Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024) |
PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO |
CARLO PISACANESAGGI STORICI POLITICI MILITARI SULL’ITALIAPRIMO SAGGIO - CENNI STORICIGENOVASTABILIMENTO TIPOGRAFICO NAZIONALE 1858 |
Era nostro intendimento da prima a questa edizione dell'opera principale di CARLO PISACANE premettere uno studio quanto più si potesse accurato sulla vita, sulle opinioni e sugli scritti di lui. Ma, posta mano al lavoro, tosto ci si parò dinanzi un'insuperabile difficoltà la quale, guastando l'ordine che ci eravamo proposti, c’impediva di far cosa degna dell’alto subbietto ed anche al tutto fitto inferiore alla giusta espettazione de' lettori. E la difficoltà era questa: che mancano per ora notizie certe ed assai copiose sul fatto ultimo della vita del PISACANE che fu ad un tempo il più importante e quello che meritò al suo nome la ricordanza eterna e la venerazione degli Italiani. Per quanto infatti sien molte le voci che corrono sull'audace impresa di Sapri, ninna ve ne ha che o per se stessa o paragonata con altre non offra materia di dubbio e possa tenersi da scrupoloso narratore per vera al tutto e degna di essere affidata alla storia. Oitrediché molte cose le quali potessero esser giunte a nostra notizia e credessimo, non senza ragione, certissime mal si potrebbero scrivere forse, finché dinanzi ad un tribunale borbonico pende grave processo, senza incorrer la taccia di poco cauti e per avventura meritarla.
Era dunque mestieri, se avessimo voluto colorire il nostro disegno, arrestarci d’un subito là dove più importava esser diffusi ed esatti, e, dopo avere con ogni diligenza e con qualche lunghezza discorsi i casi meno gravi della vita del nostro eroe, passarci brevemente ed alla leggera di quella impresa che più di ogni altra gli darà fama appo i posteri. Ed oltre alla sconvenienza che viene dal lungamente parlare delle cose minori, tacendo od appena toccando le maggiori, avremmo per siffatto modo quasi di per noi stessi tolto quel fine principale pel quale si scrivono le vite degli uomini che grandi cose per la patria operarono: questo è di proporgli esempio ai dabbene, stimolo ai paurosi, rimprovero ai dappoco ed ai tristi.
E sebbene la vita del nostro Carlo fosse tutta di virtuose opere, di generosi pensieri e di magnanimi affetti, non avremmo potuto sperare di degnamente ritrailo, se non avessimo tentato con ogni argomento infondere negl’italiani che leggessero le nostre pagine quell’ammirazione che viene in ogni onesto dal conoscere come egli si disponesse con animo fermo e deliberato, con fede ardente, con retta coscienza alla morte, la quale sapeva e voleva sola salute e solo scampo a sé vinto.
E poiché di que’ fatti noi non possiamo né dobbiamo per ora pienamente parlare, crediamo dover dismettere il proposito di uscire dai limiti soliti di una breve ed arida biografia e ci contentiamo di accennare qui in breve quelle cose le quali più importa conoscere della vita del PISACANE, con somma diligenza per noi ricercate ed accertate.
Quando poi sia rimosso del tutto il pericolo di che fo sopra discorso e, pei processi politici che a Salerno, a Livorno ed a Genova si agiteranno, molti importanti documenti e molte notizie sieno fatte di pubblica ragione, se fortuna non sia troppo avversa a chi questo scrive e non gli manchi il conforto e i aiuto di quanti a quell’opera potranno giovarlo, egli intende, soccorrendo col buon volere al povero ingegno, della vita e dei libri di CARLO PISACANE fare argomento a studio maturo e alquanto diffuso, nel quale raccoglierà quanto di quell’uomo egregio potè intendere e sapere, e darà un’analisi ed una critica ragionata delle sue teorie, delle sue opinioni e delle sue scritture. Intanto sia benigno il lettore a questa breve notizia, la consideri come un rapido cenno e, a così dire, uno schizzo; mentre noi dal canto nostro già con sollecita cura ci diamo a raccogliere ciò che bisogni a non indegnamente compiere la nostra promessa.
Nacque CARLO PISACANE in Napoli il 22 agosto 1848 di Gennaro duca di S. Giovanni e di Nicoletta Basile De Luna. Fortuna parve volerlo dalla più tenera età educato al dolore e, mentre appena toccava i sei anni, gli tolse il padre. Non fu per altro dalla madre risparmiata sollecitudine alcuna perché ricevesse quell’educazione che a' suoi natali ed al nobile ingegno si convenivano. E CARLO degnamente rispose a quelle cure, mostrandosi oltre l’età degli studii amantissimo.
Alle cose di guerra specialmente inclinava il suo animo fervido; e tanto forte parve quella inclinazione ai suoi, che lo posero nel 1831 nel collegio della Nunziatella, ove i nobilissimi giovani e i figli dei militari si educano al mestiere delle armi. CARLO in quelle discipline che ivi s’insegnano sempre singolarmente primeggiò; e specialmente alle matematiche avanzò quasi ogni altro e ne fu lodatissimo. Fu anche allora per quattro anni paggio nella corte reale; ed è questo non lieve indizio di sua nobile indole, che, in quell'età giovanissima cosi facile agli allettamenti ed agli inganni, si serbasse incorrotto e non bevesse il veleno dei consorzi cortigianeschi.
Ardentemente desiderava, uscendo di collegio nel 1839, militare nella cavalleria, della quale lo faceva vago il suo gusto per gli esercizi equestri; ma non potè ottenerlo e, dopo aver per sei mesi fatto i primi stipendi! a Nocera come soldato gregario, fu ammesso col grado di sottotenente nel corpo del Genio. In breve la bella fama che correva di lui come abilissimo nell’arte dell’ingegnere indusse il capitano Fonseca a chiederlo come aiuto a condurre la strada ferrata da Napoli a Caserta. E quell'ufficio con laude somma adempié; ma stanco poi dei modi aspri e superbi del Fonseca chiese d’esserne scusato e l'ottenne. Ma, quasi in pena, lo mandarono negli Abruzzi; e vi stiè per quindici mesi; finché restituito a Napoli fu promosso al grado di primo tenente. Poco poi fu richiesto dal capitano Gonzales, per dirigere una strada all’Antignano e là si recava.
In quel tempo eh era in Napoli, gli occorse fiero caso e degno al tutto di memoria. Una sera, mentre ad ora assai tarda riducevasi a casa, ecco d’improvviso un ladro scagliarsegli addosso e minacciarlo della vita, se non gli dia quanto ha di denaro. Non era CARLO tal uomo da sostenere paziente ingiuria e violenza. Sebbene inerme a fronte d’uomo armato, non dubita: si getta risoluto sul malandrino e tenta opprimerlo. Forse, robusto ed agile com'era, vi sarebbe riuscito; se non che lo scellerato, vistosi a mal partito, tali gli trasse due colpi di trincetto nel ventre e nel petto, che di uno fu ferita l’ala destra del fegato e il povero CARLO, invano chiesto soccorso a poco pietose persone, a stento per forza d'animo condottosi alla porta di casa, immerso nel proprio sangue ivi come morto cadeva. Dissero i medici che quella era molto crudele e mortale ferita, né Vera luogo a speranza. Ma, pel vigore singolare ch’avea d’animo e di corpo, vinse la forza del male, si riebbe e sanò: di che il Coluzzo, chirurgo de' buoni, non rifinì di stupirsi, dicendo esser certo il PISACANE serbato a cose grandi dal cielo, poiché tale pericolo a nessun uomo superabile avesse cosi felicemente, contro ogni giusta espettazione, superato.
Recatosi pertanto, come sopra dicemmo, col capitano Gonzales all'Antignano, ivi rimase finché l'8 febbraio del 1847 non partivasi da Napoli. E di questa partenza brevemente è mestieri espor le cagioni.
Aveva CARLO già nel 1830 conosciuto una fanciulla dell’età sua, della quale fin d’allora si prese. Né fu dimenticato quel puerile affetto per crescer d'età, per lunghe assenze e per studii; ché anzi vieppiù sempre crebbe, si fece amore e più violento riarse quando CARLO, uscito dal collegio, trovava la sua diletta sposa d’altr’uomo. Fu lungo il contrasto fra la passione e il dovere; por vinse l’amore, e dopo molti casi, che qui non accade narrare, finalmente il PISACANE, in quel giorno 8 di febbraio del 1847, partivasi da Napoli alla volta di Londra. Rimasto ivi alcun tempo poi si recava a Parigi (e, cercato invano colà di procacciarsi la vita, veniva a Marsiglia e indi il 5 decembre partiva per l’Africa, dove aveva ottenuto il grado di sottotenente nel primo reggimento della Legione straniera che militava per Francia contro gli Arabi dell'Algeria.
Ma intanto i moti d’Italia già prima cominciati andavan crescendo. Già le dimostrazioni e le feste mutavansi in fatti più degni, già correvasi alle armi, già alle parole ed ai canti succedevano stragi e battaglie. Messina e Palermo cacciavano le soldatesche borboniche; Milano inerme fugava 80,000 Austriaci capitanati dal vantatore Radetzky. E tutta Italia ormai levata in armi correva a combattere gli stranieri e da ogni parte i suoi figli esuli o vagabondi si affrettavano ad ingrossare le falangi dei combattenti. Sebbene fino allora il PISACANE, mancate le occasioni, si fosse sempre stato lontano da ogni briga politica, non fu sordo alla voce della patria che chiamava alla battaglia tutti i suoi prodi. Egli accorse pronto e volenteroso, come chi riceve finalmente un invito da lunga pezza atteso e desiderato; e da quel giorno la sua grande anima si consacrò spontanea alle sventure e alla morte per l'Italia e per la libertà. Lasciato il grado in Africa, viene a Marsiglia; ivi ritrova quella donna che gli fu sempre compagna in ogni gioia e conforto in ogni distretta e corre a Milano.
Lo Zucchi, a cui il Cattaneo lo presentava, voleva affidargli la cura di levare e ordinare un reggimento in Milano, dandone a lui, come a colonnello, il comando. Ma il PISACANE non volle: «Non esser lui venuto, rispose, a bella posta dall'Africa, non corso sui campi ove si agitavan le sorti della patria diletta, per trascinar neghittoso la spada per le vie di Milano, ma per tingerla nel sangue dei nemici d’Italia; non ambir lui comandi, non grossi stipendi, non onori, ma vita operosa, e pericoli e battaglie; lo mandassero però ov'e’ potesse, e tosto, affrontarsi coll'odioso straniero». E lo Zucchi lo mandò come capitano nella legione Borra che allora campeggiava ai confini del Tirolo, sul monte Nota. Ivi il nostro prode in frequenti scontri che ebbe cogl'inimici, riportò lode somma di coraggio e di virtù. Né cessò quella campagna che cominciata con si splendidi auspicii finì con tanto lutto d’Italia, prima che il PISACANE desse alla patria col sangue pegno delle imprese future. Infatti il 29 giugno, scontratosi coll'inimico, ebbe da una palla ferito il braccio destro e cosi miseramente che, se non era il dott. Leone che lo volle risparmiato, a giudizio comune de' medici era mestieri tagliarlo.
Dopo trenta giorni ch'e' giaceva infermo a Salò, assistito dalle cure della sua diletta compagna, per ravvicinarsi dei nemici fu tratto a sicurezza in Milano. Ed era appena convalescente che già si affrettava ad offrire l'opera sua al governo provvisorio per la difesa della città che già minacciavan gli Austriaci. Ma a coloro che allora reggevan la somma delle cose nella prode e sventurata città, più che il bene e l'onore della patria, stava a cuore fedelmente secondare i disegni di re CARLO Alberto. Però con ogni argomento si adoperarono prima a stancare e fiaccare l’impeto generoso delle genti che da ogni parte volevano con guerra popolare finir gli stranieri; poi gl’indussero ad una dedizione o nocevole o vana; e finalmente ora impedivano od almeno lentamente e di malanimo preparavano le difese dell’assalita città, confidando più nelle promesse del re vinto a Custoza, che nelle forze e nel coraggio di quel popolo che aveva, in cinque giorni di stupende prove, cacciato l’oste straniera. Costoro a CARLO PISACANE risposero: non esser lui atto a battaglia, malconcio com'era; pensasse alla salute propria e raggiungesse i feriti che il precedevano. Di che il nostro CARLO assai fu tristo e si dolse cogli amici, dicendo che da costoro credeva non s’avesse alcun fermo proposito di resistere al nemico né di far opera degna di quel popolo che a loro obbediva. E fu vero.
Sdegnoso allora recavasi in Isvizzera, ove, caduta Milano, si riducevano poi molti dei principali uomini d’Italia. E là ed allora per la prima volta conobbe il Mazzini, da cui allora e poi dissenti su varii punti di minore importanza, come anche in quest'opera in più luoghi traspare e specialmente nei 3° Saggio ove, assai lungamente è discorso del patriotta genovese e si discutono alcune sue teorie ed opinioni.
Non poteva pertanto il PISACANE restarsi ozioso, mentre ancora in qualche angolo d’Italia si com batteva o si preparavano armi. Udito infatti in Piemonte levarsi soldatesche per la riscossa e ordinarsi reggimenti lombardi, veniva ed Otteneva il grado di capitano nel 22°. Ma a lui eran gravi gl'indugii, l’esitanze, l’incertezze regali, a lui tardava operare; e fors’anche prevedeva gl'inganni e le imminenti vergogne. Però quando seppe della Repubblica proclamata a Roma il 29 febbraio,1849, dimesso il suo grado in Piemonte, si affrettò alla volta della città eterna, pensando che là, sotto una bandiera italiana e per opera del popolo, si compirebbero fatti degni dell'Italia e si combatterebbe davvero. Quando e’ vi giunse il piccolo esercito della nuova repubblica era disordinato e disperso; egli, come uomo di tali cose peritissimo, espose al Mazzini i suoi pensieri sul modo di raccoglierlo e disciplinarlo.
Piacquero tanto al Mazzini que’ suoi disegni, che nella tornata del 15 marzo propose all'Assemblea si creasse una commissione sulle cose di guerra, la quale e le soldatesche che v’erano riformasse e nuove ne levasse per provvedere alla salute della repubblica. Fu creata la commissione e fra coloro che ne fecero parte, per voto unanime, fu il PISACANE, sebbene egli, modesto com'era, nel libro che scrisse: Guerra combattuta in Italia nel 1848-49, neppur registrasse il suo nome (esempio raro a' di nostri pieni d’uomini dappoco e vantatori); pure coloro che il videro in quel tempo e il conobbero volentieri dichiarano che delle buone cose operate da quella commissione, la quale tanto conferì a difendere la città ed a mantenere la gloria delle armi italiane, parte principale di laude spetta al PISACANE.
Ed a lui vogliono debitamente attribuito anche il vanto di avere ordinato il fatto d’arme del 30 aprile, di tanto onore argomenterai nome italiano.
Caduta Roma per le armi di Francia che pazzamente, combattendo l’altrui, recise i nervi della. propria libertà, il PISACANE, che era restato incerto del partito da prendere, fu, né mai se ne seppe la causa, imprigionato dai Francesi e sostenuto in Castello per otto giorni. E ne usciva per le molte istanze che fece la sua diletta amica che sempre lo aveva seguito; ma dovette partire di subito, che i vincitori tanto temevan dei vinti, di quei vinti che e' dileggiavan come codardi ed imbelli, che gli contesero pur un istante di dimorare nella città.
E CARLO partiva ed imprendeva di nuovo la vita dolorosa dell’esule ed il pellegrinaggio in straniere contrade. E prima per tre mesi abitava la Svizzera, ove all’Italia del Popolo, effemeride che allora, direttore il Mazzini, si stampava da esuli italiani in Losanna, dava importanti scritture che son degne di esser più conosciute e più lette che non fosser finora. Indi recavasi a Londra, ove, dando lezioni, campava la vita.
Ma intanto a più importante lavoro intendeva e, a conforto delle presenti sventure e quasi a dolce rimembranza dei giorni degnamente spesi a pro della patria, scriveva quell’opera di che sopra parlammo, cioè: Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49.
E la pubblicava poi a Genova, ove, stanco di vivere sotto cielo straniero, si era recato nel giugno del 1850; e poiché il governo sardo negava concedergli vi rimanesse, egli lungamente vi stiè celato, e tanto vi restò, che alfine l’ottenne. Ed allora si recava ad abitare fuor di città sull'ameno colle di Albaro, ove meditò e con molte buone lettere preparò l’opera che qui si pubblica, nella quale, sebbene rimanesse incompiuta e in parte affatto disordinata (ed egli stesso nel suo «Testamento politico » lo ricorda) pure si veggono idee alte e profonde considerazioni che bastano a dare indizio dell’ingegno e delle opinioni politiche e religiose di quell'uomo singolare e della sua dottrina in cose di guerra.
E qui è forse luogo d’ammonire coloro che a questo libro volessero adattare le solite norme e leggi naturali di critica, non dimentichino che l’Autore non gl'impose l'ultima mano, ed anzi in molti luoghi così lo lasciò, che a noi (per quanto fatica e studio vi spendessimo coll'affetto che a cosa nostra certo non avremmo) non sempre venne fatto distrigarne il senso ed il ragionamento per modo, che potessimo con sicura coscienza affermare che cogliemmo nel segno ed interpretammo giustamente il pensiero dell'Autore. Che interpretare talvolta è mestieri, quando l’Autore, piuttosto che scrivere in modo che altri intendesse, parve volere rapidamente accennate e appena notate le proprie idee in guisa da ricordarle a se stesso. Veggano dunque i critici se per caso quel biasimo che in alcun punto volessero attribuire a chi scrisse non spetti in parte, malgrado il buon volere, a chi interpretò. E quindi ancora considerino che non fu il PISACANE uomo di lettere e che non tutti coloro i quali hanno pensieri e idee degne di essere scritte hanno l’abito e l’arte di esprimerle acconciamente; il che, scusabile in molti, non può esser cagione di biasimo in un uomo che in tutta fa sua vita trattò ora la spada ed ora il compasso. Chi dunque vuole giustamente giudicare questo libro tali cose ricordi e poi, dismesso affatto il pensiero di farsi a criticarlo come un lavoro letterario, alquanto maturamente l'esamini nella sostanza e vedrà che esso è frutto di molte meditazioni, di lunghi studii e di affetto ardentissimo per la patria. E ciascuno, cui basse passioni non tolgano conoscere e confessare il vero, con noi compiangerà che innanzi tempo CARLO PISACANE ci fosse tolto, perocché in queste sue scritture e’ palesi quanto egli avesse d’intelletto e d’ingegno, i quali purtroppo agli uomini nostri fanno difetto, mentre le menti migliori dietro a stolte teorie, per boria, e per ira di parte, vaneggiano.
Carlo nostro tutto dovette a se stesso: amantissimo di studii filosofici e storici, molto meditò e diligentemente studiò cause ed effetti e ne trasse, di proprio ingegno, conseguenze generali e teorie. Come tutti coloro i quali non hanno altra guida che se stessi, talora s'ingannò grossamente. Ma come di alcuni errori si era nel correr degli anni emendato (e n'ebbe dopo la morte santissima il rimprovero da vanitosi schiccheratori di giornali, mosche insolenti che pensano trascinar essi l'aratro della civiltà), cosi forse d’altri si sarebbe ricreduto in appresso; perocché I’ esperienza di molte cose è maestra a chi ostinatamente non empie di cera gli orecchi, per non udirne i salutari ammonimenti. Né CARLO PISACANE era tale, che che ne pensino o scrivano coloro che la fama a la virtù de' buoni tengono ingiuria e vituperio di sé. Ma di queste cose non è ora il tempo, e conviene proseguiamo il breve racconto che già precipita al fine.
Nel 1856 recavasi dunque il nostro CARLO a Genova, e poco dopo otteneva l'incarico di fare gli studii d una strada ferrata da Mondovì a Ceva. Ed ancora i Monregalesi conservano di lui dolce memoria, ché chi lo conobbe l’amava. Ed in Genova restituito si diè ad insegnare matematiche; ma né al merito né al buon volere rispondeva fortuna; e mentre a tanti abbonda il superfluo e di che profondere in lascivie ed in crapule, a lui che per la patria aveva dato già il sangue e si affrettava a prodigare la vita; a lui degno, per virtù e per dottrina, di laude e di premio, appena con molta fatica riusciva procacciarsi di che campare, colla sua singolare parsimonia, la vita. Povero CARLO ! tu forse non pensasti mai nel tuo animo generoso dell'ingratitudine degli uomini e della loro ingiustizia. 0 se ne pensasti, non traesti da quelle meditazioni argomento a querele codarde o a stolti delirii, ma a forti propositi ed a fortissimi fatti. Credesti vani i lamenti, più vane le imprecazioni: vedesti la tirannide suprema cagione dei mali ch’empiono il mondo, e insegnasti agl’italiani coll’esempio come si debba osare e morire per farsi liberi!
Ma è tempo diciamo che, fin da quando e' dimorava in Albaro, il nostro CARLO aveva stretto relazioni di congiure e di arditi disegni con Napoli. Che questi fossero, come condotti, quali mutamenti soffrissero, non è qui luogo a dichiarare. Né tampoco ci è lecito dire come fosse preparata e condotta l'impresa arditissima del Cagliari. Il lettore ricorda che noi fin da principio l'avvertivamo di questo; e nelle presenti condizioni siam certi averne lode da tutti i discreti.
Ci staremo dunque contenti a dire che il 25 del giugno 1857 CARLO PISACANE con altri pochi arditi compagni si imbarcava, come passeggiero, sul Cagliari, vapore che da Genova facea vela per Tunisi, toccando Sardegna. In alto mare si gettano sul capitano e sulla ciurma ed a forza gli costringono a cedere il comando della nave. Voltan la prua all'isola di Ponza nella quale stanno a confine molte centinaia d’infelici condannati dai tribunali borbonici. Ivi giunti i valorosi, si fanno padroni dell'isola, liberano i prigionieri e con 400 circa di loro si volgono a Sapri ove sbarcano. Era loro proposito avanzarsi nell’interno del regno ed eccitare a libertà quei popoli su cui pesa la più cruda e vergognosa tirannide. Ma fortuna o la viltà degli uomini impedivano il nobile disegno. Dopo più scontri colle soldatesche borboniche e coi contadini armati a difesa del despota, combattendo da eroi, sono miseramente oppressi e trucidati. È ancora incerta la storia di quei valorosi; s’ignora se di mano nemica o di propria perisse il nostro CARLO . Mancano ancora certe prove e documenti certi; e quindi noi ci passiam brevemente di ciò, stimando inutile ripetere tutte le voci che corsero e corrono sul miserando caso.
Si serbò anzi per lunga pezza speranza che il PISACANE potesse essere scampato alla strage de' suoi. Ma quei che lo conobbero sapevano che nella sconfitta egli avrebbe cercato, ove più ferveva la pugna, la morte; né fidavano che cosi amica fosse a lui e più all'Italia fortuna da averlo, a suo dispetto, salvato. Quelle care speranze si andarono ogni di più dileguando: ed oggimai pur troppo nell’opinione degli uomini la sua morte è certezza!
Pur troppo un ottimo cittadino, un prode soldato mancò all'Italia; pur troppo a noi non resta che il conforto della speranza di vendicarlo e di lavare ad un tempo l’Italia dalla vergogna di aver lasciato perire quel generoso, senza che il suo ardire e la sua virtù eccitassero un popolo di schiavi pazienti a compiere il proprio dovere ed a conquistare i propri diritti!
Fu CARLO PISACANE ben composto della persona, sebbene di breve statura; ebbe gentile aspetto, in cui ad un dolce sorriso ch'ebbe proprio si mesceva una temperata mestizia che lo faceva, a chi pur per la prima volta il vedesse, carissimo. Degli esercizi del corpo, e specialmente della scherma, della ginnastica e de' cavalli, oltre ogni credere si dilettò e vi fu eccellente; ne trasse vigore di membra non comune ed operosità singolare.
Quanto è delle qualità dell’animo, aggiunse al coraggio ed all'impeto d'un eroe la dolcezza, l'affabilità, la modestia d una donzella. Fu di rara costanza nell'amicizia e nell'amore; tenace nel proposito; benigno agli altri, severissimo a sé; di parsimonia e temperanza antica e tanto più pregevole in lui educato fra molti agii e fra soldatesca licenza; laborioso ed amantissimo di studii gravi e che in sé avesser del grande; si beava di contemplare ed ammirar la natura e di quella traeva argomento a profonde meditazioni e conforto e pace dell'anima.
Amò sopra tutto la patria, e credè con ferma fede vicina l’ora del suo riscatto, e diè in testimonianza di quella credenza la vita. Credè che l’Italia fosse non solo grande in ogni nobile arte ed in ogni virtù ed a nessuna gente seconda, ma a tutti maestra; e in questo libro più luoghi ed importanti si leggono in che con affetto si adopera a provar che l’Italia nulla apprese dagli altri, tutto insegnò; sicché, se pur volesse e fermamente volesse, ogni più grande cosa, di virtù propria e con forze proprie, potrebbe.
Quando avremo occasione di discorrere lungamente delle sue opinioni e delle sue idee, molte cose degne di notizia diremo, che qui non è luogo discorrere, e rimoveremo molti errori che di lui corsero. Per ora basta; ché volevamo soltanto toccar brevemente della sua vita, e l'abbiamo fatto. Né, ponendo fine, è mestieri che d diffondiamo in parole a celebrare un tant’uomo; i suoi fatti e la morte bastano alla sua gloria. La sua fama sfida le miserabili ire di parte le calunnie e il correr degli anni e vivrà eterna.
Sì: finché la libertà sia cara agli uomini, finché vi sia un italiano che ami l'Italia, finché la virtù abbia culto e memoria nel mondo, il tuo nome, fortissimo eroe, sarà benedetto e ripetuto con ammirazione e con lode dagli uomini. Cesseranno ti ladroni di provincie e di regni e i tiranni di esser salutati col nome di grandi; ma tu, CARLO PISACANE, non cesserai di esser offerto ad esempio del come degnamente per la patria si viva e si muore!
