivano la guardia dei Veterani, di là poco discosta; qualche colpo di fucile veniva scambiato; ma anco quella non tardava a cedere. Pisacane guidava allora i suoi compagni verso il forte. All’avanzarsi di lui i trecento soldati di linea, che vi stavano di guarnigione, si attelavano a battaglia; ma niuno in allo di minaccia. Gli ufficiali credevano che quel pugno di gente fosse foriere di forte nerbo d’armati; essi si facevano incontro a Pisacane e chiedevano di essere trattati cogli onori di guerra. In pari tempo usciva dal forte il vecchio comandante, che, seguilo dalla moglie e dalle figliuole piangenti, accostavasi pure a lui, e, non meno commosso della sua famiglia, impetrava la vita. Pisacane rispondeva «consegnassero le armi e le chiavi delle prigioni; nulla avessero a temere che non assassini, ma essere Italiani venuti a combattere le guerre dell’indipendenza della patria.»

I soldati cedevano le armi; e que’ pochi arditi giovani divenivano padroni dei destini dell’Isola. Trecento relegati politici erano resi alla libertà; dessi, non si tosto liberi dai ceppi, dimenticavano i patiti dolori ed afferravano con entusiasmo le armi stesse cedute dalla truppa, lieti di poter anco una fiata pugnare per quell'indipendenza cotanto sospirata. Un solo, un tal Dalera, udito come la spedizione non fosse fatta allo scopo d'insediare a Napoli la monarchia di Murat, coglieva un momento in cui niuno il vedesse, balzava in una barca, fuggiva a Gaeta, facondo al governo rapporto dell’accaduto di Ponza (18).

Verso la mezzanotte del 27 al 28, Pisacane, Falcone, Nicotera e i trecento compagni, quale novella falange delle Termopili eubee, destinata an ch 'essa ad empire la storia dell’eco dell’ultimo suo sospiro, muovevano intrepidi, fidenti per le regioni del Cilento.

A convalidare quanto abbiamo descritto di quei primi fatti, diamo luogo ad una particolareggiata narrazione quale venne dettata da uno de' generosi che fecero parte di quella magnanima impresa.

«Il giorno 25 giugno 1857, fu definitivamente fissato per la partenza. Una barca, carica d armi e munizioni, partiva il 24 guidata da Pilo e da venti compagni; doveva stare al largo sino al domani e raggiungerci nelle acque di Portofino. Gli uomini della spedizione si recavano verso le sei del vespro sul piroscafo Cagliari. Chi fingeva essere dire tt o per Tunisi, chi per Cagliari: chi andare per un interesse, chi per un altro: mai una parola si scambiavano fra di loro: sembravano veramente passeggieri che si trovassero colà a caso. Dopo due ore circa di cammino, ad un segnale di Pisacane, che consisteva nel porsi in testa un berretto rosso, ognuno si collocò al posto assegnato; ed al grido di viva l’Italia tutta la gente del bordo venne sorpresaci tolse il comando al capitano, e si affidò a Giuseppe Daneri, genovese, pur capitano di marina, il quale trovavasi fra i passeggeri. Tanto i marinai, quanto i viaggiatori, vedendo gli uomini della spedizione armati di pistole, furono presi da timore, credendoli pirati. Ma bentosto furono rassicurati dalle parole di Pisacane, il quale, senza particolareggiarglielo, disse loro a quale scopo avessero fa tt o quel colpo. La calma ritornò in tutti; si mostrarono lieti; ed una donna, una tal Rosa Mascherò, genovese, moglie d'un medico di Tunisi, sc l amò: «Quand’è cosi, vi auguro buona fortuna e grido con voi viva l’Italia! viva la libertà! » Prima cura fu quella di trovare la barca partita il giorno prima colle armi e le munizioni. Si fecero i convenuti segnali, ma invano. Finalmente alla mezzanotte, dopo tre ore d'attesa, perduta ogni speranza, i congiurati stavano perplessi sul da farsi, quando uno di essi, esaminando non a caso il giornale di bordo, vide che nel Cagliari si trovavano imbarcate sette casse di fucili da caccia e due di tromboni. Riferita la cosa a Pisacane, questi, di conserva coll’altro, si recò nella stiva, ed ivi rinvennero le armi segnate sui giornale. Un grido di gioia e cheggiò sul Cagliari: « Armi armi Ecco trovato quel che ci mancava.» Il capitano del piroscafo pregava non toccassero quelle armi, perché mercanzia a lui affida t a; ma lo scopo a cui dovevano servire non ammetteva consegna di sorta. Dopo le armi bisognava pensare alla munizione: rovista t o il bordo si trovò polvere e piombo. Allora la coperta del bastimento fu tramutata in un arsenale. Chi faceva le cartucce, chi fondeva le palle, la cui forma era stata fatta con due pezzi di mattone, chi metteva in sesto gli schioppi: insomma il giorno 26 passò in grande attività. Allorché il 27 furono in vista dell'isola di Ponza vennero caricate le armi e concertati i mezzi di prender terra. Giunti a poca distanza dell’isola, il piroscafo si fermò, e fu chiamato il pilota col segnale all’albero di trinchetto. Egli venne; ma richiesto salisse a bordo per condurre alcuni marinai nel porto per far acqua, rispose non poterlo vietandoglielo le leggi ivi vigenti. Fu fatto salire a forza. L’arrivo di un grosso vapore a quell’isola aveva attirato sul piccolo molo e sulla calata molta gente, ed anche il comandante del porto e l’aiutante di piazza. Questi due militari, tratti dalla curiosità, si erano con una barchetta avvicinati al piroscafo, e veduto il pilota sul cassero lo sgridarono qual trasgressore delle leggi sanitarie. E mentre parlavano anch’cssi vennero presi, e fatti salire a bordo. Questo colpo successe senza che que’ di terra se ne accorgessero. Imperocché la scala per cui si ascendeva sul piroscafo, era nel fianco opposto a quello presentato al porto. In mare era già pronto un drappello di congiurati, il quale doveva recarsi dal comandante dell’isola a domandare il permesso di visitare il luogo; e fu appunto quel drappello che costrinse i due militari a salire a bordo. Pisacane per viemmeglio ingannare i curiosi pregò la signora Rosa Mascherò a starsene sul cassero. Il battello che conduceva i finti passeggieri era a metà cammino, quando Pisacane, che dalla prora del bastimento guardava con un cannocchiale l’isola, ad un tratto gridava: « In mare le imbarcazioni, e pronti. » L’ordine fu eseguito in un batter d’occhio; ad eccezione di tre, rimasti a guardia del vapore, i congiurati lutti scendevano in mare; e innanzi che la barchetta che precedeva fosse giunta alla casa sanitaria per presentare le carte, Pisacane co’ suoi era già sceso a terra in un luogo, ove aveva scorto un sentiero che conduceva nella piazzetta del porto. Quivi giunto egli spiegò la bandiera, che era portata da un giovinetto di 13 anni, mozzo del bastimento (19), si diresse dov'era la guardia. La sentinella, vedendo gente armata, fece fuoco, e cercò poscia di rinchiudersi coi compagni entro la cancellata; ma non glielo permise la prontezza con cui Foschini pose la canna del fucile attraverso l'apertura del cancello. Il corpo di guardia venne così invaso: i soldati furono tosto disarmati. In questo fatto rimase morto l’ufficiale comandante il posto, colpito da un fendente mentre cercava eccitare i soldati a far fuoco. Poscia furono disarmati i soldati dell’altro corpo di guardia, e affondata in pari tempo la barca scorriera (20), e inchiodati i due cannoni della piazza. Questi fatti erano eseguiti da ventidue uomini in poco più d’un quarto d’ora. Ma il più mancava: il disarmamento della guarnigione, forte di circa trecento uomini. Questi si erano rinchiusi entro il forte, munito di cannoni; all’avvicinarsi di Pisacane fecero fuoco, ferendo Cesare Cori e un certo Acquarone cameriere del piroscafo, il quale aveva seguita a terra la spedizione. Vedendo come non lieve compito fosse quello della dedizione del forte, Pisacane pensò di far prigioniero il comandante, che fu condotto a bordo, e quivi obbligato a firmare la resa della piazza: alle dieci circa l’isola era in potere dei congiurati. Allora Pisacane ordinò si armassero que’ relegati politici che volevano seguire la spedizione, i quali giunsero a trecento.»

Sbarcavano i congiurati vicino al piccolo villaggio di Sapri, innalzando il grido di libertà. Ma tutto era silenzio e tenebre. Nessuno li aspettava, nessuno veniva ad incontrarli; gli uomini promessi dal Comitato di Napoli non si scorgevano punto: qualche terriere li vedevano: ma fuggivano spaventati. Attendevano tuttavia per lunga ora; infine perdevano ogni speranza di soccorsi e di guida.

L’ines e cuzion e delle solenni promesse fatte a Pisacane dai Pateras, dai Fanelli e da altri, fu la cagione principale della morte di que’ generosi. Eppure non vergognarono quegli uomini, parlando delle loro gesta in una lettera inserta il 2 novembre 1860 nel Popolo d'Italia, di chiamarsi compagni dell’infelice che avevano tradito. « Combattendo in silenzio i nemici della Patria e della Libertà, può espiarsi ogni colpa: l’immodestia e il dirsi compagni dell’uomo il cui nome dovrebb’essere dolore e rimorso a chi fall ì al proprio dovere l’aggravano. »

Lo sbarco si era effettuato in circa due ore poco lontano dal casino Bianco, ove Pisacane avrebbe dovuto trovare gli uomini armati. Egli dispose la colonna in quest’ordine di marcia. I venticinque imbarcati a Genova, a cui s’era unito Giuseppe Mercurio di Subiaco, cameriere del Cagliari, vennero divisi in due colonne, metà di avanguardia, comandata da Nico t era, e metà di retroguardia, comandata da Falcone; i relegati formarono il centro, diviso in tre compagnie coi rispettivi ufficiali, comandato da Pisacane. Giunta la comitiva presso al casino, gridò, come di concerto: — Italia degli Italiani, a cui avrebbero dovuto rispondere: E gl'italiani per essa. — Niuna voce si fece udire. Entrala nel casino, lo trovò deserto. Due guardiacoste fecero fuoco; ma nessuno venne colpito. Imbattutasi nell’impiegato del telegrafo, lo fece prigioniero; esso servì di guida sino( ) a Sapri. Quivi pernottava; e la mattina muoveva per a Tornea, ove giungeva a mezzodì del 29. Pisacane sperò che sarebbe accolto festosamente; ma non un volto amico: nessuno s’offri di seguirlo. Soltanto l'oste del fortino, eretto lungo la strada che conduce a Lagonegro (21), disse a Pisacane che innanzi avrebbe trovati i compagni col barone Galloni. Recatosi al fortino, trovò Gallotti, dal quale ebbe vaghe promesse.

