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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO
N. 29 — Torino, 21 Luglio 1883 Anno VII Torino, 21 Luglio 1883 N. 29

Gazzetta Letteraria

SI PUBBLICA IL SABATO DI OGNI SETTIMANA
Tipografia Boni e Favale, Piazza Solferino

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

L’IMPRESA DI SAPRI

Giovanni Faldella continua animosamente la sua Salita a Montecitorio, e l’opera è giunta oggidì al suo IV volume che ha per titolo Dai fratelli Bandiera alla Dissidenza.

Questo volume, che il Faldella ha voluto battezzare molto modestamente Cronaca, è poco meno di una vera storia della più gloriosa parte della nostra epopea nazionale, e si può dire che ognuna di quelle 320 pagine di cui si compone il volume, è un canto di quell’epopea. Riservandoci di parlare di proposito di questo nuovo volume che è certamente uno dei più interessanti ed artistici usciti dalla penna di Giovanni Faldella, siamo grati alla cortesia dell’autore di poter oggi offrire ai nostri lettori un capitolo del nuovo volume, questo che riguarda l’impresa di Sapri, dalla cui lettura facilmente potranno i lettori farsi idea e quindi invogliarsi di tutto il resto dell’opera.

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Ed allora si organizzava la spedizione di Sapri, la figliale di quella di Cotrone; la madre di quella di Marsala.

Il periodo gestatorio di quella spedizione è ampiamente narrato e documentato nella cronaca scritta da Luigi De Monte, che fu sindaco di Napoli nel 1871.

Il suo libro porta per titolo: Cronaca del Comitato segreto di Napoli nella spedizione di Sapri, accompagnata da tutti i documenti autografi e dalla corrispondenza di Giuseppe Mazzini, Nicola Fabrizi, Carlo Pisacane, Giuseppe Fanelli e L. Dragone, pel Comitato di Napoli e Capi delle Provincie (Napoli, stamperia del Fibreno, 1877).

V’era molto del marcio nel Regno delle due Sicilie, che nelle lettere dei politici inglesi e specialmente del Gladstone, nei parlamenti esteri e nelle rimostranze fatte dal Conte di Cavour al Congresso di Parigi prendeva fattezze mostruose come di una negazione di Dio.

Ma non tutti si acconciavano ai palliativi morali, alle promesse parlamentari e ai gomitoli diplomatici.

Serpeggiava un malumore eziandio nell’esercito napoletano, perché il Governo borbonico, anziché emulare il nazionale Piemonte, unendosi ad esso nella guerra di Crimea, si era accostato oziosamente all’Austria per mostrare stolidamente i denti malfermi contra le potenze alleate.

Avendo un colonnello Pucci ordinato fiere battiture ai soldati, un reggimento gridò abbasso e costrinse a fuggire il colonnello, minacciando un pronunziamento.

Agesilao Milano congiurava contro la vita del re; nel mattino dell’otto dicembre 1856 aveva palesato agli amici la sua disperazione del riuscire; pure alla rivista militare passando il Borbone davanti a lui, che presentava le armi, fu un luccichio, una battaglia d’occhi; un’irruzione di proposito sanguigno vinse Agesilao Milano. Questi vibrò la baionetta, essa trascorse a vuoto sopra una maglia d’acciaio che copriva il Re.

25 gennaio 1857 Agesilao Milano venne tratto al supplizio; e sul terreno spruzzato del suo sangue il giorno dopo si vide piantata una bandiera tricolore.

Per tutta l’Italia Agesilao Milano fu una secreta poesia popolare od un dramma patriottico di delirio da teatro diurno.

La baionetta che non aveva trapassato il re, pareva aiutasse a sgretolarne il trono.

Ninno dei complici di Agesilao venne scoperto.

Continuava per l’Italia il fuoco mazziniano. Lo attizzava da Malta il modenese Nicola Fabrizi, condottiero e pontefice del patriottismo segnalatosi nella congiura modenese del 31, nelle guerre di Spagna e Portogallo, e in tutte le guerre e spedizioni italiane.

Se il Fabrizi era un ciclope della fucina nazionale, il Mazzini a Londra era la somma Vestale del fuoco sacro.

Giuseppe Fanelli, combattente in Lombardia nel 1848, poi col Medici al Vascello in Roma, allacciatosi sotto lo pseudonimo di Wilson o Kilburn in carteggio con Mazzini e Fabrizi, fondava il Comitato segreto di Napoli, in cui erano principali cooperatori l’operoso Luigi Dragone, l’inspirato Falcone, il Mignogna, il Matina, Antonietta Pace, Giacinto Albini, ecc.; alcuni vennero imprigionati; altri dovettero esulare, altri nascondersi, ma senza rompere le fila della cospirazione patriottica.

Nel 1856 si era pure tentata anticipatamente in Sicilia l’insurrezione da Salvatore Spinazzi e dal barone Francesco Bentivegna, martiri.