Gennaio, 1858.
La cagione principale che mi determinò a questo lavoro fa il bisogno di formarmi un convincimento che, essendo norma delle mie azioni, fra il continuo mutare degli uomini e delle cose, mi avesse mantenuto sempre nel medesimo proposito.
Convinto che ogni nazione ha il proprio essere, la propria coscienza, che risulta dall'indole del popolo, dalle tradizioni, dalle condizioni presenti, dalle aspirazioni ad un avvenire, e che la rivoluzione altro non è che la libera manifestazione di queste facoltà nazionali, non trasmissibili da nazione a nazione, come non lo sono fra gli uomini, intesi ripugnanza per quegli scrittori che vogliono concedere tale supremazia alla Francia, da distruggere affatto i principii della rivoluzione che essi stessi propugnano. Per non incorrere in errore cosi grossolano mi diedi a cercai l’essere dell'Italia, non in Francia, come quegli scrittori han fatto, ma nell’Italia medesima, nelle pagine della nostra storia, nelle dottrine dei nostri filosofi, nelle aspirazioni dei nostri martiri, nelle tendenze del popolo.
Durante tale studio, una delle idee che richiamò a sé tutto il mio pensiero fu l’ordinamento militare. Sceglierà i capi, andava meco stesso meditando, un uomo che dovrà indubitatamente ignorare il merito di tutti gl'italiani sparsi dalle Alpi al Lilibeo, e, soggiacendo al potere delle proprie passioni ed a quello degli amici, ricadere nelle inconvenienze stesse della monarchia? 0 verranno essi eletti dal popolo eziandio incapace a discernere il merito altrui, e che lasciasi trascinare sempre dall'andazzo del tempo, da' vanti affascinatori, dalle declamazioni di cui s’avvolgono gli scaltri per estorcerne il suffragio? Come impedire che l’esercito formasse setta senza dissolvere l'indispensabile coesione delle file? Come scacciare la tema di subire il militare despotismo senza tarpare le ali all’ingegno del generale ed ammorzarne l’energia? Come ridonare al paese le tante braccia che la tirannide tiene inoperose e sgravarlo di enorme spesa, senza diminuire per questo la possibilità di avere ad ogni evento schiere addottrinate e costumate a fatica?
Tali e si fatte quistioni mi proposi risolvere, e porto opinione d’averle risolute, ma calcando un sentiero diverso da quello già trito dagli altri scrittori di cose militari; i quali facendosi stranieri alla politica e alle leggi sociali, han voluto ragionare solamente della milizia. Questo è possibile discorrendo dell’arte, ma non già della costituzione militare; così governandosi, le loro riforme valgono quanto il cangiamento e la soppressione di qualche membro in una macchina, che, serbando intatto l’incastellamento e fa ripartizione, rimane invariabile nell’effetto.
Il considerare come un sol corpo tutto lo scibile umano, e il riconoscere la nullità di qualunque scienza, che, staccandosi dal tutto, pretenda progredire da sé, è dottrina che in Italia trovò il germe e gittò le radici. Questa dottrina è quella che lega indissolubilmente la costituzione militare alla civile, non che l'arte militare con esse.
Il Machiavelli sentì il primo la necessità di quest'armonia, la quale disconosciuta, almeno nell’applicazione, da' moderni, ha ridotto ad una lettera morta le costituzioni scritte col sangue de' cittadini. Ora finalmente, il bisogno d'uno statuto militare, che sia conforme al reggimento adottato dalla società, anzi ne derivi come conseguenza, pare sia divenuto, per le tante catastrofi, il problema più importante dell'epoca col quale invariabilmente connettesi quello del rinnovamento civile. Così dagli studii medesimi mi fu dato ottenere un convincimento in politica, e formulare una costituzione militare, necessaria agli italiani, tanto per guerreggiare da liberi cittadini e non da schiavi la guerra del risorgimento, quanto per costituirsi a guerra vinta.
Interrogai la storia;
La storia mi presentò costituzioni varie, innumerevoli gesto, grandezza è decadenza, virtù e vizii de' popoli, eroi ed uomini volgari tutti in un fascio; come le statue, le colonne, i capitelli, trofei raccolti dai pisani nelle vittorie trasmarine, che in confuso si presentarono al Buscherio per edificare il duomo. Ma le mie forze non erano da tanto, bisognava che altri mi indicasse il legame degli avvenimenti, le conseguenze da trarne, il modo come connetterli, onde dare a questo lavoro ordine,ed unità. E perciò mi feci a studiare le pagine immortali del Vico, del Pagano, del Romagnosi, nelle quali rischiarandosi il mio intelletto, mi parve un ordinato insieme, ciò che sembravami sconnesso e confuso, ed il mio disegno si colorì.
«Le virtù dei privati non sono che passioni, i soli ordini pubblici possono farle diventare vere virtù. La natura non dà che energia, energia d’agire, energia di resistere. Ma ambedue possono produrre grandi virtù e grandi vinsi, secondo che lo scopo a cui son dirette sarà nocivo o utile alla società intera. Se la legge rivolge te cupidità dell’uomo armato contro il nemico, formerà dei suoi armati tanti eroi; ne formerà tanti assassini rivolgendola contro gli stessi cittadini». Questo vero, che ho espresso con le parole medesime di Vincenzo Coco, è il centro di gravità sul quale equilibrasi tutto il mio favore, e da esso emerge l’illazione incontrastabile: «Se in un’epoca alcuni rapporti sociali produssero in un popolo un certo effetto, oggi sul medesimo popolo dovranno indubitatamente riprodurlo». Stabiliti questi principii, risulta netta la ripartizione di questo lavoro.
Primieramente mi farò a percorrere le varie epoche della nostra storia: l’Italia prima de' Romani, i Romani, l’impero, i comuni, gli Stati moderni. E per ogni epoca non verrò particolareggiando i fatti; ma porrò in evidenza le costituzioni civili, le militari, la loro reciproca dipendenza, lo stato economico dei popoli, le loro relazioni co’ vicini; cioè quell’insieme, quel complesso di fatti, che determina il fato delle nazioni; potenza collettiva d’onde sgorgano le guerre, le conquiste, che ha in sé le cagioni di grandezza e di decadenza, ed a cui corrispondono i caratteri degli eroi, come all'albero il frutto. Ciò formerà il primo saggio.
I principii stabiliti e l’esperienza di secoli, che avrò discorso di volo, mi faranno abilità a ragionare del progresso, ed investigarne i veri caratteri. Poscia lo studio medesimo che avrò fatto sulle varie epoche della nostra storia, lo farò sulla moderna società; e come nell’ordinazione politica e sociale degli antichi, ne' rapporti fra le diverse classi de' cittadini, si rinvennero le cagioni delle rivoluzioni, della prosperità, della decadenza di quei popoli; cosi l'accurato studio sulle istituzioni de' moderni, mostrerà le tendenze della società presente, e svelerà il suo avvenire. Scorgeremo com uno importantissimo fatto o legge di economia pubblica trovasi, con le medesime conseguenze, ripetuto in tutte le antiche società, e quindi sarà indubitato che, esistendo fra noi, dovrà produrre l’effetto medesimo.
Il FATO della moderna società riconosciuto, mi farò a ragionare sulle varie questioni, verso cui appuntasi l’ingegno d’ogni italiano: nazionalità, libertà, unità, federazione; non per risolverle, perché fra i limiti del preteso possibile insolubili; ma per rimuovere ogni ingombro e spianare la via ai ragionamenti che seguono.
Non proporrò sistemi: essi non sono che uno sforzo inutile dell'umano ingegno, avvegnacché ogni società asconda in seno i suoi futuri destini. Un popolo, che dal dolore sospinto, rovescia l’ordinamento sociale sotto cui vive, ha di già attuato il suo rinnovamento: come, cessato un terremoto, la natura, che tutta sembrava sconvolta, adagiasi di nuovo fra le sue leggi magistrali; così alla voce imperiosa della necessità l’anarchia cessa, e la società, indipendente da ogni dottrina, si ricostituisce su que’ principii, che meglio ad essa convengono. E se i pregiudizii, le costumanze, le leggi antiche serbano ancora il loro prestigio, e sotto pretesto di ricercare il possibile, s’impongono limiti alle leggi di natura, che. son le sole possibili, la società intristisce di nuovo, avviandosi a nuova rivoluzione.
Imponendomi a legge questo vero, mi. fo a ricercare fra le dottrine de' nostri filosofi le leggi di natura, che esprimerò in alcuni aforismi i quali, se la logica non mi è venuta meno, sono superiori ai diritti della nazione stessa, e debbono essere la base d’ogni contratto sociale, sotto pena di schiavitù e miseria. Que' sommi, dalle cui opere ho tratto questi pensieri, nell'applicarli pagarono il tributo ai tempi; eglino si sviarono fra il laberinto de' pregiudizi e delle opinioni: ma quelli e queste fatte oggi, per gli animi della benché minima levatura, anche trasparenti attraverso cui scorgesi il vero m’è stato agevole di determinare, secondo tali leggi quale dovrebb’essere il rinnovamento civile d’Italia. Volgo quindi ad esame le tendenze, le aspirazioni e le forze che ha la Nazione per attuarlo e pongo fine al secondo saggio.
Nel terzo ed ultimo fo paragone fra le milizie antiche e le moderne, discorro io seguito della divisa, delle armi, degli ordini, che meglio si convengono ad un esercito italiano, proponendo per esso, tale costituzione che sia una conseguenza del rinnovamento civile, anzi parte d’un armonico tutto. M’ingegnerò dippoi a porre in evidenza come il tumultuario combattere d’un popolo che insorge, assoggettandosi a semplicissime discipline, può diventare il primo rudimento degli ordini e della costituzione militare proposta.
Intanto gli ordinamenti militari di ciascun’epoca, che bisognava studiare e distendere, si legavano strettamente all’arte, e questa alle imprese; e ne scaturivano le vicende dell'arte bellica in Italia, non cercata negli scrittori, ma nei fatti, che gli han preceduti; e da tale argomento, come che non fosse cardine principale de' ragionamenti e delle conchiusioni, pure esse ne venivano assai sovente rincalzate. Senzaché le tante geste che alla memoria degl'italiani si riducevano, formavano un magnifico trofeo, in cui potevamo riconoscerci come il popolo più guerriero del mondo, mi incoraggiai perciò a parlarne alquanto largo. Cosi, senza trarmi fuori del proposito, Il libro rimase ripartito come segue:
Saggio 1.° Cenno storico d'Italia;
» 2.° Dell’arte bellica in Italia:
» 3.° La rivoluzione;
» 4.° Ordinamento e costituzione delle milizie italiane.
Questi miei studi, che per quasi cinque anni mi hanno rimosso dall'ozio, non contengono al certo nulla di peregrino: i principii fondamentali ed i più arditi pensieri rivoluzionarti, rinvenni nelle pagine stupende de' nostri filosofi; altro non feci che ragionare su di essi, e ragionarvi con animo libero da pregiudizii, da timori, da speranze, da simpatie. Se ho errato, non mancherà certamente chi con logica più retta ed animo più gagliardo ritenterà la impresa, che non è punto spregevole: determinare l'avvenire d'Italia, studiandone il passato, e senza imbastardire la nostra recisa nazionalità; e costoro, troveranno nel mio libro, se non altro, una coscienziosa raccolta di geste, d’avvenimenti, e di pensieri italiani.
I. saturno e Giano menzionati come re d’Italia, e i ribelli giganti vinti a Piegra, e Pallade dea della guerra che trae d’Italia sua origine, eCerere e Proserpina siciliane, e le battaglie de' Tirreni con Bacco sono antiche favole che rammentano remotissime catastrofi.
L’istoria trova l’Italia in decadenza. Le città italiane erano cinte di mura, arricchite da monumenti, memorie di tempi che furono; gli Etruschi avevano una storia prima che Teseo fondasse Atene, prima della fondazione d'ilio che precedé Atene di quarant’anni; ed Ilio ed Atene si cinsero di mura imitando gli Etruschi. Plutarco deride le ricchezze di Creso, loda la povertà greca, nell’epoca in cui Ateneo, Platone, Dionisio d’AIicarnasso deplorano il lusso italiano già vecchio, le mense sibaritiche, tirrene, siciliane, l’abbondanza dell’oro, ed i fregi d’oro e d’argento di cui s’adornavano gl'itali guerrieri. Gli Etruschi credevano ad un solo Dio ed all’immortalità dell’anima, credenza di cui gli Aruspici facean lor prò; quindi l’impostura dell’arte loro: conseguenze tutte d'invecchiata religione. E le città, il lusso, i monumenti e la corrotta religione provano abbastanza la civiltà italiana in decadenza, quando albeggiava in Grecia.
Fu l’Italia un impero etrusco come opina il Guarnacci? ed all’epoca della fondazione di Roma, era quello impero da sue mollezze spezzato? Tale opinione, non è interamente accettabile: perocché in Italia dappertutto si rinvengono, è vero, monumenti etruschi e, più che altrove, nel mezzogiorno; ma non già in tanta copia come in Toscana, e non dovrebbesi notare sì enorme differenza, se tutta Italia fosse stata sotto il dominio etrusco. Inoltre, le agresti tribù che popolavano i dorsi dell’Appennino non sembrano popoli corrotti dal lusso etrusco, e questa differenza di civiltà dimostra che l'Italia sostenne nelle diverse parti diversi rivolgimenti. Ma non è mio proposito discutere tali argomenti, che tanti, come il Guarnacci, il Mazzoldi, il Micali, il Cluverio, dottissimi, diffusamente trattarono; io esporrò l’opinione che mi son formato studiandovi. Prenderò le mosse dal nascere dell’uomo e procederò seguendo le dottrine di Mario Pagano.
Formatosi il mondo, l’orbita solare era parallela alla linea: quindi bruciante clima all’equatore, eterna primavera nelle altre regioni fu la condizione primitiva del nostro pianeta, menzionata dalle antichissime tradizioni de' Caldei e degli Egizi. Nell’origine, la fermentazione in cui, pel soverchio calore, trovossi la terra, produsse in essa delle escrescenze come i tumori ne’ corpi umani. La rugiada dava la notte a quelle gonfiature incremento; le induriva il sole. Ruppesi, finalmente, l’involucro esteriore fatto a guisa di sottilissima pelle e ne uscirono le varie forme degli animali, che cessarono di prodursi, quando la terra fu indurata dal sole e dalFattrazione. Cotesti primi abitatori vissero l’età dell’oro: la terra ancora calda più non produceva gli animali, ma spontanea produceva ogni frutto; quindi non freddo, non caldo, non fame soffrirono quei primitivi figli della terra, che furono indubitatamente giganti. Senza lo stimolo de' bisogni, vissero nell'ozio, e la loro mente rimase nello stato di fanciullezza.
Un cataclisma sopravvenue, la cui memoria è a noi tramandata nella favola di Pandora, che turbò quel beato vivere: successe il regno della necessità, madre dell’umana cultura. Questa in 0riente antichissima prova che in quelle regioni, prima che nelle altre, l’operosità successe
all’ozio. Oriente ed Occidente avevano già raggiunto un certo grado di civiltà, quando l’inclinarsi dell’ecclitica sommerse l’Atlantico, e con essa l'Occidente.
«Vaste accensioni di fuochi, che ardevano in mezzo all’onde; subissamenti di terra ove correan poi le acque del mare; l’aere ripieno di fuochi ed altre nubi, d’onde si scagliavano continui fulmini, e cadeva a torrenti la pioggia; tremuoti, che quanto ergevasi sul suolo abbattevano ed intronavano coi loro muggiti l'orecchio: fu lo spettacolo terribile, (scrive Mario Pagano) che dovette presentarsi agli infelici pastori che, riposando sulle cime degli alti monti, scamparono alla catastrofe dell'Atlantico. Scosso il cerebro di questi miseri da si tremende impressioni, non videro, per effetto della sconvolta immaginazione, che spettri, giganti, numi combattenti tra loro, e volti all'esterminio degli uomini; visioni che unite a qualche voce del passato diedero origine alle favole, alla religione, deificazione della forza. E se la catastrofe li rese stupidi, l’aere crassa ed umida che respiravano, lo scarso e malsano cibo, le fredde stanze, caverne o cavi tronchi d’alberi, n’infievolirono il corpo. Quindi pochi pastori stupidi e malsani furono gli abitatori dell’Europa, quando i Caldei e gl’indiani erano nazioni già vecchie, e fiorente era l’Egitto».
La natura calmossi, l'aere gradatamente si rese meno umida e più salubre, la terra più abitabile, mentre la fame ed il freddo scossero l'uomo dalla sua stupidità, e lo sospinsero alla ricerca di cibo e ricovero. Ristorate le forze fisiche, da pacifico lotofago divenne cacciatore: armato di un tronco, che fu poi la clava degli Ercoli, lo scettro de re, il lituo de' sacerdoti, cominciò a correre i boschi ed esercitare la sua potenza d’azione su tutti gli oggetti che capitavano sotto i suoi sensi, da esso stimati sua proprietà. Accresciute le forze, intese i cocenti bisogni della venere, e corse in cerca del diverso sesso: i più forti rapirono le più belle, e fondarono la famiglia. Quindi l’epoca de' ratti, di cui son piene le antiche favole. Quindi nell’età eroiche gli dei, scrive il Pagano, a cui gli uomini attribuirono le proprie passioni, fecero più ratti che miracoli. Ogni individuo ebbe i suoi dei, che poi si dissero penali o lari.
I deboli vedendosi esposti alla rapina ed alla violenza de' forti, ciascuno invocò la protezione di un possente, per esser difeso dagli altri; cosi ogni forte ebbe una clientela, ch'egli difendeva e dominava; cosi dal sentimento della propria conservazione originò la schiavitù, la diversità delle caste: i forti furono i nobili, i clienti la plebe, i prigionieri gli schiavi. Ogni nobile fu duce supremo, arbitro nella famiglia, e fra' clienti fu re e sommo sacerdote. Come la lotta degl’individui costrinse questi ad unirsi in famiglie, cosi la lotta fra le famiglie gli raccolse successivamente ne’ Vici, da questi per la ragione medesima si formarono i Pagi, e dall’unione di più Pagi si composero le città. Qui la barbarie cessa.
Le placide onde del Mediterraneo, poco vaste, sparse d’isolette, invitarono gli arditi nostri progenitori a solcarle: da' lidi dell’Etruria partirono i primi navigatori, sotto il nome di Tirreni, che di molti secoli precedettero la spedizione degli Argonauti, vanto della Grecia. Cosi gl’italiani scambiarono le loro giovani idee ed i loro prodotti con quelli del civilissimo Oriente, e raccolsero quel cumulo di tesori, d’onde i loro organi pieghevoli e lo spirito chiaro ed elevato svolsero la civiltà occidentale, che surta fra l’Arno ed il Tevere si sparse, come è sua natura, su vaste regioni. In tal guisa formossi l’impero etrusco, circondato da quella catena di monti che fascia l’Italia all’occidente ed al settentrione e torce poi all’oriente, prolungandosi finché incontra di nuovo il mare; tra quei monti e ’l mare si comprendevano due triangoli, l’Italia e la Grecia, che formarono un solo impero.
Sopravvenne il diluvio d’Ogige, e tutta sommerse la Grecia, che fu da quel cataclisma ricacciata di nuovo nella barbarie, mentre l’Italia rimase civilissima. Ma la giovine natura, che non ancora aveva ritrovato l’equilibrio delle sue forze, né erasi adagiata nella sua gravità, preparava nuova catastrofe e, quasi due secoli e mezzo dopo il diluvio d’Ogige, un immenso incendio arse la Campania ed Ischia, ch’ebbero perciò il nome di campi Flegrei, e la terra che era fra le presenti coste Italiane e l’isole Eolie, inabissò: la mugghiante Etna, la voragine spalancata fra Scilla e Cariddi, il fiammeggiante Stromboli sono degni monumenti di un tal fatto geologico. Le popolazioni italiane esterrefatte fuggirono verso oriente, ove ebbero il nome di Pelasgi come quelli che trasmigravano a torme, e riportarono l’antica civiltà etrusca alla Grecia, dopo il diluvio d’Ogige ritornata alla barbarie; la quale più tardi, a' tempi d’Èrcole, degli Argonauti, del Bacco Tebano, ne cantava le geste, sotto Vantichissimo nome di Tirreni o dominatori del mare. Qui terminano le congetture, e subentra la storia, ma vaga, oscurissima, intricata dalle favole, che la boria greca introdusse e la semplicità romana accettò.
Possiamo contare sette secoli avanti la fondazione di Roma, o in quel torno, quando l’Italia trovavasi suddivisa come segue. Al settentrione: i Liguri occupavano il paese fra le Alpi, il mare e l'Arno; gli Oribi abitavano le radici de' mónti fra gli odierni laghi di Como ed Iseo; gli Euganei la regione compresa fra i monti, l’Adige ed il mare. Nell’Italia centrale: gli Umbri, accavalcando gli Appennini, toccavano l'Adriatico, e forse occupavano quel tratto di paese compreso fra l’Ombrone e ’l Tevere; fra l’Ombrone e l’Arno gli Etruschi; nella vallata del Tevere i potentissimi Siculi. Al mezzogiorno: in quel gruppo di monti ondo sgorgano il Tronto, la Pescara e il Velino, abitavano le valorose tribù Sabelle, e spargevano verso meriggio le loro propaggini, nomate Osci, Opici, Auruncini; questi Osci medesimi, sotto il nomo d’Enotri, popolavano l'alpestre regione ch'oggi comprende le tre Calabrie, allora detta Enotria, che veniva limitata dal mare, e da una linea ideale che unirebbe Pesto a Taranto. I civili Etruschi, dopo le due catastrofi testé menzionate, furono i soli superstiti dell’antichissimo impero e si videro circondati dalle barbare popolazioni che, dopo la crisi di fuoco, si andavano di nuovo ricomponendo in quelle parti d’Italia, ove ogni traccia del passato era stata distrutta, e nell’epoca di cui discorriamo avevano già raggiunto un grado non infimo di civiltà. Formavano esse potenti nazioni, che non avrebbero potuto esistere senza leggi, e senza virtù sociali; abitavano numerosi villaggi o borgate, e nella principale terra raccoglievasi la congrega nazionale.
In quell'epoca fuvvi in Italia un’invasione di stranieri: erano i discendenti di quelli stessi Pelasgi, che un tempo avevano abbandonato l'Italia e trapiantata altrove la civiltà. Questi senza dubbio stabilirono un punto di contatto fra l’imparo di Zoroastro e la civiltà d’Occidente, onde la relazione fra le lingue latina, greca e persiana. Intanto, stando alle dissertazioni del Romagnosi, alcuni Libici detti Tediavi si stabilirono nell'Enotria e diedero H nome d’ Italia alla regione compresa fra i golfi, oggi, di S. Eufemia e Squillace, nome che s’estese a tutta l'Enotria, ed al tempo dei Romani raggiunse il Rubicone. Gli orientali un quell'epoca chiamavano Esperia la nostra terra, cioè ultimo paese conosciuto verso occidente, oppure Ausonia, dal nome di Ausoni dato agli abitatori di essa.
Cinque secoli avanti Roma, aspre guerre sconvolsero d’un capo all’altro la penisola. Qui comincia uno de' notevoli fatti storici, che riproducesi incessantemente, cagione di tutte le guerre, cagione della tendenza verso l’unità. La civiltà tende a spandersi, a livellarsi fra due nazioni diversamente civili e messe a contatto, o conquistatrice o conquistata. In quell'epoca cominciò la lotta fra i civili Etruschi e gli altri popoli d’Italia. Gli Etruschi ed i Sabini arrestarono i progressi de' bellicosi Umbri, che si sparsero lunghesso l’Adriatico, e dalla vallata del Tevere cacciarono i Siculi. Questi, fuggirono verso il mezzogiorno; vennero assaliti dagli Osci; battuti, passarono lo stretto; assalirono a lor volta i Sicani; conquistarono l’isola, che chiamarono Sicilia. Ma la lotta principale fra gli Etruschi e gli Umbri durò: gli Umbri vennero battuti, respinti al di là degli Appennini, e trecento terre caddero in potere degli Etruschi, che si estesero verso il Po, fondarono Felsina, l’odierna Bologna, ed Adria colonia famosa nel Polesine; le paludi e ’l valore de' Veneti arrestarono da quel lato i loro progressi. Erano quei Veneti una delle tribù de' popoli Euganei, che poi furono padroni di tutto il paese fra l’Adige ed il mare. Ad occidente gli Etruschi respinsero al di là della Trebbia i fortissimi Liguri, e padroni della vasta e fertile pianura alla sinistra del Po, fondarono un nuovo Stato, che chiamarono Etruria nuova. Al mezzogiorno cacciati, gli Umbri dalla vallata del Tevere, sottomisero i Latini ed i Volsci, passarono il Garigliano e conquistarono la Campania. In questo mentre gl'indomabili Sabini, colle armi e co’ riti delle sacre primavere, si sparsero lungo il dorso de' monti in corpi di potenti nazioni: Sanniti, Irpini, Lucani. Tali furono le dubbie vicende di età remotissime. Ora le tenebre si diradano, e con certezza storica possiamo adombrare lo stato dell’Italia.