«In quel tragitto, ci narra uno della spedizione, soffrimmo tanta sete che credo fosse eguale a quella che soffersero i Crociati, Pisacane, Falcon e e Nicotera non si perdettero punto d'animo. Compresero anzi come fosse mestieri di ardite risoluzioni; raccozzatisi, tennero fra loro un breve consiglio e statuirono di marciare alla volta di Potenza. — Speravano ancora che il grido di libertà avrebbe accesi gli animi a virili propositi. In essi non nacque punto il pensiero che la tirannide avesse potuto attutire in quelle terre perfin l'ebbrezza di riabbracciare i fratelli proscritti. La sera del 30 arrivavano a Padula: ivi pure non amici, non segni di rivoluzione; ma un paese atterrilo. E come la voce della vendetta gridava: all’armi, gli uomini o fuggivano spaventati o si nascondevano. I popoli più bellicosi, i più devoti a libertà, quegli stessi che due volte in vent’anni, nel 1828 e nel 1848, osavano iniziare la rivoluzione, si mostravano allora imbelli e timidi schiavi della tirannide. Le sante ossa dei De-Luca, dei De-Mattia, dei De-Dominicis e dei Carducci fremettero certo di sdegno. A Padula, Pisacane trovava i fratelli Sant’Elmo, i Romano ed altri, tutti cospiratori; parlava loro, faceva conoscere l’urgenza di armarsi: «Io ho mantenuta la mia parola, diceva: sono qui, e voi che faceste?» Promisero pel domani gente: ma non si presentò nessuno.

La voce dei fatti dell'isola di Ponza e dello sbarco a Sapri erasi tosto sparsa pel Regno, per opera del traditore Dalera. L’esecrato Aiossa, intendente della provincia salernitana, senza porre tempo in mezzo, prendeva tutti quei provvedimenti che meglio potevano valere ad impedire la riuscita d’un magnanimo proponimento. Spediva avvisi a tutti i paesi, sul cui territorio avevano a passare gli sventurati, ingiungendo di dar loro la caccia, come se fossero belve, e di non concedere loro quartiere. Battaglioni di cacciatori, di gendarmi e di urbani vennero sguinzagliati. Le fregate a vapore della marina reale: Amalia, Roberto, Ruggero e Vesuvio, con truppe dell'11° cacciatori, ebbero ordine di incrociare lungo le coste per guardarle da ogni sorpresa.

Nei fatti napolitani abbiamo non una volta citata la guardia urbana, come quella che prese parte alla repressione d’ogni più nobile conato. Crediamo pregio dell’opera narrare come e di quali elementi si componesse.

La guardia urbana non era che una fazione armata, che e i reclutava fra i più improbi ed i più ignoranti sudditi devoti del Borbone: ogni milite; prima d'essere iscritto nei ruoli, soggiaceva al più se t ero scrutinio: i suoi alti, i suoi desideri, i suoi costumi erano accuratamente scandagliati; né bastava ch’ei fosse ardentissimo ammiratore de l governo e furibondo nemico del progresso civile: al soldato dell’ordine delle due Sicilie era pure mestieri d’essere improbo e malvagio. I comandanti di queste orde poi, gli uomini preposti ad imperare su di esse in ciascun comune, dicevansi capiurbani, e dovevano aver mostrato con evidenti prove l’affetto sentito per la casa dei Borboni ed i servigi a questa renduti. La guardia urbana era obbligata a sussidiare le truppe di linea ed a supplire alle medesime coi restare anche in guarnigione ove quelle non fossero. Ordinamento di partito fu questo non istituzione liberale, come si era fatto credere all'estero; diramazione della polizia la guardia urbana poteva altresì considerarsi; imperocché compiutamente ed esclusivamente vedevasi soggetta al ministero di polizia, ed i manigoldi che vi si facevano ascrivere non ricusassero qualunque incarico di bargello, di spia ed anche di carnefice. Ricordava la guardia urbana delle due Sicilie i centurioni di Gregorio XVI, e serviva ad appuntellare la tirannide borbonica, con più di trecentomila scellerati e fanatici realisti, i quali, riuniti alle numerose truppe, ai mercenari svizzeri, ai gendarmi, agli agenti di polizia, agl'impiegati, ai servili magistrati, alla maggioranza del clero ed agli attivissimi gesuiti costituivano la gran macchina governativa di cui era supremo regolatore Ferdinando II .

A viemmeglio nascondere il nefasto intendimento dell'istituita guardia urbana delle provincie si era creata nella capitale la guardia di sicurezza. Ottomila furono gl’inscritti: i capitani formavano i ruoli, scegliendo i militi fra gl’impiegati ed i possidenti, né senza il consiglio della polizia: molti nobili ne brigarono i gradi superiori per vaghezza di uniforme, non per ispirito militare o aspirazione patriottica: il comando supremo di questa guardia di sicurezza fu affidato ai principe di Salerno, Leopoldo di Borbone, zio del re, già disfatto dagli anni e dalle intemperanze d’ogni genere. Sospettoso mai sempre, il re concesse ai militi di vestire elegantissima divisa, ma negò ad essi le armi, che, deposte negli arsenali dei Castello Nuovo, si distribuivano nei giorni di esercizio dei singoli battaglioni, e subito dopo quei militari ammaestramenti si riponevano nei regi depositi. In un sol giorno dell'anno vedevasi tutta riunita la guardia di sicurezza, nella gran rivista di Piedigrotta, ed in mezzo alle file di quarantamila soldati indigeni e stranieri, fedeli al re e devoti alla sua tirannide. Questa pomposa mostra a giorno determinato, e sotto lo sguardo di numerosi e distinti stranieri, giovava al l o scaltro Ferdinando per confermare l’Europa nella credenza che felicissimi fossero i Napoletani, possedendo i consigli rappresentativi delle provincie, una consulta di stato, l’organamento amministrativo moderno, una sapiente e liberalissima legislazione, e perfino una milizia cittadina (22). L’Europa non sapeva o meglio non voleva sapere, che il re c olla polizia, e la più schifosa corruzione, calpestava le istituzioni, le leggi, i diritti, i doveri e sostituiva l’arbitrio sfrenato, la sua volontà personale alla regolare azione della monarchia temperata. La guardia urbana, fu richiamata in vigore dal ministro De l- Carretto, il quale con arte veramente infernale, rivolse quell'istituzione dei popoli civili e liberi a danno non della libertà, che non esisteva a Napoli, ma delle semplici aspirazioni verso un migliore avvenire.

La guardia urbana di Sapri, Torraca, Sala e di altri paesi, raccolta dal giudice di Torchiara, forte di ottocento uomini a cui si erano uniti duecento gendarmi, si schierava per combattere i generosi a ll’alba del 1 luglio. I volontari della libertà, comeché io molto minor numero e cinti dappertutto da uomini a loro ostili, accettavano la lotta, e combattevano come san n o i campioni d’una causa santa. Sgominati, sanguinosi, i Borboniani non potevano a lungo resistere all’impeto della sacra falange, e fuggivanle dinanzi, lasciando sul terreno parecchi morti fra cui degli uffiziali.

Invano, dopo la vittoria, l'eroica legione cercava di che confortarsi: ogni porta, ogni finestra era chiusa: essa doveva, cosa inaudita, soffrire la fame là ove non avrebbe dovuto trovare che fraterne accoglienze. La tirannide non solo il sentimento di patria, ma anco quello di umanità aveva soffocato nel cuore di que’ terrieri.

Mentre i generosi, adagiati sotto gli alberi rinfrancavano le forze, di cui sino adesso avevano pur troppo abusato, venivano d’un tratto scossi dal suono d’una fanfara. Erano le otto compagnie del settimo battaglione cacciatori, mandate in soccorso degli urbani dall'intendente Ajossa (23). Comandavate il tenente-colonnello Ghio, quel desso che in Sicilia aveva alcuni mesi prima date prove d’inaudite barbarie. L’infame Ajossa sapeva finamente scegliere fra gli ufficiali superiori dell’esercito napoletano, quelli che devotissimi erano al Falaride. Ghio, fatto generale, alla testa di un corpo d’armata, fuggiva vilmente più tardi innanzi ad una mano di volontari guidali da Garibaldi. Sempre così gli uomini della tirannide: jattatori e crudeli nella vittoria, servi e vigliacchi nella sconfitta.

I gendarmi e le guardie urbane, all'inaspettato soccorso del 7 cacciatori, vedendosi ormai otto volte maggiori degli uomini che avevano da combattere, riprendevano animo e si ponevano sotto gli ordini di Ghio.

I generosi, innanzi alla certa morte, non cercavano ritirarsi; ma come i trecento Spartani, di piè fermo aspettavano il nemico, e come quelli facevano olocausto della vita sull'altare della patria. A mezzogiorno cominciava il combattimento; gli uni fatti arditi dal grosso numero e dall’avidità della carni fi cina, gli altri resi magnanimi d al santo amore di libertà e dai pensiero che la loro morte sarebbe di grande esempio a' fratelli e di rimorso ai mancatori delle date promesse. Due ore continuava la battaglia; da ambo le parti il terreno era coperto di morti: Ghio eccitava i suoi agli atti più crudeli: Pisacane cercava, quanto più si potesse risparmiare sangue fraterno. Consumate alfine le cartuc c ie, i valorosi della spedizione cessavano il fuoco. Pisacane si recava sulla linea difesa da Nicotera, ove sventolava il vessillo nazionale; e sereno in volto, come uomo sicuro, risolveva aspettare l'avanzarsi del nemico, e a quel posto pugnando di ferro, corpo a corpo, morire. «Noi morremo da uomini, egli esclamava; abbiamo fatto quello che umanamente far si poteva per aiutare questo disgraziato paese. Maledetti coloro che ci la' sciano soli, ai quali non basta nemmeno l’esempio ì per iscuotersi dal vergognoso sonno di nove anni.»

Nicotera proponeva di ritirarsi sui monti; e con eloquenti parole induceva Pisacane a rinunciare al fiero proposito. La ritirata incominciava con ordine. Nel l’attraversare Padula, la magnanima schiera veniva fatta segno alla più inaudita barbarie. Feroce e pazzo popolo dalle finestre e dai tetti delle case scagliava sopra a' generosi, sassi, mobili, quanto gli capitava nelle mani, ed innalzava gridi di gioia ai cadere di ogni Martire. Quasi un terzo della schiera sventurata si sperperava; parecchi morivano lottando; altri fini vano prigionieri: trentacinque di questi, senza formalità di legge, cadevano fucilati per ordine del G h io. Dei partiti da Genova mor iv ano Lorenzo Gianoni e Lodovico Negroni; venivano fatti prigionieri: Giuseppe Mercurio, Domenico Porro, Gaetano Poggi, Giovanni Camillucci, Cesare Faridoni, Domenico Mazzoni e Felice Poggi. Novantasei dei più animosi si raggruppavano intorno a Pisacane, a Falcone, a Nicotera, e, sfidando il nemico, percorrevano lungo la pianura, ed ascendevano le montagne di Buonavitacolo, nella valle di Diano. Pisacane diceva: « Il nostro dovere lo abbiamo fatto, ora tentiamo ancora nel Cilento: se non ci riesce, e se non troveremo modo di salvarci, moriremo da forti.»