L’esempio era stato di nuova esca rivoluzionaria.

Il Comitato di Napoli ricavava maggior fiamma da Carlo Pisacane, esule a Genova.

Questo napoletano, di fusione eroica ed artistica, già allievo del collegio della Nunziatella, ufficiale nella Legione straniera in Algeria, poi capitano nell’esercito piemontese, dopo avere sostenuta là libertà italiana sui campi lombardi, ed essere stato con bravura il capo dello stato maggiore nella difesa di Roma repubblicana, pubblicava scritture di polemica e di strategia militare, che erano battaglie nazionali in tempo di pace; si trovava in carteggio di letteratura battagliera con Francesco dall’Ongaro; e a un tempo entrava fitto nell’azione delle congiure.

Il motto della sua bandiera era vittoria immediata o martirio. Egli non si acquetava alle salmodie parlamentari, agli inni sacri recitati con religioso atticismo da Terenzio Mamiani nella Camera sarda; si impazientiva delle arringhe diplomatiche del Cavour e della politica del carciofo di Casa Savoia; non si commoveva se Francia ed Inghilterra ritiravano gli ambasciatori del regno di Napoli, per dimostrargli il loro malcontento; notava con sarcasmo, che la maggior concessione strappata al Borbone dalle rimostranze inglesi era stata la promessa di migliorare le condizioni dei detenuti politici trasportandoli in America ed esclamava: «Quale più solenne smentita alle previsioni ed alle speranze del signor Mamiani!»

Esponendo queste cose al Comitato di Napoli nella lettera del 10 febbraio 1857, egli opponeva all’abbassamento dei governi un’elevazione di tutti i popoli in santa lega. «L’Italia, egli scriveva, non è che una mina, alla quale abbisognerebbe appiccare il fuoco.» E in fine: «La diplomazia non crea i fatti, ma non può far altro che riconoscerli dopo che hanno avuto luogo.»

Non si confondeva pel murattismo.

Il Comitato di Napoli, ridesto da quella agitazione, mandava nel marzo 1857 una circolare ai corrispondenti delle provincie: «Che facciamo noi? L’Italia sanguinosa ci vibra coi suoi fulminei occhi sguardi ferali. L’Europa ci attende, Iddio ci comanda, Agesilao Milano ci dà il magnanimo esempio, i Parlamenti trascinano il mondo sul nostro terreno....»

Con lettera del 5 aprile Pisacane ricordava al Comitato di Napoli le parole del Mazzini: «Le insurrezioni non si fanno coll’oriuolo alla mano. Né il loro successo dipende da un preparativo di più o di meno. Vi è un calcolo morale che vale molti calcoli materiali. Questo calcolo mi fa debito di tentare d’applicare la scintilla.»

Lo stesso Mazzini aveva scritto direttamente al Comitato di Napoli: «Il 6 marzo è una scintilla; il farne incendio dipende dal vostro agire.»

Ed il 7 aprile: «Noi individui, qualunque sia la nostra attività, non possiamo creare l’insurrezione di un popolo; noi non possiamo crearne che l’occasione. O il popolo fa, e sta bene; o non fa, e non siamo mallevadori che davanti a Dio e alla nostra coscienza. Unico debito che ci corre è quello di studiare coscienziosamente le opportunità del momento; coglierlo e offrire con una mossa audace l’iniziativa alla Nazione; è il genio della Rivoluzione... Quanto all’interno, il malcontento esiste tra voi e per tutta Italia. Le vertenze, nulle in sé, tra l’Austria e il Piemonte, accrescono il fremito. Da quel fremito, i moderati non trarranno cosa alcuna da per sé; credete a me, seguiranno.»

Fabrizi da Tunisi il 7 aprile richiedeva al Comitato tutta la maturità realizzabile del?affare.

E Mazzini il 13 aprile rincalzava: «la missione di una minorità organizzata è quella di studiare il terreno; di calcolare, se un fatto energico di audacia e di successo può suscitare a vita la maggioranza e crearla. Le minorità non fanno rivoluzioni; le provocano.»

Il 19 maggio: «L’Italia intera ha doveri tremendi; ma più special- mente il sud. Il sud ha sul collo una di quelle tirannidi che degradano chi le sopporta.…

«Voi avete un partito moderato potente; dove non è? Ma il partito moderato che un lavoro qualunque non conquisterà mai, dacché ciò che lo costituisce è una mancanza di fede che gli vieta l’iniziativa, seguiterà inevitabilmente il moto, quando altri lo inizi. Lo seguirà in parte, perchè il fatto, privandogli la possibilità dell’iniziativa, lo tramuterà in parte a cercare d’impossessarsi del moto e dirigerlo a posta sua.»

Il programma del moto era essenzialmente nazionale, quindi non diverso da quello delle più fortunate imprese della nostra redenzione.