Siamo al secondo secolo dopo l’incendio di Troia: partendo dallo stretto, gli antichi popoli, o meglio gli antichi nomi di Cossi e di
Enotri più non si rinvengono; tutta la regione da Scilla a' due fiumi, Seie ed Ofanto, era abitata da Lucani, Messapi, Peucezi, e Salentini; padroneggiavano i Lucani tutta la parte occidentale; la parte orientale, partendo dall’Ofanto era posseduta da' Peucezi; seguivano i Messapi; possedevano i Salentini le ultime terre presso il capo Leuca; Temese, lomara, Crotone, Brindisi erano città che si specchiavano nel mare. I Daccini sulla sinistra dell’Ofanto abitavano il selvoso promontorio Gargano. La cima del Matese era il centro della fortissima federazione Sannita: quattro città, Telese, Esernia, Alife, Boiano, sorgevano intorno a quel monte; l’ultima era la capitale dello Stato. A settentrione ed oriente del Matese abitavano i SannitiPentri, e lungo l’Adriatico abitavano i Frentani loro soggetti, o almeno fedelissimi alleati. A mezzogiorno ed Oriente del Matese, alle falde del Tabumo, abitavano i Sanniti-lrpini; alle falde occidentali di quei due monti che si protendono verso la Campania, dimoravano i Sanniti-Caudini. Gli Etruschi possedevano la Campania, sul cui fertile piano sorgevano le magnifiche città di Volturno, Pompeia, Ercolano, Pesto, Nola. Le dirupate e scoscese balze che circondano le canute cime del Gran-Sasso, della Maiella, e del Velino erano abitate da altra federazione di bellicosi popoli: i Marsi, che ne abitavano il pendio occidentale erano i principali di quella lega, e Meruvio sul Fucino la loro principale città; il pendio orientale era abitato da' Vestini, Marrucini e Peligni che il tortuoso Sangro divideva dal Sannio; Aterno era un loro comune porto, Taiti, oggi Chieti, una delle principali città. Le diramazioni degli Appennini che versano le acque nel Tevere e nel Teverone, da Terracina alle fonti di questo, erano sparse di città, dimore di fortissimi popoli, fra Anzo, Terracina, la Campania, ed il Sannio era il paese de' Volsci; dalle sorgenti del Tevere a Tivoli abitavano gli Equi; fra questi ed i Volsci,gli Ernici. I due declivi degli Appennini, movendosi da' Marsi, per moltissime miglia erano il paese degli antichi Sabini: il Tevere ed il Teverone erano i loro limiti al pendio occidentale; l’orientale era abitato da colonie da essi dedotte, Piceni e Retuzi; Cure era la principale città de' Sabini, Fermo ed Ascoli de' Piceni, Interamma, oggi Teramo, dei Retuzi. Nel piano del Lazio sorgevano trenta città della lega Latina: Laurento, Preneste, Alba, Lanuvio, Gabio, Arida, Lavinia, Tuscolo erano le più famose; Preneste dominava su di otto castella; Alba, la più superba, avea dedotte trenta colonie. La Nera ed il Tevere dividevano i popoli Latini dagli Umbri, che, accavalcando gli Appennini, toccavano l'Adriatico e confinavano coi Sabini e gli Etruschi. Finalmente quest’ultimi, più potenti e civili di tutti, possedevano il resto dell’Italia, né altri serbavano la loro indipendenza, se non che i Liguri al di là della Trebbia fra gli Appennini e ’l mare, i Taurini, gl’Insumbri, gli Oribi confinati alle radici delle,Alpi, ed i Veneti fra le loro lagune; inoltre, padroni gii Etruschi della Campania esercitavano una specie di patronato fra i popoli intermedii, Latini e Volsci.
Durante quel secolo, la Grecia semibarbara che erasi rovesciata nell’Asia gettavasi ora a depredare in Italia, ne! modo stesso che più tardi dalla Scandinavia sboccavano i barbari del settentrione al grido della romana opulenza. I Greci approdarono sulle coste meridionali d’Italia, ove i numerosi seni e le foci de' fiumi offrivano ad essi comodi porti. In alcuni siti scacciarono verso i monti gl'Italiani, in altri rimasero non molestati, e cosi fondarono le città italo-greche ch’ebbero poi lo splendido nome di Magna-Grecia. La civiltà asiatica, l’italiana, quante virtù e vizi, quanti prodotti d’agricoltura ed industria si raccoglievano intorno tutte le coste del Mediterraneo, affluirono in quelle città, che rapidamente giunsero all’opulenza. Sibari, dopo due secoli, dominava su quattro nazioni, su venticinque città; 300 mila cittadini erano scritti sulle tavole censuali, e fra le sue milizie contava 5 mila cavalieri pomposamente armati; ebbe guerra co’ Tarentini, colonia spartana, più tarda ad ingrandirsi delle colonie achee. Corrotta da suoi vizi, Sibari fu distrutta da' Crotoniati, che sulle ruine rivolsero le acque del Crati, un tempo fecondatore de' suoi campi; dopo più che sessanta anni, ove era Sibari, surse Turio. Né meno famose furono Siro, Metaponto, Locri, Brindisi, Reggio, Cuma; quest’ultima fu la più antica della Magna-Grecia, quasi di tre secoli anteriore a Roma. E Cuma e Reggio sollecitamente fiorirono e peggiorarono; alla metà del secondo secolo di Roma, Reggio era sotto l’ignobile tirannide di Anissilo il giovane, e Cuma, alla metà del terzo, sopportava il dispotismo del molle Aristodemo. E tutta la Magna-Grecia, dall’opulenza ammollita e dalle anni divezzata, venne oppressa da Dionisio e poi da Agatocle, tiranni di Siracusa.
Floridissime erano nella Magna-Grecia le arti e le scienze; dopo tanti secoli la fama de' Pitagorici non ha perduto il suo splendore. Il carattere, i costumi, le leggi di quei popoli erano più greci che italiani; ma degl'Italiani aveano la costanza; i monumenti delle loro geste guerriere non erano passaggieri come quelli dei Greci, ma eterni come l’odio italiano. — Quindi al sorgere di Roma, in Sicilia e lunghesso la costa italiana, da Corna a Brindisi, esistevano ricchissimi Stati già corrotti dalla soverchia opulenza. Da Cuma lungo il mar toscano, accavalcando gli Appennini, varcando il Po, torreggiavano le magnifiche città della lega etrusca, popoli, come i Magno-Greci, decadenti. Dal Metauro,quinci, lungo il dorso degli Appennini e le pianure del Lazio, vivevano popolazioni guerriere, fiorenti, valorose, collegate in potenti federazioni, di cui i fiumi e le dirupate balze segnavano i confini. Il governo federativo, palladio di libertà, opponevasi alla conquista, e riprovava le usurpazioni; e questo dritto pubblico ed un certo equilibrio di forza fra le varie federazioni impedivano l’unità violenta; un nemico esterno da tutti egualmente temuto mancava; e l'unità diventava impossibile, eziandio come patto o colleganza di quei popoli. Ma la vicinanza di società fiorenti e guerriere con altre opulenti e corrotte non era possibile che lungamente durasse; l’apparente equilibrio doveva essere immancabilmente turbato dall'avidità che ha l’uomo di procacciarsi quello di cui manca e che vede abbondare fra i vicini. La civiltà etrusca e magno-greca, come è natura della civiltà, doveva spandersi su tutta la Italia; la cagione che turbò l’equilibrio e diede corso all'inesorabile fato non tardò a sorgere. — Quella cagione fu Roma.
II. La vallata del Tevere era terreno limitrofo agli Etruschi, a' Sabini, ed a' Latini. Surse Roma dalla fortuita vicinanza delle loro castella? o fu una colonia d'Osci ch'esisteva già da secoli? Le due ipotesi non sono accettabili: il mal celato disprezzo che avevano per essi i popoli circostanti, le continue guerre che loro mossero, come a nemico comune, sono fatti, i quali evidentemente dimostrano che non erano i Romani un popolo che da gran tempo in quelle vicinanze dimorasse. Il supposto che co’ vari avvenimenti meglio d’ogni altro concorda e che può dirsi, senza tema d’errare, certezza, è che una banda di fuorusciti italiani, condotti d’arditissimo capo, arrestarono il loro corso vagabondo ed innalzarono poche capanne fra le boscaglie del Monte Palatino, sito che dalle stagnanti acque del Tevere che Io attorniavano traeva difesa. Altri ribaldi o perseguitati italiani n’accrebbero il numero; e quindi nascendo la necessità di darsi una costituzione, si fecero a ricercare, fra le istituzioni de' vari popoli d’onde originavano, quelle che meglio loro convenissero. Quindi Romolo, imitando gli Etruschi, con l'aratro segnò il giro della città, e dagli Etruschi tolsero i dodici littori, le pompe, gli edifizii; da' Sabini il culto; da' Latini e da' Sanniti gli ordini militari.
Il loro reggimento non fu, come opina il Pagano, simile a quello delle barbare società; ognuno di quei banditi, aveva già vissuto fra uno de' popoli Italiani, che tutti avevano leggi e costumi, ed a' loro varii costumi dovette adattarsi la costituzione che si diedero. Il loro reggimento fu aristocratico, perché tale il crea sempre un’indotta moltitudine; ma quella sovrana aristocrazia venne formata in principio da' più saggi in consiglio, fu il governo de' migliori che si dissero padri della patria o patrizi, e la loro concione senato. Né le terre, come tra le barbare società, furono proprietà di pochi; ma vennero equamente ripartite, quantunque non tutti nel modo stesso lavorassero: giacché, quelli che adoperavano il senno, da quelli che adoperavano le braccia, distinsero; gli uni patroni, gli altri clienti furono detti; assistevano i patroni co’, loro consigli i clienti, da' quali loro venivan forniti i materiali sussidii. Così formavasi quella nazione spregiata da' vicini che non tolleravano alcun consorzio con essa; finanche il grano, per affamarli, le vendevano a carissimo prezzo.
I tanti storici, che han cercato indagare la cagione della romana grandezza, son tutti caduti in gravissimi errori. Quella cagione molti credettero rinvenire nell'ambizione de' Romani, altri nel loro spirito di conquista, altri nelle loro istituzioni militari e civili, e finalmente il Balbo sognò rinvenirla nella guerra d’indipendenza da essi impresa; e così tutti gli effetti con la causa confusero.
Il FATO di Roma si scorge a prima vista, quando ci facciamo ad esaminare la loro condizione, e le loro relazioni co’ popoli circostanti. I Romani mancavano di tutto; i loro vicini li sprezzavano e, minacciandoli, loro negavano quello che alla loro esistenza era necessario; valorosi i Romani dovettero conquistare ciò che veniva loro negato: divennero cosi guerrieri per farine, e per nuova fame eroi.
Gli altri popoli, tenendoli a vile, non pensarono in principio a collegarsi per opprimerli; ognuno, sicuro della vittoria colle sole forze proprie, facilmente dichiarava loro la guerra; tanto più scoraggiante era poi la disfatta, quanto meno aspettata. Laddove ai Romani meno potenti fu forza ricorrere all'arte ed alla prudenza: vincitori non insuperbivano, non aspreggiavano il vinto; si mostravano giusti, per crearsi fra tanti nemici degli amici ed evitare che spaventati i vicini da soverchia tracotanza non si volgessero, tutti nel tempo medesimo, contro di loro. È la necessità, che insegnò loro ad esser moderati nella vittoria, gli ammaestrò parimenti (perché sicuri di non trovar mercé, se vinti) a non abbattersi nei disastri. Quindi il difetto di ciò di’ era necessario alla loro esistenza, il disprezzo che per essi avevano gli altri popoli, che, ponendogli fuori del diritto pubblico italiano, li minacciavano di distruzione, furono le vere cagioni, che, sotto pena di perire, li costrinsero ad esser grandi. Questa loro condizione di trovarsi accerchiati da popoli più torti ed ostili li costrinse fatalmente ad esser prodi, costanti e giusti; e cosi cominciarono, per necessità, a germogliare in essi quelle virtù, alle quali dovettero la signoria del mondo.
Inoltre la guerra, per quelle fatali cagioni essendo l’unica sorgente d’ogni prosperità loro, non solo fece fiorire le loro virtù guerriere, ma diede forma eziandio alla loro civile costituzione. I Romani non avevano bisogno d’un educatore o legislatore, ma d'un condottiero, d’un generale; non gli chiesero leggi, ma vittorie; ed occupandosi solamente dei loro ordini militari, neglessero in principio le civili istituzioni che si composero di alcune consuetudini; queste ebbero, in seguito, un libero e successivo progresso: e cosi non furono condannati a quell'immobilità, a cui una costituzione prestabilita condannò gli Spartani.
III. Ma se per necessità furono valorosi, per necessità eziandio dovettero fondare la loro civile costituzione sul principio d’autorità, ad essi inevitabile, perché in perpetua guerra. Quel principio fu il perno intorno a cui s’aggirarono gli interni rivolgimenti; l'assalirono, lo crollarono, senza mai sradicarlo.
Il re ed il senato furono i depositari dell'autorità; se popolare era il re, la podestà del senato scemava; perciò Romolo venne ucciso da' senatori, che tentarono invano (noi permise il popolo) d’usurpare il regio potere. Successe Numa, non legislatore (s’intese più tardi il bisogno di leggi e si crearono i decemviri); ma sacerdote, fondatore di riti, delle Vestali, ch'egli solo aveva il diritto di punire, quelle nude, in luogo appartato. Costui dava ad intendere al semplice popolo, che egli avesse commercio colla dea Egeria. Se non merita il titolo d’impostore, certo la sua fama è molto migliore del merito. Forse lo scelse il senato, sperando che assorto nelle cure religiose abbandonasse a loro la civile e militare podestà; egli è certo che se i Romani, come Numa voleva, si fossero dedicati all'industria, ed all'avvicinarsi del nemico, fossero corsi a sacrificare nel tempio in luogo d'apparecchiarsi a sterminarlo, di Roma non resterebbe neppur la rimembranza. Lasciamo che coloro i quali credono gli uomini educatori delle nazioni gli dessero il merito d’aver fatto più miti i troppo feroci costumi de' Romani; ma noi, che crediamo i costumi essere effetto di quelle condizioni che determinano il destino dì ( z ) una nazione, e secondo quelle venire modificati, in Numa non scorgiamo che un fanatico religioso, non adatto ai bisogni della nazione, un’anomalia insomma.
Il fato rimena Roma sul suo sentiero: a Numa succede Tullio Ostilio guerriero, poi Anco Marcio, indi Tarquinio Prisco. Le guerre succedono alle guerre; con le guerre le vittorie, le conquiste, l’ingrandimento, le ricchezze. Con le ricchezze sorgono le opere di pubblica utilità; ma l’eguaglianza sparisce. Le ricchezze spianarono la via del trono al Prisco Tarquinio che primo ottenne il principato brogliando.
L’amor di Sè sospinge gli uomini, ognuno secondo il proprio istinto, ad una continua usurpazione contro gli altri: chi corre dietro alla fama di benefattore dell’umanità, chi aspira ad esser legislatore, chi potente, chi guerriero, chi ricco; ma ognuno tenta primeggiare: da ciò gli eroi che muoiono sul campo, i martiri d’un principio, le scoverte, gli arditi voli del pensiero, l'industria. Per converso, le moltitudini, incapaci a compiete uh lavoro assiduo e profondo come quello degl'individui, sono corrive al concedere, al credere: il dubbio è figlio primogenito della scienza; e questa per le moltitudini non riducesi ad altro che ad un complesso d'idee evidenti e di pregiudizii, secondo il loro grado di civiltà. Da quella diversità dandole che distingue l’individuo dalla moltitudine, ne risultano l’usurpazione continua di quello ed il non interrotto concedere di questa.
Re e senato che, reggitori della guerra, per l’autorità loro concessa distribuivano a loro piacere le conquiste, arricchirono rapidamente; e consacrarono il dritto di proprietà, di modo che alcuni potessero possedere più del necessario, mentre altri mancassero del bisognevole; quindi la voragine, da cui vedremo inghiottirsi I’impero, cominciò ad aprirsi.
Le soverchie ricchezze corruppero rapidamente i re. Il trono divenne ereditario, si trasformò in una proprietà.
A Tarquinio assassinato succede il genero Servio Tullio. Questi s’accordò col senato, anzi con tutti i ricchi, e cercarono con la prosperità perpetuare nelle loro mani quel potere che avevali resi proprietarii. Perciò istituirono il censo e la votazione per classi: primi a votare erano i cavalieri, i più ricchi; poi quelli che per dovizie immediatamente seguivano; non interveniva la terza classe, che nel caso di disaccordo delle due prime; le altre povere, quasi mai chiamate. Cosi in Roma, centottantasei anni dalla sua fondazione, il principio d'autorità aveva dato a' ricchi il monopolio di tutte le cariche, del governo e della guerra, solo mezzo d’arricchirsi. Fin qui non eravi che usurpazione, ancora un passo e saremo all’abuso, al misfatto.
Lucio Tarquinio è stanco d’attendere lo scettro, più di lui la sua moglie Tullia figlia del vecchio re; ricorrono all'assassinio, e Tullia spinge il suo cocchio Sul corpo esanime del padre; il popolo guarda attonito, còme se non fosse sua competenza disporre del trono. Lucio Tarquinio, detto il superbo, regna, e l’abuso dell’autorità eccede ogni limite: le vite, i beni, l’onor de' cittadini sono in sua balìa ed egli ne fa aspro governo; odiato in Roma circondasi di satelliti e cerca plesso gli stranieri colleganze e sostegni. Fu il primo che non fu romano, il primo che filare. In breve, l’insopportabile tirannide impara al popolo ed al Senato mali gravissimi, che vengono dal concedere ad un uomo tanto potete; il bisogno d’abbatterlo è universalmente sentito; manca una cagione promotrice dell'atto. Si offerse: fu lo stupro di Lucrezia, e l’eloquenza di Giunio Bruto. Successero i consoli.
Ad essi s’impediscono l’usurpazione e l’abuso, creandoli solo per un anno; è temperato l'errore, ma non distrutto. Nullameno quella rivoluzione salvò Roma; tutti videro aperto libero il campo alla libera ambizione: «Allora ben tosto innalzaronsi gli animifsi assottigliaron gl’ingegni (scrive Sallustio); che a' re, non insospettiti mai ’ de' cattivi quanto de' buoni, l'altrui virtù sempre è terribile. In casa quindi ed in campo, illibati costumi, concordia somma, cupidigia pochissima; il dritto e l’onesto, più assai che dalle leggi, dalla natura promossi. Le discordie, i litigi, gli occulti rancori contro i nemici sfogarsi; da romano a romano solo in virtù gareggiavasi».
Ma l’autorità e le ricchezze continuavano ad essere assorbite da pochi, e vieppiù slargavasi la voragine aperta tra patrizi e plebe. Questa, sotto la pressione decrescenti mali, di tanto in tanto tumultuava; ad ogni tumulto succedeva una nuova istituzione volta a temperare il male: e così la costituzione compi vasi, come ora brevemente esporremo.
Valerio è accusato di ambiziosi disegni; per sua discolpa propone, e viene sancito come legge, l’appello al popolo.
I patrizi temendo di quella legge, del popolo e della non abbastanza accentrata autorità de' consoli, crearono la dittatura , autorità le cui decisioni erano inappellabili; duranti le sue funzioni, limitate a sei mesi, le leggi tacevano; non rivivevano che dopo.
Il dritto di possedere più del bisognevole faceva che molti mancassero del necessario: di qui la miseria, i debiti, la schiavitù: perocchè il creditore aveva in Roma pieno potere su’ beni e la persona del debitore. La plebe chiede l’abolizione de' debiti; il senato nega: quella ritirasi sul Monte Sacro. La balorda parabola di Menenio Agrippa, e certe concessioni l’ammansano; vengono cosi creati i tribuni, magistrati popoleschi, inviolabili, a cui non potevano aspirare che i soli plebei; i comizi tributi s’istituiscon invece dei curiati e dei centuriati, ed i plebisciti han forza di leggi, Coriolano è il primo che esperimenta la potenza de' tribuni, ed è cacciato in bando.
I mali della plebe crebbero; non ancora erasi messo il dito sulla piaga, non erasi accennato alla radice del male. Il primo riformatore fu il console Spurio Cassio: egli propose la legge agraria, con cui limitavasi il dritto di possedere e si ripartivano equamente le conquistate terre. Spurio Cassio vi perdè la persona: fu morto dal senato. Da quel momento la lotta continuò senza più tregua né posa; i riformatori si successero, si sacrificarono per quella causa, né mai giunsero a convincere la plebe che stupida, come sempre, lasciavasi abbindolare dal senato a più volte si volse contro a coloro che tentarono alleviarne la miseria.
Non scorsero che cinque o sei anni dalla morte di Spurio Cassio, e ’l tribuno Spurio Licinio agitò la quistione medesima; dopo lui fece il medesimo Tiberio Pontificio. E più tardi Caio Terentillo, tribuno anch’esso, parlò quelle famose parole che chiaramente riassumevano la rivoluzione: egli proponeva limitare l’autorità de' consoli; «la quale è meno odiosa, diceva il tribuno, della regia pel solo nome, in fatto più atroce; poiché sonosi ricevuti, in cambio di uno, due padroni, con autorità smoderata». Il senato discende a nuove concessioni: il numero de' tribuni è aumentato sino a dieci; la guerra ammorza pel momento e protrae quella lotta civile.
Sempre più in odio venivano i consoli alla plebe, al senato i tribuni; d’accordo vollero una legislazione, ciascuno da sua parte sperando di porre un freno al potere di que’ magistrati che odiavano; a ciò fare s’elessero i Dieci. Non più consoli, non più tribuni, non ricorso al popolo; il decemvirato fu onnipotente, e plebe e senato caddero sotto un crudele dispotismo. Fu questa, come scrive Machiavelli, evidentissima prova, che un’autorità concessa eziandio da' popolari suffragi diverrà tirannica, se non sia debitamente limitata. Non nasce il male dal modo di conferirla, ma dalla soverchia potenza di essa. Eppure, come sono tenaci gli uomini ne’ loro errori! dopo un tal (atto e tali riflessioni, i Francesi nell'ottantanove concessero alla loro assemblea il potere del decemvirato; si riprodusse la tirannide. Ed oggi in Italia vi sono, fra odoro che si stimano liberali, propugnatori di un tal sistema. Ma non anticipiamo su tali fatti. Il decemvirato si rese a tutti insopportabile; la morte di Virginia diedegli il crollo; si ritornò a' consoli. —
Nuove lotte, in cui la plebe acquista nuovi diritti, i patrizi perdono nuovi privilegi: la legge della promiscuità de' matrimoni fra patrizi e plebei è approvata. La voce di Caio Terentillo suona sempre nel cuore della plebe, e l’odio a' consoli cresce. Il patriziato concede: si creano i tribuni cod potestà consolare, che per poco tempo tengono il luogo dei consoli, ed il dritto d’aspirare alla questura è concesso a' plebei. —
Per sgravare i consoli della laboriosa operazione del censo;venne proposto di creare i censori: i patrizi cercavano afferrare tutte le occasioni che si presentassero per creare nuove magistrature, per essi fonte di ricchezze e di potere. I tribuni della plebe approvarono, perché non bene si reser ragione delle attribuzioni d’una tal carica. I censori, patrizi sempre, ebbero lo sterminato potere di riformare a loro’ posta gli ordini dello stato; un cavaliere o un senatore che avesse assunta la difesa della plebe veniva dal censore espulso dall’ordine.
Siamo alla disfatta d’Allia ed alla presa di Roma per le armi de Galli. Que' barbari settentrionali allo scorcio del secondo secolo di Roma, sboccarono dalle selvagge vallate delle Alpi, oppressero i popoli italiani co’ quali s’incontrarono, e si sparsero luogo le spoade dell'Eridano. Continue escursioni facevano contro gli Etruschi, e lungo le sponde dell'Adriatico. I Romani vollero arrestarne i progressi, ma soffersero una disfatta; Roma fu presa, e poi salvata dal valore di Camillo, risorse splendida come prima. La plebe ottenne l’ultima concessione, il dritto d’aspirare al consolato; e 'cosi, in. quattro secoli di lotte, la costituzione romana fu compita.
Senato e plebe avevano il dritto di proporre leggi, ma l’approvazione d’entrambi era indispensabile affinché avessero effetto; il senato o i consoli giudicavano i colpevoli, ma questi avevano il dritto di ricorrere al popolo. Fin qui eguaglianza. Dichiarava il popolo la pace e la guerra, il senato i mezzi necessari a guerreggiarla. I magistrati, eletti tutti dal popolo, al popolò rendevano conto dell’operato, da esso speravano il premio o la pena, il trionfo o l’infamia; arrogi l’immenso potere dei tribuni, che impedivano al senato di continuare una discussione, che arrestavano un console: quindi prevaleva la popolare potenza.
Se queste erano le istituzioni, e le relazioni fra plebe e senato, non meno libere ed eque furono quelle che passarono fra i Romani ed i conquistati popoli italiani. Delle città d’Italia, alcune eran dette federate, altre municipii; e Questi e quelle non avevano perduto la loro indipendenza. conservavano le. loro leggi e i costumi e venivano rette da proprii magistrati; pagavano solo un tributo di guerrieri, di armi,di navi, o di danaro. A’ vinti usavano i Romani imporre taglia di guerra stimata ad una certa estensione di territorio; ivi immediatamente sorgeva una colonia romana: in tal guisa si guardavano da essi i popoli conquistati, senza offenderne l'indipendenza. Una rete di quelle colonie copriva l’Italia, ed erano città che avevano leggi, costume e reggimento simili affatto a Roma. Lo città italiane, dette prefetture, governate da un prefetto romano, eran quelle sole della cui fede dubitavano, e furon pochissime. Dopo quattro secoli dalla fondazione di Roma, inviarono i Romani a Capua il primo pretore, perché richiesti di ciò da' Capuani medesimi. Così i Romani unificarono la penisola, rompendo le federazioni e dando l'indipendenza a' comuni; ed errano coloro che veggono, in essi i tiranni d’Italia. La tendenza dei popoli all’unità doveva compiersi e la civiltà spargersi egualmente sa tutta la penisola, né ciò, come testé dicemmo, avrebbe potuto pacificamente operarsi. I Romani erano italiani d’origine, di costumi, di leggi; con armi italiane unificarono l’Italia è la sospinsero poi alla conquista di tanto mondo. Ma con sagge istituzioni, con tante virtù, Roma alimentava nel suo seno il germe della decadenza; Roma decadde.