Stanchi, digiuni, col cuore sanguinante, erravano sino al tramonto del sole per que' monti, senza mai trovare un pietoso che desse loro asilo. Falcone, giovane a ventun’anno, bello di forme e di cuore, basiva per lassitudine fra le braccia di Pisacane. I compagni gli erano attorno; lo confortavano con amorose cure; altro non potevano, avendo invano picchiato alle capanne dei pastori. Alfine uno di questi, nel cui cuore allignava un senso di pietà, scorti gli sventurati, si avvicinava loro; ed interrogato dei luoghi, segnava ad un’ora di cammino il villaggio di Sanza, e s’offriva a servire di guida. La marcia ricominciava. Preceduti dal pastore, essi entravano in un bosco: guida e guidati si smarrivano dopo non lungo cammino, e dovevano, incerti, vagare per tutta la notte.

All’alba del 2 luglio scorgevano Sanza, villaggio di cinquemila abitanti. Il piccolo drappello, pochi uomini armati di fucili scarichi (24), spiegava la nazionale bandiera e si avanzala gridando: Viva l’Italia viva la libertà!

Quei di Sanza, a quegli accenti che avrebbero dovuto far palpitare ogni cuore, si levavano contro i generosi: sono uomini e donne, vecchi e giovini, preti e monaci armati tutti, chi di fucile, chi di scure, chi di coltello, chi di bastone, e, a gran passi, mentre le campane suonavano a stormo, s’indirizzavano là dove erano quegli schietti Italiani, che avevano tratto in una terra d’Italia a fare opera utile alla patria comune ed a ricevervi, così essendo scritto ne’ fati, il vilipendio e la morte. La stupida ed ignorante gente, aizzata ai più feroci propositi dai preti e dai frati, non si tratteneva di piombare su i poveri Martiri alle soavi e tenere parole che essi facevano suonare in mezzo alla turba furente: Siam vostri fratelli, andavano dicendo gl’infelici. «Perché ci assassinate?... Noi siamo venuti a spendere la nostra vita per togliervi dalla tirannia!» Ma pur dovendosi difendere, e vedendo che vano tornava il fraterno linguaggio, i pochi generosi non si atterrivano ed affrontavano la moltitudine pazza e scellerata. I rimasti dei relegali di Ponza, vedendo impossibile la difesa, fuggivano precipitosamente. Pisacane, Falcone e Nicotera, con nove degli imbarcati a Genova rimanevano, e sospinti dal popolo furibondo si ritiravano in un burrone all’ingresso della borgata. Nicotera volava per raggiungere i fuggenti e ricondurli all’azione; ma tutto era vano; ed egli ritornava per morire cogli undici compagni. Giungeva al luogo ove pochi momenti prima li aveva lasciati, e trovava Falcone supino a terra, poco più avanti Foschini e Barbieri. Pisacane, sempre imperterrito, cercava ripassare un torrente, quando veniva colpito dalla scure de' terraz z ani e tratto a morte crudele (25). V’ha taluno che asserisce aver egli pronuncia t o mentre era aggredito: «Voi siete assassini; mi derubate, ed ora mi uccidete: conducetemi alla giustizia.» Nicotera, con altri venti circa, che aveva potuto ancor raggranellare, si raccoglieva per continuare la difesa, e vedendo come vano era ogni ulteriore conato stava per arrendersi, quando una palla gli forava la destra, datosi ad inseguire il feritore, tre colpi di scure lo coglievano a tergo, e cadeva in una gora di sangue. I relegati che si consegnavano, morivano sotto la scure di quella gente scellerata, dopo essere stati disarmati, e spogliati di tutto. Della spedizione non sopravvivevano che ventinove: ma tutti feriti gravemente. Ben si poteva scrivere sulle mura di Sanza come Agide: «Passeggero, percorri l’Italia, e grida che i suoi figli morirono per la sua libertà!»

Fra i morti erano: Domenico Rolla, Giovanni Sala e Luigi Conte: fra i feriti Giovanni Gagliani, Giuseppe Faieili, Giuseppe Sa nt’ Andrea, Giovanni Nicotera, Cesare Achille Perucci, Carlo Rota e Pietro Rusconi.

I prigionieri, a furia di popolo, venivano sospinti entro Sanza. Giunti nella Piazza, Nicotera cercava di arringare le turbe furenti, quando arrivano da Sapri, comandate da Marulli, quattro compagnie dell’11( 0) cacciatori. Marulli chiedeva di Pisacane, e udito come egli non fosse fra i presenti, comandava che Nicotera venisse accompagnalo sul luogo, ove era avvenuto il combattimento, affinché cercasse riconoscerlo fra gli estinti. Grondante sangue per una larga ferita alla testa e alla mano, Nicotera doveva compire il tristo ufficio. Il corpo di Pisacane era stato reso si deforme che, innanzi tratto, non gli venne dato scoprirlo; non fu che al portafoglio che P amico si aveva in una tasca dell’abito che egli potè accertarsi della morte di lui.

Verso il vespro i prigionieri, avvinti di catene, venivano dai soldati dell’1° cacciatori condotti a Buonavitacolo e rinchiusi in un porcile.


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IX

Per lunga pezza in Italia si serbò una speranza che Carlo Pisacane fosse scampato alla strage de' suoi. Ma quella speranza si andò mano mano dileguando e pur troppo non ci rimase che il conforto della speranza di vendicarlo e di lavare ad un tempo l’Italia dalla vergogna di averlo lasciato perire. E il sangue del generoso Martire e de' suoi compagni venne largamente vendicato dall'Eroe dei due Mondi, il quale pur mostrò che se la tirannide aveva per un istante soffocato nel cuore dei fi gli del mezzogiorno l'amore di patria, essi avrebbero saputo ritrovare, nella propria coscienza, la forza di riaccenderlo più potente che mai.

In oggi, con offerta di popolo veramente italiano, si sta ergendo nel luogo ove perivano i Trecento di Pisacane un monumento che ai crescenti nipoti additi il loro compito (26).

Fu Carlo Pisacane ben composto della persona, sebbene di breve statura; ebbe gentile aspetto, in cui ad un dolce sorriso tutto suo si mesceva una temperata mestizia che carissimo lo faceva a chi pur! per la prima fiala il vedesse. Degli esercizi del corpo e specialmente della scherma, della ginnastica e dei cavalli, si dilettò oltre ogni credere e vi fu eccellente; ne trasse vigore di membra non comune ed operosità singolare. Quanto è delle qualità dell’animo, al coraggio e all’impeto d’un eroe aggiunse la dolcezza, l’affabilità, la modestia d’una fanciulla. Fu di rara costanza nell’amicizia e nell’amore; tenace nel proposito; benigno agli altri, severissimo a sé; di parsimonia e di temperanza antica, e tanto. più pregevole in lui educato fra molti agi e fra la soldatesca, licenza; laborioso ed amantissimo di studi gravi e che avessero in sé del grande; si beava di contemplare ed ammirare la natura e da quella traeva argomento a profonde meditazioni e conforto e pace dell’anima. A m ò sopratutto la pa t ria, e credette con ferma fede vicina l’ora del riscatto, e diede la vita in testimonianza di quella credenza. Credette che l’Italia fosse non solo grande in ogni nobile arte ed in ogni virtù e seconda a nessun popolo; ma benanco a tutti maestra. E ne’ suoi SAGGI con moltissimo affetto si adopera a mostrare come la terra nostra nulla abbia appreso dagli altri, tutto insegnato, e possa di virtù propria e con proprie forze operare ogni più gran cosa. Abbiamo già detto come fosse nelle cose militari peritissimo: il suo naturale ingegno, accresciuto dallo studio, fu lucidissimo; e rese tutto quanto riferivasi alla scienza militare assai facile alla comune intelligenza.

1863 VENOSTA Carlo Pisacane e compagni martiri a Sanza

CARLO PISACANE

Tale fu l’impressione generalmente prodotta dai suoi scritti militari. Nella questione che tutto abbraccia l'uman genere fu socialista (27) : nella questione italiana, inchinò un tempo al federalismo; ma come vedemmo, poscia abbracciò le dottrine di Mazzini.

Non è mestieri che ci diffondiamo in altre parole a celebrare Carlo Pisacane. La sua fama sfida le miserabili ire di parte, le calunnie e il correre degli anni, e vivrà eterna. «Sì, scriveva un amico del Martire, finché la libertà sia cara agli uomini, finché vi sia un Italiano che ami l'Italia, finché la virtù abbia culto e memoria nel mondo, il tuo nome, fortissimo eroe, sarà benedetto e ripetuto con ammirazione e con lode dagli uomini. Cesseranno i tiranni di essere salutati col nome di grandi; ma tu, Carlo Pisacane, non cesserai di essere offerto ad esempio del come degnamente per la patria si viva o si muora!»

Il Du-Camp, che seguì Garibaldi durante la sua spedizione, con animo commosso, scriveva nella Revue des Deux Mondes: «Povero Pisacane! qual forte dolore, sempre vivo, non hai tu mai lasciato nel cuore di quanti ti conobbero! Ho sempre udito parlarne con entusiasmo dagli uomini più eminenti della nuova Italia; un nostro generale sbarcando a Sapri colle sue truppe, svenne pronunciando il nome di Pisacane. Nel suo testamento, egli riassunse tutte le teorie politiche nelle due parole: Libertà ed Associazione. V’ha forse idea religiosa, politica o morale, per grande che sia, che non abbia av u to i suoi Martiri? Perché lamentarne di troppo la morte? Non è forse il sangue da loro versato e la memoria della loro abnegazione che resero ai sorvegnenti, più facile l’opera da essi iniziata? Si dimenticano gl’interessi momentaneamente compromessi da quelli che furono chiamati pazzi ed utopisti per non rammentare che le pene espiatorie che ebbero a soffrire.»


X

Due giorni i prigionieri fatti a Sanza furono tenuti rinchiusi a Buonavitacolo. Indi, tratti di colà, erano fra i maggiori strapazzi condotti a Sapri, ove arrivavano la mattina del giorno 7. Verso sera dello stesso dì venivano imbarcati per Salerno, dove, giunti il giorno 9, trovavano gli altri compagni fatti prigionieri (a Padula. A Salerno ebbero a patire i più gravi insulti dall’intendente Ajossa. Ma alle contumelie di quel tristo, i generosi rispondevano parole così nobili e cosi energiche, che egli fu costretto a tacersi.

