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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

ITALIA E POPOLO

GIORNALE POLITICO
Libertà Unità

Anno VI Genova— Martedì 12 Agosto 1856 Num. 223
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MURAT E I BORBONI

I

Corre fama, che l'italianissimo Cavour, dopo aver proposto la separazione delle legazioni da Roma, e l’intervento straniero a Napoli, col solo intendimento d'impedire la rivoluzione, ora sia divenuto il protettore dei murattiani.

L'argomento principale di questi faccendieri è un argomento negativo, i mali patiti durante il dominio borbonico. Noi rammenteremo ai lettori ì danni recati a quel regno dall'occupazione straniera.

La rivoluzione francese dell’89, diede il crollo a quella farraggine di leggi da cui venivano oppressi i popoli. Fu la rivoluzione, e non già Napoleone, che aboliva il feudalismo, divideva la proprietà, sostituiva alla precedenza dei natali quella del merito, stabiliva l'uguaglianza fra cittadini… Per opera di questa stessa rivoluzione, Bonaparte e Murat, che sarebbero vissuti oscuri, pervennero ai più sublimi gradi della milizia.

Bonaparte non poteva violare in tutto quei principii che la rivoluzione aveva banditi, ma perverti a suo profitto le leggi e le rese rigide come convenivano ad assoluto imperio, ecco il suo merito come legislatore francese. Tutto ciò che in quelle leggi trovasi di buono e di utile fu effetto della rivoluzione;( )tutto il male che vi era misto fu l’opera di Bonaparte. Coteste leggi poi imposte al regno( )di Napoli con vesti forestiere, né conformi ai costumi ed ai bisogni del paese, furono i benefizii, che quei popoli ebbero dall'invasione francese. L'utile che apportarono lo lascieremo narrare al Colletta.

La libertà del comune era riforma apprezzata e compresa nel regno, imposta coi modi del despotismo perdette il suo pregio: «L’amministrazione, scrive Colletta, divenuta fiscale, scambiò l'indole, i dazii comunali non più si pagavano quetamente come lo spender della famiglia, ma di mal cuore, come i tributi del fisco.»

L'idea filosofica o politica della rivoluzione aboliva i conventi, ma tal legge attuata dalla monarchia divenne finanziaria ed avara: «avvegnaché si sciolsero i conventi ricchi, per godere delle spoglie, i poveri ed i mendicanti ch'era di peso disfarli, duravano...»

Ed altrove: «Per altri decreti l'amministrazione provinciale e comunale migliorava in quanto alle regole, ma peggiorava nel fatto — per soccorrere la finanza disordinata dalle troppe spese della milizia E DELLA CORTE imponeva (il ministro per l'interno) al patrimonio dei comuni non pochi debiti del fisco, ed altre somme col nome di volontario donativo.

«Perciò quei patrimonii decadevano, il popolo insospettiva: gli spiaceva il risparmio a vederlo convertito, in doni menzogneri, più delle dissipazioni e delle frodi, le quali almeno giovavano ad alcuni della comunità.

«Altra cagione di male era nella natura delle intendenze. L'Intendente commissario del governo e tutore del popolo, con poteri grandi e certi doveri indeterminati e talvolta opposti, non può a lungo serbare uffizio e fama. E poiché l'uffizio gli apporta commodo e fortuna, la fama sventure ed offese, perfino da coloro a cui giova, la più parte degl’intendenti sono a pro del governo contro del popolo, cioè duri nelle pratiche di polizia, inflessibili nell’esigenze della finanza, proclivi e pronti a tutto ciò che profitti o piaccia al re, come a danno della provincia.»

Quante lodevoli riforme non troveremo, se verremo riducendo alla memoria i primi anni di regno di quello stesso Ferdinando, divenuto poi ferocissimo? Troveremo conventi soppressi, decime abolite, introdotto l'acquisto delle mani-morte, vietati i testamenti in favore dell'anima, dichiarale casse le bolle del pontefice, se non validate dal regio potere, dichiarato il matrimonio contratto civile…

E furono leggi che non erano foggiate oltremonte, e con veste forestiera, e per forza d’armi introdotte ma addatte ai bisogni del paese, ed erano storiche e nazionali. Per questa loro natura affatto indigena, con le leggi Sorge quella schiera di dotti che le immaginarono, quindi i Cirillo, i Pagano, i Filangieri, i Conforti, l’Eleonora Pimentel...., tutti illustri per dottrina e carità di Patria. Ma quali uomini conta il regno di Gioacchino? tutti cortigiani, il cui grido è viva chi paga, e viva chi vince.