Fin dal 6 marzo 1857 il Mazzini scriveva al Fanelli: «Non ho bisogno di dirvi che l’azione sul vostro punto riuscendo sulle prime è il sorgere di una Nazione: della risposta sovr’altri punti mi reco io mallevadore, se la bandiera sarà di nazione. Alla forma penserà il paese, ma quella condizione è essenziale.» Ed il 24 maggio ribadiva lo stesso concetto al Comitato di Napoli: «Il colore del moto deve astenersi da manifestazioni esclusive. Bandiera nazionale; unità nazionale: indipendenza, crociata contra lo straniero. Il paese eserciterà poi dopo la sua sovranità. Questo ci basta.»

Richiesto di ammanire proclami, egli rispose: «I proclami si scrivono fra le barricate, non prima a sangue posato.» Pur ne mandava uno specimen:

«Italiani di Napoli! Voi non siete codardi. Sorgete dunque con noi. Sorgete rapidi; sorgete tutti...

«Sorgete in nome d’Italia. Santificate il vostro moto con la proclamazione di un grande principio, la vita di una nazione…

«Sorgete a rivendicarvi a dignità d’uomini e dritti di cittadini. Il paese salvi il paese. La patria comune decida onnipotente, sola e libera de' suoi destini. Non in tolleranza, non programmi esclusivi...»

Il miglior programma era per lui la designazione di Carlo Pisacane a capo dell’impresa:

«Seguite quanto più potete l’impulso e la direzione che vi verranno da Carlo. Miglior uomo non potreste avere ad inspiratore: principio radicalissimo, assenza di ambizione di potere pericolosa nell’avvenire, concetto strategico nella guerra d’insurrezione, energia nell’esecuzione. Troverete tutto in lui. Non posso abbastanza raccomandarlo a voi e ai vostri.»

*

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Molti erano i progetti di rivoluzione che si erano affollati e ventilati: impadronirsi del Castel-Nuovo a Napoli; minare il quartiere degli Svizzeri; tentare un colpo su Castel Sant’Elmo.

Mazzini vi mischiava le sue larghe irradiazioni: conquistare un vapore e sbarcarne la rivoluzione a Livorno, farla risalire in su, poi precipitarla in giù.

Giovanni Matina aveva esposto lui per il primo il disegno che venne poi eseguito: liberare dall’isola Ponza i relegati politici, e con essi appiccare la rivoluzione nella parte più incendi abile del Regno.

Per eseguire quel disegno, Mazzini proponeva di comperare il vapore a Londra; Pisacane voleva conquistarlo a Genova, donde trarlo fino a Costantinopoli; là imbarcarvi 200 armati e condurli a Catanzaro e poi a Cosenza.

Intanto domandava premurosi particolari sul progetto del Matina: Lui e il Cosenz apparecchiati pel momento d'azione, inutili nei preparativi di Napoli.

In fine il Pisacane non si potè rattenere; e nel 13 giugno partì egli stesso da Genova per recarsi a Napoli. Si avviava ai più gravi pericoli.

«E nondimeno (scrisse il Mazzini) chi lo vide in quell’ora, avrebbe detto ch’e’ si avviava a diporto. Era tanta in lui la religione del dovere, che la coscienza di compierlo bastava ad infiorargli la vita.»

Comparve incognito ai più nella ragunata dei congiurati in casa Dragone la sera del 15 giugno, e il 16 scrisse al Fabrizi: «ho visto tutti, ho parlato con le cime.»

Partì il 18 da Napoli e ritornò tra il 20 e il 21 a Genova; donde risolse di compire immediatamente la spedizione: «io accetto sempre, quando si tratta di fare.»

Indarno il Dragone e il Fanelli scrissero da Napoli a lui e al Mazzini in Genova, perchè temporeggiassero «esprimendo che la decisione della nuova partenza spezzava tutto il prestabilito con le necessità locali.»

Ma già l’ardente Pisacane aveva mandato dire: «domandatemi qualunque cosa, fuorché l’indugio. »

Egli non ricevette le ultime lettere, negli ultimi telegrammi in stile commerciale dilatorii dell’impresa: ed il 25 giugno partì. Erano suoi compagni, quale capo in secondo della spedizione Giovanni Nicotera, allora fidanzato alla figlia di Carlo Poerio, e di seguito Giambattista Falcone, Barbieri Luigi, Gaetano Poggi, Achille Perucci, Cesare Far- doni, Poggi Felice, Galliani Giovanni, Rolla Domenico, Cesare Cori, Foschini Federico, Lodovico Negroni, Domenico Lerici, Moduscè Francesco, Lorenzo Giannoni, Giuseppe Falloni, Giovanni Cannellari di Ancona, Domenico Massoni e Pietro Rusconi.

Prima di partire firmarono questa dichiarazione, che sa di giuramento romano: «Sprezzando le calunnie del volgo, forti della giustizia della causa e della gagliardia dei nostri animi, ci dichiariamo iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non risponderà al nostro appello, noi, senza maledirlo, sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange dei martiri italiani.»