Il Cagliari coll’equipaggio venne catturato dalle fregate a vapore della marina borbonica, e condotto a Napoli; capitano, marinai, passeggieri, ed alcuni dei relegati di Ponza, che erano rimasti sul cassero, sen za( ) distinzione, erano gettati nelle prigioni della Vicaria.

Gli evasi da Ponza erano: Michele Milano di Napoli, Filippo Conte di Caserta, Michelangelo Mario di Foggia, Salvatore Barberio di Cosenza, Vincenzo Pafaro di Catanzaro, Francesco Gallo di Catanzaro, Battista de Pascale di Teramo, Giovanni Parrillo di Caserla, Carlo Lofata di Sicilia, ed Eugenio Lombardo di Potenza. Le Grandi Corti Criminali di Napoli e di Salerno incoarono tosto il processo. Dei rinchiusi a Salerno, Nicotera veniva condannato a morte, gli altri, chi a venti, chi a quindici anni di ferri duri. Sottomessa la sentenza alla clemenza sovrana, la pena di morte era commutata alla galera in vita, confermata per gli altri: tutti vennero gettati nelle orride sepolture di Favignana. Il Borbone, aprendo tutto il paterno cuore alla beneficenza, destinò la somma di annui ducati duemila a favore dell'isola di Ponza per le sciagure in cui fu immersa per opera dei malfattori che la invasero; dispose altri duemila ducati da dipartire fra i poveri di quell'isola, proluse onori e gratificazioni agli Aiossa, ai Ghio, ai Marulli, ai Capi-Urbani, e fece distribuire medaglie e danaro ai gendarmi, ai cacciatori, alle guardie urbane, a tutte le centinaia di eroi che combatterono un pugno d’uomini. Infine fece battere una medaglia;he eternasse le infamie di Padula e di Sanza.

I l commendatore Urbano Rattazzi, ministro sardo d egli interni, non avendo potuto prevenire la spedizione di Pisacane, i tentativi per impadronirsi de' forti di Genova, a cui si aggiunsero altri sanguinosi fa tt i a Livorno, inveì contro l’emigrazione in maniera adatto disdicevole ad un governo che si diceva liberale. Molti degli emigrati furono colpiti ingiustamente, e; crudelmente cacciati fuori d’Italia; alcuni dovettero passare in Isvizzera, altri in Inghilterra, altri vennero trasportati in Alessandria di Egitto. Rosolino Pilo, a cui giungeva la trista notizia di Padula e di Sanza il di in cui doveva imbarcarsi per raggiungere i compagni, dovette recarsi a Malta. Dalla feroce persecuzione di Rattazzi non andò esente neppure la mite signora D..., la compagna di Pisacane, la quale dovette soffrire i maggiori insulti.

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Garibaldi era entrato in Palermo; la guarnigione di Trapani s’imbarcava, come pure s’imbarcava il presidio di Favignana: le porte del fosso si aprivano; e i condannati figli della libertà, i compagni di Bentivegna e di Pisacane, ne uscivano: non parevano uomini, ma cadaveri galvanizzati (28) : solo un raggio( ) di luce, sfavillante dalle loro pupille, annunziava che essi erano tuttodì vivi. Gli eroici si recavano a Palermo da Garibaldi, il quale, colle ciglia umide di pianto, se li strinse al petto, e disse loro parole piene; di carità e di amore. Appena que’ Martiri acquistarono tanto di forza da potersi muovere ed agire, l’I talia li rivide, Nicotera il primo, adoperarsi onnil namente pel suo bene.

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DOCUMENTI

Sul momentaneo ordinamento dell’esercito Lombardo in aprile 1848

(Citato a pag 46)

Lombardi! Come fratello vostro, ho creduto mio dovere v e nire a partecipare i vostri pericoli e la vostra gloria. Ma prima di lasciare questa città, ove le barricate rammentano il vostro valore, la tranquillità che vi regna dimostra quanto degno e maturo sia il popolo milanese di una completa libertà, ed ove finalmente l( 9) entusiasmo generale mostra che un sol voto anima tutti, presento al pubblico delle scarse idee che forse potranno esser utili per organizzare l’armata che deve assicurare la nostra libertà.

Educato nel Collegio Militare in Napoli, ho servito il mio paese come officiale del Genio. Volendo quindi alle teoriche aggiungere la pratica che si acquista nei campi ed indurire il mio corpo ai travagli della guerra, sono passato al servizio della Francia ed ho militato in Africa nella Legione straniera, cercando sempre di studiare l’organizzazione dell’armata di una nazione tanto guerriera. Ma voler ciecamente seguire quei metodi non sarebbe in simile circostanza di nessuna utilità. L’arte deve consistere nel saperne scegliere ciò che potrà adattarsi ai bisogni della patria nostra.

Gli Italiani tutti corrono in armi per questa causa: Piemontesi, Napolitani, Romani, Toscani, volano ad affrontare il nemico. Ma la Lombardia deve fidare nelle proprie forze; ed un’armata deve surgere come per incanto da un popolo che seppe sì bravamente spezzare le sue catene. Fratelli! Bisogna che la voce energica della patria riunisca sotto un solo capo i corpi dei volontari. Tanto valore, tanto amor di patria, cosi diviso produce ora delle inutili vittime. Riuniti questi corpi, si vedrà sorgere un’armata che sarà un baluardo insormontabile contro lo straniero e contro la tirannide.

La prima idea che deve campeggiare nell'organizzare un’armata, bisogna che sia quella di renderla compatta per quanto più si può. L'armata lombarda mancando d’officiali deve più che ogni altra evitare le suddivisioni. L’unità di forza d'un’armata deve essere proporzionata al suo affettivo, e presentare una massa completa da bastare a sé stessa. — In Italia, senza inconveniente alcuno, la cavalleria potrà stabilirsi un ventesimo dell'infanteria. L’artiglieria potrà calcolarsi di un pezzo ogni mille uomini; e più, altrettanti in riserva.

Con tali proporzioni, l’unità di forza dell’armata lombarda dovrà essere la brigata. Ogni brigata si comporrà di due reggimenti di fanteria, uno di ca ralleria, ed una batteria. L’unità della forza di fanteria dev'essere il reggimento, nella cui formazione bisogna cercar di assorbire il minor numero possibile di officiali.

Nelle manovre un fronte di trenta file può moversi facilmente. L’ordine su tre righe inspira più confidenza nelle giovini truppe; il fuoco di fila è più nutrito. Si presta meglio per manovrare da cacciatori. Quindi una compagnia potrà comporsi di 180 uomini» compresi otto caporali, più quattro sergenti, un primo sergente ed un foriere. Ogni compagnia formerà due plotoni, ciascuno di 30 file. E non vi sarà che un capitano e un tenente. Otto compagnie formeranno un battaglione; tre battaglioni un reggimento, che presenterà l’effettivo di 4500 uomini. Ed avrà bisogno solamente di un colonnello, 3 capo battaglioni, 24 capitani e 24 tenenti. Più, un officiale abile per la contabilità porterà il peso dell’amministrazione ed avrà il grado di maggiore. Sul principio bisogna evitare di complicare la contabilità; quindi ogni compagnia avrà un registro, su cui saranno scritti i nomi e i connotati di ciascun soldato ed i suoi effetti. Nel medesimo registro, il capitano avrà cura di scrivere un giornale storico della compagnia.

Un reggimento di cavalleria dovrà comporsi di sei squadroni, ognuno di 80 uomini. Ogni squadrone ha bisogno d’un capitano, un tenente e due sottotenenti. Lo squadrone si dividerà in quattro plotoni.

Una batteria d’artiglieria si comporrà di otto pezzi; sarà comandata da un capitano che avrà sotto i suoi ordini due tenenti ed un sottotenente.

Con t a le organizzazione un’armata di 40 mila uomini potrà essere composte di quattro brigate, ciascuna come abbiam detto di sopra, e di una riserva di artiglieria di 32 bocche a fuoco; in tutto 64 bocche a fuoco. A ciascuna brigate vi sarà un officiale superiore di artiglieria ed un capitano, ed un officiale superiore del genio con due capitani e due tenenti. I primi avranno cura del parco e delle munizioni; i secondi, oltre il servizio della propria arme, faranno anche quello d’officiali di stato maggiore.

Passiamo ora ai mezzi onde giungere ad un tele scopo.

1. ° Tutti i corpi di volontarj dipendenti dal governo lombardo, dovrebbero riunirsi sotto un solo capo ed in un sol punto del teatro della guerra, onde procedere alla dette organizzazione che si renderà speditissima a fronte del nemico.

2. ° Stabilire un deposito generale a Brescia per i nuovi soldati che arriveranno; ivi sarebbero istruiti ed inviati al campo, secondo i bisogni; un tele deposito deve dipendere dal comandante in capo l’armata lombarda che si trova sul teatro della guerra.

3. ° I colonnelli dovranno aver l’autorità di promovere i soldati sino al grado di primi sergenti; ed ogni mese invieranno al governo lombardo un quadro dei sottofficiali che meritano divenire officiali e degli officiali che meritano ascensi.

4. ° Ordinare a tutta la gioventù lombarda di tenersi pronta onde marciare al campo, con obbligo di servire sino alla fine del 1849; epoca in cui se l a guerra è finita, si darà all’esercito un’organizzazione permanente ; e la sua forza si proporzionerà ii bisogni della nazione.

5. ° Chiedere alla Francia tutti gli Italiani che servono in Africa; e si avranno degli ottimi officiali, e nei soldati e sottofficiali degli ottimi istruttori.

Nel presentare al pubblico un tale progetto, il quale non deve considerarsi che come provvisorio ed adatto ai bisogni del momento, sono animato dalla speranza che esso sia tolto ad esame; e l’iniziativa da me presa frutti d elle discussioni e dei lumi, onde senza ritardo si proceda alla tanto necessaria formazione dell’armata.

Salute e fraternità.

Milano, 19 aprile 1848.

CARLO PISACANE

…………………………… ...

capitano d’infanteria.


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ITALIA E MURAT

(citato a pag. 85)

Pubblichiamo una dichiarazione di parecchi distinti esuli napoletani e siciliani residenti in Genova contro qualunque rivolgimento che potesse avvenire nel Regno delle due Sicilie, il quale riuscisse a commettere i destini nelle mani di Murat. Ognuno potrà assai di leggeri giudicare il merito di questa protesta di uomini onorati e che giovarono si grandemente al decoro della nostra patria. Come ci scrive l’egregio amico che ce la trasmette da Genova. Essi non vollero fare con questa pubblicazione né più né meno che un atto di probità politica, rara ai dì nostri, in cui sì facili sono le transazioni colla coscienza e l’abbandono di principii altra volta cari e difesi.