IV. L'Italia unita si trovò fra la civiltà orientale, e la barbarie d’Occidente; essa unificò il mondo, come i Romani avevano unificato l'Italia, i discordi Greci e le loro falangi caddero incontro all’unità ed alle legioni romane; i mercenari guerrieri di Cartagine furono vinti dal cittadino italiano; le Aquile passarono in Asia, in Africa, ed i tesori della civiltà rifluirono in Roma; le caterve de' barbari occidentali vennero debellate dal brando italiano e la civiltà, dopo aver depositato nell'eterna città quanto aveva dì più preziose, passò in Occidente con le vittoriose insegne romane. Ma le interne istituzioni, le sorti dell'Italia seguivano un corso ben diverso dal crescente splendore del nome romano. Alla fine dalla seconda guerra punica, le virtù romane tramontano; nel grande Scipione sfolgorarono dell'ultima luce. La plebe romana era misera, ed oltremodo misere erano le condizioni di tutta Italia; e pure immense ricchezze s’erano conquistate. Quale enigma! la miseria crescere in ragione diretta delle ricchezze accumulate dalla società!
I mali d’Italia erano insopportabili, per ogni dove manifestavasi quell'inquietezza foriera di grandi avvenimenti. La maschia eloquenza di Tiberio Gracco richiamava l'attenzione sulla cagione de' mali; proponeva a rimedio la legge agraria; ed aggiungeva esser cosa ingiustissima che un popolo bellicoso come l’italiano ed unito a' Romani per parentela dovesse patire la prepotenza di pochissimi ricchi. Ma quel generoso parlò invano; la stupida plebe gridò, come dice Dante, viva la mia morie; e Tiberio Gracco venne ucciso da quelli che voleva salvare. Dopo trenta anni Druso incontrò per la cagione medesima la sorte stessa. Ma se inutili furono gli sterzi di quei generosi, i mali che sempre più oppressavano l’Italia, sforzarono il popolo a levare le armi; e come è natura delle moltitudini di conoscere sempre le cose poco discoste, ingannarsi ne’ generali, non accettare che l’idee evidenti, credettero che i mali sarebbero spariti se tutti gl’italiani fossero diventati cittadini romani; fu quello il grido di assembramento, col quale s’iniziò la terribile guerra civile.
I bellicosissimi Marsi furono i primi, condotti da Pompedio SiIone, che propugnarono la lega de' popoli italiani; perciò la guerra fu detta eziandio marsica. Corfinio, sulle sponde della Pescara, fu la capitale de' confederati e la chiamarono Italica. I Picentini, i Vestini, i Peligni, i Sanniti, i Marrucini, i Lucani senza indugiare entrarono nella lega. Circa trenta generali d'esercito si disputarono, con varia fortuna, il campo, e più di 300 mila italiani perirono in quella guerra. Quel Silone testà pominato fu colui che, avvicinatosi al campo romano, gridò ad alta voce: «Se tu sei, o Mario, quel gran generale chetu ti reputi, esci a combattere». «E tu Pompedio, rispose con più dottrina guerresca Mario, se sei quel gran generale che ti credi, costringimi a combattere».
Roma fu agli estremi; ma sostenuta ancora dalla memoria di sue antiche virtù, concesse a tutti il domandato dritto: non sembrò vinta, ma generosa vincitrice: gl’italiani venner dichiarati Romani. Ma quali furono i vantaggi di quel vano dritto, per cui tanto sangue versarono? Nessuno. I magistrati più non furono sotto la immediata sorveglianza de' loro elettori, d’ogni avvenimento informatissimi e pronti a punirli; ma ognuno, carpito il suffragio, senza veruna tema abusò, vieppiù che prima, di sua autorità. E più avanti ancora l’Italia ebbe di mali: alla guerra sociale successero la servile, quella di Spartaco, la mariana; famosa questa quanto idue competitori che si disputarono l’impero.
Silla ostentavasi il campione de' patrizi, e della plebe Mario; ma entrambi combattevano per proprio conto. Silla consolo vince la fazione opposta con le armi, e caccia Mario in bando. Questi corrompe, favorito da Cinna, gli eserciti; si unisce a' Sanniti non ancora pacificali, e muove verso Roma. Silla, colle armi medesime, la corruzione, vince Mario, e signoreggia Italia da padrone.
Più tardi la stessa lotta fra i patrizi e la plebe si personifica in Pompeo ed in Cesare; il campione della plebe vinse ne’ campi di Farsaglia. Il principio d’autorità è permutato: da' patrizi è passato alla plebe, sua alleata più sincera, perché più misera, più facile a signoreggiarsi, più operosa a suo riguardo.
Bruto pugnala Cesare; uccide un uomo, ma neppure scrolla il principio; a che dunque? Bruto e Cassio furon vinti; Antonio ed Ottavio si disputano l’impero del mondo; Roma saluta Ottavio Cesare Augusto. In tal modo il principio d’autorità, ad ogni lotta che i mali da esso prodotti generavano, in luogo di scapitare, perocché mai scalzavasi dalle fondamenta, rinvigoriva; e risedé in origine ne’ patrizi, si restrinse poi in un’oligarchia, e finalmente, disputato fra pochi individui, tutte le sue usurpazioni e tutto il suo splendore si riflessero in Augusto. Arrestiamoci, e facciamoci a considerare attentamente quali furono le ragioni della grandezza e decadenza romana.
V. Dicemmo, come i formidabili nemici, che circondavano Roma al suo sorgere, costrinsero quel popolo ad esser valoroso e giusto. Guai a loro, odiati da' bellicosi popoli che gli accerchiavano, se per un istante si fossero mostrati deboli. La guerra fu per essi prima l’unico mezzo d’esistere, poi l’unico mezzo d’acquistare; ed il fato, non concedendo ad essi altro scampo al presente, altra speranza in avvenire, diede a tutte le loro istituzioni ed abitudini, l’unità e l’energia guerresca.
La teocrazia, per tali ragioni, non potette ottener quel poterà, ch'essa nella barbare società, seminando discordia tra plebe ed aristocrazia, usurpa. Gli dei de' Romani, oltre quelli comuni a tutta Italia, eran astrazioni personificate: la Salute, la Fede, la Guerra, il Riposo, il Terrore. — Non disponevano quei numi con fatale Intere degli avvenimenti terreni, ma si rendevano propizi co’ sacrifici e le virtù. Né altre virtù erano accette se non quelle utili alla guerra, alla patria. I sacerdoti scelti tra i cittadini non cassavano d( ;) esser cittadini; sommamente avendo a cuore l'evento della guerra, il volere de numi a quello del governo che reggevala sottoponevano.
Avvezzo il popolo romano, con militar disciplina ad obbedire a' suoi capi, patrizi tutti, e sotto gli auspicii e ’l comando di costoro conseguir la vittoria, non trascorrevano mai a violenza contro i padri della patria, pei quali serbavano quel rispetto che il guerriero in campo ha per un degno duce. I patrìzi, che vedevano la guerra sola sorgente d’onori e ricchezze, e quella dati a plebe di cui componevasi l’esercito sostenersi, si guardavano perciò dall( 7) aspreggiarla; perocché la sola resistenza passiva di essa, rifiutandosi alla leva, poneva la patria e con la patria tutte le loro dovizie in manifesto periglio. Quindi quell’accordo di patrizi e plebe contro i nemici esterni; quindi quelle bollenti discussioni pure di sangue: non bandi, non vittime ne risultavano, ma fama agli oratori, e provvide leggi; ed i Romani furon eccellenti e pacati ragionatori, perché fatalmente costretti ad essere eccellenti guerrieri.
Il numero e la vicinanza de' loro nemici non davano ad essi tempo d’indugiare: se ritardavano ad apparecchiarsi, il nemico coglievali sprovvisti; se prolungavano la guerra, un altro nemico poteva sorgere ed ingrossar 1!avversario; quindi le risoluzioni pronte e gagliarde, te guerre corte e grosse: accettare o dichiarar la guerra, assembrare le schiere, correre addosso al nemico, combatterlo, eran faccende di pochi giorni; disfatti, con eguale prontezza si rifacevano.
Forti abbastanza per vincere, ma non per opprimere, usarono moderazione, rispettarono leggi, e costumi de' vinti, chiamarono alleanza la loro moderata sovranità. Dopo ogni guerra, i Romani contavano un nemico di meno, ed un amico di più. Ecco adunque come dal loro feto, ovvero dalla necessità che stringevali, tutto le virtù loro originarono; virtù che più tardi, quando lo stato loro cambiò, praticarono, per la forza prepotente dell’abitudine e della tradizione. Se dalle circostanze furono predestinati ad esser grandi, cerchiamo ora, la cagione per cui decaddero.
Abbiamo discorso come per le interne istituzioni il popolo aveva potere più che il senato; ma questo vantaggio non era che apparente; i patrizi, conservarono sempre il monopolio delle magistrature; la votazione per classi e la venalità facevano ad essi abilità, perché ricchi, di guadagnare i, suffragi del popolo; e se vogliasi ammettere che su di loro, perché di maggior sapere, cadevano le scelte, rimane sempre dovuto alle ricchezze, il vantaggio, come quelle che concedevano loro mezzi ed agio di addottrinarsi. Se con le ricchezze acquistavano le magistrature, queste erano per essi fonti di nuove dovizie, perché diventavano i distributori delle cose conquistate; così i beni del patriziato oltre ogni stima crescevano, senza che s’alleviasse la miseria della plebe. Ed ecco spiegato l’enigma, come la miseria del popolo crescesse, in ragion diretta delle dovizie conquistate.
Finché i, nemici furono vicini e numerosi, non s’avverti la disparità delle fortune o almeno le sue tristissimo conseguenze; il patriziato conservossi benevolo verso il popolo. Ma, distrutta Cartagine, l’Oriente conquiso, soggette le Spagna, oppresso Giugurta,, debellati i Cimbri...» non. rimaneva a Roma nemico da,temere, «l’impero era, assai vasto per opporre gli uni agli altri i popoli soggetti. Allora cessò la necessità diesser virtuosi, e le virtù sparirono, e sorsero invece gl’innumerevoli vizi, a cui l’uomo naturalmente abbandonasi, quando cessa in lui ogni bisogno di operosità; «Da molti privati, scrive Sallustio, disfatto le montagne ed appianate, edificati i mari; le ricchezze insomma vergognosamente abusate da quelli che onestamente usarle potevano; gli stupri, i luoghi da ciò, ed ogni altra effeminata dissolutezza appassionatamente procacciati; donnescamente prostituiti anco gli uomini; sfacciatamente impudiche le donne; nell’imbandir laute mense il mar depredato e la terra; né sonno, né fame, né sete, né freddo giammai, né stanchezza aspettarsi, preoccupati tutti gli umani bisogni dal lusso». Fra questi vizi, la miserissima plebe divenne la fonte impura onde un’avida oligarchia estorceva il voto, per lanciar poi sulle provincie dell’impero, come avvoltoi sulla preda. Il sentimento del dolore scosse finalmente l'infelice popolo, e senza interruzione, come dicemmo, si successero le guerre civili; i patrizi dediti a godersi la vita nel grembo di loro opulenza quanto più potevano da' tumulti della guerra si tenevano lontani; qualche prode ambizioso facevasi a capitanare i combattenti, e le sorti del paese si disputavano fra due campioni ricchissimi, a' quali per miseria vendevasi una parte della plebe; la maggioranza del paese rimaneva fredda spettatrice della lotta, ed il vincitore assolutamente imperava. Così le sterminate fortune di pochi e la miseria di molti, sospinsero Roma all’estrema ruina; la voragine; che, in danno dell’eguaglianza, separava i ricchi da' poveri, inghiottì ogni virtù, ed esalò ogni vizio; ed in quella voragine che sempre più slargavasi s’inabissò, come vedremo, l’impero.
Quali furono adunque le istituzioni, che produssero quella disparità di fortuna, cagione di corruzione e ruina? Ecco la naturale domanda ch’emerge dall’esposto. Fu il soverchio potere del senato, o quello della plebe, o l’istituzione de' consoli? Niuna di queste cose. Le sorti de' popoli dipendono pochissimo dalle istituzioni politiche. Sono le leggi economiche-sociali, che tutto assorbono, che tutto travolgono ne’ loro vortici. Il diritto di proprietà illimitato, ovvero il diritto di possedere più del bisognevole, mentre altri manca del necessario, fu la sola cagione per cui caddero in dissoluzione i Romani, come già, per la ragione stessa, era avvenuto a' Magno-Greci. Questo fatto è innegabile.
Ne’ vari rivolgimenti, come comportossi il senato verso la plebe tumultuante? Esso ne sfuggiva con ogni stento il primo impeto, e poi dolcemente, con qualche concessione, la riduceva; perciò esclama Tito Livio parlando della plebe: «Tutt'insieme son gagliardi, e quando ciascuno poi comincia a pensare al proprio pericolo diventa vile e debole». L’istituzione de' tribuni diede alla plebe ciò che mancavagli, un capo e l’unità; le sue domande furono non più vaghe, ma recise: la legge agraria e l’abolizione de' consoli. Ma se le domande esposte da' tribuni combattevano il male alla radice. mancando la stupida plebe di un tale convincimento, secondando sino ad un dato punto i suoi capi, e lasciandosi poi abbindolare dalla scaltrezza patrizia, rimaneva contenta di pochissimo e spesso si rivolgeva contro i tribuni medesimi.
I tribuni con la legge agraria volevano tutelare l’eguaglianza materiale; i patrizi oppugnavano a tutto potere quella domanda, ed invece, spogliandosi de' loro privilegi, concedevano piena ed intera l’eguaglianza politica e morale, L’eguaglianza innanzi alla legge. Da tal fatto argomentò il Machiavelli che gli uomini si spoglino più facilmente degli onori che delle ricchezze.
I tribuni volevano limitare l’autorità de' consoli; non mai vi condiscesero i patrizi, o diedero invece a' plebi il diritto dì esser consoli; si spogliarono più volontieri del diritto di autorità, che vederlo limitato. La cagione di ciò è evidente: i tribuni in ambo le quistioni combattono il principio; i patrizi lo difendono a tutto potere, concedono tutto per serbarlo illeso; l'ignoranza della plebe assicura loro la vittoria.
Quali ne furono le conseguenze? Rimasto illimitato il dritto di proprietà, la società si divise in due classi: un’oligarchia oltre ogni stima ricchissima, una plebe oltre ogni modo misera. E rapidamente Roma sarebbe stata distrutta da tale cagione, se un emissario continuo, le colonie, non avesse prolungata la sua esistenza.
Tutti i dritti concessj al popolo nell'eleggere i magistrati a nulla valsero; la proprietà concedeva a' soli proprietari le magistrature, e queste a lor volta accrescevano la loro proprietà.
Il principio d’autorità, spuntato sempre, non mai disfatto, fece il suo corso: da una casta passò ad un’oligarchia, e poi, ristringendosi sempre più, si ridusse ad un solo. Conchiudiamo adunque:
Il principio su cui è basato un sistema sociale, trasforma e volge a suo vantaggio ogni istituzione, eziandio quelle fatte per lenire i mali che da un tal principio risultano; e tutti i rivolgimenti che, senza sbarbicare il principio, tendono a crear ripari contro di esso, non producono che danni, concedono nuove e potenti armi al nemico. I mali cresceranno in immenso, finché o gli oppressi si decidano ad abbattere quel principio, o tutta la società ne rimanga distrutta.
La cagione atta a turbare illimitatamente l’eguaglianza materiale, in una società, la menerà alla ruina; l’eguaglianza morale, senza la materiale, è un assurdo, è una menzogna.
Non è già nel modo di concedere il suffragio e nell'universalità di esso che consiste la libertà: ma bensì nell’istituzioni volte a limitare l'autorità.
Se il popolo non giunge a conoscere chiaramente ciò che deve pretendere, i rivolgimenti sono infruttuosi. l'potenti si governeranno contro il popolo sempre nel modo stesso: quando un cavallo vi scappa, lo richiamate con le carezze; ripigliato, gli fate sentire freno e sproni. Con tal mezzo sono sempre riusciti, e riusciranno, quantunque da tutti si conosca l'espediente.
Porremo termine a queste considerazioni, mostrando come alle due epoche di Roma, l’una di virtù, l'altra di vizi, esattamente corrisposero gli eserciti e gli eroi. —
Le armi di Roma virtuosa furono affatto cittadine: per tre secoli e mezzo ogni cittadino fu guerriero, a proprie spese armatasi e nutricasi durante la guerra. In due o tre giorni decretavasi la leva, componevansi le ordinanze, partivasi. Nell’anno di Roma 309, essendo console Tito Quinzio, decretasi la leva; il giorno seguente la gioventù raccogliesi in Campo Marzio, i questori distribuiscono le insegne, le coorti eleggono gli ufficiali, all’ora quarta l’esercito muove. Terminata la campagna, l’esercito veniva disciolto; i gradi cessavano, non vi erano elio cittadini; i consoli davano a' militi la posta pel trionfo, se veniva decretato; i militi correvano in piazza ad ascoltare i tribuni e, decise col brando le quistioni esterne, ragionando e col voto solvevano le interne. Della plebe e dell’esercito può dirsi con le parole di Dante: «In una faccia ov’eran due perduti». Le guerre civili erano impossibili; tutto riducevasi ad una resistenza passiva. Furon dieci legioni che si ritirarono sul monte Saero; fu l’esercito che rovesciò i Dieci. In altra occasione negarono i patrizi, come sempre, la legge agraria; il tribuno Spurio Licinio impedisce l’arrotamento. Intanto il nemico avanzavasi verso Roma; il pericolo era imminente; i padri ottengono l’arrolamento, ma quasi a forza. Parti l’esercito sotto il comando di Cesone Fabio impopolare patrizio; Falco riunisce i cavalieri, patrizi tutti, e fa di essi testa dell'esercito; seguono i fanti a breve distanza. Scontrasi il nemico; Fabio l’assale e lo sbaraglia; ordina a' fanti d’inseguirlo, o almeno procedere in ordinanza a sostegno de' cavalieri; i fanti invece, contro loro volontà arrolati, volgono le insegne e lenti, taciturni ritornano agli alloggiamenti. — Ed in altro tempo, una parte dell’esercito romano tumultua in Capua; vien licenziato dal console; una coorte d’ammutinati si fa capo de' malcontenti. Cosi ingrossati sforzano Tito Quinzio, che viveva da privato in una villa, a capitanarli. Marco Valerio Corvo dittatore esce da Roma con un esercito per fronteggiarli; si schierano gli uni incontro degli altri; i capi non osano dare il seguo della battaglia, ma lentamente s’avvicinano i due eserciti; nell’avvicinarsi cominciano a distinguere i volti, poi a riconoscere gli amici, a riconoscere i parenti; a poco a poco si mischiano, non già per combattere, ma per scambiarsi cittadineschi abbracciamenti: cosi le armi cittadine rendevano impossibili le guerre fratricide e la tirannide che le segue. —
Quelle istituzioni cominciarono ad alterarsi all’assedio di Veia nell’anno di Roma 352; allora la prima volta le milizie riceverono stipendio; il patriziato era già ricco abbastanza per pagarle, la plebe già misera da accettare il pagamento con somma gioia. Ma non così i tribuni, che andavano alla radice delle cose: «Tal dono, esclamarono, è intinto nel veleno de' nemici. Essersi venduta la libertà della plebe, essersi la gioventù allontanata in perpetuo e relegata lungi dalla città e dalla repubblica, sicché non ceda ormai nemmeno al verno o ad altro tempo dell’anno, né più rivegga le case, le cose sue. Qual si credano che sia» la cagione vera della continua milizia? quella di allontanare la gioventù in cui sta la forza della plebe...»
Ma qual differenza fra questo esercito e quello di Roma corrotta da' vizi! Quando il dritto d’illimitata proprietà, ebbe arricchiti i patrizi ed immiserita la plebe, e ritenne quelli scialacquando ne’ loro sontuosi palagi, questa alle loro porte aspettandone le larghezze, e gli uni e l’altra con ogni studio schivare i perigli del campo. Mario arrotò i bisognosi, e come dice Lucano, «fu la guerra utile a' nudi». Allora i Romani correvano alle bandiere, non già per difendere i dritti della patria, ma per secondare le ambi rioni degenerali. Non son popolo quegli eserciti; il popolo è immerso nell'ozio e nelle orgie; pochissima parte prende alla guerra mariana, niuna a quelle di Cesare e Pompeo, di Bruto e d’Antonio, d’Antonio e d'Ottavio. Quelle lotte civili, ben lungi dall'esser pure di sangue, sono invece sanguinosissime; i satelliti de' competitori ne parteggiano l’odio e l’ambizione; il popolo è schiavo di chi vince. Cosi Roma guerriera soggiogò il mondo, e Roma corrotta venne a sua volta da' suoi guerrieri soggiogata. — Finalmente, gli eroi eziandio corrispondono a' tempi: in Camillo vediamo sublimi l’amor di patria, il rispetto all’autorità, a' riti: paziente sopporta l’esilio: pronto afferra l’occasione per soccorrere la patria: né muove, se prima non gli vien concessa legalmente la dittatura. II disprezzo per le ricchezze e la dignità romana si esaltano in Cincinnato, in Fabrizio: l'uno dall’aratro passa alla dittatura, salva la patria, e torna al rustico lavoro: l’altro ricusa i ricchi doni di Pirro, e soddisfatto di sua povertà esclama: «Sarei ingiusto se accusassi la fortuna di non avermi somministrato più averi che non domanda la mia natura; la quale non mi diè il desiderio del superfluo, né m’insegnò la scaltrezza di procurarmelo».
Ma quale abisso fra quegli uomini e Crasso, prestatore ad usura, che suscitava nemici a Roma, onde combatterli e# acquistare ricchezze; che per la sete dell’oro mosse guerra a' Parti, e cagionò la ruina di un esercito romano e di se stesso? E Mario che avido sempre più di ricchezze, per condurre la guerra d’Asia suscitò in Roma la guerra civile?...
Camillo, Cincinnato, Scipione, Mario, Silla, Cesare si somigliano; natura concesse ad essi somma energia nell’oprare, somma nel resistere; possedettero grande forza d’ingegno, estremo valore. ardente desio di primeggiare. Ma di loro, i vissuti fra un popolo corrotto e servo furono despoti e corruttori per eccellenza. Con quanta evidenza le epoche, i costumi si riflettono in quelle celebrità, che ne sono l’effetto, non le cause! Virtù è il nome improprio che vien dato a principii che reggono la società e che. addensandosi negl'individui meglio costituiti, formano gli eroi; questi principii, o le virtù, sono adunque mutabili ad ogni mutazione dell’instabile vita sociale.
VI. Discorremmo come la soverchia autorità conceduta ai governanti, principio su cui fonda vasi la costituzione della romana repubblica, diè luogo agli abusi, questi ai tumulti, ai rivolgimenti; onde le istituzioni intese a limitarla. Ma come è natura d’ogni principio dominante una società, che tutti gl’istituti rivolge a suo profitto; quando ella si credeva quasi abbattuta, apparve, raccolta nelle mani di Augusto, onnipotente, e cominciò l’impero.
L’Italia, le contrade comprese fra essa ed il Danubio, le Gallie, le Spagne, l’Inghilterra, la Grecia, l( 7) Asia minore, la Siria, la Fenicia, la Palestina, l'Egitto, l'Africa sino ai deserti componevano il vastissimo Stato. .
Erano suoi limiti, cominciando dal settentrione, la muraglia de' Caledonii che tagliava la Scozia dov'è più angusta; il Reno difendeva le Gallie, il Danubio le due penisole italiana ed illirica, e separavano così l’Europa barbara dalla culla; una linea di fortificazioni difendeva, vicino a Basilea, l’intervallo che separa le sorgenti di quei due fiumi. Quindi il Mar Nero, le montagne dell’Armenia, l’alto Eufrate segnavano i confini romani fino alla Mesopotamia. La Siria era limitata dai deserti dell’Arabia, ed in ultimo il Mar Rosso, i deserti di Libia, il grande Sahara, l’Atlantico chiudevano l’immenso impero.
Quelle legioni che, partite d’Italia, sottomisero al dominio romano 200 milioni di uomini. sparsi sulla vasta superficie di sei milioni di miglia quadrate, colle loro fatiche mutarono la faccia delle terre conquistate. Magnifiche strade valicavano i fiumi, superavano i monti, ed aprivano nel vasto impero molteplici comunicazioni. Invece delle capanne di strame de' nomadi selvaggi, si edificarono sontuose città. In queste, acquedotti, ponti, bagni, anfiteatri, monumenti, che univano l’utile al magnifico, la solidità alla bellezza, torreggiavano fra le modeste dimore dei cittadini ed erano il solo segno rimasto della potenza collettiva, della sovranità del popolo, ormai spente. L’incolto terreno dell'Europa occidentale, squarciato dall'aratro, fu coperto dei fiori profumati e delle saporose frutta d’Oriente: il vino, l’olio, il lino divennero di uso comune nell'impero. Ogni anno, verso il solstizio d’estate, da Nivoshorms sul Mar Rosso una flotta di centoventi vascelli scioglieva; in quaranta giorni traversava l’Oceano, approdava alle coste del Malabar od all'isola di Seylan, ove i mercanti delle più remote parti dell’Asia l’aspettavano. Nel dicembre o nel gennaio il naviglio era di ritorno in Egitto, carico di seta (che pareggiava nel peso il valore dell’oro), di diamanti, di perle, di altre pietre preziose e di grande quantità di profumi. Numerosi cammelli trasportavano il prezioso carico al Nilo, le cui acque lo menavano ad Alessandria, onde un’altra flotta portavalo alla capitale dell’impero, a Roma. Si cercavano le pellicce nelle foreste di Scizia, l’ambra sulle sponde del Baltico, e i deserti della Libia apprestavano tutti que’ mostri, che nel circo sbranandosi sollazzavano l’ozioso popolo di Roma. I discordi linguaggi erano spariti o almeno tacevano; la lingua di Cicerone e di Virgilio era quella del governo, della guerra, del commercio e dell'industria; la greca, la lingua de' dotti.