Questa dichiarazione fu trovata sul petto di uno dei combattenti caduti il 4 luglio; e venne unita al processo di Sapri.

Il piano della operazione da eseguirsi era il seguente.

Il 25 giugno 1857, alle sei pomeridiane, il Pisacane e compagni si imbarcarono come semplici passeggieri sul Cagliari, vapore postale della Compagnia Rubattino, che faceva il giro da Genova per Porto-longone a Cagliari. Appostarono sullo stesso vapore e nella stessa incognita di semplice passeggiero il capitano marittimo Daneri, destinato a prendere poi il comando della nave. A un certo punto di mare si dovevano incontrare alcune barche dirette da Rosolino Pilo, munito di uomini, di armi e di munizioni. A quell’incontro si doveva eseguire la presura della nave.

Ma Rosolino Pilo aspettò indarno in altre acque. Si possono immaginare i battiti cocenti nei cuori di quei forti, che anelavano di congiungersi e non si videro.

Superato il tratto di mare prefisso per l’incontro degli ausigliari e per il colpo di mano sul bastimento, Pisacane, Nicotera e Falcone si avvidero che il vapore trasportava armi e munizioni del Governo Sardo: deliberarono di compire da soli il gran fatto. Ne informarono i compagni che aderirono; e si accinsero ad impadronirsi del bastimento. Domenico Galati, nella biografia del Nicotera, racconta, che appena poche miglia lontani dal porto di Genova, i congiurati assalirono il capitano Sitzia ed i marinai del Cagliari: la lotta fu accanita; la vittoria rimase ai congiurati; il capitano e i marinai furono chiusi sotto coperta; Daneri assunse il comando della nave.

Questa fu la versione ufficiale per salvare il Cagliari dalle unghie borboniche, che lo catturarono poi o per salvare l’equipaggio piemontese coi macchinisti inglesi muniti di una lettera di Miss White che loro diceva: «non più resistenza, è inutile, obbedite.»

Il Demonte, nella citata cronaca del Comitato segreto, racconta invece che «il capitano e l’equipaggio non solo non resistettero, ma essi stessi riscaldati a quel fuoco di libertà che dal Pisacane e dai suoi amici si diffondeva, se gli fecero volonterosamente compagni della eroica intrapresa.»

Così tutti fraternizzando nel contagio della libertà, lasciata in disparte la Sardegna, filarono verso Napoli, poggiando a Ponza, che è la maggiore delle isole Pontine, venticinque miglia dallo scoglio di Santo Stefano, sul quale erano rinchiusi coi volgari malfattori Luigi Settembrini, Silvio Spaventa e Filippo Agresti.

Il Cagliari diede fondo davanti a Ponza alle quattro pomeridiane del 25 giugno. La monotona vita della relegazione isolata, quella vita vegetativa che rimbambisce le anime adulte e sega le intelligenze, non si aspettava certo quella visita subitanea; quantunque l’Agresti da Santo Stefano fosse in relazione con il Comitato di Napoli, ed il Settembrini fin dal 31 agosto 1855, avesse ricevute dal celebre dotto e patriota Antonio Panizzi le istruzioni per una fuga, in cui la parte dell’angelo di salvamento sarebbe stata sostenuta nientemeno che dal Garibaldi.

Ma il comandante e gli ergastolani comuni di Ponza, imbietoliti nell’assenzio, nel gioco, nel giro meccanico dei giorni caricati come un orologio, nell’osservazione del mare, del cielo, de’ pesci e degli uccelli di passaggio, nei calcoli e nell’aspettazione delle grame refezioni, erano lungi dal pensiero di quell’improvvisata. Il presidio di Ponza era di cinquecento soldati, tra artiglieria e linea. I trenta congiurati scendono quatti quatti dalla nave; accaprettano il deputato di salute; il porto doganale è a loro; si slanciano sulla scorritoia reale; ammutiscono la guardia di due ufficiali e tre marinai; inchiodano il cannone; occupano la grande guardia; spogliano delle armi i custodi veterani, quindi muovono all’assalto dell’abitazione del comandante, per averne tutte le armi dell’isola. Nicotera marcia alla testa di quel drappello di predoni patrioti. Sulla scala un ufficiale colla spada sguainata gli sbarra il passo. Nicotera lo ammazza con una revolverata, ed a Pisacane che gli dice: «bisogna andare dal comandante» risponde: «il comandante l’ho già finito io.» Invece non s’era apposto al vero. Un soldato presente ne rettifica l’osservazione, dicendo che l’ucciso è un semplice ufficiale. Si assalta la casa del comandante. Questi è un vecchio trepido, avrà osservato dalla vedetta lo scatenamento di quell’invasione. Disse: «mamma mia!» staccò i santi; recitò giaculatorie; uscì con la moglie e le figliuole, in un coro piangente che impetrava pietà.