(Diritto).

Ecco la dichiarazione:

«I sottoscritti emigrati politici delle due Sicilie, conservando ciascuno l’indipendenza delle proprie opinioni, si credono in debito dichiarare che siccome avversano l’attuale governo delle due Sicilie, perché incompatibile con la nazionalità italiana, per la ragione istessa avversano qualsiasi forma di go verno che potesse costituirsi col figlio di Gioa chino Murat, e tanta maggiormente che in tal caso quel Regno diverrebbe indirettamente una provincia francese.»

Enrico Cosenz — Carlo Pisacane — Tito Trisolini

Giuseppe Trisolini — Giuseppe Vergilj

Francesco Curzio — Diego De Benedetto

Federico Salomone — Vincenzo Carbonelli

Luigi Miceli — Ippolito De Riso — Stefano Seidita

Giuseppe Badia — Ignazio Rivarolà e Bajardi

Gaetano Giordano — Bonaventura Mazzarella

Tommaso Lorusso — Carlo Romualdi

Cammillo Boldoni — Francesco Spedialieri

Crispino Vitale —Salvadore Calvino

Francesco Campo — Giuseppe Mustica

Rosolino Pilo — Gaetano La Loggia

Francesco Giordano — Guglielmo Diaz

Lorenzo Montemajor — Antonio De Blasiis

Carlo Mileli.

MURAT E I BORBONI

(citato a pag. 85)

«L’argomento principale dei faccendieri sardo murattiani è un argomento negativo, i mali patiti durante il dominio borbonico. Noi rammenteremo ai lettori i danni recati a quel regno dall’occupazione straniera.

«La rivoluzione francese dell’89 diede il crollo a quella farragine di leggi da cui venivano oppressi i popoli. Fu la rivoluzione, e non già Napoleone, che aboliva il feudalismo, divideva la proprietà, sostituiva alla precedenza dei natali quella del merito, stabiliva l’uguaglianza fra cittadini Per opera di questa stessa rivoluzione, Bonaparte e Murat, che sarebbero vissuti oscuri, pervennero ai più sublimi gradi della milizia.

«Bonaparte non poteva violare in tutto quei principii che la rivoluzione aveva banditi, ma pervertì a suo profitto le leggi e le rese rigide come convenivano ad assoluto imperio: ecco il suo merito come legislatore francese. Tutto ciò che in quelle leggi trovavasi di buono e di utile fu effetto della rivoluzione, tutto il male che vi era misto fu l’opera del Bonaparte.

«Co t este leggi poi imposte al regno di Napoli con vesti forestiere, né conformi ai costumi ed ai bisogni del paese, furono i benefizi che quei popoli ebbero dal l’invasione francese. L’utile che apportarono lo lascieremo narrare al Colletta. La libertà del comune era riforma apprezzata e compresa nel regno; imposta coi modi del despotismo perdette il suo pregio: «l'amministrazione, scrive Colletta, divenuta fiscale, scambiò l’indole, i dazii comunali non più si pagavano quetamente come lo spender della famiglia, ma di mal cuore, come i tributi del fisco. »

«L’idea filosofica o politica della rivoluzione aboliva i conventi, ma tal legge attuata dalla monarchia divenne finanziaria ed avara: avvegnaché si sciolsero i conventi ricchi per goderne le spoglie, i poveri: ed i mendicati ch'era di peso disfarli, duravano».

«Ed altrove: « Per altri decreti l’amministrazione provinciale e comunale migliorava in quanto alle regole, ma peggiorava nel fatto — per soccorrere la finanza disordinata dalle troppe spese della milizia E DELLA CORTE imponeva (il ministro per l’interno) ai patrimoni dei comuni non pochi debiti del fisco, ed altre somme col nome di volontario donativo. Per ciò quei patrimonii decadevano, il popolo insospettiva: gli spiaceva il risparmio a vederlo convertito in doni menzogneri, più delle. dissipazioni e delle frodi le quali almeno giovavano ad alcuni della comunità.

«Altra cagione di male era nella natura delle intendenze. L’intendente commissario del governo e tutore del popolo, con poteri grandi e certi doveri indeterminati e talvolta opposti, non può a lungo serbare uffizio e fama. E poiché l’uffizio gli apporta comodo e fortuna, sventure ed offese, perfin da coloro a cui giova, la più parte degli intendenti sono a pro del governo contro del popolo, cioè duri nelle pratiche di polizia, inflessibili nell’es i genze della finanza, proclivi e pronti a tutto ciò he profitti o piaccia al re, come a danno della provincia.»

«Quante lodevoli riforme non troveremo, se verremo riducendo alla memoria i primi anni di regno i di quello stesso Ferdinando, divenuto poi ferocissimo? Troveremo conventi soppressi, decime abolite, introdotto l’acquisto delle manimorte, vietati i testamenti in favore dell'anima, dichiarate casse le bolle del pontefice se non validate dal regio potere, dichiarato il matrimonio contratto civile.

«E furono leggi che non erano foggiate oltremonte, e con veste forestiera, e per forza d’armi introdotte, ma adatte ai bisogni del paese, ed erano storiche e nazionali. Per questa loro natura affatto indigena, con le leggi sorge, quella schiera di dotti che le immaginarono, quindi i Cirillo, i Pagano, i Filangieri, i Conforti, l'Eleonora Pimentel... tutti illustri per dottrina e carità di Patria. Ma, quali uomini conta il regno di Gioacchino? tutti cortigiani il cui grido è viva chi paga e viva chi vince. Colletta è grande, non come cittadino, ma come 2 narratore di quegli avve nimenti. La riputazione cittadina di Guglielmo Pepe cominciò dopo il regno di Murat, e durante quel regno, comecché amico di quel re, Pepe cospirò contro di lui.

«Si ordinò la polizia, ed era della facoltà del ministro quella di arrestare e ritenere nelle prigioni per prudenza d’alta polizia le persone accusate di delitti di Stato, faceva offesa alla giustizia, spavento alla innocenza. Rodio, a pretesto accusato di aver sommosso i popoli alle spalle dell’esercito francese, una commissione militare, che fu la prima nel regno, tribunale terribile, inappellabile, lo dichiarò innocente; ma certi francesi, nemici a lui, più superbi, e, per nazionale vergogna, due napoletani di grado e nome, fingendo non so quale pericolo di Stato, indussero il governo a sottoporre Rodio a nuovo giudizio. La seconda commissione lo dannò a morte, e perfino il modo di morire fu acerbo essendo stato archibugiato alle spalle. Così quel misero in dieci ore fu giudicalo due volte, assoluto e condannato, libero e spento; ed aveva moglie, figliuoli, servizii e fama. La immanità spiacque a tutti, fu grande ed universale il terrore.»

«Ed altrove scrive il medesimo storico: «Fatta potentissima la polizia sorsero in gran numero spiatori e delatori delle opere e dei pensieri altrui, e l’infame mestiere, coprendosi dell’amore e zelo di patria, seduceva perfin gli onesti piene le prigioni di colpevoli e di infelici, le commissioni militari non bastavano al tristo uffizio di giudicarli, le morti per condanne o comando non erano numerate né numerabili; i modi del gius t iziare varii, nuovi, terribili; e quasi non bastassero l’archibugio, la mannaia, il capestro, in Monteleone, città capo di provincia, fu appeso al muro un uomo vivente e fatto morire lapidato dal popolo; ed in Lagonegro, non piccola città in Basilicata, io vidi un misero conficcato al palo con barbarie ottomana. Non erano prescritte dal governo quelle morti, ma tra gli abusi d’imperio e l’estrema servitù dà vinti, il giudizio e la fantasia degli agenti regii avevano potenza di legge.» Non reggono al paragone gli abusi di Campagna e nel regno di Ferdinando II non si è giunto a tanta atrocità.

«Facendo pericolo il gran numero di carcerati che spesso, rompendo le catene, uscivano feroci ed animali da vendetta e disperazione, la polizia se ne gravava in due modi: o col pretesto di tradurli ad altro carcere facendoli uccidere tra via, o mandandoli prigioni in Campiano, Fenestrelle, ed altre più remote fortezze della Francia.» Oggi s’andrebbe a Caienna e a Lambessa.

«Né trattava»! della sola plebe ma di uomini di nobili natali, di fama e dignità. Il Magistrato Vecchione, consigliere di stato di Giuseppe, scoperto reo, fu confinato a Torino; Luigi LaGiorgi, ricco e nobile, 'straziato mori in carcere; il Duca Filomarino ebbe il capo mozzato; il marchese Palmieri, colonnello, fu appiccato alle forche, e mentre Vili felice saliva la scala del palco si levò nel popolo voce di salvezza, che generò tumulti infruttuosi a quel misero, ma esiziali ad altri puniti con la morte nel vegnente giorno. Si tenevano prigioni il capitan generale Pignatelli, il principe Ruffo Spinosa, il maresciallo di campo Michereux, i conti Bartolazzi e Gaetani; e donne patrizie Luisa de' Medici, Motilde Calvez; e donne di onesta fama, preti, e frati in gran numero.»

«I mezzi di legge non bastando per discoprire tante tramo e reprimere tanti moti, la polizia insidiosamente mascherava da congiurati i suoi emissarii, contraffaceva lettere, corrispondeva sotto simulate forme con la regina di. Sicilia, e co’ più conti borbonici; ne indagava le pratiche, le seguiva, e giunte a maturità di prove le palesava e puniva. Non inventava congiure, e come maligna fama diceva, ma po t endo spegnerle sul nascere le fabbricava ed ingrandiva; mossa da due stimoli pungentissimi timore e vanto. Allo scoprimento, gli emissarii poco fa congiurati, si trasforma vano in accusatori e testimonii, le lettere ri«cercate o contraffatte in documenti; il fabbro di quella rete (perché magistrato di polizia) componeva il processo; e giudici militari scelti ad occasione ed a modo, ne giudicavano.»

Fin qui il regno di Giuseppe; passiamo ora al regno di Gioacchino: «Prescrisse ché i beni liberi di quelle genti (i fuorusciti ) fossero confiscati, e parte dati in ricompensa ai danneggiati, parte in premio ai più zelanti seguaci del governo, il resto venduto a benefìzio della finanza.»

«L’Austria e Ferdinando II sono molto più miti nelle loro misure.

«La polizia ritornata in potenza e rianimati i già depressi suoi ministri, ripigliò le antiche pratiche. La facoltà d’incarcerare le famiglie de' fuorgiudicati produsse miserevoli arresti di vecchi padri, di vecchie madri, innocenti sorelle, giovani; ma si aveva almeno alle crudeltà la certa guida del parentado: la facoltà d’incarcerare i promotori e gli aderenti arbitraria, facile agli errori ed agli inganni, produsse mali smisurati ed universale spavento, e t al rinacque il rigore, che se la benignità del re non avesse temperata in molti casi l’asprezza delle sue leggi, o se gli afflitti non fossero stati ultima plebe di cui sono bassi e non sentili i lamenti, quel tempo del regno di Gioacchino, avrebbe pareggiato in atrocità e mala fama i più miseri tempi di Giuseppe.»