Fra tanta diversità di culti, la più perfetta tolleranza; la teologia non amareggiava le credenze; ih devoto politeista non derideva l’egiziano; il filosofo ateo, spesso magistrato che nelle sue mani riuniva il potere civile e il religioso, vestiva da sacerdote, e saggiamente usava della religione come di mezzo per assicurare la potenza delle leggi. Tale era il grande mutamento compiuto in sette secoli dal progresso, per opera di quel pugno d’Italiani, costretti fatalmente
sulle sponde del Tevere ad esser guerrieri, giusti, magnanimi, ed a diventare cosi la causa unificatrice della civiltà dell’Oriente colla barbarie dell’Occidente.
Non fu l’imperatore nuova magistratura, ma titolo che davasi ai condottieri di esercito vittoriosi. Gli uffici di censore, di sommo pontefice, di protettore del popolo, che Augusto aggiunse a quel titolo, accrebbero smisuratamente il suo potere. Col primo ebbe la vigilanza dei costumi, e la riforma del senato: cosi egli ridusse a servitù quell'assemblea sovrana a cui avrebbe dovuto esser soggetto; e quei senatori, che agli ambasciatori di Pirro parvero tanti re, fecero esclamare a Tiberio: «Sono più servi ch'io non desidero». Col supremo pontificato ebbe in sue mani il potere religioso; finalmente, come protettore del popolo, fece tacere la voce dei tribuni. Divise Augusto l’Italia in undici regioni, le quali governavansi colle leggi delle loro città. La fece al tutto serva Adriano, dividendola in diciassette provincie, governate da magistrati, che secondo la loro autorità si dissero consolari, correttori e presidi. Così in tutto l'impero tanti milioni di sudditi, contenti di liberarsi dal peso di governare se stessi, si sottomisero al giogo di un sol uomo; spaventevole unità, che ridusse la storia di ampissime regioni ad un’arida e sanguinosa cronologia.
Conquiste, durante l’impero, nessuna o pochissime. La soggezione della Brettagna e l’imprese di Traiano nella Dacia, in Oriente furono le sole: temevano i despoti che le vittorie troppo rendessero cari ai soldati i loro luogotenenti. Quel cozzare di opinioni, quelle lotte di tanti ingegni, quelle agitazioni, vita de' popoli, spente: i ricchissimi patrizi rifuggivano da ogni cura, che minacciasse distorti dalle delizie e dalle lussurie in che erano immersi; misera, oziosa e vigliacca la plebe era avida soltanto degli spettacoli e delle larghezze dei ricchi. Quindi le crudeltà e le laidezze di molti, le virtù di pochissimi imperatori, la servilità dei loro cortigiani, lo svilimento d'un infingardo patriziato, l’adulazione e la volubilità di vilissima plebe sono i soli argomenti della turpissima istoria di si vasto impero.
Inoltre 400 mila soldati guardiani delle frontiere e 20 mila pretoriani a Roma, conscii delle proprie forze, erano i soli servi dinanzi ai quali tremava il padrone. Alla morte di Nerone, l’impero soffri il primo crollo: i soldati si contesero il diritto di creare il successore; in diciotto mesi Nerone, Galba, Ottone, Vitellio perirono di spada: fu la sola lotta che ebbe luogo fra' soldati nel corso di 200 anni, da Augusto a Commodo, ultimo degli Antonini. Ma la disciplina, che gravemente turbata da Nerone e da Domiziano, ristabilita per quanto era possibile da Traiano, erasi mantenuta, allora mancò del tutto; éd a Commodo successero soldati avventurosi: i pretoriani, le legioni delle frontiere, levando su gli scudi i loro favoriti, gli gridavano imperatori. Le antiche virtù erano cadute in dispregio; il miglior sovrano era oggimai per essi il più prodigo. I restauratori della disciplina breve regnarono; non erano gli uomini adatti ai tempi; il pugnale dei soldati presto gli spense. Spesso più ambiziosi ad un tempo si contesero il trono; la guerra civile fra le legioni decise la lite. Così per due altri secoli fino a Costantino, 4 o 500 mila soldati, prima popoli dell’impero, poi da Probo e Severo barbari raccolti intorno alle aquile romane, diedero a loro capriccio il padrone a 200 milioni di sudditi. Tanto è smisurata la potenza degli eserciti, tanto spregevole un popolo corrotto e disarmato!
Costantino fondò Costantinopoli; ivi portò la sua sede. A’ severi costumi dell’antica Roma successe la pompa delle dispotiche corti orientali: Costantino si foggiò sulle usanze degli Assiri e dei Medi. I successori di lui con vicende varie si divisero e contrastarono l’impero. Un secolo dopo (compreso il regno di Costantino), l'epoca in cui dovevano compiersi i destini del mondo romano giunse; destini fatalmente segnati da circostanze che, come potremo, verremo discorrendo.
VII. I Germani, che il Reno e il Danubio dividevano dal mondo romano, abitavano la vasta regione limitata da quei due fiumi a ponente e a meriggio, ed a settentrione e a levante dall’Oceano nordico e dal Don. A tante la persona, pelo rosso, occhi cilestri, fieri: era tale il tipo di quella razza. Ospitali, casti, guerrieri, combattevano a piedi come a cavallo; ma era pedestre la loro forza maggiore. Possedevano poco ferro: quindi armi a difesa, il solo scudo, pochissimi corazza e celata; ad offesa, un’asta, varie frecce. Assalivano cantando a voce alta e sonora che, collo scudo accostato alla bocca, studiavano rendere più cupa e terribile. Le donne presenti alle battaglie infiammavano i guerrieri, ne curavano le ferite, e sovente ne arrestavano la fuga. Loro re era il più nobile; condottiero il più prode: questi più operava coll’esempio che col consiglio; quegli strettissimo aveva il potere; deliberava le cose di momento la concione de' forti in adunanze armate, il più sovente al chiaro di luna. Quella gente numerosa si divideva in varie nazioni, l’una dall'altra, qual più, qual meno, differente. Menzioneremo quelle che in seguito invasero l’Italia.
I Longobardi abitavano le sponde dell’Elba, pochi ma valorosissimi e temuti da' vicini. Seguivano sull'Oder e sulla Vistola i Vandali e i Goti, popoli tutti usciti dalla penisola di Scandinavia chiamata perciò da Giornande vagina gentium; né combattevano con asta e con frecce come i Germani, ma con breve spada e coperti d’elmetto e di lorica; quindi più terribili, oltreché più disciplinati. Altra nazione erano gli Alani tra il Boristene e il Don, da cui discendono i Cosacchi del Don dei giorni nostri. Finalmente dalla Tartaria, da' deserti della Scizia si erano avanzati sino al Volga gli Unni, popolo deforme, nomade che, dopo travagliato l’impero cinese, comparvero in Europa. Ferocissimo, fra' barbari barbaro, combatteva a cavallo con frecce ed asta ed indossava a difesa una cotta di maglia; ingentilito di forme e di costumi lo vediamo oggi nella razza magiara. Continuarono gli Unni ad inoltrarsi in Europa: combatterono gli Alani, e s’incontrarono coi Goti che movevano in opposta direzione; questi, spaventati più dall’orrido aspetto, che vinti dalle loro armi, passarono il Danubio e chiesero asilo all’imperatore Valente. L’ottennero: loro fu concesso abitare la Mesia, oggidì Bosnia, Servia, Bulgaria. Erano queste le orde feroci che minacciavano alle frontiere dell’impero.
La civiltà e la barbarie erano in contatto: per legge di progresso intesero a compertetrarsi. Le frontiere erano argini che arrestavano lo spandersi della civiltà: e quasi possiamo dire che in que’ barbari rispetto ai Romani si ravvisano, con più profonda discrepanza e con forme più ampie, le condizioni delle antiche tribù sabelle ed osce a fronte della civiltà etrusca. Ma fra le barbare genti che circondavano l’impero non essendovi, come fra quelli antichi popoli italiani, né istituzioni civili, né militari, ed essendo troppo numerosi e diffusi su troppo ampie regioni, era impossibile che una fra le tante nazioni o un nucleo fra esse si fosser fatti conquistatori degli altri e dell'impero, ed avesse trasfuso in quelli la civiltà di questo, come fecero i Romani fra l'Oriente e l'Occidente. La guerra era fatalmente determinata con diversi caratteri; era guerra di sterminio: o il brando romano mieteva quelle orde, o l’impero era da esse sbranato. Per secoli durarono incerte le sorti; ma intanto cagioni interne non avvertite, con lento ed assiduo lavoro, preparavano l'adempimento di tali destini, ed il mondo romano imputridito da' vizi disfacevasi. Gli schiavi, ad imitazione degli orientali introdotti in Italia, crebbero a dismisura e divennero piaga dell'impero. Seneca diceva pericoloso il dar loro un segno nell'abito che gli distinguesse dai liberi: ché se si fossero conosciuti e contati avrebbero veduto quanto di gran lunga vincevan di numero i loro padroni. Plinio scrive, che privati cittadini ne possedevano tre e quattrocento; e taluni ad ostentazione fin venti mila.
I Romani sempre estendendosi, sempre spegnendo le nazionalità, sommersero in quel vasto pelago eziandio la propria. L’amor per la patria, slargandosi i confini di essa, s’intiepidì, si spense; né infatti poteva più esistere, quando era sparita ogni differenza fra patria e non patria. Inoltre la proprietà, primo errore dell'umano istinto, era la più potente. se non la sola, cagione della cancrena sociale. Ammassandosi, come è sua natura, nelle mani di pochi, quanto più crescevano le dovizie di questi, tanto più si accresceva la miseria del popolo; e. cosi la voragine che separava quelle due classi di cittadini, già ampia e profonda a tempo della guerra sociale, mostravasi ora immensa e spalancata per inghiottire l'impero. Padroni di fondi sterminati, di sontuose magioni; circondati di adulatori, di servì, di schiavi e di eunuchi, ministri di loro vizi; ammolliti dal lusso e dalle lascivie; vili e crudeli; coi deboli insolenti, striscianti coi forti; della vita pubblica, della patria non curanti; delle cose private, delle offese personali zelantissimi: tali erano i patrizi. Così la proprietà avea mutato i Cincinnati e i Fabrizii. Turba ignobile, affamata, oziosa, che il giorno passava sdraiata sotto i portici del Circo, e la notte in recondite bettole, che avida correva alla distribuzione gratuita del pane, e si mutilava, anziché ascriversi alle legioni: tale era la plebe, succeduta a quella che fu maestra di guerra e di virtù al mondo. Quel patriziato effemminato quella spregevole plebe, si raccoglievano tutti nelle città, sentine di ogni bruttura. Le campagne deserte; gli ampii poderi coltivati da infingardi schiavi; i piccoli possidenti in balia alle violenze dei ricchi o per ciò fuggiaschi o distrutti. Quei deserti correvano a turbe i banditi; erano essi i migliori in quella società, perché soli amareggiavano al ricco le usurpazioni. Alle frontiere finalmente pel difender dai barbari quel decrepito impero, di preda ricchissimo e povero di guerrieri, parte de' barbari stessi militavano sotto le aquile romane, più solleciti di parteggiare coi predatori, che di difendere la preda.
Inoltre, già scrollato il politeismo dalla filosofia, i dotti avevano dichiarato l’unità d’un Dio onnipossente e giusto, causa prima dell'universo. concetto oscuro ed indeterminato, perché tale è nell’uomo l’idea dell'infinito. I monumenti, la storia mostravano te tendenza dell’uomo all’immortalità, conseguenza della sua natura superiore a quella degli altri enti. E cosi l’unità di Dio e l’immortalità erano i due principii su cui dovevano fondarsi le nuove credenze. Il primo, dichiarando Dio giusto, e perciò immutabile, distruggeva ogni preghiera, ogni relazione fra l’uomo e quella incomprensibilità; e l'irreligione era la conseguenza che ne deduceva la ragione, te quale riduceva eziandio l’immortalità alla sola tema storica, che darà lontano. Se una rivoluzione avesse rigenerato l’impero, tali sarebbero state le sue nuove credenze. Ma te virtù animatrice era spenta; l’impero declinava, corrompevasi; e però quei due principii, già distratti dalla sottigliezza del linguaggio metafisico, dovendo serpeggiare fra i vizi di quella società, ed informarsi a seconda delta abbiette inclinazioni di quel popolo, le credenze che ne risultarono furono al tutto diverse. Popolo vigliacco e impotente, tremante di terrore dinanzi al forte, e roso nel seno dal desio della vendetta, diede le proprie passioni come attributi al suo Dio: quindi il Dio d’Israele, JEHOVAH, si assunse la vendetta del debole e del vile. Popolo che non viveva nel presente che vita di miseria, popolo a cui le virtù cittadine, l’amor di patria erano ignoti ed incomprensibili, all’immortalità storica sostituì l’immortalità Materiate degli spiriti, e volse uno sguardo di speranza ad una vita futura che prometteva godimenti agli oppressi e tormenti agli oppressori.
Quelle credenze erano l'occulta aspirazione di abbietta plebe. Gli uomini che l’applicarono, che misero in atto i pensieri, furono gli apostoli, detti seguaci di Cristo. Il plauso de' correligionarii, la speranza di una vita futura beata sospingevano all’azione quei primi cristiani, che predicavano come virtù volute da Dio quelle a cui essi medesimi e gli ascoltanti si sentivano atti, virtù che sole erano praticabili in quel tempo: umiltà, povertà di spirito, disprezzo delle cose terrene, costanza nel soffrire. Quella negazione di ogni virtù diè origine all’ardore di ottenere il martirio; fastidio grandissimo pe’ romani proconsoli, che condannavano quelli sciagurati con riluttanza e disprezzo. «Disgraziati!» esclamava il proconsole Antonino ai Cristiani d’Asia: «se così stanchi siete della vita, tanto difficile vi è per finirla trovar rupi e precipizi?» Ma né il martirio, né il fanatismo, né l'operosità de' primi cristiani potevano far trionfare quelle dottrine, per cui i padri della chiesa si laceravano in continue discordie, ed i solitari della Tebaide disputavano a colpi di bastoni e di pietre. Il Cristianesimo trionfò perché seppe cattivarsi il favore dei potenti e con quello la forza materiale. I prelati astutissimi, umili a' piedi de' principi esponevano i doveri che imponeva la loro religione: Obbedienza passiva dei popoli; solo Dio punitore de' tiranni; i sudditi vincolati ai despoti da giuramento indissolubile; ottenuto il trono anche colla violenza e col delitto, diventava l'usurpatore di fatto vicario della divinità; le dissolutezze e gli assassinii rimessi con un solo atto di penitenza, ed una eterna beatitudine guadagnata con quello. Dottrine tutte oltre ogni dire lusinghiere pe’ re che, arrogandosi il diritto d’imporre credenze ed opinioni, usavano tutti i mezzi per spargere ne’ loro popoli quelle credenze, ch'eran per loro di utile grande. Così avvennero la conversione di Costantino, poi quella di Teodomiro re de' Suevi, e quelle di Eduino l'e di Clodoveo. Vero è che i due ultimi, più che dalle dottrine, furono dalle avvenenti forme di Edelburga l’uno, di Clotilde l’altro, sedotti. Né meno famosa fu la conversione del normanno Rollone, terribile guerriero, flagello de' cristiani, che riconobbe sante quelle dottrine, appena gli fu donato il possesso di un’ampia provincia di Francia e la figlia del re data in isposa. E quando i vescovi, tutti intesi a portare fra gli alteri barbari i servili costumi orientali, vollero che prostrato baciasse il piede al re: «Giammai piegherò il ginocchio dinanzi ad un mortale», rispose quel fiero; ed afferrato il pede dell'imbelle monarca, rovesciollo al suolo, fra le risa de' barbari guerrieri. Così protetto da barbare spade ed accresciuto coi doni di corrotti monarchi, il Cristianesimo si sparse e divenne potente in tutto il mondo romano e barbaro.
Necessario era stato, alla nuova religione un simbolo che personificasse l'idea di Dio: questo non poteva essere un eroe, ché a quelle virtù convengasi un rappresentante umile e piangoloso. Una leggenda indiana del sole, o quella del dio Sakya-Muni, adorato sotto il nome di Cristo, venne attribuita al fondatore della nuova religione; le leggende dei santi e dei martiri composero la moltiforme ed ingloriosa mitologia, che si oppose alla magnifica mitologia pagana, e finalmente le ceremonie del giudaismo e dell'idolatria compirono il culto, nel quale tutto apertamente si scorge lo scadimento del romano impero.
Cosi i barbari ai confini, ed i vizi corruttori nelle viscere dell’impero ne segnavano fatalmente l’evento futuro. Il destino si compiè; i barbari si contesero le reliquie dell’impero resoloto; ed a lor volta infetti delle credenze che esalavano dalla corrotta società, soffersero un mutamento. Al mondo romano successe il mondo cristiano.
VIII. Siamo in sul ragionare dei tempi della barbarie, del rimescolamento di quella colla decrepita civiltà. Non virtù, non alte imprese, neppur grandi misfatti ci offre la storia del popolo italiano. Per sci secoli, dal 400 al 1000, esso non ha anzi neppure storia: l’Italia è la preda che si contrastano condottieri barbari, femmine dissolute, uomini vilmente ambiziosi. Il popolo abietto divenuto cristiano, non fa che piangere, pregare, prostrarsi dinanzi ai vincitori: sono suoi duci, in quel cammino di obbrobrio e di svilimento, i vescovi. Rapidamente, per sommi capi, discorreremo di quei tristissimi tempi, per non giungere d'un balzo al risorgimento, rompendo cosi la continuità del lavoro.
Ricordiamo solo come Alarico re de' Visigoti irruppe dal Friuli in Italia, combatté con Stilicone, condottiero non d’Italiani, ma di barbari che seguivano le aquile romane a difesa dell'impero; Alarico fu vinto, cacciato d’Italia. Indi a tre anni, sotto Fiesole, Stilicone sconfisse Radagaiso, capo de' Germani; Onorio, allora imperatore, trionfò in Roma per le vittorie di Stilicone, e questi, suo suocero, suo difensore, fu morto fra tormenti per ordine del despota geloso. Dopo circa dieci anni, tornò Alarico ed il vile Onorio si chiuse in Ravenna; Alarico corse su Roma. La regina del mondo si riscattò dal barbaro con denaro, ma invano: Alarico crucciato per la mala fede d’Onorio ritornovvi, e la mise a sacco. «Non vi fu un palazzo, non una casa privata, ove non restasse l’impronta terribile della rapacità. e del furore di quei barbari; ben facile essendo immaginare gli orrori da loro commessi e gli eccessi ai quali si diedero favoriti com'erano dalle tenebre. Gli oltraggi fatti al pudore passarono ogni misura; i più' ricchi e sontuosi mobili, le più squisite produzioni della natura e dell’arte, tutto l’oro, tutto ciò che potuto erasi accumulare di più raro e prezioso, per tanti secoli, colle spoglie dell’universo, in una sola notte, quella cioè del 31 marzo 410, preda divenne di stranieri soldati… Non fuvvi mausoleo, né piramide, né circo, né colonna, né anfiteatro, né terma che non portasse la traccia della tempesta distruggitrice che sovr’essa era piombata». Cosi il Botta descrive la terribile catastrofe. Il popolo italiano, i discendenti de' Romani, de' Sanniti, de' Volsci miravano indifferenti ed aprivano il passo all'esercito goto che, carico di bottino, osteggiava l’Italia; e sant'Agostino scrisse un opuscolo, ragionando se le vergini violate in Roma, senza aver dato consenso alla libidine de' barbari, avessero o non avessero conservato la corona virginale. Quale avvilimento!...
Alarico mori a Cosenza; fu suo successore Ataulfo. Onorio comprò da lui un ignominiosa pace coll'oro, col nominarlo sommo duce delle armi romane, e col dargli in moglie Placidia sua sorella per bellezze famosa; Ataulfo passò nelle Gallie. Durante il disastroso regno d’Onorio, il più vile ed imbecille fra gl'imperatori, crearono i prelati il diritto divino per le dinastie: mirabile coincidenza, che svela l'origine di tal diritto, e lo spirito, e le costumanze dei cristiani che l’applicarono al peggiore de' sovrani, invocando, per dichiararlo il migliore degli uomini, l’autorità d’un supposto dio.
Il ferace suolo italiano era stato mutato in deliziosi giardini dagli opulenti romani, che traevano le cose necessarie alla vita dalle loro lontane possessioni. La precipitosa corruzione de' costumi, i flagelli della guerra civile, il cristianesimo che accresceva di continuo l’ozio, sotto colore di abbandono delle cose terrene, ridussero ad inculte campagne quelle delizie, delle quali appena rimase vestigio. Perciò l’oro accumulato in Italia, cercato da' prelati, per bene della comunità, secondo dicevano, era il solo mezzo rimasto ad un popolo privo
d'industria e d’agricoltura per procurarsi le cose di prima necessità. Alarico col rapire l’oro affamò l’Italia. La lame la spopolò; essa toccò l’estremo di sue miserie. Rotto ogni legame sociale, erasi alla barbarie fatto ritorno; le fibre degli Italiani, da tante miserie e dolori percosse, eransi fatte flaccide e delicate: erano divenuti vili, diffidenti, infingardi.
All'invasione di Alarico seguirono quelle d’Attila al settentrione, di Genserico re de' Vandali al mezzogiorno. Questi tre consecutivi flagelli furono chiamati sull’Italia da tre donne; od almeno esse molto contribuirono alla loro venuta. E furono Serena moglie di Stilicone, Onoria figlia di Placidia, ed Eudossia vedova di Valentiniano. Erano queste l’Ersilie; le Lucrezie, le Clelie degne de' tempi. Fra quegl’invasori primeggiò per barbarie il re degli Unni, Attila: il suo intento non era conquistar regni, ma distruggerli. Esterrefatti gli abitatori delle sponde dell’Isonzo, del Tagliamento, della Piave, della Brenta si rifuggirono nelle vicine isole al fondo dell'Adriatico. Ivi, fra i flutti di un mare in corruccio ed una terra devastata da sciami di barbari, fondarono Venezia, fra le moderne città d’Italia la più antica.
IX. Erano scorsi circa venti annida ciò, quando l’Italia sosteneva il dominio di Odoacre re degli Eruli, popolo tra gli stessi barbari oscuro. Egli, cacciato dal trono Romolo Augustolo, divise il terzo delle terre fra' suoi soldati e, col modesto nome di patrizio, tenne l’impero. Costui nel 493 fu vinto e cacciato da Teodorico re degli Ostrogoti, che aggiungendo all’Italia le provincie comprese fra l’Alpi e il Danubio, fondò la monarchia gotica. Teodorico fu gran re ed alleviò moltissimo i mali della misera Italia; ma non furono tali i suoi successori: gl'intrighi di palazzo, la perfidia del vile Teodato, ed una cortigiana moglie dell’imperatore Giustiniano suscitarono la guerra fra l’impero d’Oriente ed i Goti. Prima Belisario, poi Narsete eunuco, vennero alla conquista d’Italia; furono battuti i Goti e quasi distrutti, e battuti e cacciati d’Italia i Franchi, venuti in loro soccorso. Contro questi fu combattuta la battaglia di Casilino nel Sannio, vinta da Narsete. Pose l’abile generale le migliori soldatesche alle ali; il centro dovevano occupar gli Eruli, i quali non essendo giunti in tempo sul campo di battaglia, tennero il loro luogo i fanti leggieri. Ordinati i Franchi a modo di cono, investirono la schiera nemica nel centro e facilmente la ruppero; e già si spandevano dietro le ali, allorché giunti gli Eruli arrestarono il loro progresso e, le due ali nel tempo stesso assalendoli di fronte, gli sconfissero. Quella battaglia che il Liskenne e il Sauvan citano come imitazione e conferma della abilità adoperata da Annibale a Canne, non fa al contrario che mostrare il vizio di quell'ordinamento. Annibale non erasi riservato un corpo per la riscossa come Narsete gli Eruli, che assalisse il nemico, vietandoli prendere alle spalle le ali dell'esercito. Senza gli Eruli, Narsete sarebbesi governato come Annibale; ma senza gli Eruli, Narsete era disfatto. Durò diciotto anni la guerra, che furono diciotto anni di calamità per la misera Italia. La monarchia gotica fu distrutta: era durata mezzo secolo.
Sotto il governo degli Esarchi, le sorti del paese molto peggiorarono. Fu Narsete il primo esarca, a cui per gli artificii dell’imperatrice Sofia venne sostituito Longino. Ma, nuovo flagello, i Longobardi, condotti d’Alboino loro re, scesero dall'Alpi Giulie.
X. Le popolazioni fuggivano dinanzi a loro: que’ del Veneto si rifuggirono a Venezia; Ravenna apri le porte a' fuggiaschi delle due rive del Po; Genova, a' Liguri; i Romagnoli si rifugiarono a Pisa, a Roma, a Gaeta, a Napoli, ad Amalfi.
I Longobardi occuparono tutta la vallata del Po, detta perciò Lombardia; al Veneto dettero il nome di ducato del Friuli; al centro era il ducato di Spoleto; al mezzogiorno quello di Benevento comprendeva l'antico Sannio. A Ravenna rimase l’esarca; molte città dell'Italia cistiberina rimasero indipendenti, Napoli, Amalfi, Gaeta, Otranto. A queste mandava l'imperatore un magistrato a governarle col titolo di duca; gradatamente questa dipendenza scemò, ed i duchi vennero eletti dal peplo e confermati dall’imperatore. I ducati de, Friuli, di Spoleto e di Benevento erano i principali Stati in cui dividevasi il dominio longobardo: oltre questi ve n’erano altri trenta minori. Erano i duchi capi militari, e costituivano l’aristocrazia, dal cui seno, per elezione, usciva il re; forma di governo comune alle barbare società. Durò due secoli il loro regno; fu chiaro per la prosperità che godettero i popoli, per provvide leggi.