— Non siamo assassini, grida loro Nicotera; ma italiani venuti a combattere per la libertà.

Il comandante si affretta a rimettere loro le armi, le chiavi delle prigioni, e libera e regala agli invasori quelle gioie dei relegati.

Fin qui il racconto di Domenico Galati negli Uomini del suo tempo. Il Petruccelli aggiunge nei Fattori e malfattori della politica contemporanea: «il Nicotera cadde in mare. Fu ripescato dopo aver trangugiato non poco d’acqua e ricondotto sul vapore, dove gli somministrarono i rimedi d’uso. Questo incidente diè luogo a conseguenze grandissime, perchè inutilizzato così il Nicotera ed occupato Pisacane a curare l’imbarco dei relegati, niuno potè provvedere a che non si lasciassero a terra le armi e le munizioni prese ai soldati borbonici. E quando, il giorno dopo, si organizzarono sul vapore stesso, i relegati, più di cinquecento, si trovarono soli centotrentacinque fucili, con poca munizione.»

Ed ecco il Cagliari, questa nave portatrice di tanto ardimento patriottico, accresciuta di centurie di galeotti. Alcuni puristi della morale fecero le loro querimonie su questa liberazione dei relegati di Ponza, perchè siansi adoperati volgari prigioni nell’opera purissima di affrancare la patria dalla tirannia.

Ma osserva il signor di Treitsche nel suo studio storico su Cavour, che nei grandi fatti vi è una morale propria, relativa, che non è la morale comune. «Non è lecito ad una testa politica con semplici luoghi comuni di moralità giudicare la terribile lotta dei doveri, che si agitano nella coscienza di un fondatore di Stati... Creare la propria patria è il più grande atto di moralità che ad un mortale sia dato di compiere.»

Oltre a ciò la selvaggia crudeltà dei Borboni autorizzava qualsiasi par pari referre.

Dopo avere martoriato i patrioti fino a far strappar loro la barba a pelo a pelo, il Governo borbonico li aveva percossi ed avviliti unendo insieme nelle oscene condanne gli amatori della roba altrui e quelli della patria, il fiero Spaventa, quell’angelo di bontà che fu il Settembrini, l’ex-ministro Poerio con coloro che dovevano lasciare in galera o sui patiboli i delitti.

Li aveva imbrancati insieme incatenandoli nella stessa lurida pubblica processione; poi li aveva ridotti negli stessi porcili, pascendoli di orride fave (fautrici di ernie), e di arenosa pasta, cui avrebbero sdegnato i maiali.

Aveva accomunato quegli ingegni eletti, educati ed eruditi, ad ignoranti assassini, che non avevano neppure imparato a distinguere le monete di rame, in loro vita non avevano mai conosciuto letto né mensa, tanto che uno di loro, avendo vista finalmente una tavola apparecchiata, si inginocchiò scambiandola per un altare. I borbonici avevano voluto abbrutire e contaminare anime di martiri, di eroi e di confessori della patria e della libertà nel brutale contatto di pastori, che avevano visto il lupo predare e sgozzare le pecore ed essi avevano imparato a predare e sgozzare i fratelli.

Quel Governo aveva voluto irridere e castigare i discepoli di Filangeri, di Mario Pagano e di Pietro Colletta, che studiavano con ingegno onesto e dotto i miglioramenti civili per la più umana legislazione, imprigionandoli con le monche o guaste cervella di scellerati che sapevano d’ogni chiodo foggiare industriosamente armi fratricide, e nasconderle, magari, nell’ano, e fabbricare carte da gioco false, e si frodavano, e si accoltellavano nella divisione della broda, e stupravano persino galline, ed eran tutto giorno in risse, libidini, battiture, ubbriachezze, vendette e bestemmie; imperocché, narra il Settembrini, i relegati politici erano i soli che andavano in chiesa, i soli che credevano nella virtù e però in Dio.

Oh! bisogna leggere le ricordanze del Settembrini, la sua cronaca di ergastolano, le sue preghiere al Signore, le sue lettere alla moglie, i suoi libera nos Domine, per comprendere che qualunque fosse arma era degna per rovesciare il Governo borbonico.

Senza che quello di Ponza era sovratutto un reclusorio militare.

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Intanto il vascello indiavolato, cui la flotta borbonica non può raggiungere, carico di patrioti anelanti alla libertà politica e di galeotti scatenati, nelle cui fibre vibrava il desiderio unico e lungamente represso di correre soli, a perdifiato, nelle liberissime campagne — quel vascello, come il naviglio corinzio di Timoleone diretto alla liberazione di Siracusa, affrettava il puleggio a golfo lanciato.

Si accumulavano sul Cagliari l’audacia ed il programma di Timoleone, di re Giovacchino e dei fratelli Bandiera, si accumulavano con un crescendo di sinfonia orchestrale nel petto dei duci.