«Per non dilungarci soverchiamente tralasceremo i tristi espisodii di quell'epoca che registra la storia. Diremo solo che il governo impotente a reprimere il brigantaggio, scendeva a patti coi briganti, e poi perdonati li tradiva: «Io (scrive il Colletta) vidi nella valle di Morano molti cadaveri, e seppi che il giorno innanzi uno stuolo di amnistiati vi era stato trucidato dalle guardie: e avvegnaché si finse che avessero spezzato le catene, e tentato e cominciata la fuga, si andò uccidendoli a varii spunti dì quel terreno a gruppi e alla spicciolata, di ferro e di archibugio, trafitti in vario modo come suole in guerra; contraffacendo con istudiosa crudeltà gli accidenti delle battaglie.»

«Vediamo se il governo di Murat usò la stessa ferocia verso gli amici di libertà. Le buone sorti di quel l’isola (la Sicilia) si magnificavano in Napoli al cader dell’anno 1813, quando la setta de' carbonari, da tre anni venuta nel regno, erasi distesa in ogni luogo, in ogni ceto, nei disegni degli audaci, nelle credenze del volgo, ed era suo voto una costituzione, come l’inglese, sola che in quel tempo le moltitudini tenessero in concetto di libertà. Il governo di Sicilia, ad esempio de' gove rn i alemanni, e lord Bentink per proprio ingegno, ordirono segrete corrispondenze coi settarii di Napoli, mandarono i libri delle nuove leggi siciliane, esaltavano la mutata politica di quel re, promettevano egual costituzione al regno quando reggessero i Borboni; con fronte vergognoso a Gioacchino, che aveva impedito perfino il vano statuto di Baiona. E perciò scoperti i maneggi tra i carbonari ed il nemico, il governo napoletano doppiò vigilanza e rigore, proscrisse la setta, fece decreti minaccievoli di asprissime punizioni. Maggior nerbo di Carboneria e corrispondenze, più facile con la Sicilia era in Calabria, indi più grande la severità; per questa volt a affidata al Generale Manhes. Per molte cure della polizia molte macchinazioni disvelate, forma t i i processi, arditi i giudi z ii, le commissioni militari risorie punivano di morte i set t arii, quelli cioè che chiedevano la costituzione.»

«Capobianco, narra il Colletta, primo fra i settarii giovane ardente ed audace fu dal generale Janelli invitato a convito. Vi si recò, fu accolto, desinò lietamente, e partiva, ma uscendo dalla stanza trattenuto dai gendarmi, condotto in carcere, nel di seguente giudicato dalla commissione militare e dannato a morte, fu nella piazza di Cosenza, sotto gli occhi delle genti inorridite, decapitato. E dopo ciò alcuni (tanto la politica aveva mutato la natura delle cose) fuggivano i pericoli e la servitù del regno di Murat, per andare in Sicilia a respirar libertà sotto, i Borboni.»

«Le infamie e le atrocità registrate in queste tetre pagine del Colletta, non superano forse di gran lunga quelle narrate nelle lettere di Gladstone? Con quanta buona fede possono i murattiani decantare la felicità del popolo durante quella trista e vergognosissima epoca, lo decida il lettore. Godevano, è vero, gli aderenti della corte, gli amici del re, i murattiani insomma, come coi Borboni i borbonici egualmente godono. Non è questo che bisogna domandare alla storia, ma invece cercare quali furono le sorti delle moltitudini che non erano né murattiane né borboniche, e la storia vi risponderà:

«Si derubava il patrimonio dei comuni per alimentare il lusso della Reggia; si confiscavano i beni agli esuli per premiare i partigiani del governo.

G l i agenti di polizia sparsi da per tutto, palesi o mascherati, di tirannelli o da spie scrutavano i pensieri de' cittadini; violavano il segreto delle lettere e quindi cambiati in accusatori, in giudici, in carnefici, dannavano a morte. Le prigioni riboccavano d’infelici e di malfattori. Le morti erano innumerevoli; spesso si perdonava per poi tradire ed uccidere i perdonati. Contro i nemici del governo leggi atrocissime ed esecutori spiegati che non risparmiavano se sasso, né età, né innocenza; si violavano le leggi più sacre ed i diritti più antichi e palesi, veniva i nfranto ogni vincolo di natura e di società ed in;ima a tutto questo cumulo d’infamie i fortunati venturieri, tripudiavano nell’usurpata reggia, e spen d evano i tesori de' popoli vinti ed oppressi. Fuggivano i cittadini nella vicina Sicilia, per respirare un po co di libertà. Ci confutino i murattiani, e giustific hi no, se possono, le infamie commesse durante l’e p oca dell’occupazione francese.

«Il brigandaggio, risponderanno essi, le sette, le iene de' borbonici, erano le cause di quei rigori, s iamo d’accordo; ma rispondiamo loro: che briganaggio e sette sono gli effetti, e non già la causa d el mal governo; oltreché, lo stesso Ferdinando II p otrebbe rispondere, sono le mene dei liberali la ca usa dei miei rigori; io non imprigiono né mando i esilio i miei amici, ma i miei nemici; io punivo coloro, che al mio arbitrio vogliono sostituire li bertà e giustizia, e li punisco come Gioacchino, che pi lodate, puniva i Carbonari. I Borboni, i re F ran c esi e tutti i despoti della terra, appena veggon minacciato il loro trono, si giovano della violenza della frode, del tradimento, della strage, e cotesti mezz i o sono colpe per tutti, o non sono per alcuno. L’indo le d’un governo non già nei prosperi, ma nei pervers i tempi si mostra. Quando obbidienti sono i sudditi e pochi o nessuno i nemici del trono, il più feroce de' re sembra begnino.

«Troppo ingiustamente gridasi contro il brigandaggio di quell'epoca. Tristi sono coloro che si fanne sostegno di tirannide contro chi combatte per libertà, per conquistare diritti che la natura ha concesso ad ogni uomo, per ispezzare quelle catene da cui sono avvinti gli stessi loro avversarii. Ma due partiti che guerreggiano a difesa di due tiranni, e macellano, spargono nel proprio paese il terrore e la miseria per assoggettarlo all’uno o all’altro dei pretendenti, sono tristi entrambi. Perché i partigiani di Gioacchino erano migliori di quelli di Ferdinando? L’uno era re forestiero imposto al regno con armi forestiere, l’altro era per quel regno storico e nazionale; quello faceva del regno una provincia francese, questo era figlio di quel Carlo II I, che da provincia austriaca l’aveva reso indipendente.

I partigiani di Murat rincalzati da armi straniere, sotto la maschera di legalità, non erano che spie mascherate da magistrati, briganti vestiti da soldati e con poco rischio guadagnavano i favori del re, potere e pecunia. I Borbonici con rischio immenso cospiravano, battevano la campagna e perseguitati come belve, da belve si comportavano. Infami gli uni e gli altri che laceravano le viscere del paese per sostenere due tiranni, ma certo, comecché malfattori, erano d’animo più altiero i secondi, essendo facile virtù perseguitare e maledire ai vinti, e non atto volgare il combattere il vincitore.

«Il corso fatale del progresso ha mutalo i tempi; né le provincie, né la Sicilia sorgerebbero a favore di Ferdinando, ma forse le cime di que’ monti sarebbero punto di rannodamento per tutti coloro, che amano la patria ed abborrono lo straniero. Forse molte città inalberando la bandiera italiana, rinnoverebbero i prodigi di valore di Amantea, di Cotrone, di Maratea, né credo che darebbesi ai combattenti il nome di briganti, e di generoso monarca ad un quidam giunto con arti oblique ad usurpare il trono (29).

C. PISACANE.

SUL SOCIALISMO

(citato a pag 127)

Caro Felice,

Tu mi chiedesti come io la pensassi intorno alle massime sociali professate dal martire Carlo Pisacane ne’ suoi scritti. Gettai sulla carta questi pochi cenni, imparati alla scuola dell’Esule illustre, che, spero, potranno rispondere, in parte almeno, a quanto da me i vuoi. Fanne quell’uso che crederai.

Il tuo affezionatissimo

PASQUALE PICCARDI (30).

...e, se potessero mai riescire, ritarderebbero il Progresso, mutilando la vita.

MAZZINI.

Tra le molte e svariate questioni sociali che s’affacciano giganti alla mente del pensatore, e che, turpe anello, si stanno fra un passato rancido, inquisitoriale, tirannico, ed un lieto prosperoso avvenire, non al certo ultima, e la cui soluzione è delle più vitali ed urgenti, si è quella del miglioramento di condizione delle classi laboriose.

Urgente e vitale, poiché milioni di fratelli giacciono nella miseria la più squallida e degradante; urgente e vitale, poiché il delitto che contrista la società è il più delle volte fi glio forzato di tale stato miserando; urgente e vitale, poiché da essa dipende in gran parte l’avvenire di una nazione non solo, ma della intera umanità.

Allorquando da frivoli parlatori, o da scrittori di pettegoli giornali, odesi al popolo affamato imputare la sua ignoranza causa della sua miseria, e moralisti beffardi gridargli: studia, leggi, impara, migliora, invero sale il rossore al viso, e allo scherno amaro, ti si schierano alla mente le falangi numerose dei figli del lavoro, squallidi e sudanti dal tocco del mattino al tocco della sera, sotto il pondo d’estenuante fatica, bene spesso protraentesi per le ore della notte, passare i giorni della vita affannata fra gli stenti e le miserie, e uscire dalle officine, dalle miniere, per essere sulla modesta bara consegnati al becchino!

Più che amara è l’ironia! Si esige dall’operajo che ei s’applichi ad istruire sé stesso, e gli si toglie il tempo necessario. Gli si predica progresso, istruzione, moralità, e gli si lesina il pane... « Non si tratta per essi di progredire, si tratta di vivere, scrive, l’Illustre Apostolo che veglia le notti meditando al, miglioramento delle classi indigenti; e per certo questione avanti cui cedono tutte le altre di qualsiasi natura, è quella della esistenza. Vivere, poi migliorare.»

E la urgente necessità di una completa rivoluzione negli ordini sociali, non poteva a meno di sentire l’eletto ingegno del Martire, di cui tu, amico, imprendesti a narrare l’estremo inesorabile fato; fato per cui dagli ignavi venne poi dichiarato pazzo prima ancora dell’Eroe de' due mondi. Oh sublime pazzia!...