Ma i mali della misera Italia non potevano ancora toccare il loro termine. Dalla corruzione del disfatto mondo romano, sorse, come discorremmo. la separazione tra la religione e lo Stato, sorse cioè una religione ch'ebbe esistenza propria ed indipendente dalla vita sociale e politica delle nazioni, anzi sempre (perché negativa ed ipocritamente sprezzante delle cose terrene, opposta al bene di quelle. Il capo di questa religione era in Roma; pendeva da' suoi cenni il popolo italiano, che degnamente chiamavasi gregge, ed era infatti vilissimo gregge. Esso, indifferente alle condizioni politiche della patria, correva alle armi per difesa delle immagini. Le miserie dell’Italia denno durare e dureranno lontano finché non siasi schiacciato l’angue che nutre in seno. Il capo della religione promovendo udii, eccitando discordie fra i Longobardi e l’impero d’Oriente, accresceva la sua potenza. Ma rotta ogni amichevole relazione coll’impero d’Oriente, dal momento che Leone Isaurico per purgare il cristianesimo, ordinò si atterrassero le immagini; rimase il pontefice in balia degli intendimenti poco amichevoli dei re Longobardi, che erano volti a riunire l’Italia sotto il loro scettro. Egli allora ricorse ai Franchi, fra i cattolici i più fanatici.
E favori le ambizioni di Pipino, maestro di palazzo,in nome di Dio; e, detronizzato il legittimo re Childerico, innalzò lui io luogo di quello. Pipino fatto re scese in Italia, ricacciò i Longobardi nei loro antichi confini, e fece dono al pontefice di tutte quelle provincie che ora formano lo Stato papale, meno il ducato di Spoleto; cosi cominciò il potere temporale de' papi. Pochi anni dopo, nuove contese fra i papi ed i Longobardi richiamarono in. Italia i Franchi. CARLO loro re la conquistò finalmente.
Re CARLO, dal fato sospinto, con facili vittorie riunì sotto il suo scettro la divisa Germania; ma imperatore di fatto, tenne troppo ardimento assumerne il titolo. Un tempo il popolo romano, poi i terribili pretoriani conferivano si alto maestrato; ma popolo romano e pretoriani più non esistevano; il gran popolo erasi trasformato nella vii gregge cristiana, rappresentata dal suo pastora, il papa: a questo CARLO chiese il desiderato titolo. Non già sul campo, non già sugli scudi, e tra il fragor della battaglia; ma sotto le volte del Vaticano, tra il fumo degl'incensi, da barbare voci Cario venne acclamato imperatore, fecesi ungere a modo de' re di Giudea, vesti la clamide, e cinse la corona.
Carlo Magno appare nella storia come un colosso che abbia riunito le digregate parti dell'Europa, dall'Ebro alla Vistola, e dall'Oceano al Tebro. La fortuna e la sua rapacità crudele contro la moglie ed i figli del fratello lo condussero al trono de' Franchi. Tra le barbare genti, erano questi i più potenti: gli altri, deboli ed in continua lotta fra loro, cercavano un difensore: lo videro nel re de' Franchi, che si costituì arbitro di loro contese; e cosi, fra tante forze minori che si distruggevano a vicenda, egli, forza prepotente, prevalse. Niuna gloria, come guerriero: la necessità trascinava le nazioni sotto il suo scettro, non il suo valore. Non fu suo che il primo passo per cui giunse al trono de' Franchi, un misfatto; e in ciò seguì il destino dei tempi. Ma divenuto imperatore, volle lottare col fato; pallido imitatore della civiltà romana volle introdurla nelle leggi; la grande forza del suo ingegno fece inutili prove. CARLO Magno rappresentava la barbarie del medio evo, vestita alla romana. Dante celebra CARLO Magno, scambiando l’ombra per la realtà: il gran poeta vedeva da lui restaurata l’unità romana, ed evocando quel passato, sperava la grandezza della patria.
Carlo Magno pose ogni studio a ristabilire il passato, che il fato della società, superiore agli uomini, a' principi, a' popoli stessi, non consente si rinnovelli. Quindi nessuna delle sue opere potette durare; ed al suo regno, le sole istituzioni che, conformi allo spirito dei tempi, venivano dal fato stesso segnate, sopravvissero. Pochi gentiluomini, perduti fra milioni di schiavi e di miseri, rappresentavano l’impero, formando la concione sovrana propria de' popoli barbari. Secondo l’uso oltramontano, le temporanee magistrature de' Longobardi si cangiarono in feudi; il duca, il conte, il marchese, da governatori di popoli e di terre, ne divennero sovrani e proprietari; e sovranità e proprietà si perpetuaron nelle loro famiglie. Cosi CARLO, per unificare i popoli tutti del vasto impero, le leggi de' Franchi a tutte le altre sostituì; e ne segui l’effetto contrario, che era la inclinazione dei tempi: il vasto impero venne sminuzzato nel feudalismo. Non un patto universale e comune raccolse i popoli alla maggior bandiera; ma patti particolari, infranti ogni qual volta un marchese o un duca sperava maggior profitto dall’avversare, che dal secondare la causa dell’impero. I Longobardi erano assai meno barbari che i Franchi; questi prevalendo, unificarono le istituzioni in una vasta regione d’Europa; ma l'Italia, per mettersi cogli altri a livello, indietreggiò.
L’ombra di CARLO Magno giganteggia nella storia di Francia, di Lamagna e d'Italia, e negli annali ecclesiastici. I Francesi tengono il suo impero come gloria nazionale; vana ambizione: non possono di quella gloria additare un monumento, narrare una battaglia. Agli Alemanni ricorda l'unificazione della Germania; agl'Italiani il feudalismo e le sue miserie, ed il potere temporale dei papi; agli ecclesiastici i pingui patrimonii coi quali il monarca comprò la plenaria assoluzione de' suoi peccati. CARLO Magno non contento di nove donne, fra mogli e concubine, che possedeva, non si asteneva dagli amorazzi; popolò di bastardi i monasteri, corse fama si godesse le proprie figlie, di cui tollerava le lascivie; e pure la chiesa venera CARLO Magno come santo. Il suo impero, opera fugacissima di un uomo, sorse, declinò, sparì con lui; i successori si divisero le vaste possessioni; e l'Italia per mezzo secolo si dibatté legata a quel cadavere, poi se ne staccò.
Questa è la storia della barbarie che ricorse il mondo romano, adagiatosi nel feudalismo. Ora comincia quella delle nazioni, delle quali ciascuna, ricostituendosi da sè, segue il proprio destino. Ma prima di ristringerci fra le Alpi e il mare, gettiamo uno sguardo su quel mondo cristiano succeduto al mondo romano. Le virtù romane non solo non erano praticate né praticabili, ma neppur rammentate. Livio, Tacito, Sallustio. Cicerone giacevano polverosi negli scaffali de' monasteri, ignoti a' monaci che per caso ne furono depositari. De’ Romani s’imitavano i vizi che gli disonoravano, mescolata con quelli la ferocia de' barbari: quelli e questa erano i caratteri dei tempi. Fra tal società depravata e corrotta, serpeggiava il cristianesimo approvando e santificando corruttele e misfatti. Già la Chiesa di Roma difendeva colla violenza l’impero che essa aveva acquistato colla frode, ed il numero de' dissenzienti fatti morire in una sola provincia e durante un sol regno sorpassava di molto (scrive il dotto ed imparziale Grazio) il numero de' martiri che fecero perire i Romani nel corso di tre secoli ed in tutto l’ampissimo impero. Clodoveo, primo re de' Franchi, con inganno chiamò a sé varii re e solo per sete di dominio, gli scannò di propria mano; nondimeno parlando di lui, scrive Gregorio di Tours: a Cosi Dio faceva cadere ogni giorno qualche suo nemico per le mani di lui, ed ampliava i confini del suo regno, perché egli camminava con cuore retto innanzi al Signore, e faceva quanto era accettevole agli occhi di lui». Sant'Avito arcivescovo di Vienna scriveva a Gundebaldo re de' Borgognoni che per sete di regno fu tre volte fratricida: «Non piangere più con ineffabile pietà pei funerali dei tuoi fratelli estinti; giacché era fortuna di regno diminuire le persone reali e serbare al mondo solo quelle che bastassero all'impero». Né qui finivano i mali che dalla religione risultarono: i prelati fecero ogni studio e riuscirono ad introdurre in quella tenebrosa e turbolenta società le servili costumanze orientali, ignote a' barbari, ignote a' Romani. È questa la civiltà cattolica di cui gl'italiani dottrinanti, che trascurano i più bei fiori della gloria patria, menano si gran vanto; e cosi colgon le spine, lasciando volentieri appassire le rose.
Cosi il mondo cristiano, rimescolamento di corruttele orientali e di barbarie occidentale, di antiche tradizioni e di società nascenti, degli abbietti e vili costumi cristiani e degli alteri modi de' barbari, ebbe de' romani i vizi, de' barbari la ferocia, de' cristiani l’ipocrisia. Fu un mondo contraddittorio quanto gli elementi che componevano lo strano miscuglio, quanto la religione che davagli il nome: fu una società che, dicendosi cristiana, visse in aperta opposizione co’ principii del cristianesimo. Gl'insulti, gli strazii si soffrono da Cristo {dice la leggenda) con rassegnazione ed umiltà neppur colla alterezza del selvaggio che disprezza i suoi carnefici. Cristo slegato, messogli un brando in pugno, l’avrebbe gittata lungi da sé, ed offerto il collo al nemico senza pure il più lieve rimprovero. Amore, rassegnazione, la vita futura sola speranza sono i principii dei Cristianesimo; quando G. Cristo domandò a S. Giovanni dalla croce che cosa volesse: «soffrire ed esser disprezzato per te», rispose quegli.
Ma ove sono {servendoci del vocabolo usato, ma non adatto) tali virtù nel mondo cristiano? Forse in que’ prelati che professavano la povertà fra le ricchezze, la castità fra le concubine, la umiltà sul trono, ed esercitavano col rogo la mansuetudine? Forse in que’ catafratti, tutti lucenti di ferro, che, arrestata la lancia, urlavano e calpestavano il nemico, ed ancor morendo minacciavano, e di cui era dio la vendetta? Forse negli arditi cittadini di quelle repubbliche, i quali solcavano l'Oceano per ammassare ricchezze? Forse negli scienziati che scrutavano i segreti della natura, e cercavano le ragioni e le cagioni delle cose? Forse negli artisti che abbellivano dei loro capolavori questa valle di lacrime?
Ma pongasi fine all’interminabile serie delle contraddizioni: guerra, commercio, scienze, arti non sono cose da cristiani. Il cristianesimo potè sorgere fra un popolo d’indolenti schiavi; rigenerandosi la società, esso divenne un’astrazione impraticabile. Col politeismo, o religione dello Stato, la religione vera cadde per sempre; il mondo fu irreligioso di fatto. La religione porta con sé la pratica delle virtù ch'essa impone; la prima virtù del cristiano deve esser quella di non concedere neppure un pensiero alle cose terrene: ove sono dunque i cristiani? Havvi un culto che dicesi tale, havvi la superstizione; ma la religione non esiste. II mondo, per diventare irreligioso, non ha mestieri di mutare i principii ed i moventi della presente società: può continuare ad esser qual'è; deve soltanto cessare l’ipocrisia.
Nullameno fra tante contraddizioni, la civiltà seguiva la sua legge fatale di spandersi continuamente; l’aratro squarciò il terreno sino all’Oder; alla vita nomade, nelle selvagge regioni, successe la stabile; ove non erano che tuguri, sorsero città; ed i popoli tendevano a costituirsi secondo le loro nazioni. Finalmente al rimescolamento de' barbari col mondo romano devesi I abolizione della schiavitù: ogni guerriero del settentrione, scrive il Sismondi, venne ad alloggiarsi presso un possidente romano; lo disse suo ospite, ma l’obbligò a dividere seco terre e raccolto; il proprietario fu costretto a lavorare, e si videro al confronto il lavoro dello schiavo e quello dell'uomo libero. I vantaggi furono evidenti: il castaldo costava meno e produceva più dello schiavo. Perciò i barbari cominciarono ad affrancare i mancipii e, senza che la legge vi prendesse alcuna parte, senza che il vergognoso commercio degli uomini fosse proibito, cessò la schiavitù. I papi tentarono richiamarla in vigore, ordinando si vendessero que’ cittadini che non obbedivano alla pontificale autorità; Bonifacio VIII decretò tal pena pe’ vassalli de' Colonna, Sisto IV pe’ Fiorentini, Giulio II pe’ Bolognesi e pe’ Veneziani. Ma a loro dispetto, l'utile personale affrancavali.
In quel mondo feudale di che discorriamo, sono due cagioni che ne costituiscono il destino: lotta fra democrazia ed aristocrazia, contesa degli aristocratici fra loro. Oltremonte l’aristocrazia prevalse, e le contese la spinsero continuamente ad ingrandire gli Stati e a diminuire il numero de' feudatarii, che vennero cosi assorbiti a poco a poco dalla monarchia. In Italia prevalse la democrazia, ed il corso delle vicende, come ci faremo a dire, fu assai diverso.
Staccatasi l’Italia dall’impero d’Occidente, i marchesi di Toscana, i duchi di Spoleto e del Friuli, i marchesi d’Ivrea, feudatari, geloso ciascuno della prevalenza dell'altro, ne divennero gli arbitri. Non erano uniti da un bisogno comune; ognuno di essi, per tener gli altri in freno, voleva un re; tutti erano d’accordo nel temerlo e nel suscitargli competitori, per diminuirne la possanza. Berengario portò per sedici anni la corona d’Italia, fu eziandio coronato imperatore e respinse un’invasione degli Ungari; ma le sue virtù aguzzarono il pugnale de' feudatari e fu assassinato. Continuavano le lotte: i feudatari per esser più liberi preferivano un re straniero ad un italiano; il popolo acclamava chiunque promettevagli protezione contro i molti ed insaziabili padroni. A quella universale inclinazione s’aggiunse l’odio che Adelaide, il papa Giovanni XII, e Valperto arcivescovo di Milano portavano all’ultimo Berengario. Costoro fecero dare la corona ad Ottone I, re di Germania. Cosi la corona d’Italia s’unì a quella di Lamagna; «unione (esclama il Sismondi) fuor di natura, che per nove secoli fu copiosa sorgente di guerre e di calamità; che sottoponeva i popoli più civili a' più barbari, i maestri d( :) ogni arte e d’ogni scienza a' loro men provetti discepoli; che tanto più riusciva oltraggiosa, quanto maggiore era il contrasto dei costumi e delle opinioni. L’avarizia, la durezza, I impassibilità di quegli stranieri tornavano più acerbe ad un popolo tanto vivace ed arguto come l'italiano; e gli stessi accenti d'una lingua tanto roca e barbara adoperata a comandare, parean fatti apposta ad offendere l’orecchio musicale del popolo condannato ad obbedire.
«Fu notato che la guerra lascia rancore assai meno profondo nel cuore dei popoli vinti, che non le offese recate all'ombra della pace. La necessità è la prima legge che abbiamo appreso a rispettare; e la vittoria, la conquista, grandi effetti della forza umana, ci fanno riconoscere l'impero della necessità. Neppur quella consolazione ebbero gli Italiani del loro assoggettamento agli Alemanni, attesoché riconobbero Ottone per sovrano, trascinati dall’imprudenza de: capi, e dalla riconoscenza delle popolazioni; non combatterono, non furono vinti; e tutt ad un tratto s’accorsero che la loro patria era divenuta un’appendice della corona germanica, senza che quelli che diceansi loro padroni avessero un titolo al mondo per giustificare l'usurpazione, neppure quello della conquista».
Vediamo ora, dopo tali vicende, qual fosse l’Italia al cominciare del secolo XI.
XIV. Il marchese di Susa governava il Piemonte, l'arcivescovo di Milano quasi tutta la Lombardia, i duchi di Carintia il veneto, i marchesi Ranieri e Bonifazio la Toscana. L’odierno Stato pontificio era soggetto al papa, meno i ducati di Camerino e di Spoleto indipendenti. L’attuale regno di Napoli dividevasi nei ducati di Benevento, Capua, Salerno; ubbidivano all’imperatore d’oriente le Puglie e le Calabrie. Tutte le città d’Italia governavano dispoticamente i vescovi. Venezia era libera e indipendente; e tali, non di nome, ma in fatto erano Genova, Pisa, Gaeta, Napoli, Amalfi; delle quali i cittadini, ristretti fra angusti territorii, s’erano lanciati sui flutti e grandeggiavano. Tutte le terre erano divise fra i baroni; i villici erano servi della gleba; i cittadini soggetti. Al di sopra del popolo e de' feudatari!, ondeggiava l’incerto potere dell'imperatore e del papa, ovvero aristocrazia e teocrazia. Quei principii sono in continua lotta, sempre che hanno forza e vita sepa rata in una società; il loro
connubio è l’indizio certo di loro debolezza. Tale era l’Italia sotto l’impero di Corrado il salico, primo della casa ghibellina.
Ecclesiastici e feudatari dediti a far propria la roba d’altri. erano in lotta continua, personificata nel papa e nell'imperatore. Essa ribolli ardentissima e si fece immensa ai tempi d’Arrigo IV e di Gregorio VII, entrambi d’indole impetuosa ed assoluta. L imperatore depose il papa; il papa scomunico l’imperatore: si fecero guerra ostinatissima, nella quale l'Italia si parti fra Guelfi e Ghibellini (1056). Naturalmente i nobili furono per l'imperatore e però Ghibellini: gli ecclesiastici si dissero Guelfi, e privi per se stessi di forza materiale, si volsero al popolo dormente di’ essi reggevano, e Io scossero dal letargo. Indi l’errore di credere il papa rappresentasse il partito nazionale, mentre egli non fu né può essere altro che il rappresentante di una casta separata dalla società ed a quella nemica; che un sovrano senza patria, il quale, senza distinzione alcuna, invocava gl'Italiani contro l'imperatore, gli stranieri contro gl'Italiani, i cristiani contro i saraceni, i saraceni contro i cristiani, intendendo solo ad ingrandire il dominio della Chiesa. Di Arrigo IV e Gregorio VII danno gli storici giudizi assai discordi. Ma egli è certo che l’indole di Arrigo non fu né nobile né grande; soggiacque a tutto per conseguire il suo intento; s’umiliò dinanzi al papa, si comunicò, ne ricevè l’assoluzione: poi, rifatte le forze, cominciò nuovamente ad osteggiarlo. Tutti dicono Gregorio un gran carattere e fu; ma non già tale da pareggiarlo, come fa il Balbo, a Cammillo, a Cesare, a CARLO Magno; ebbe forse dalla natura forza d’ingegno e di volontà pari a quelli eroi, ma l'adoperò come papa e fu perciò uno de' nemici più accaniti del risorgimento mondiale ed italiano. Fu idea sua il celibato dei preti, per stringere vie maggiormente i vincoli della casta e vie più staccarla dalla società; ed egli fu pure che privò il popolo del diritto d’eleggere i propri pastori. Fu cosi autore di quanto ha più assurdo e dannoso il cristianesimo rche pur tanti mali reca all’umanità.
XV. Il papa chiamando a sua difesa le armi popolesche, aveva svegliato il leone dormente; ed il popolo a cuij preti non predicavano che doveri, si accorse di non aver che diritti. Fra quelle interminabili lotte intestine, senza concetto fisso che gli servisse di faro, ma da' mali che l’opprimevano con perenne vicenda sospinto, acquistò continuamente terreno; e mentre nobili ed ecclesiastici, combattendo fra loro, distruggevano se stessi, il popolo, sotto la sferza della necessità, sorgente d’ogni bene, imparava ad esser forte. I vescovi non furono più i sovrani assoluti delle città; i cittadini elessero i magistrati; alla teocrazia successe il governo dei migliori, e cosi cessò la barbarie e cominciò la civiltà. Venezia già grande padroneggiava il commercio in Oriente'; Genova e Pisa avevano scacciati i sovrani dall’isola di Corsica; né da meno di loro era la ricchissima Amalfi. Delle città interne Milano fu la prima che si resse a popolo, seguirono le altre; tre, sei o dodici consoli, un consiglio minore o credenza, poi l’assemblea di tutti i cittadini, fu la forma di reggimento comunemente adottata.
Ma l’inondazione de' barbari aveva isolato i comuni, e perciò questi risorgevano ciascuno da sé e senza relazioni vicendevoli. Lo istinto non gl'istigava che al proprio ingrandimento e questo naturalmente volevasi ad ogni costo. Ogni comune cercava di estollersi sulle rovine de vicini: quindi le sanguinose e fratricide, guerre, che lungo sarebbe rammentare soltanto. Diremo brevissimamente della più famosa, contro lo straniero, come di una delle tante glorie italiane.
Al tempo di Godeberto e Bertarito, re longobardi, ebbe principio la funesta rivalità tra Pavia e Milano, cagione ad entrambe di grandi dolori. Alla metà del sii secolo, esse dichiararono arbitro di loro contese Federico I, detto Barbarossa. Finse egli abbracciare la causa della capitale longobarda, sperando unito con questa abbattere Milano più potente, e quindi domare la credula alleata.
Intanto a Roma Arnaldo da Brescia aveva crollato il potere del pontefice, ed il popolo aveva ricostituita la repubblica, eletto il senato, riedificate le mura del Campidoglio. Strano spettacolo: Roma cristiana coperta dell’elmo di Scipione! Il trascorrer de' secoli non riproduce mai, nella vita de' popoli, i tempi passati; come, nel corso de' fiumi, le acque non ritornano mai in su verso le sorgenti. Quel popolo che, abbattuta la tirannide, vuol essere nuovamente quel che fu un tempo, mostra che non è ancora maturo alla libertà, non n’è ancora degno: per sorgere a nuova vita, è d’uopo si spenga fin l'ultima eco del passato. Le tradizioni di Roma vivevano ancora nella mente del popolo, e perciò e$so, volendo essere troppo grande, non fu che ridicolo. Alla battaglia di Tusculo trentamila romani vennero fugati da mille cavalieri tedeschi; quella di Viterbo fu più micidiale, ma non men vergognosa. Più tardi l'incoronazione e le follie di Cola di Rienzo, la sua impresa con ventimila romani contro i Colonna e gli Orsini, furono altre vergogne che il fato destinava all’eterna città, perché osò volgere lo sguardo indietro, invece di seguire il destino che i tempi le additavano. '
Non cosi avvenne nel resto d’Italia, ove non si disotterravano antiche memorie, ma si visse la vita dei tempi; vi furono guerre ingiuste, lunghe, fratricide, ma famose. Combatterono eroicamente Milanesi e Comaschi; fu memorabile la contesa fra Genova e Pisa; Venezia sparse il sangue de' Ravennati; né meno terribile fu l’odio fra Pisa e Lucca. Ma torniamo a Federico.
Quel monarca, disceso in Italia, assali e prese tre castella appartenenti a Milano; passò il Ticino e mise a ferro e fuoco Asti e Chieri; assali Tortona che resistette eroicamente per tre mesi; se ne impadronì il 45 aprile 4 455, la mise a sacco e mosse verso Roma. Ivi giunto ascoltò il tumido indirizzo de Romani che lo dichiaravano loro suddito, ne rise, sbaragliò il popolo, cinse la corona imperiale e consegnò al papa Arnaldo da Brescia che venne arso vivo, alla presenza della plebe stessa che l'avea tanto applaudito. Continuò Federico le sue imprese, con grave danno d’Italia, ma al tempo stesso con gloria immortale. Crema fu smantellata da lui dopo un memorabile assedio; e l’eroica Milano, due volte assediata, sostenne la stessa sorte di Crema. I cittadini vennero cacciati in bando, le mura della città diroccate, per aprire il passo al superbo vincitore, che vi entrò coll’esercito schierato in battaglia. Dagl'Italiani medesimi furono abbattuti gli edifizi, e tutti monumenti delle passate sue glorie; fu sparso il sale sulle ruine, dannata ad eterna solitudine l’antica capitale dell'lnsubria, la sede degl’imperatori. Ma la tirannide del Barbarossa aggravandosi egualmente su tutte le città, esse ripiansero amaramente i soccorsi che gli avevan prestato per abbatter Milano. L’imperatore venne tenuto da tutti come terribile nemico; così vi furono fra quelle città mali comuni, e perciò comunanza di desidero e colleganza. Da quella imperiosa necessità aveva origine la lega lombarda, confermata con giuramento a Pontida, a cui si aggiunse la veronese, e poi le città fra il Ticino e la Sesia ed eziandio molte della Romagna. che in tutte furono ventiquattro. Quella lega, ebbene non avesse per l’Italia né un pensiero né un voto, fu famosa, perché mostrò, per un saggio, la potenza degl'Italiani uniti. Milano riedificata, Alessandria fondata, la battaglia di Legnano vinta il 29 maggio 1176, l’indipendenza conquistata e confermata sette anni dopo, alla pace di Costanza, furono le geste di quella lega.
Cacciato l’imperatore di là dall'Alpi, fiaccate le pretese de! pontefice, i comuni ben presto rintuzzaron l’orgoglio dei nobili, che chiusi nelle castella, ad un tiro di balestra dalle mura, ardivano insultargli. I privilegi feudali sparirono tutti e con quelli il potere ed il prestigio della nobiltà: il popolo risorgeva intorno al Carroccio, che sostifuivasi al pennone baronale. I conti di Savoia, i marchesi d’Este e di Monferrato, come potenti, furono i soli salvi da quella tempesta in cui naufragavano i feudatari; essi, alla fine de! XIi secolo, rappresentavano l’elemento barbaro accampato iu mezzo del risorto popolo italiano, costituito dal 'Pevere alle Alpi in più di quaranta repubbliche.