La sera del 28 giugno 1857 sbarcò Nicotera pel primo.

Si cercarono dei duemila insorti che si aspettavano. Nessuno.

Imprigionati il Magnone, il Matina, il prete Padula, ecc., il Comitato di Napoli era rimasto interdetto, paralitico, come un’orchestra quando si fischia e cade il melodramma.

Rinfrancando nei petti l’entusiasmo, che si trovava isolato da quella solitudine, gli sbarcati fugarono poi le guardie urbane capitanate dal famigerato Peluso, uccisore del patriota Carducci; e il Peluso a mala pena potè salvarsi buttandosi come un coccodrillo in mare.

La mattina del 29 si tenne un piccolo consiglio di guerra; e si deliberò di marciare alla volta di Lagonegro, dove, chi sa? si sarebbe veduto qualche capo di insurrezione.

Da Sapri al Fortino attraversano Torraca, un borgo in festa per i santi Pietro e Paolo, come era in festa il Pizzo per la Madonna del Rosario allo arrivo di re Giovacchino Murat.

Nessuno li segue.

Pernottano in una osteriuccia campestre e giungono loro notturni messaggieri, due giovanotti di Padula, che promettono per il giorno dopo l’improvvisata di cinquecento a seicento insorti. Adunque si parte per Padula. Nessun insorto.

Pisacane la mastica male; tutti comprendono il ghiaccio della situazione desolata.

Trovarono la foglietta da bere, l’allegria festaiuola, la stornellatrice, come cicala, gaiezza delle messi; ma non l’inno robusto di un popolo che si rivendica in libertà.

Pure rattizzano il fuoco interno, il puro fuoco della patria, e si avanzano sicuri di riportarne lieta mancia e gloriosa, il martirio e la morte, che riusciranno esemplari all’Italia, perchè l’Italia risorga e non soffra più stranieri né tiranni, ma possa eleggere liberamente i suoi legislatori, non certo perchè alcuni di questi si impinguino di ben altre mancie ritratte dagli impresari di ferrovie e dalle società di navigazione. Intanto, checché abbiano poi ad operare i futuri rappresentanti di quell’Italia, cui gli eroi si dispongono a nobilitare e riscattare col loro sangue, gli eroi vogliono mantenersi forti, sdegnosi di mollezze e rigorosamente onesti.

Fissato il quartiere generale nella casa Romano di Padula, il vice condottiero Nicotera passa la notte in una stalla celiando d’imitare l’esempio del Bambino Redentore.

Gli agenti del Governo borbonico spargono fra i contadini la frottola paurosa, che il Pisacane e compagni siano tutti malfattori, ladri fuggiti di galera.

Per lo contrario quei liberatori, lungi dall’appropriarsi l’altrui, pagarono generosamente i viveri per ogni paese dove passarono: non levarono quattrini da casse pubbliche.

«Eusebio Bucci fu sottoposto a giudizio sommario per ordine del nostro capo Pisacane, e fucilato per aver rubato pochi carlini ad una donna, dei quali per altro ne fu rivaluta al doppio da me stesso.» Lo narra il Nicotera in una delle sue numerose proteste, pubblicata a Torino dall’Opinione del mercoledì 10 marzo 1858.

*

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All’aurora del primo luglio comparvero a Padula le prime truppe borboniche, rintuzzate dallo strenuo Falcone, che coll’opera di cento relegati, muniti di picche e di bastoni, più che di pistole, sgominava le guardie urbane dalle cassette di campagna, come volpi da pollai.

Sopraggiunti i cacciatori e i gendarmi, le forze borboniche salirono a 2000. I liberali erano cinquecento, di cui appena centotrentacinque armati di schioppi. Si combatté acremente, disperatamente dalle sette del mattino alle due pomeridiane.

Tuttavia sotto il tempestare dei proiettili il Pisacane e il Nicotera deliberarono la ritirata verso il patriottico Cilento: e fu ritirata ammirevole; ritirata leonina. Come leoni, che dilungandosi torcono di quando in quando la testa per minacciar nuovi morsi, traversarono fieramente il villaggio di Padula e la larga pianura che si stende fra i monti di Padula e quelli di Buonabitacolo. Ma parecchi degli ex-relegati, o stremati di forze, o scemi di coraggio patriottico, perchè la liberazione di Ponza alle loro fibre significava soltanto il largo della campagna, erano restati a Padula, e di lì a poche ore cento e più di essi vennero passati per le armi dai Borbonici.

Soltanto centoventi accompagnavano Pisacane, Falcone e Nicotera.

Vagarono per tutta la notte nelle macchie della montagna, come anime dannate; ed ai primi albori del 2 luglio si affacciarono a Sanza. Erano laceri, affranti, portavano sulla fronte le cupe stimmati di una eroica disperazione; alcuni inermi, tutti santamente orrendi.

L’annunzio del loro arrivo fu come un dalli, dalli al lupo!