Colletta è grande, non come cittadino, ma come narratore di quegli avvenimenti. La riputazione cittadina di Guglielmo Pepe cominciò dopo il regno di Murat, e durante quel regno, comechè amico di quel re, Pepe cospirò contro di esso.

«Si ordinò la polizia, ed era delle facoltà del ministro quella di arrestare e ritenere nelle prigioni, per prudenza di alta polizia le persone accusate di delitti di Stato, faceva offesa alla giustizia, spavento alla innocenza. Rodio, a pretesto accusato di aver sommosso i popoli alle spalle dell’esercito francese, una commissione militare, che fu la prima nel regno, tribunale terribile, inappellabile lo dichiarò innocente; ma certi francesi, nemici a lui più superbi, e, per nazionale vergogna, due napoletani di grado e nome, fingendo non so quale pericolo di Stato, indussero il governo a sottoporre Rodio a novello giudizio. La seconda commissione lo dannò a morte, e perfino il modo del morire fu acerbo essendo stato archibugiato alle spalle. Cosi quel misero in dieci ore fu giudicato due volte, assoluto e condannato, libero e spento; ed aveva moglie, figliuoli, servizii e fama. La immanità spiacque a tutti, fa. grande ed universale il terrore.»

Ed altrove scrive il medesimo storico: «Fatta potentissima la polizia sorsero in gran numero spiatori e delatori delle opere e dei pensieri altrui e l’infame mestiere, coprendosi dell'amore e zelo di patria, seduceva perfino gli onesti………… piene le prigioni di colpevoli e di infelici, le commissioni militari non bastavano al tristo uffizio di giudicarli, le morti per condanne o comando non erano numerate né numerabili; i modi del giustiziare varii, nuovi, terribili; e quasi non bastassero l'archibugio, la mannaia, il capestro, in Monteleone, città capo di provincia, fu appeso al muro un uomo vivente e fatto morire lapidato dal popolo; ed in Lagonegro, non piccola città di Basilicata, in vidi un misero conficcato al palo con barbarie ottomana. Non erano prescritte dal governo quelle mo£|i, ma tra gli abusi d'imperio e l’estrema servitù de' vinti, il giudizio e la fantasia degli agenti regii avevano potenza di legge. Non reggono al paragone gli abusi di Campagna, e nel regno di Ferdinando II non si è giunto a tanta atrocità.

«Facendo pericolo il gran numero di carcerati che spesso, rompendo le catene, uscivano feroci ed animali da vendetta e disperazione, la polizia se ne sgravava io due modi: o col pretesto di tradurli ad altro carcere facendoli uccidere tra via; o mandandoli prigioni in Campiano, Fenestrelle, ed altre più remote fortezze della Francia». Oggi s'andrebbe a Caienna e a Lambessa.

«Né trattavasi della sola plebe, ma di uomini di nobili natali, di fama e dignità. Il Magistrato Vecchione, consigliere di Stato di Giuseppe, scoperto reo, fu confinato a Torino; Luigi La Giorgi, ricco e nobile, straziato morì in carcere; il Duca Filomarino ebbe il capo mozzato; il marchese Palmieri colonnello, fu appiccate alle forche, e mentre l’infelice saliva la scala del palco si levò nel popolo voce di salvezza, che generò tumulti infruttuosi a quel misero, ma esiziali ad altri puniti con la morte nel vegnente giorno. Si tenevano prigioni il capitan generale Pignatelli, il principe Ruffo Spinosa, il maresciallo di campo Micheroux, i conti Bartolazzi e Gaetani; e donne patrizie Luisa de' Medici, Matilde Calvez; e donne di onesta fama, preti i e frati in gran numero.»

……………………………………………………………………………………………….

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«I mezzi di legge non bastando per discoprire tante trame, e reprimere tanti muli, la polizia insidiosamente mascherava da congiurati i suoi emissarii, contraffaceva lettere, corrispondeva sotto simulate forme con la regina di Sicilia, e co’ più conti borbonici; ne indagava le pratiche, le seguiva, e giunte a maturità di pruove le palesava e puniva. Non inventava congiure, come maligna fama diceva, ma potendo spegnerle sul nascere le fabbricava ed ingrandiva; mossa da due stimoli pungentissimi timore e vanto. Allo scoprimento, gli emissarii poco fa congiurati, si trasformavano in accusatori e testimoni; le lettere ricercate o contraffatte in documenti; fabbro di quella rete (perchè magistrato di polizia) componeva il processo; e giudici militari scelti ad occasione ed a modo, ne giudicavano.»