Per questo egli lamentava che una decrepita borghesia fin allora vissuta sotto la tutela dei principi, di cui col suo denaro sosteneva i barcollanti troni e li salvava dalla bancarotta, avesse il monopolio del commercio, delle scienze, dell’industria e degli impieghi, e ch’essa regnasse prepotente in Italia.

Per questo egli, anima severa, entusiastica ammiratrice di Campanella, il Martire delle Calabrie, dagli studi stessi militari tratto alla predilezione dei sistemi, austeramente giudicava de' fatti e degli uomini di quel periodo glorioso e sventurato della nostra rivoluzione, «allorquando dopo amare delusioni — scriveva egli — e sangue sparso, e vittorie riportate, e proclamazioni di repubbliche, non un fatto, non un decreto era apparso che accennasse alle sorti future d’Italia, che esprimesse la consecrazione del suo ideale.»

E nel suo ardente amore pe’ suoi fratelli, illudevasi il Martire di averne trovata la felicità nell’attuazione del socialismo, e l’attaccamento al sistema, gli faceva pure mal giudicare di un partito che conta nelle sue file quanto di più glorioso ha l’Italia, da cui sortirono quanti Martiri s'immolarono per la sua Libertà, e di cui egli stesso fu tra i gloriosi il più prode. Credette il partito repubblicano in Italia non potesse essere rivoluzionario, perché non comunista, e tenace nel suo concetto, tacciò il partito « d’ignorare, ei stesso cosa volesse.» Ed ebbe torto; ma per troppo amore all’Italia — e ciò gli è scusa che basti.

Da più di tren t 'anni il partito repubblicano in Italia, cogli scritti e coi fatti, col pensiero e coll’azione, esule, ramingo, di segreta in segreta, sagrificando Martiri, seminando ossa, calunniato, diffamato, deriso dagli sgherri dei nostrali e stranieri tiranni, va con inconcussa fede e con costanza prodigiosa mirando ad uno Scopo. Ogni atto, ogni scritto di trent'anni passati possono riprodursi e scriversi e adattarsi alla giornata. Pensiero dominante, Meta prefissa, la Libertà e l’tfnftó della Patria.

Perciò eminentemente pratico è il partito repubblicano in Italia, e gli indicibili sacrifici sostenuti, dimostrano ch’ei sa bene cosa si voglia, e quale sia il suo ideale.

Senza dubbio egli riconosce la incontrovertibile verità dei principi esposti dall’immortale Pisacane, e li va ogni giorno predicando: ei sa per certo che; «finché il governo reggerà in luogo di amministrare, ordinerà in luogo di seguire la via che il concetto collettivo gli addita, comanderà piuttosto che servire il popolo, non potrà esservi giammai garanzia possibile.» Ei sa pur troppo, e lo proclamò pur troppo u n’ora invano che «Esso (governo) dirigerà sempre gli interessi individuali ai proprii beni e sostegni, e non già in favore dell'utile collettivo.» Ma appunto perché egli vuole la maggior possibile indipendenza dal governo e la più ampia libertà da essa, non conviene nelle massime dei comunisti.

Il comunismo è tirannico, tende al solo benessere materiale dell'individuo, e facendo dei cittadini altrettanti salariati dello Stato, li degrada e li avvilisce. In una società in tal modo costituita la proprietà scompare; padrone d’ogni avere è lo Stato; ogni cittadino deve secondo le sue facoltà lavorare e dallo Stato viene in proporzione pagato.

«La Libertà, la Dignità, la Coscienza dell individuo, scrive la vasta mente di Mazzini nei Doveri dell’Uomo, aureo libretto che ognuno dovrebbe tenersi per Vangelo, spariscono in un ordinamento di macchine produttrici. La vita fisica può esservi soddisfatta: la vita morale, la vita intellettuale sono cancellate, e con esse l’emulazione, la libera scelta del lavoro, la libera associazione, gli stimoli a produrre, le gioie della proprietà, le cagioni tutte che inducono a progredire. La famiglia umana è, in quel sistema, un armento al quale basta essere condotto ad una sufficiente pastura.»

Parole sacre, parole di sublime profondità, le quali spiegano tutto l’assurdo, tutta la vanità del sistema: sistema che, effettuato, sarebbe stanga cacciala fra le sacre ruote del progresso.

E qui per incidenza siamo lieti che l’occasione si sia a noi presentata di far chiare le idee su questo proposito dell’Illustre Uomo; e taluno al quale il nome di Mazzini suonò fin ad ora anarchia, disordine, espropriazione di averi, comunanza di donne, ed altre si mili fole, strabilierà forse alla mite dottrina.

Dal fin qui detto ci sembra emerga che la formula del comunismo o del socialismo, non soddisfa la soluzione del gran problema sociale — miglioramento delle classi povere ed operaie — e che male apponevasi il prode Pisacane nel credere tali sistemi possibili, meta della felicità sociale. Se non che forse: tali sistemi erano dallo stesso Pisacane sconfessati più tardi, e chiaramente ci sembra appaia dalla formola espressa nel Testamento: Libertà, Associazione; formola questa che condurrà in avvenire alla possibile pratica soluzione del grande problema. Però il pauperismo è piaga spaventevole che rode le società e minaccia cataclismi; e ciò pur troppo anche nei paesi liberi. Ora, se tale funesto male fu fin adesso insanabile nei paesi riscaldati dal potente sole della Libertà, nel paese delle associazioni, dei meetings, come lo sarà dove leggi liberticide vietano al popolo l'uso de' suoi privilegi, il diritto di radunarsi, di discutere degli interessi propri!... E, così stando le cose in: Italia, la questione politica non dovrebbe forse per avventura precedere la questione sociale?... Francamente non esitiamo a rispondere, tale essere il convincimento nostro; e dal rigore logico della nostra premessa, tale deduzione emerge luminosa. Non vi sarà miglioramento materiale, non emancipazione dal monopolio del capitale pell’operaio, non possibilità di associazioni prosperanti e lucrative, non educazione, non sviluppo morale ed intellettuale, fino a che una nazione non sia veramente divenuta nazione ma... libera e indipendente.

LA SPIGOLATRICE DI SAPRI

(1857)

Eran trecento: eran giovani e forti:

E sono morti!

Me ne andava ai mattino a spigolare

Quando ho visto una barca in mezzo al mare:

Era una barca che andava a vapore,

E issava una bandiera tricelore.

All’isola di Ponza si è fermata,

È stata un poco, poi s’ è ritornata:

S’è ritornata, e qui è venuta a terra,

Sceser con Farmi e a noi no» fecer guerra.

Eran trecento; eran giovani e forti:

E sono morti!

Sceser con l’armi e a noi non fecer guerra,

Ma s’inchinaron per baciar la terra:

Ad uno ad uno li guardai nel viso,

Tutti avevano una lagrima ed un sorriso:

Li disser ladri usciti dalle tane

Ma non portaron via nemmeno un pane:

E li sentii mandare un solo grido:

— Siam venuti morir pel nostro lido —

Eran trecento: eran giovani e forti: E sono morti!

Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro

Un giovin camminava innanzi a loro;

Mi feci ardita, e presol per la mano

Gli chiesi: Dove vai, bel capitano?

Guardommi e mi rispose — 0 mia sorella,

Vado a morir per la mia Patria bella!

— Io mi sentii tremare tutto il core

Né potei dirgli — V’aiuti il Signore —

Eran trecento; eran giovani e forti:

E sono morti!

Quel giorno mi scordai di spigolare

E dietro a lor mi misi ad andare:

Due volte si scontrar con li gendarmi

E l’una e l’altra li spogliar dell’armi:

Ma quando fùr della Certosa ai muri

S’udiron a suonar trombe e tamburi:

E tra il fumo e gli spari e le scintille

Piombaron loro addosso più di mille.

Eran trecento: eran giovani e forti;

E sono morti!

E ran trecento, e non voller fuggire,

Parean tre mila e vollero morire:

Ma vollero morir col ferro in mano

E innanzi ad essi correa sangue il piano.

Finché pugnar vid'io, per lor pregai,

Ma un tratto venni men, né più guardai.…

Io non vedeva più fra mezzo a loro

Quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro.

Eran trecento: eran giovani e forti:

E sono morti!

LUIGI MERCANTINI.


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NOTE

(1) Que’ tre ordini chiamavansi bracci, o ceti; ed erano il baronale, l’ ecclesiastico ed il popolare, composto quest'ultimo. dei deputati delle città non soggetta a feudo.

(2) Specialmente il magnifico palazzo di Caserta e il superbo teatro di Sa n Carlo, entrambi unici nel loro genere. I lavori di questo grandioso teatro incominciarono nel marzo e finirono nell'ottobre del 1737; e nel 4 novembre, giorno del nome d el re, vi s i rapprese ntò la prima opera.

(3) I giorni e gli anni di Ferdinando erano tenuti occupati dalle donne, dal vino, dai bagordi, dalla caccia e dalla pesca.

(4) Carolina d’Austria, narra uno storico, era disordinata nella fantasia, ardente nei desideri; univa alle lubriche ispirazioni della mente, una più potente lubricità d i orga smo ; era l’antica Messalina, era Venere Afrodisiaca.

(5) Antica Repubblica greca nella Calabria; ivi sbarcarono i Bandiera allorché partirono da Corfù per sommuovere le Calabrie.

(6) Veggasi: V en os t a — fratelli Ba ndiera, 2 e diz. Cap. I .

(7) La fama disse che le benedizioni del pontefice lo avessero sciolto dagli obblighi del giuramento.

(8) Ferdinando mori nottetempo d’apoplessia. Il mattino i dottori ed i servi, entrando nelle di lui stanze, trovarono le coltri e le lenzuola disordinale, e in esse avvolto il suo corpo cosi stranamente che pareva avesse lottate per mol to tempo: un lenzuolo gli avvolgeva il capo; le gambe, le braccia erano stravol t e; la bocca aperta; il viso livido e nero; gli occhi aperti e terribili. Non un congiunto, non un amico ebbe nel solenne momento della morte. Ei moriva chiuso nella propria stanza, lontano da tutti, cus todit o soltanto da un feroce cane mastino da lui prediletto. Il seguente distico corse un pezzo per le bocche dei Napolitani:

«Accadono in ver gran cose strane,

Moriva un lupo e l'assisteva un cane. »

(9) Carlo Didier, l’autore della Roma Sotterranea, che viaggiò allora quegli infelicissimi luoghi, narra nella R evue de s deu x Monde s di aver veduta la testa di un vecchio in cima ad una picca piantata davanti alla casa di lui: i bianchi capegli, macchiati di sangue, ondeggiavano al vento e davano alla famiglia orrenda vista.