XVI. Mentre in quella meta d’Italia cominciava il popolo a vivere novella vita, nell'Italia cistiberina la vita popolare spegnevasi. Quella regione non era stata soggetta al feudalismo imposto da CARLO Magno, non era sminuzzata in tanti piccolissimi Stati, nò oppressa da un numero cosi esorbitante di tirannelli. Negli Stati che la dividevano erano in vigore le leggi longobarde e le romane, le une e le altre poco favorevoli agli ecclesiastici, che non potevano gettarvi radici di loro potenza. I Longobardi erano diventati italiani net ducato di Benevento che, prosperando, ingrandiva. I Greci, i Saraceni, i Napoletani, nemici che lo circondavano, ne mantenevano unite le forze e tacite le fazioni. Debellati i due primi furono indomabili i Napoletani che, liberi e retti a leggi romane, estendevano il loro dominio, sotto nome di ducato, per tutta la costa da Clima ad Amalfi. In quei due Stati, che comprendevano quasi tutta quella regione d’Italia, non erano le virtù romane, nò comunanza d'interessi: il loro destino era di dividersi in frazioni e distruggersi da sé. Ma l'inimicizia scambievole, in cui sempre vissero, sopì per lunga pezza le discordie intestine e gli tenne uniti. Il ducato di Benevento ingrandì; e sebbene con tutto ciò non sperasse soggettare i Napoletani, non temeva più l'offesa: la guerra per un momento cessò, ed il destino compievasi. Le fazioni cominciarono a lacerare i Longobardi; i Napoletani fomentarono quelle discordie colle armi, e il ducato si divise nei principati di Benevento, Salerno e Capua. I Napoletani non ebbero più un nemico da temere, si credetter sicuri: ma allora invece cominciò la loro ruina: le discordie interne tolsero loro Amalfi, in seguito famosa per ricchezze e navigazioni. Quelle scissioni, quello sminuzzamento fecero agevole ai nemici esterni di porre il piede in quelle regioni. I ducati di Napoli, d'Amalfi e di Gaeta, i tre principati longobardi, l’impero d'Oriente e quello d’Occidente, il papa ed i Saraciui esercitavano continue inimicizie, come quelle che poscia distrussero le repubbliche dell'Italia transtiberina. Di quelle contese pochi stranieri, i Normanni, piombati in mezzo a que’ popoli, trasser profitto. Guerrieri valorosissimi, uniti, costoro crebbero sempre di numero e di possanza, mentre gli altri Stati si dissolvevano; con molta prodezza, con alquanta, prudenza, con immensa fortuna, in un secolo si fecer signori di tutta la regione che forma l’odierno regno delle Due Sicilie. L’ultima città che loro si arrese fu Napoli, che per sei secoli aveva resistito ai barbari, erasi conservata libera e si era governata colle leggi romane. Da quel tempo la popolazione ingente del nuovo reame non ebbe più storia; tutto si compendia nella cronaca delle dinastie regnanti e delle turbolenze continue de( :) baroni.
La possanza dei baroni cominciò coi Normanni; domata alquanto dagli Svevi, risorse più che mai prepotente sotto gli Angioini, e fu poi spenta dagli Aragonesi. Pochissime virtù registra la storia di quel reame e virtù di re; i conventi e le chiese, che quei sovrani eressero per ottenere l’assoluzione de' loro peccati, furono le opere pubbliche, monumenti di loro sozzura. I migliori di quei sovrani furono gli Svevi, i più ipocriti gli Angioini, i Durazzo i più dissoluti, gli Aragonesi i più infami.
Il 30 marzo 4282 il popolo di Sicilia sollevossi; i Francesi vennero tutti miserabilmente trucidati e fu scritta col loro sangue una pagina gloriosa di nostra storia. Ma nel popolo non era che odio; spento il nemico, l'odio cessò; ed i Siciliani volontari! prestarono il collo a nuovo giogo. Ritorniamo al rimanente d’Italia.
XVII. A guisa di turbini, i Goti occidentali e le orde d’Attila non lasciarono altra traccia di sé che ruine. Il dominio de' Goti occidentali e de' Longobardi fu lungo, ma pure non alterò l’indole italiana. I Goti furono dalle guerre distrutti; i Longobardi s’italianizzarono: il popolo italiano non adottò nessuna delle loro costumanze, ma moltissime loro leggi, essendo quelle, più delle romane, adatte ai tempi. Mancavano scrittori; corruppesi perciò la favella, ed il bisogno d’intendersi coi barbari fece sorgere la lingua romanza, destinata da prima ad umile e volgare idioma de' servi; poi nobilitata, dovendosi nel mille trattare con essa le pubbliche faccende, ingentilita dalla canzone d’amore de' poeti che abbellivan le corti di Federico e di Manfredi, e finalmente purgata e sublimata da Dante, acquistò tanta armonia e maestà, da provare che non eran guasti gli organi dell'antica razza latina.
La corruzione e la miseria avevano, negli ultimi anni del romano impero, spento affatto ogni vigore dell’animo negl’italiani ed infracidito le loro fibre. L’invasion de' barbari gli costrinse a raccogliersi nelle città; i patrizi, cagione ed esempio di corruzione furono da quelli sconvolgimenti distrutti. Lo spettacolo di que’ bellicosi stranieri lucenti d’armi, che gl'Italiani potevano contemplare dalle mura delle loro città, rinfrancò la loro immaginazione; il principio della libertà individuale su cui fondavansi quelle barbare società, rispettato a condizione che loro non venisse impedito far proprio l'altrui, rinvigorì gli animi; e nelle città si cominciò il risorgimento dalla barbarie ricorsa, come dalla prima erasi cominciato ne’ vici e ne' pagi. Gl’Italiani, già miseri ed oziosi, furono miseri ma operosi; le loro fibre si ritemprarono; e nell’undecimo secolo, eglino non erano da meno de' Romani, né de' Greci d'Omero. Se la loro storia non fu del pari gloriosa, bisogna cercarne le cause nelle relazioni reciproche, su cui venne stabilita la nuova società, ed in quelle circostanze esteriori che ne determinarono il progresso.
Allo scorcio del XII secolo non vi erano più barbari in Italia, eccettuate le tre genti nominate di sopra. Il trionfo de' comuni fu il trionfo dell’elemento italiano sullo straniero; e così del vasto mondo romano i soli Italiani trionfavano delle barbarie e conservavano il tipo dell'antica razza. Ma il popolo italiano risorgeva con auspicii assai diversi da' suoi progenitori.
I popoli di ogni comune italiano ebbero la stessa energia degli antichi Romani; un'eguaglianza quasi perfetta unificava i loro interessi; una povertà quasi assoluta rendevali sobri ed alacri. Trecento lire in que' tempi erano dote cospicua; de' matrimoni non faceasi mercato; erano perciò frequenti, fecondi, purificavano i costumi, e la popolazione, prosperando, cresceva. Come i nemici che gli circondavano costrinsero i Romani ad essere virtuosi; così i popoli di que' comuni, per fiaccare l’orgoglio de' feudatari che ne minacciavano la libertà, dovettero esser forti ed uniti. Vinsero; ma dopo la vittoria, la forza e l( 1) unione s’infiacchirono, perché mancava il contrasto. Nessuno di que' comuni, tutti di un’origine stessa, tutti intesi egualmente a francarsi dalla prepotenza de' nobili, venne, come i Romani, messo dagli altri fuori del diritto pubblico italiano, si che si trovassero o nell’alternativa di esser grandi o distrutti, perché quella legge internazionale più non esisteva in Italia. Quindi, disfatti i feudatari, gl'interessi interni prevalsero sugli esterni: non possedendo terre, od almeno pochissime, i comuni si dedicarono al commercio ed all'industria. Ecco la ragione suprema che regola tutto il loro avvenire. I Romani speravano tutto dalla guerra e dalla conquista; i comuni dalla pace. Fra i Romani agricoli era possibile quella comunanza di utilità, a cui i nemici esterni gli costringevano; fra gli artefici, i mercatanti del medio evo, eziandio costretti dai nemici esterni, impossibile: ognuno sperava nell'altrui ruina la propria salute, ognuno faceva conto sulle pubbliche calamità. Fra i Romani lentamente l’uguaglianza turbossi; nei comuni rapidamente: tosto la società si partì fra opulenti e mendichi, crollò. Arrogi il dogma de' barbari, ogni uomo bastare a se medesimo; quell'individualismo accordavasi collo spirito commerciale ed industre di que’ popoli, e veniva santificato dalla religione, che in tutti gli atti, anche nella beneficenza volta a profitto dell'anima, ha l’impronta del più gretto egoismo. Fra i Romani, l’utile pubblico prevalse al privato; nel medio evo, il privato al pubblico. Presso i Romani guerrieri, agricoltori, tutti intesi al bene della patria, i più prodi, i più laboriosi, i più amanti della patria erano reputati migliori; nel medio evo, dominando il commercio e l’industria, di necessità prevaleva il più scaltro e più ricco. Secondoché dunque il fato inesorabile decretava, rapidissime accrescersi le private ricchezze, il popolo parteggiare per gli opulenti, e parteggiando distrugger se stesso, e farsi schiavo de' capi delle fazioni, anch’essi dalle ricchezze corrotti. E che altro, che un parteggiare continuo, fu la storia di quelle repubbliche? I nobili, che chiesero asilo e protezione ai vincitori, si trovarono, in mezzo a quei popoli dediti alle private utilità, più potenti colle loro ricchezze, che non erano stati coperti di ferro e chiusi nelle loro castella. I vincitori furono preda dei vinti, e per loro si partirono in fazioni; a' nobili poi si aggiunser ben presto i popolani grassi. Allora, come oggi, sarebbe stato assai più utile privare il nemico dell'oro, che del ferro.
Pei Bondelmonti e per gli Uberti, pei Torriani e pei Visconti, pei Colonna e per gli Orsini, per gli Spinola e pei Doria parteggiarono Firenze, Milano, Roma, Genova. Sempre o quasi sempre una fazione dicevasi popolare; falso nome, per ottenere il potere ed escluderne gli avversari. Si dicevano Guelfi e Ghibellini; quei nomi, cui stoltamente si attribuì un significato politico, non esprimevano che odii ed inimicizie private. Il vero significato di Guelfi e Ghibellini è teocrazia jed aristocrazia; col prevalere dei comuni, le due forze nemiche persero il loro carattere. Non furono i cittadini divisi in due fazioni per le lotte dell’imperatore e del papa; ma quegli e questi si valsero delle domestiche scissure delle repubbliche per farsi guerra, per far guerra a quelle, fra le quali, a tenerle divise, seminarono la discordia. La cagione vera di quelle fazioni prima fu l’oro dei feudatari ricchi, poi l’oro de' popolani grassi.
Né aristocratici, né democratici potevano dirsi i governi di quelle repubbliche; ma governi di fazioni, e le fazioni non hanno patria. Un partito chiamava stranieri per accertare il proprio trionfo; un altro si dava ad un principe; si faceva questi tiranno; altri assassinavalo per occupare il suo luogo; tutti avrebber comprato la vittoria colla ruina del paese, lutti si mascheravano colle pompose parole di libertà e di patria. Guerre civili continue, tumulti incessanti del popolo, guerre esterne imprese o cessate sempre a capriccio della fazione prevalente: tale fu Pagliata vita di quelle repubbliche per due secoli. Al cominciamento del xm il corso delle vicende fermavasi, accennando a scadimento.
L’esperienza aveva ammaestrato il popolo che le guerre e le lotte interne erano sorgente di miseria, l’industria ed il commercio di ricchezze; esso depose le armi. Come i Romani corrotti cominciarono a trascurare le guerre civili fra Mario e Silla, così gli Italiani non si detter più briga delle contese fra i faziosi. Da' consoli si passò al podestà, sperando frenare i turbolenti con quella magistratura; la speranza fu vana. Si volle dare a que i magistrati, giudici in pace e capitani in guerra, la forza materiale: si assoldarono soldatesche straniere, e si offrì quell'ufficio a' baroni che, cessate le armi cittadine, ritornavano a stipendiar masnadieri; ed allo scorcio del XIV secolo la libertà più non era. I decreti del fato si compiono.
Al Machiavelli, che giudica l'Italia secondo il suo classico sistema, par riconoscere negl’ignobili Catti del medio evo, le contese fra il popolo di Roma ed il senato. Ma in Roma popolo e senato avevano la stessa origine; i partiti delle repubbliche del medio evo, diversa: i nobili rappresentavano l’elemento barbaro rimasto fra gl'Italiani, ch'erano il popolo. Senato e popolo di Roma intendevano ad un fine comune, la grandezza della patria, avevano, comuni i nemici; nelle repubbliche nobili e popolo ebbero diverso il fine (ognuno mirava al proprio profitto),e quindi diversi i nemici. Il senato era un corpo compatto, nel quale spariva l’individuo; la nobiltà del medio evo componevasi di famiglie che per una rissa al giuoco, per un matrimonio ito a male, si sterminavano. A Roma, ragionando da' rostri, disputavasi de' limiti del potere fra plebe e senato; nelle repubbliche i nobili erano una turba di masnadieri che, colle armi in mano ed asserragliando le strade, pretendevano regnare o sottrarsi al potere delle leggi. In questa parte la sola Venezia può paragonarsi a Roma; ivi quelle prime famiglie, che dall'onde della Laguna fecero sorgere una città, pretesero ed ottennero il dominio su quelle che in seguito si rifuggirono nell’inespugnabile asilo. Quelle famiglie formavano una corporazione che divise col popolo il reggimento, e col popolo ebbe comuni fortune e sciagure. In Venezia la virtù e il potere personale erano al tutto assorte nel sistema governativo; pe’ sudditi e per gli stranieri, la repubblica «era (scrive il Sismondi) un ente ideale che non mutava sistema»; quindi in Venezia non furon fazioni. In Venezia come in Roma, il senato ed il popolo cercarono l’un l'altro soperchiare; ma con diverso evento. L’esistenza di Roma, la sua grandezza si fondavano nelle legioni, e le legioni erano popolo: il senato non potette osteggiarlo, e dové soccombere nella lotta. Ma Venezia era difesa dalle lagune, combatteva col braccio de' mercenari; i patrizi non ebbero a temere dal popolo una resistenza passiva, come il ricusare l’arrolamento che solevano i Romani: chiusero il Consiglio. Il popolo ricorse alla violenza; i patrizi opposero la forza alla forza; il doge Gradenigo vinse Baiamente Tiepolo, e il popolo più non risorse.
Studiati lo spirito ed i principiò su cui si fondavano le interne costituzioni delle repubbliche italiane, consideriamo con un rapido sguardo il fate di tutta la penisola. Un nemico esterno, un periglio comune, imminente, terribile, che tutti minacciasse, mancò; e perciò ogni colleganza fu impossibile, perché senza scopo. La lega lombarda, cessato il pericolo, cessò di fatto; invece tutte quelle repubbliche, gareggiando di commerci e d’industrie, studiavano l’una l’altra distruggere. Il papa e l’imperatore erano nemici di tutte, ma deboli per sfidarle tutte d’un tratto; quindi le armi loro erano i raggiri e de fraudi per seminar le discordie, non già la forza aperta. Perciò l’unità italiana non avrebbe potuto ottenersi che dalla conquista: uno Stato, fra que' tanti, avrebbe dovuto conquistar tutti gli altri. Ma era questo possibile? Furono potenti i Normanni re di Sicilia, fecero tremare i due imperi: i Normanni pagani avrebber conquistato l’Italia, i Normanni cattolici s’arrestaron dinanzi al Vaticano. Castruccio Castracani, Giovan Galeazzo Visconte divisarono riunire l’Italia sotto la loro signoria: quegli per virtù guerriere, questi per astuzia e potenza, forse lo potevano. Ma la morte troncò l’impresa; né, se anche avessero incarnato il loro disegno, avrebbero potuto costituire la nazionalità italiana ed unificare gl’interessi così avversi dei municipii. Le conquiste di principi non formano nazioni, ma vasti imperii, che si sfasciano alla morte del conquistatore: l’unificazione d’Italia non è, né sarà mai, impresa da re, ma da popolo. Anche le principali fra quelle repubbliche ebbero l’orgoglio di concepire quel disegno; ma non eran da tanto da metterlo a effetto: sotto l'impero delle fazioni, quell’uniforme costanza, quella continuità di sforzi che richiedesi in tali imprese era impossibile. In quelle repubbliche per converso, una fazione succedendo all’altra, distruggeva e rinnegava ogni opera di quella; e come nell'interno la fazione trionfante opprimeva e tiranneggiava la vinta, così opprimeva e tiranneggiava i popoli conquistati, e la conquista, invece di accrescere le loro forze, scemavate. La sola Venezia sarebbe stata da tanto; ma Venezia non era guerriera; i suoi mercanti non seguivano col commercio la via che le armi avevano aperto; ma le armi, come nell'odierna Inghilterra, si dirigevano ove i mercanti volevano; l'Oriente loro offriva più facile e più ricca preda — Così la mancanza di un nemico temuto da tutta Italia, lo spirito mercantile ed industriale de' suoi popoli, il papa, l'imperatore furono le circostanze che ne costituirono il fato: l'unità o la federazione italiana impossibile, i popoli italiani schiavi de' capi delle fazioni, e l’Italia tutta avvilita, preda agevole al primo nemico che osasse ghermirla.
XVIII. Ladislao, re guerriero, succeduto a CARLO di Durazzo, reggeva Napoli. I Romani, gongolanti di gioia, acclamavano loro padrone assoluto il pontefice, che dopo l'assenza d'un secolo faceva ritorno a Roma. Firenze aveva sofferto molte vicende: per liberarsi dall’ambizione di Castruccio, la città si diede al duca di Calabria; Castruccio mori ed essa rimase sotto la tirannide del duca di Calabria, meritato gastigo all’ignavia de' Fiorentini. Scacciatolo, risorsero le fazioni, non più di nobili, ma di popolani grassi, i Ricci e gli Albizzi; ché per l’oro, non per gli stemmi parteggiano i popoli: quindi la congiura dei Ciompi e in ultimo il trionfo degli Albizzi. Giovan Galeazzo Visconte, col veleno, cogli artifici, colla forza distrutti i tirannelli di Lombardia, con potere assoluto governava quella provincia ed estendeva il suo dominio su Perugia, Siena, Bologna, e minacciava Firenze. Venezia, vincitrice della guerra terribile contro Genova, usciva dalle lagune e stendevasi fino al sommo delle Alpi. Genova, come Firenze, non parteggiava più pei nobili, Doria, Spinola, Fieschi; ma per uomini nuovi, Adorni e Fregosi; seguendo la politica vile di quelle repubblichette, per sfuggire al dominio de' Visconti, erasi data a CARLO VI re di Francia. Delle città di Romagna ciascuna serviva ad un tirannello, che quasi tutti da capitani militavano agli stipendi de' quattro maggiori Stati, che erano il ducato di Milano, il regno di Napoli, e le repubbliche di Venezia e di Firenze.
Chi leggermente considera le cose, vedendo che i tanti Comuni, in che dividevasi l’Italia, eransi ridotti a quattro grandi Stati, potrebbe argomentarsi vi fosse un’inclinazione all'unità. Ma la cosa è tutta al contrario: se un solo di quegli Stati si fosse ingrandito, gli altri restando quali erano nell’XI secolo, l’unità si poteva conseguire. Ma l’ingrandimento simultaneo di quattro stati la rendeva impossibile più che mai: a ciascuno di essi sarebbe stato più facile assoggettare l’Italia sminuzzata, che debellare tre Stati, ciascuno di forze uguali alle propine. Inoltre quanto più grande è uno Stato, maggiori e più propri ne sono gl'interessi, né possono, come quelli di piccoli comuni, facilmente essere assorti dalla conquista. Infatti nel XIV secolo cominciò in Italia un diritto pubblico, e da quei quattro Stati si accettò il principio dello status quo, dell'equilibrio italiano, come fra i moderni quello dell'equilibrio europeo; e se due di quegli Stati venivano a guerra, gli altri si dividevano nelle loro parti, per librarne equamente le forze. Eravi eziandio un’altra cagione che rendeva quasi impossibile ad uno fra loro di superar gli altri, o almeno di conservare lungamente una certa preponderanza di forze: Venezia, Firenze, il re, il duca, tutti combattevano co’ mercenari, che prestavano i loro servigi al migliore offerente; e per ciò or coll'uno or coll'altro trovavasi il più forte, e le sorti, ad ogni nuova guerra, mutavansi. Ladislao, stando per muover guerra a' Fiorentini, che, quantunque sprovvisti d’armi, s’ apprestavano a resistere, fecegli dimandare con quali forze sperassero combatterlo, a Con le tue stesse», risposero quelli. Solo il Visconti, col denaro e coll’industria, lungamente mantenne un esercito poderoso.
Quantunque sconosciuta fosse l’eguaglianza e spenta la libertà, il XIV secolo fu splendidissimo. Gl'Italiani erano liberi da qualunque servitù straniera; il papa difficilmente riusciva a seminare discordie; le lettere, le scienze e le arti fiorirono; l’arte della guerra giunse a sommo splendore, e in quel secolo s’illustrarono famosi capitani. — E quanto alle lettere ed alle arti, è a notare che il reame di Napoli, regnante Roberto, fu potentissimo; i Cesari stavano lungi d'Italia ed i pontefici erano i n balia del re in Avignone. Roberto padroneggiava in Italia, non solo per forza materiale, ma eziandio come protettore de' letterati; ed egregio letterato egli stesso, concedeva a sapienti del regno i più importanti uffici. Giovanni Barrili, il Salmonese Barbato, Dionisio Roberti che fu professore di teologia nell'università di Parigi, il calabrese Barlaamo, Paolo Perugini furono tutti egregi letterati; presso di loro trovò ospitalità il Boccaccio, il quale, fra le ardenti e fantastiche napoletane, s’ incontrò in quella sua Maria, della quale egli sempre arse e cantò sotto il nome di Fiammetta. Re Roberto fu scelto dal Petrarca a giudice di sua dottrina, prima di ascendere il Campidoglio. In quella corte, alle nascenti lettere italiane s’univano le costumanze cavalleresche di oltremonte, ivi apportate e protette dagli Angioini, ingentilite dalla squisitezza italiana: quindi le splendide corti di amore e la rilassatezza de' costumi sotto la regina Giovanna. Dal regno di Roberto dunque cominciarono a spandersi le lettere in Italia; quindi si tradussero gli antichi greci e latini. Seguirono poi le arti e le scienze, che giunsero all'eccellenza nel secolo di Leone X.
Italiani furono per tanto que’ governi, italiani i guerrieri, italiana la terra ove si combatté; ma non perciò possono dirsi italiane le geste; né Venezia, né Firenze, né Milano, né Napoli erano l'Italia; le glorie come le vergogne di quelli Stati non sono comuni agl'Italiani. L’Italia esisterà soltanto in un governo che ne, riunisca le forze ed esprima la volontà collettiva dell’intera nazione; e da ciò si argomenti quanto poco s’appongano al vero coloro che sonosi dati a ricercare l’Italia in una parte di essa: la parte non può essere eguale al tutto. L’Italia e gl’interessi italiani non poterono e non potranno mai ridursi in una città sola o in una sola provincia, per grande che sia.
Ma, se vano sarebbe ricercare e discorre quale dei tanti Stati, nei quali per cinque secoli fu divisa l'Italia, fu più italiano, potremo almeno scorgere quale fu il più anti-straniero. Fu quello senza dubbio che nulla avea da sperare e tutto da temere dalia invasione degli oltramontani, fu il reame di Napoli. Eccetto i 60 anni scorsi dalla morte di Tancredi a quella di Corrado, quel regno, forte assai per bastare a se stesso, non ricorse mai a stranieri, o la loro discesa in Italia fu sempre per esso cagione di calamità. La repubblica di Venezia non chiamò mai stranieri; ma awersavagli meno, perché ne sperò sempre vantaggio. Seguiva il ducato che gli scacciò sotto Giovan Galeazzo, ma gli chiamò sotto Lodovico il Moro, quantunque avesse poi amaramente a pentirsene. Firenze, degli Stati italiani il più democratico,gareggiò col papa nell’invocare sull'Italia un tal flagello; chiamò il re de' Romani, chiamò D’Armagnac contro Giovan Galeazzo, Lodovico D’Angiò contro Ladislao. Superava tutti per odio e per avversione al bene d’Italia, ed era ben naturale, il cosmopolita pontefice, quegli a cui i saccenti moderni pretesero far rappresentare i diritti dell’Italia: se l’Italia non avesse avuto e non avesse il papa, non vi sarebbero stati e non vi sarebbero stranieri.
Non facemmo menzione di quella parte dell'Italia occidentale che era governata da Casa Savoia, perocché essa non formava Stato italiano. La storia di quella dinastia segue il corso di quella degli oltramontani. Sino al XVI secolo, ingrandì le sue possessioni, barcheggiando tra Francesi e Tedeschi, a' quali spalancò sempre le porte d’Italia. Così dettavale la utilità propria; stolti sono coloro i quali credono possibile accordare gl’interessi della nazione con quelli di lei. Quello Stato prima del XVI secolo non ebbe alcuna parte nella storia italiana; fu estraneo a' costumi, alle vicende, alla civiltà nostra; può dirsi che la sua storia comincia quando quella d’Italia finisce. Forse, come dice il Balbo, virile, semplice, virtuosa schiatta fu quella di Casa Savoia; ma se tale era nel cinquecento, mostra ciò che non era italiana. Perocché gl’italiani allora, perdute quelle virtù, erano corrotti, astuti e sprezzatoci di ogni virtù; né agli uomini è dato rimanere immobili fra il corso e ricorso delle nazioni e non soffrirne gli effetti.