Fin qui il regno di Giuseppe, passiamo ora al regno di Gioacchino; prescrisse che i beni liberi di quelle genti (i fuorusciti) fossero confiscati, e parte dati in ricompensa ai danneggiati, parte in premio ai più zelanti seguaci del governo, il resto venduto a benefizio della finanza.»

L’Austria e Ferdinando II sono molto più miti nelle loro misure.

«La polizia ritornata in potenza e rianimati i già depressi suoi ministri, ripigliò le antiche pratiche………… La facoltà d’incarcere le famiglie de' fuorgiudicati produsse miserevoli arresti di vecchi padri, vecchie madri, innocenti sorelle, giovani; ma si aveva almeno alle crudeltà la certa guida del parentado: la facoltà d’incarcerare i promotori e gli ardenti, arbitraria, facile agli errori ed agli inganni, produsse mali smisurati ed universale spavento. Tal rinacque il rigore, che, se la benignità del re non avesse temperata in molti casi l'asprezza delle sue leggi, o se gli afflitti non fossero stati ultima plebe, di cui sono bassi e non sentiti i lamenti, quel tempo del regno di Gioacchino, avrebbe pareggiato in atrocità e mala fama i più miseri tempi di Giuseppe. Per non dilungarci soverchiamente tralasceremo i tristi episodii di quell’epoca che registra la storia. Diremo solo che il governo impotente a reprimere il brigandaggio, scendeva a patti coi briganti, e poi perdonati li tradiva: «Io (scrive il Colletta) nella valle di Morano vidi molti cadaveri, e seppi che il giorno innanzi uno stuolo di amnistiati, vi era stato trucidato dalle guardie: e avvegnachè si FINSE che avessero spezzate le catene, e tentato e cominciata la fuga, si andò uccidendoli a varii punti di quel terreno, a gruppi alla spicciolata, di ferro e di archibugio, trafitti in vario modo, come suole in guerra; contrafaceva con istudiosa crudeltà gli accidenti delle battaglie.»



ITALIA E POPOLO

GIORNALE POLITICO
Libertà Unità

Anno VI Genova— Mercoledì 13 Agosto 1856 Num. 224

MURAT E I BORBONI

II (*)

Vediamo, se il governo di Murat usò la stessa ferocia verso gli amici di libertà. «Le buone sorti di quell’isola (la Sicilia) si magnificavano in Napoli al cader dell’anno 1813, quando la setta de' carbonari da Ire anni venuta nel regno, erasi distesa in ogni luogo, in ogni celo, nei disegni degli audaci, nelle credenze del volgo, ed era suo voto una costituzione come l'inglese, sola che in quel tempo le moltitudini tenessero in concetto di libertà. Il governo di Sicilia, ad esempio de' governi alemanni, e lord Bentink per proprio ingegno, ordirono segrete corrispondenze coi settari, di Napoli, mandarono i libri delle nuove leggi siciliane, esaltavano la mutala politica di quel re, promettevano egual costituzione al regno quando reggessero i Borboni; confronto vergognoso a Gioacchino, che coeva impedito perfino il vano statuto di Baiona. E perciò scoperti i maneggi tra i carbonari ed il nemico, il governo napoletano doppiò vigilanza e rigore, proscrisse la setta, fece decreti minaccevoli di asprissime punizioni.

«Maggior nerbo di Carbonara e corrispondenza più facile con là Sicilia era in Calabria, indi più grande la severità; pur questa volta affidata al generale Manhes. Per molte cure della polizia molte macchinazioni disvelate, formati i processi, orditii giudizii, le commissioni militari risorte punivano di MORTE i settarii».

Quelli cioè che chiedevano la costituzione.

Capobianco, narra il Colletta, primo fra i settarii, e giovane ardente ed audace fu dal generale Janelli invitato a convito. «Vi si recò, fu accolto, desinò lietamente, e partiva, ma uscendo dalla stanza trattenuto dai gendarmi, condotto in carcere, nel dì seguente giudicato dalla commissione militare e dannalo a morte, fu nella piazza di Cosenza, sotto gli occhi delle genti inorridite, decapitalo. E dopo ciò alcuni (tanto la politica aveva mutato la natura delle cose) fuggivano i pericoli e le servitù del Regno di Murat, per andare in Sicilia a respirar libertà sotto i Borboni.»

Le infamie e le atrocità registrate in queste tetre pagine superano forse di gran lunga quelle narrate nelle lettere del Gladstone?