(10) Giuseppe Mazzini, esule genovese, dopo aver assistilo alla mala prova della spedizione di Lione del febbraio 1831, passò in Corsica con altri esuli per dar moto ad uno sbarco di Carbonari accorsi sulle rive della Toscana per aiutare la rivoluzione dell’Italia centrale. Veduti fallire per mancanza di senno politico e di ardila difesa i moti di quelle provincie, e avendo conosciuto da vicino i capi preposti al movimento delle Romagne e dei ducali, ben presto si avvide come l’Italia non fosse risorta perché mancavano gli accordi fra i capi e il genio rivoluzionario. Epperò sin da allora decise di dare alla Penisola un generale organamento che si appoggiasse sulle forze vitali della Naz i one, e fondò la Giovine Italia. Prima d’intraprendere una lotta morale contro i principi italiani, tentò un’ultima prova scrivendo a Carlo Alberto una lettera. Con questa Mazzini invitava il re sabaudo ad assumere l’impresa magnanima i di redimere la patria dallo straniero servaggio, di scendere in campo con fiducia che troverebbe per assecondarlo ventidue milioni d’italiani, pronti ai più grandi sa critici, e ne avrebbe per guiderdone la nobile corona dell’Italia riunita. Quella lettera produsse grandissima sensazione in Europa; rivelò per la prima fiala il nome di, Mazzini; ma non iscosse punto Carlo Alberto. Mazzini, fermo ne’ suor santi propositi, con una mano di esuli, si recò a Marsiglia, da quivi si volse alla gioventù italiana, e prima che te rminaase l’anno 1839 ebbe una potenti e segreta affiliazione in Italia, e fondò un giornale, ch e, coll’istesso nome di Giovine Italia, s f idava al t ame nt e i re ed i governi, ne svelava le turpitudini, li perseguitava colla storia del vero; e mentre mostrava ai mondo che, quantunque sfortunati, né ciechi, né vili erano gl i i taliani, questi educava nel santo concetto dell’unità della patria, e li infiammava a fatti ardimentosi.

(11) Cattaneo, Politecnico, n. 45, pag. 270.

(12) Allo Vannucri I Martiri della libertà italiana.

(13) Dobbiamo accennare per amor del vero che negli scritti di Pisacane non traspare mai che esso sentisse di spregio pel Garibaldi.

(14) Piero Cironi pubblicò un aureo libro sulla Stampa nazional e Italiana.

(15) Favignana è una delle isole tte sparse nelle acque di Marsala e di Trapani. Nella parte occidentale di essa s’innalza un monte, la cui ve tt a è corona t a di fabbriche che formano una delle più terribili carceri.

(16) Il Del R e fu posto sullo processo per la sua poesia in cui era esaltato il regicida. Ma i giurati, avendolo dichiara t o non colpevole, veniva rimanda t o assolto (l ugl. 1857.).

(17) Non volle il Borbone risparmiato neppure il capitano di Milano, il signor Testa. Questi venne mandalo alla seconda classe per non aver fallo osservare che, nello stato di assento, Milano era qualificalo come idiota, mentre ei doveva saperlo giovine istrutto.

(18) Il Dalera in premio del suo spionaggio otteneva la condonazione della pena e una licenza da farmacista.

(19) Demetrio Costa. (L’autore).

(20) Specie di barca doganale armata di una piccola colubrina.

(21) Nel 1860 con religioso raccoglimento quivi si fermarono i garibaldini a contemplare il letto ove dormì il martire Pisacane.

(22) La gran rivista di Piedigrotta avveniva l’8 settembre, giorno consacra t o alla nascita della Vergine.

(23) Affinché i nostri lettori possano avere un'esa t ta cognizione del numero delle forze contro cui dovettero combattere i compagni dell'infelice Pisacane, crediamo necessario accennare come i battaglioni di cacciatori nel l’ex-esercito borbonico fossero composti di otto compagnie dai 150 ai 160 uomini cadauna.

(24) Mol t i di quelli che seguirono Pisacane nella ritira t a da Padula, si erano lungo il viaggio smarriti.

( Testimonio oculare).

(25) Pisacane, scrive quel cuor generoso di Du- Camp, ferito, disarmalo, dopo essersi lealmente reso, fu accoppato a colpi di bastone e di forca come un lupo arrabbia t o.

(26) Una Commissione pell'erezione di un monumento all’eroico martire Carlo Pisacane e compagni, si costituiva in sullo scorcio del 1860 in Napoli. Sappiamo che il fondo raccolto permette ormai di tradurre in fallo il nobile pensiero.

(27) Vedi documenti.

(28) Il povero Carlo Rota, di Monza, in tre anni circa di cure, non giunse ancora a rifarsi dalle patite pene.

(29) Queste pagine sieno di lezione a coloro che, attra t ti da un materialismo politico senza coscienza, senza dignità, s enza intelletto del come si rigenerino i popoli, vorrebbero vedere imperare in Napoli i Murat. (Aut. )

(30) Con piacere inseriamo fra i documenti lo scritto dell'amico, come quello che consuona perfettamente col nostro modo di vedere.




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Pisacane e la spedizione di Sapri (1857) - Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito
1851 Carlo Pisacane Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49
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1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. I HTML ODT PDF
1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. II HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. III HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. IV HTML ODT PDF

1849

CARLO PISACANE Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma

1855

La quistione napolitana Ferdinando di Borbone e Luciano Murat

1855

ITALIA E POPOLO giornale politico Pisacane murattisti

1856

Italia e Popolo - Giornale Politico N. 223 Murat e i Borboni

1856

L'Unita italiana e Luciano Murat re di Napoli

1856

ITALIA E POPOLO - I 10 mila fucili

1856

Situation politique de angleterre et sa conduite machiavelique

1857

La Ragione - foglio ebdomadario - diretto da Ausonio Franchi

1857

GIUSEPPE MAZZINI La situazione Carlo Pisacane

1857

ATTO DI ACCUSA proposta procuratore corte criminale 2023

1857

INTENDENZA GENERALE Real Marina contro compagnia RUBATTINI

1858

Documenti diplomatici relativi alla cattura del Cagliari - Camera dei Deputati - Sessione 1857-58

1858

Difesa del Cagliari presso la Commissione delle Prede e de' Naufragi

1858

Domenico Ventimiglia - La quistione del Cagliari e la stampa piemontese

1858

ANNUAIRE DES DEUX MONDES – Histoire générale des divers états

1858

GAZZETTA LETTERARIA - L’impresa di Sapri

1858

LA BILANCIA - Napoli e Piemonte

1858

Documenti ufficiali della corrispondenza di S. M. Siciliana con S. M. Britannica

1858

Esame ed esposizione de' pareri de' Consiglieri della corona inglese sullaquestione del Cagliari

1858

Ferdinando Starace - Esame critico della difesa del Cagliari

1858

Sulla legalità della cattura del Cagliari - Risposta dell'avvocato FerdinandoStarace al signor Roberto Phillimore

1858

The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

1858

Ricordi su Carlo Pisacane per Giuseppe Mazzini

1858

CARLO PISACANE - Saggi storici politici militari sull'Italia

1859

RIVISTA CONTEMPORANEA - Carlo Pisacane e le sue opere postume

1860

POLITECNICO PISACANE esercito lombardo

1861

LOMBROSO 03 Storia di dodici anni narrata al popolo (Vol. 3)

1862

Raccolta dei trattati e delle convenzioni commerciali in vigore tra l'Italia egli stati stranieri

1863

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1863

Giacomo Racioppi - La spedizione di Carlo Pisacane a Sapri con documenti inediti

1864

NICOLA FABRIZJ - La spedizione di Sapri e il comitato di Napoli (relazione a Garibaldi)

1866

Giuseppe Castiglione - Martirio e Libert࠭ Racconti storici di un parroco dicampagna (XXXVIII-XL)

1868

Vincenzo De Leo - Un episodio sullo sbarco di Carlo Pisacane in Ponza

1869

Leopoldo Perez De Vera - La Repubblica - Venti dialoghi politico-popolari

1872

BELVIGLIERI - Storia d'Italia dal 1814 al 1866 - CAP. XXVII

1873

Atti del ParlamentoItaliano - Sessionedel 1871-72

1876

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1876

Gazzetta d'Italia n.307 - Autobiografia di Giovanni Nicotera

1876

F. Palleschi - Giovanni Nicotera e i fatti Sapri - Risposta alla Gazzettad'Italia

1876

L. D. Foschini - Processo Nicotera-Gazzetta d'Italia

1877

Gaetano Fischetti - Cenno storico della invasione dei liberali in Sapri del 1857

1877

Luigi de Monte - Cronaca del comitato segreto di Napoli su la spedizione di Sapri

1877

AURELIO SAFFI Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini (Vol. 9)

1878

PISACANE vita discorsi parlamentari di Giovanni Nicotera

1880

Telesforo Sarti - Rappresentanti del Piemonte e d'Italia - Giovanni Nicotera

1883

Giovanni Faldella - Salita a Montecitorio - Dai fratelli Bandiera alladissidenza - Cronaca di Cinbro

1885

Antonio Pizzolorusso - I martiri per la libertࠩtaliana della provincia diSalerno dall'anno 1820 al 1857

1886

JESSIE WHITE MARIO Della vita di Giuseppe Mazzini

1886

MATTEO MAURO Biografia di Giovanni Nicotera

1888

LA REVUE SOCIALISTE - Charles Pisacane conjuré italien

1889

FRANCESCO BERTOLINI - Storia del Risorgimento – L’eccidio di Pisacane

1889

BERTOLINI MATANNA Storia risorgimento italiano PISACANE

1891

Decio Albini - La spedizione di Sapri e la provincia di Basilicata

1893

L'ILLUSTRAZIONE POPOLARE - Le memorie di Rosolino Pilo

1893

 MICHELE LACAVA nuova luce sullo sbarco di Sapri

1894

Napoleone Colajanni - Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane

1905

RIVISTA POPOLARE - Spedizione di Carlo Pisacane e i moti di Genova

1895

Carlo Tivaroni - Storia critica del risorgimento italiano (cap-VI)

1899

PAOLUCCI ROSOLINO PILO memorie e documenti archivio storico siciliano

1901

GIUSEPPE RENSI Introduzione PISACANE Ordinamento costituzione milizie italiane

1901

Rivista di Roma lettere inedite Pisacane Mazzini spedizione Sapri

1904

LUIGI FABBRI Carlo Pisacane vita opere azione rivoluzionaria

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Giudizi d’un esule su figure e fatti del Risorgimento

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Lettera di Carlo Cattaneo a Carlo Pisacane

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - I tentativi per far evadere Luigi Settembrini

1911

RISORGIMENTO ITALIANO - La spedizione di Sapri narrata dal capitano Daneri

1912

 MATTEO MAZZIOTTI reazione borbonica regno di Napoli

1914

RISORGIMENTO ITALIANO - Nuovi Documenti sulla spedizione di Sapri

1919

ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

1923

MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

1927

NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano


























Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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