— Sono i ladri e gli assassini scappati dalle galere per rubarci le pecore nostre!

— Sono li briganti, che volevano ammazzà u re.

— Sono l’anticristo! Sono la Versiera.

Si risvegliano nel villaggio le paure, gli errori popolari; si scatenano le furie plebee; sorgono le vecchie streghe cispose ed adunche, saltellano le giovani, baldanzose schernitrici; si armano i padri vellosi, i lanuginosi mariti, i garzoni frementi, vengono con le picche, coi forconi, colle scuri; sono condotti da un birro Sabino Loveglia.

A quell’orda selvaggia fanno di spalla cinque battaglioni di cacciatori.

Formano un nembo crudele, che piomba sul deserto stuolo dei patrioti, lo percote, lo ammucchia, lo insacca.

Allora da quella scura massa infernalmente battuta pare si elevi qualche cosa di bianco.

Sarà l’ala bianca dell’angelo del perdono. È la bandiera bianca del parlamentario.

Ma quegli efferati non sanno, non comprendono nulla di bandiera bianca.

Alla crudeltà si unisce la cupidigia.

Si scagliano, premono calci sui patrioti caduti, raspano i panni ai trucidati, e li derubano dell’oro, chiamandoli briganti.

Il bottino è di molte migliaia di lire in oro.

Pisacane era stato stramazzato da un colpo di fucile. Per cessare quel vilipendio, si sparò addosso il revolver. Il Falcone, visto spirare il suo capo, ne imitò l’esempio, si esplose pure il revolver nella testa. Nicotera, colla mano resa imbecille e spezzata dalle ferite, vibrava indarno il pugnale spietato, neroniano contro sé stesso. Impaziente, supplicava gli astanti, acciocché lo aiutassero a darsi la morte.

Era una pugna flegrea; un campo di morte, in cui si agitavano giganti suicidi rivolti al cielo.

Ma Naso di Cane, uno dei liberati dal forte di Ponza, strappò il pugnale dalle mani di Nicotera, e gli impedì la morte. Però lo lasciò esanime al suolo quasi cadavere. Nicotera aveva la destra forata da una palla; e la testa e il tergo tagliati da due colpi di scure.

Giaceva col suo gran cappellone calabrese. Lo sospettarono, lo riconobbero per un capoccia.

Intorno al suo corpo inferocì il vespaio degli assalitori; lo strapparono; lo denudarono, togliendogli persino le calze; lo schernirono, lo graffiarono, lo punzecchiarono; lo trafissero; poi legatolo piedi e mani lo avvolsero dentro una coperta di lana, lo abballottarono; quindi coricatolo su una barella, poi sopra un ciucciarello, lo condussero in deposito. Al suo passaggio le donne, le megere lo maledicono, e si avvicinano per infliggergli, profondargli pizzicotti come bottoni roventi.

Quando la rabbia e lo scherno annullano il cuor loro — le donne, i bambini e la plebe sono gli animali più feroci di questa terra.

Se un povero cane cade in sospetto di essere arrabbiato, i bambini e le donnicciuole si nascondono e tremano dalla paura, ma quando sanno che il robusto ammazzacani o la guardia campestre lo ha atterrato col calcio del fucile, escono, lo rincorrono, lo rincalciano coi bastoni e coi sassi, lo raccolgono a percosse nel rigagnolo della via; lo sbudellano a sassate in quella gora di fango e di sangue.

Il povero cane avrà scodinzolato per le feste di famiglia; avrà protetto quei bambini; avrà alzato le zampe per quelle donne; ma la ragazzaglia, la plebe e le donne, quando l’ira e lo scherno acciecano loro il cuore, sono gli animali più feroci di questa terra.




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Pisacane e la spedizione di Sapri (1857) - Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito
1851 Carlo Pisacane Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49
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1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. I HTML ODT PDF
1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. II HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. III HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. IV HTML ODT PDF

1849

CARLO PISACANE Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma

1855

La quistione napolitana Ferdinando di Borbone e Luciano Murat

1855

ITALIA E POPOLO giornale politico Pisacane murattisti

1856

Italia e Popolo - Giornale Politico N. 223 Murat e i Borboni

1856

L'Unita italiana e Luciano Murat re di Napoli

1856

ITALIA E POPOLO - I 10 mila fucili

1856

Situation politique de angleterre et sa conduite machiavelique

1857

La Ragione - foglio ebdomadario - diretto da Ausonio Franchi

1857

GIUSEPPE MAZZINI La situazione Carlo Pisacane

1857

ATTO DI ACCUSA proposta procuratore corte criminale 2023

1857

INTENDENZA GENERALE Real Marina contro compagnia RUBATTINI

1858

Documenti diplomatici relativi alla cattura del Cagliari - Camera dei Deputati - Sessione 1857-58