Con quanta buona fede, possono i murattiani decantare la felicità del popolo durante quella trista e vergognosissima epoca, lo decida il lettore. Godevano, è vero, gli aderenti della corte, gli amici del re, i murattiani insomma, come coi Borboni i borbonici egualmente godono. Non è questo che bisogna domandare alla storia, ma invece cercare quali furono le sorti delle moltitudini che non erano né murattiane né borboniche, e la storia vi risponderà:

Si derubava il patrimonio dei comuni per alimentare il lusso della Reggia; si confiscavano i beni agli esuli per premiare i partigiani del governo. Gli agenti di polizia sparsi da per tutto, palesi o mascherali, da tirannelli o da spie scrutavano i pensieri de’ cittadini; violavano il segreto delle lettere, e quindi cambiali in accusatori, in giudici, in carnefici, dannavano a morte. Le prigioni riboccavano d'infelici e di malfattori. Le morti innumerevoli; spesso si perdonava per poi tradire ed uccidere i perdonati. Contro i nemici del governo leggi atrocissime ed esecutori spietati che non risparmiavano né sesso, né età, né innocenza, si violavano le leggi più sacre ed i diritti più antichi e palesi, veniva infranto ogni vincolo di natura e di società, ed in cima a tutto questo cumulo d’infamie, i fortunati venturieri tripudiavano nell'usurpata reggia, e spendevano i tesori de’ popoli vinti ed oppressi. Fuggivano i cittadini nella vicina Sicilia, per respirare un poco di libertà. Ci confutino i murattiani, e giustifichino, se possono, le infamie commesse durante l’epoca. dell’occupazione francese.

Il brigandaggio, risponderanno essi, le sette, le mene de’ borbonici, erano le cause di quei rigori, siamo d’ accordo; ma rispondiamo loro: che brigandaggio e sette sono gli effetti, e non già la causa del malgoverno; oltreché, lo stesso Ferdinando II potrebbe rispondere: sono le mene dèi liberali la causa de’ miei rigori; io non imprigiono né mando in esilio i miei amici, ma i miei nemici; io punisco coloro, che al mio arbitrio vogliono sostituire libertà e giustizia, e li punisco come Gioacchino, che voi lodate, puniva i Carbonari. I Borboni, i re francesi e tutti i despoti della terra, appena veggono minacciato il loro trono, si giovano della violenza, della frode, del tradimento, della strage, e cotesti mezzi o sono colpe per tutti, o non sono per alcuno. L'indole d’un governo non già nei prosperi, ma nei perversi tempi si mostra. Quando ubbidienti sono i sudditi, e pochi o nessuno i unirei del trono, il più feroce de’ re sembra benigno.

Troppo ingiustamente gridasi contro il brigandaggio di quell’epoca. Tristi son coloro che si fanno sostegno di tirannide contro chi combatte per libertà, per conquistare diritti che la natura ha concesso ad ogni uomo, per ispezzare quelle catene da cui sono avvinti gli stessi loro avversarli. Ma due partiti che guerreggiano a difesa di due tiranni, e si macellano, e spargono nei proprio paese il terrore e la miseria per assoggettarlo, all’uno o all'altro dei pretendenti, sono tristi entrambi. Perchè i partigiani di Gioacchino erano migliori di quelli di Ferdinando?

L’uno era re forestiero imposto al regno con armi forestiere, l'altro era per quel regno storico e nazionale; quello faceva del regno una provincia francese, questi era figlio di quel Carlo III, che da provincia austriaca aveva reso indipendente.

I partigiani di Murat rincalzati da armi straniere, sotto la maschera di legalità, non erano che spie mascherate da magistrati, briganti vestiti da soldati, e con poco rischio guadagnavano i favori del re, potere e pecunia: i borbonici con rischio immenso cospiravano, battevano la campagna e perseguitati come belve, da belve si comportavano. Infami gli uni e gli altri, che laceravano le viscere del paese per sostenere due tiranni, ma certo, comechè malfattori, erano d’animo più altiero i secondi, essendo facile virtù perseguitare e maledire ai vinti, e non atto volgare combattere il vincitore.

Il corso fatale del progresso ha mutato i tempi, né le provincie, né la Sicilia sorgerebbero a favore di Ferdinando, ma, forse, le cime di que’ monti sarebbero punto di rannodamento per tutti coloro, che amano la patria ed abborrono lo straniero. Forse molte città inalberando la bandiera italiana, rinnoverebbero i prodigi di valore di Amantea, di Cottone, di Maratea, né credo che darebbesi ai combattenti il nome di briganti, e di generoso monarca ad un quidam giunto con arti oblique ad usurpare il trono.

NOTE

* V. N. 223.



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Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le déloppement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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