1858

Difesa del Cagliari presso la Commissione delle Prede e de' Naufragi

1858

Domenico Ventimiglia - La quistione del Cagliari e la stampa piemontese

1858

ANNUAIRE DES DEUX MONDES – Histoire générale des divers états

1858

GAZZETTA LETTERARIA - L’impresa di Sapri

1858

LA BILANCIA - Napoli e Piemonte

1858

Documenti ufficiali della corrispondenza di S. M. Siciliana con S. M. Britannica

1858

Esame ed esposizione de' pareri de' Consiglieri della corona inglese sullaquestione del Cagliari

1858

Ferdinando Starace - Esame critico della difesa del Cagliari

1858

Sulla legalità della cattura del Cagliari - Risposta dell'avvocato FerdinandoStarace al signor Roberto Phillimore

1858

The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

1858

Ricordi su Carlo Pisacane per Giuseppe Mazzini

1858

CARLO PISACANE - Saggi storici politici militari sull'Italia

1859

RIVISTA CONTEMPORANEA - Carlo Pisacane e le sue opere postume

1860

POLITECNICO PISACANE esercito lombardo

1861

LOMBROSO 03 Storia di dodici anni narrata al popolo (Vol. 3)

1862

Raccolta dei trattati e delle convenzioni commerciali in vigore tra l'Italia egli stati stranieri

1863

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1863

Giacomo Racioppi - La spedizione di Carlo Pisacane a Sapri con documenti inediti

1864

NICOLA FABRIZJ - La spedizione di Sapri e il comitato di Napoli (relazione a Garibaldi)

1866

Giuseppe Castiglione - Martirio e Libert࠭ Racconti storici di un parroco dicampagna (XXXVIII-XL)

1868

Vincenzo De Leo - Un episodio sullo sbarco di Carlo Pisacane in Ponza

1869

Leopoldo Perez De Vera - La Repubblica - Venti dialoghi politico-popolari

1872

BELVIGLIERI - Storia d'Italia dal 1814 al 1866 - CAP. XXVII

1873

Atti del ParlamentoItaliano - Sessionedel 1871-72

1876

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1876

Gazzetta d'Italia n.307 - Autobiografia di Giovanni Nicotera

1876

F. Palleschi - Giovanni Nicotera e i fatti Sapri - Risposta alla Gazzettad'Italia

1876

L. D. Foschini - Processo Nicotera-Gazzetta d'Italia

1877

Gaetano Fischetti - Cenno storico della invasione dei liberali in Sapri del 1857

1877

Luigi de Monte - Cronaca del comitato segreto di Napoli su la spedizione di Sapri

1877

AURELIO SAFFI Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini (Vol. 9)

1878

PISACANE vita discorsi parlamentari di Giovanni Nicotera

1880

Telesforo Sarti - Rappresentanti del Piemonte e d'Italia - Giovanni Nicotera

1883

Giovanni Faldella - Salita a Montecitorio - Dai fratelli Bandiera alladissidenza - Cronaca di Cinbro

1885

Antonio Pizzolorusso - I martiri per la libertࠩtaliana della provincia diSalerno dall'anno 1820 al 1857

1886

JESSIE WHITE MARIO Della vita di Giuseppe Mazzini

1886

MATTEO MAURO Biografia di Giovanni Nicotera

1888

LA REVUE SOCIALISTE - Charles Pisacane conjuré italien

1889

FRANCESCO BERTOLINI - Storia del Risorgimento – L’eccidio di Pisacane

1889

BERTOLINI MATANNA Storia risorgimento italiano PISACANE

1891

Decio Albini - La spedizione di Sapri e la provincia di Basilicata

1893

L'ILLUSTRAZIONE POPOLARE - Le memorie di Rosolino Pilo

1893

 MICHELE LACAVA nuova luce sullo sbarco di Sapri

1894

Napoleone Colajanni - Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane

1905

RIVISTA POPOLARE - Spedizione di Carlo Pisacane e i moti di Genova

1895

Carlo Tivaroni - Storia critica del risorgimento italiano (cap-VI)

1899

PAOLUCCI ROSOLINO PILO memorie e documenti archivio storico siciliano

1901

GIUSEPPE RENSI Introduzione PISACANE Ordinamento costituzione milizie italiane

1901

Rivista di Roma lettere inedite Pisacane Mazzini spedizione Sapri

1904

LUIGI FABBRI Carlo Pisacane vita opere azione rivoluzionaria

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Giudizi d’un esule su figure e fatti del Risorgimento

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Lettera di Carlo Cattaneo a Carlo Pisacane

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - I tentativi per far evadere Luigi Settembrini

1911

RISORGIMENTO ITALIANO - La spedizione di Sapri narrata dal capitano Daneri

1912

 MATTEO MAZZIOTTI reazione borbonica regno di Napoli

1914

RISORGIMENTO ITALIANO - Nuovi Documenti sulla spedizione di Sapri

1919

ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

1923

MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

1927

NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano


























Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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