Siamo al XV secolo; il fato aveva compiuto i suoi inesorabili decreti. L’Italia dividevasi in opulenti e mendichi, in padroni e servi, in tiranni e schiavi, conseguenza inevitabile dell’eguaglianza turbata dal diritto di proprietà. Così avvenne a' Magno-Greci e ai Romani, così avverrà sempre. I vizi degl’italiani nel XV secolo furono quelli medesimi che condussero a rovina i Romani e gli Italioti, e condurranno a rovina ogni società, la quale venga in tali condizioni.
Agli Angioini successero gli Aragonesi peggiori; a' Visconti gli Sforza, e Genova cadde sotto il loro dominio; i Fiorentini furono soggettati dall'oro de' Medici. Le infamie de' regi di Napoli, lo smodato lusso de' Medici e degli Sforza, il nepotismo de' papi, le lascivie del cardinale Riario, le congiure di Nicolò d’Este a Ferrara, del Lampugnani e dell’Olgiato a Sfilano, de' Pazzi a Firenze, dei Malvezzi a Bologna, congiure tutte promosse da odii personali, e infine la viltà del popolo, plaudente sempre al vincitore: sono queste le cose importanti che sole registrò la storia di quei tempi. I cittadini delle repubbliche di Venezia, Firenze e Genova, non erano più che quattordici o quindici mila; gli altri erano sudditi di quelli, e quelli alla lor volta sottostavano ai ricchi. Cosi l’Italia riducevasi ad una piramide: la forza era al vertice, in mano di corrottissimi principi, che dominavano le poche migliaia di cittadini corrotti al pari di loro; alla base poi inerti, noncuranti delle condizioni del paese, stavano i popoli, il restante de' diciannove milioni.
In Italia a' barbari prevalsero gl'Italiani; nelle altre nazioni prevalsero i barbari, lo spirito cavalleresco di questi vinse lo spirito di associazione dei Romani. I re, senza spezzare le catene del popolo, se ne servirono contro i nobili, e sulle ruine del feudalismo sorsero i troni, come in Italia erano invece sorti i Comuni; gli oltramontani mezzo barbari si costituirono in grandi unità, in formidabili potenze, che accerchiavano l’Italia. Le Alpi separavano l’Italia civilissima dall'Europa ancor mezzo barbara; come. Ira due nubi diversamente cariche d’elettrico, dal contatto l’equilibrio doveva, tuonando, ristabilirsi. Per la quarta volta la storia disegna precisamente le stesse condizioni che osservammo fra Romani ed Orientali, fra Romani ed Occidentali, fra l'Impero ed i barbari: la civiltà 'passa dal vinto al vincitore, o viceversa. E così avvenne anche allora: i semibarbari, disertando l’Italia, si civilizzarono.
Il deforme CARLO VIII fu il primo che gettossi sulla facile preda. Lodovico il Moro che reggeva la Lombardia lo chiamò; Bianca di Monferrato, duchessa di Savoia, al solito, gli aperse la strada e l’introdusse; Pisa l’accolse giubilando; Piero de' Medici s’affrettò
a consegnargli le castella de' Toscani; i Fiorentini cacciarono Piero, ma ricevettero da conquistatore il monarca; Alessandro VI lo benedisse; il re di Napoli fuggì; gl'Italiani indifferenti e divezzati dalle armi, mirarono attoniti la passeggiata militare di quegli stranieri. Svanito il primo stupore, scorto il pericolo, tutti gli Stati, meno Casa Savoia, si collegarono, e con loro anche l’imperatore. CARLO VIII si affrettò a ripassare le Alpi; sul Taro scontratosi coi collegati, si combatté una battaglia il 6 di luglio 1498; la vinsero i Francesi, ma non fu per gl'Italiani ingloriosa. Per più di sessant’anni, Francesi, Spagnuoli, Tedeschi, Svizzeri si contrastarono l’Italia. Si compirono in quei tempi l’imprese ed i misfatti di Cesare Borgia: si combatté la famosa guerra della lega di Cambrai contro Venezia; predicò in Firenze il Savonarola, frate fanatico, prima adorato, }XI impiccato e bruciato dagli stessi Fiorentini; quindi le due ignobilissime fazioni de' Piagnoni e de' Palleschi. Dopo tutti que’ fatti la repubblica fiorentina, costituita con miglior governo che per lo passalo, sostenne con valore e somma gloria il memorabile assedio. Il 12 agosto 1530 cadde Firenze, e l’Italia del medio evo cessò. Le stragi, lo rapine, le violenze senza nome consumate dagli stranieri, cominciavano ad accomunare gl'Italiani nella miseria; e l’Italia, da quella fecondata ed unificata, sorgerà più gloriosa che mai non fosse.
Immensi furono i progressi letterari, scientifici, artistici e commerciali nel medio evo; l’Italia in mezzo d’incolte nazioni fu coltissima, ma non fu grande. A squisito sentimento si temperano gli animi cosi sotto il despotismo (purché tale non sia da abbatter gli spinti e cacciarli nell’ozio] e fra il tumulto delle fazioni, come sotto il maestoso governo della libertà. Anzi questa, sdegnando la soverchia delicatezza e le grandi fortune, ritarda alquanto il progresso delle belle arti; e tardissimi in ciò furono i Romani, quantunque in Italia vi fosse stato uno Zeusi. Ma i monumenti delle arti belle e delle lettere sono gli argomenti della grandezza nazionale, quando ritraggano in parole, o in tela, o in marmi le gloriose geste della patria; né queste han luogo senza sforzo collettivo e senza unità. L’uno e l’altra mancavano nel medio evo, quindi nulla potette esservi di grande. Le statue, i quadri, i poemi non rammentano che adulazione, vendetta e devozione; non terme, non archi trionfali, non, strade, non ponti rimangono di quei tempi. In Roma, le opere di pubblica utilità e di pubblica grandezza, ergendosi maestose sulle modeste dimore de' cittadini, mostravano la nazione signora degl'individui; nel medio evo, i torreggianti palagi dei privati dimostrano l'individuo padrone della repubblica, e le chiese non sono che monumenti di vanità e d’ipocrisia. In cinque secoli non occorre pur un’impresa che vinca la misura d’una politica faziosa e personale; le guerre mosse per futili cagioni; le paci non imponevano al vinto che un atto d’umiliazione. Due mani di marmo che facevano le fiche a Firenze, messe da' Pistoiesi sulla rocca di Carmignano, indussero a guerra le due repubbliche; un’altra volta i Senesi, giunti vittoriosi alle mura di Firenze, fra le altre stoltezze, impiccarono tre asini col nome di tre cittadini fiorentini; Io stesso Castruccio cadde nelle fanciullaggini dei tempi e sotto le mura pur di Firenze fece correre il palio a certe puttane. I Romani non insultavano né minacciavano il nemico, lo distruggevano; gl'Italiani del mediò evo non facevano che insultarlo e minacciarlo; non sapevano essi che insulti e minacce sono armi pel minacciato. Né fu più sapiente la politica tanto vantata di Venezia contro la lega di Cambrai, quantunque il governo di Venezia non fosse fazioso: la rotta della Ghiaradadda, avendo a fronte i soli Francesi, fece scendere il senato a volontarie concessioni. Basta questo a mostrare la poca dignità della repubblica, se anche non vogliasi prestar fede al Guicciardino che, smentito dal Botta, attribuisce all'ambasciatore veneto, spedito a Massimiliano, un'orazione abbiettissima. E risalghiamo pure ai tempi gloriosi della Lega Lombarda. — «Perché sei tu ribelle all'impero?» domandava Federico ad un valoroso giovane italiano, caduto in sue mani sotto le mura d’Alessandria. — «Nulla signore», quegli rispondeva, «ho fatto contro di voi e dell’impero; ma avendo un padrone nella città, ho fedelmente obbedito a quanto egli mi comandava; e s’egli vuol servir voi contro i suoi concittadini, con egual fedeltà a lui servirò». Era questi il Muzio Scevola di quei tempi.
Nel medio evo troviamo grandi poeti, scienziati, artisti, guerrieri famosi; ma non un grande cittadino. Erano tali forse i capitani di ventura? Erano tali il Petrarca e Dante? L’uno cantò della patria e delle follie di Cola di Rienzo; e l’altro bandito dalla fazione avversa, scrisse un poema per unità, per gusto, per maestà di lingua, per erudizione grandissimo, ma per politica degno del secolo; egli pone all’inferno i suoi avversarii, in paradiso gli amici: Bruto all'inferno, in paradiso Cesare; egli evocò la grandezza e l’unità romana e la vide negl'imperatori di Germania ed in Cristo. — Il più grande cittadino di quell’epoca fu il Machiavello; ebbe profondo ingegno, amò la patria, amò l’Italia, la libertà, l’indipendenza; ma soggiacque all’influenza de' tempi: fu l’apologista dei prosperi eventi, servi con eguale zelo la repubblica e i Medici. Scrisse Il Principe, che ha dato luogo a tante discordi congetture, alcuni pensano, per cattivarsi l’animo del tiranno; altri, per additare a' principi la via da seguire per ottenere l’indipendenza italiana; altri, e questi sono i più lontani dal vero, per mostrare a' popoli l’insidie della tirannide. Il libro del Machiavelli è l’opera del suo grande ingegno che riassume, riduce a principii la politica de' suoi tempi; nelle sue storie fiorentine, ne’ suoi discorsi su Tito Livio, ove mostrasi grand'estimatore delle virtù romane, si scorge sempre l’uomo del medio evo, ammiratore perpetuo di chi vince. Se il Machiavello fosse vissuto fra i Romani ed avesse scritto sullo stesso soggetto, i posteri ne avrebbero ammirato la grandezza d’animo e la virtù, come ora rifuggono dalle perversità che scorgesi nel Principe; nel quale la forza d’ingegno che vi si mostra è del Machiavelli, i principii che vi si espongono sono del secolo. Il Machiavelli invoca per l’Italia non già l’unità imperiale, ma la grandezza delle repubbliche greche e della romana, e cerca ottenerla coi mezzi che gli ffrono i tempi. Egli accenna ad una legge fatale che regge il destino de' popoli: il Vico e Mario Pagano la trovarono nella natura umana; egli, uomo de' suoi tempi, la cerca nel moto delle sfere.
XXI. Caduta nel 1530 Firenze, l’Italia del medio evo cessò; le guerre de' Veneziani in Oriente, quelle di Genova coi Corsi e coi Piemontesi, gl’interni rivolgimenti di questa repubblica non erano che un’eco del passato. In tutta Italia la vita del popolo era spenta; spenta quella degli Stati; barcollanti sui loro troni e servi dello straniero i principi. Tra questi, sola prosperava casa Savoia, congiunta cogli oltramontani; alleata ora di Francia, ora d’Austria, ora di Spagna, poco sincera con tutti, allargò, più per debolezza altrui e per l’importanza geografica della sua posizione, che per virtù, i suoi dominii.
Alla pace di Castel-Cambresi, cominciò in Italia il dominio spagnuolo. Non vi fu mai preponderanza straniera, quanto questa, ignorante, corrompitrice, dilapidatrice. L’abbietta nobiltà, ricca di titoli, di sozzure e di vizi, scema affatto di virtù e di pregii; l’ozio sostituito all’operosità italiana; le vane cerimonie, il tumido linguaggio portò seco in Italia la vanità castigliana. Napoli e Milano più di ogni altra città ne sentirono gli effetti.
La guerra della successione di Spagna terminò quel dominio: perla pace d’Utrecht (1713), alla dominazione spagnuola successe l’austriaca. Dopo 20 anni di pace incerta, l’Europa quasi tutta riprese Farmi; la guerra della successione di Polonia, quella della successione austriaca si seguirono. Intanto CARLO Borbone, duca di Parma, mosse alla conquista del regno di Napoli: facile impresa perché odiatissimi vi erano i tedeschi; cosi quel regno nel 1734 passò sotto il dominio de' Borboni. Tre anni dopo, non jr conquiste né per diritto di eredità, ma per volere delle grandi potenze, in Toscana ai Medici successe casa Lorena. Quindi l’Italia fu divisa alla pace d’Aquisgrana (1748) in questi Stati: Casa Savoia, regnante sul Piemonte ampliato di confini; i Borboni a Napoli e a Parma; gli Estensi a Modena; Lorena in Toscana; le vecchie repubbliche di Venezia e di Genova. E così durarono fino alla rivoluzione francese.
Furon recisi i nervi del papato in quei tempi. Si fondò in origine la sua potenza sulla superstizione de' popoli: il pontefice con un suo breve travolgeva dai cardini l’ordinamento politico e sociale di uno Stato, atterrava i troni. Distrutta dalla ragione e dal tempo la superstizione, il papato si dica fomentare discordie fra' principi, ed opponendogli l'uno all'altro, rimase in potenza. Ma tempo giunse, in cui anche quell’argomento gli venne meno: il diritto pubblico europeo pose fine ai maneggi della corte pontificia; il papa divenne una reliquia, il governo pontificio il più tirannico e il più debole de' governi, un’ulcera rimasta nel cuore d’Italia.
Nei due secoli e mezzo che corsero dall'assedio di Firenze alla rivoluzione francese, la nazione italiana non ha storia; è preda tutta degli stranieri che se la contrastano. Con altri caratteri, in condizioni diverse si rinnovò in quell'epoca il fatto occorso ne’ sei secoli dal 400 al 1000. In quei tempi antichi, si operò il rimescolamento della civiltà romana colla barbarie; in questi più recenti il rimescolamento della civiltà italiana colla semibarbarie d’oltremonte. In quell’epoca prima, con lento lavoro si formò il popolo del medio evo, che apparse verso il mille; nell’ultima, dai voli del pensiero e dalle opere, traverso le tenebre che cuopron l’Italia, scorgeremo la formazione della moderna nazione italiana, mentre scrivo, ancora latente.
Nel XVI secolo, l'inquietudine de' cuori e delle menti, un vago desiderio di miglioramento, un ritorno continuo al pensiero dei propri mali, sintomi delle sofferenze estreme ed incessanti
del popolo, si manifestarono nell’Italia cisteberina. E, mentre in Inghilterra i rivolgimenti spingevano il popolo al progresso e i pensieri seguivano i fatti, in Italia, il pensiero agitato da occulti dolori e vietato dalla tirannide si manifestava nelle astrattezze filosofiche del Bruno.
Alla metà del XVI secolo, quando le dottrine aristoteliche da per tutto prevalenti angustiavano, anzi soffocavano affatto il pensiero, si formò l’accademia Cosentina o Telesiana, la quale proclamò, prodigioso ardire, i principii sui quali è poi venuta maestosamente svolgendosi la filosofia italiana; quella filosofia che, rotti i ceppi d’assurde tradizioni, d’oscuro linguaggio, d’inutili forme, lascia che il pensiero si allarghi in vastissimo campo, non prendendo a fondamento dei ragionamenti che i fatti, a guida la ragione, a fine la verità. « Osservare il mondo quale si offre ai nostri sguardi,» scriveva Berardino Telesio, «le sue diverse parti, le sue relazioni, le sue operazioni, le diverse specie di cose che contiene; poiché la sapienza umana è arrivata alla più alta cima che possa afferrare, se ha osservato quello che si presenta a' sensi e ciò ché può esser dedotto per analogia dalle percezioni sensibili. Io non ho seguito altro che l'osservazioni e la natura, quella natura sempre seco medesima d’accordo, e sempre ad un medesimo modo operante». Direbbe forse altrimenti il Romagnosi, che trovasi il più recente, come il Telesio è il più antico de' filosofi italiani? Ausonio Franchi, superando l’immenso ed inestricabile labirinto, in cui la filosofia, distratta da' sofismi degli ecclettici va ravvolgendosi, disfacendo i loro, enormi e sconnessi edifizii, e fra quelle ruine aprendosi la strada, giunge (mirabile potenza dell'ingegno italiano) alla dottrina stessa: «Essi (parla de' dogmatici) per realtà intendono propriamente la sustanza o l’essenza fisica delle cose; noi invece il complesso delle loro manifestazioni sensibili: essi chiamano elemento obbiettivo la sustanza, noi il fenomeno; chiamano elemento subiettivo il fenomeno, e noi la sustanza».
Seguono le dottrine telesiane, sostenendo acerbissime dispute, il Bruno, il Vannino, il Campanella.
Io nacqui a debellar tre grandi estremi;
Tirannide, sofismi, ipocrisia;
cosi il Campanella esprime la missione che la società gl’imponeva. E in due sonetti, che qui sotto trascriviamo, egli ed il Bruno descrivono l’immagine della vita loro, il fine a cui aspiravano, la grandezza dell'animo con cui si apprestavano ad affrontare gl'imminenti pericoli:
Così scrive Giordano Bruno:
Poiché spiegate ho l’ali al bel desio,
Quanto più sotto il piè I’ aria mi scorgo,
Più le veloci penne al vento porgo,
E spregio il mondo e verso il ciel m’invio.
Né del fìgliuol di Dedalo il fin rio
Fa che giù pieghi; anzi viepiù risorgo.
Ch'io cadrò morto a terra, ben m’accorgo:
Ma qual vita pareggia il morir mio?
La voce del mio cor per l'aria sento:
— Ove mi porti temerario? China,
ché raro è senza duol troppo ardimento. —
— Non temer (rispond’io) l’alta ruina!
Fendi sicur le nubi e muor contento,
Se il ciel si illustre morte mi destina. —
E Tommaso Campanella:
Sciolto e legato, accompagnato e solo,
Gridando o cheto, il fiero stuol confondo;
Folle all'occhio morta, del basso mondo,
Saggio al senno divin dell'alto polo.
Con vanni in terra oppressi al ciel men volo,
In mesta carne, d'animo giocondo;
E se talor m’abbassa il grave pondo,
L’ale pur m’alzan sovra il duro suolo.
La dubbia guerra fa le virtù conte;
Breve è verso l’eterno ogni altro tempo;
E nulla è più leggier d’un grato peso.
Porto dell'amor mio l’imago in fronte,
Sicuro d’arrivar lieto, per tempo,
Ov'io, senza parlar, sia sempre inteso.
Il Campanella, Giordano Bruno, il Vannino non furono correttori di costumi, come Arnaldo, Dante, il Savonarola; furono riformatori. I primi sono frutti di civiltà scadente, sono indizi della cancrena che la rode, sono segni delle convulsioni di una società morente; questi invece, i riformatori, precorrono la nuova vita, indicano che la società ringiovaniste. I filosofi napoletani non si curarono di scrutare la vita privata, non predicarono contro gli uomini; ma percossero nei principii. Tutti si diedero alla ricerca di una legge sovrana regolatrice dei destini delle nazioni, che parevano abbandonate in balia del caso e degl'individui. I loro sforzi soltanto additarono la meta che doveva l’umano ingegno proporsi, ma non la raggiunsero. Uomini d’azione, cercarono anche la pratica delle loro idee: il Campanella, vissuto lontanissimo dal risorgimento che ancora aspettiamo, non potè prevedere che tempo verrebbe, in cui la questione sociale sarebbe popolarissima. Egli non fece che antivedere un futuro remotissimo, che esprimere le sue aspirazioni nella Città del Sole. Alcuni storici, per denigrarlo, l’accusano di aver partecipato come capo ad una cospirazione, e cosi l’onorano, lo fanno più grande; altri ne prendono le difese e, cercando purgarlo da tale accusa e provarlo innocente, scemano i suoi pregii: in cotal guisa la fama del filosofo viene dai nemici accresciuta, dagli amici rimpicciolita. Peccato, che gli ultimi sieno più degni di fede! La cospirazione, nelle Calabrie, vi fu, e moltissimi dei cospiratori sovente usavano coll'illustre filosofo; ma ch'ei ne fosse a capo non può affermarsi, come neppure ch'ei non vi avesse parte alcuna: egli medesimo non cerca, nelle sue opere, scolparsene.
Vedendo che nulla potevasi sperare dal popolo italiano, per l’avvilimento soverchio in cui giaceva, scrisse il libro sulla Monarchia Spagnuola: voleva renderla padrona del mondo e, ponendo poi sovra lei il papato, rialzare la misera Italia. Il Campanella, come già il Machiavello nel Principe, volle indicare come debba ingrandirsi uno Stato, giovandosi de' principii e della politica de' suoi tempi; chiamò empio il Machiavelli, ma propugnò le medesime dottrine: non v'ha che un solo modo di schermirsi, trattando l’arme medesima. Unica differenza fra i due illustri autori è, che il Machiavelli non diè importanza alcuna al papa ed alla religione, l’altro ne fece uno dei cardini del suo sistema. Vi ha perciò nelle teorie del Campanella più ipocrisia, minor violenza; ne’ suoi re serba le apparenze di virtù, perché ammette (cosa assurda) che si possa educare e migliorare la razza principesca e trarne gli uomini ottimi. Il Machiavelli al contrario non volle assicurare la sua monarchia sulla virtù de' principi che è quasi impossibile a rinvenirsi, ma sugli ordini e sulle istituzioni: fu quindi più reciso e più prossimo al vero.
Pertanto i Gesuiti e tutta la schiera fratesca, vedendosi debellati sul campo della discussione dal forte ingegno e dalla inesorabile logica di que’ sommi, ricorsero alla violenza. Il Bruno, il. Ruggiero, il Vannino furono arsi; il Pomponaccio scampò a stento dal rogo; il Campanella venne torturato e marci per 27 anni in un carcere. Ma né il rogo, né il carcere non bastarono a soffocare il genio italiano: il Vico un secolo dopo, seguendo la stessa filosofia, colorisce il disegno adombrato da quelli, e le leggi che regolano i destini de' popoli non son più un arcano. — Ad un tempo col Vico, da quella stessa ardente regione che produceva il Telesio e il Campanella, usciva il Gravina, delle cui idee si giovarono il Locke, il Montesquieu ed il Rousseau. Nel tempo medesimo, l’eletta schiera de' filosofi toscani, fra cui primeggiano il Torricelli e Galileo, intendevano, con prodigiosi effetti, alla filosofia naturale. Nel xvn secolo la rivoluzione intellettuale era compiuta in Italia; essa pensava già come poi pensarono le altre nazioni europee; era sparito il pensiero del medio evo; tutto lo scibile umano si riduceva a raziocinare sui fatti e sulle leggi di natura.
Accennate le nuove dottrine, facciamoci a studiare l’indole del popolo, e cerchiamo riconoscere se un nuovo popolo era succeduto a quello del medio evo.
A Palermo ed a Napoli avvennero le più famose sollevazioni di que’ tempi. — «La provvidenza», esclama l’Alessio battiloro a Palermo, «fa le campagne ubertose per tutti, né noi dobbiamo morir di fame perché alcuni ladri s’impinguano; noi non dobbiamo andar carcerati per capriccio altrui, ma per delitti nostri, se alcuno ne commettiamo»…
Più terribile aspetto ebbe la sollevazione di Napoli, «Ivi Masaniello», scrive il Giannone, «lacero e seminudo, avendo per teatro un palco e per scettro la spada, con centocinquantamila uomini dietro, armati in varie foggie, ma tutte terribili, comandava con assoluto impero ogni cosa....; trucidava co’ cenni, incendiava cogli sguardi, perché dove egli inchinava si recidevano le teste, si portavano le fiamme». La plebe napolitana cacciò lo straniero, proclamò la repubblica, rintuzzò per dieci mesi gli assalti degli Spagnuoli. Indi cedé, perché mancando il concetto, mancarono capi ed ordini e la stanchezza successe al furore: Masaniello seppe sollevare, non reggere la rivolta. L’Alessio e Masaniello furono la personificazione della plebe: moderatissima nelle pretese, terribile nell’esecuzione, inetta al governo.
Nel 1701 quando i Baroni del regno chiesero soccorso al popolo napoletano, per menare a compimento la congiura del famoso Macchia, in favore di casa d’Austria, un popolano venerando per canizie, scrive il Colletta, surse e disse: «Voi, eletto, e voi, popolo, ascoltate: Sono molti anni che il mal governo spagnuolo fu da noi scosso, movendoci Masaniello popolano. Stettero i nobili o contro di noi o in disparte, e spesso vennero ad arringare, (come ora il nuovo eletto) per ricondurci alla servitù, chiamandola quiete. Io giovinetto seguitai le parti del popolo, vidi le fraudi de' signori, le tradigioni del governo.... Io, vecchio ora che parlo, assennato dal tempo, credo che in questa congiura di nobili debba il popolo abbandonarli, come nella congiura di Masaniello fu da' nobili abbandonato. Udite già gli assunti nomi di principe di Piombino, principe di Salerno, conte di Nola, ed aspettatevi tanti altri, ancora ignoti, ma che sarebbero su di noi nuovi tiranni. Io mi parto da questo loco; mi seguirà chi presta fede a' miei detti.» Restò vuota la piazza, la congiura aborti e il viceré Medina Coeli trionfò.
I Genovesi nel 4746 cacciarono i Tedeschi con impareggiabile valore e con somma costanza perdurarono nella resistenza.
In questi varii avvenimenti, i rozzi concetti dell’Alessio battiloro, le sagge parole del popolano contro i nobili congiurati, le ragioni che muovono la plebe, il modo di governarsi di lei, durante l’azione e dopo, mostrano chiaro che un nuovo popolo è succeduto all’antico. Esso non corre all'armi diviso fra Guelfi e Ghibellini, fra Palleschi e Piagnoni; non vuole rovesciare una fazione per sostituirne un’altra; ma combatte da sé e per sé, per alleviare i suoi mali, per migliorare le sue condizioni. Questo popolo moderno, spenti in lui da; dolori gli spiriti di parte, era destinato a praticare quella filosofia già da un secolo svolta, era destinato a far trionfare la ragione sull’autorità. Ma ebbe potentissimi nemici da combattere; essi gli alzarono barriere insormontabili. Col rogo dell’inquisizione e colle armi straniere rintuzzarono la forza materiale, e colla Compagnia de' Gesuiti si diedero a troncare i nervi al pensiero, a distoglierlo dalle libere tendenze ed a prepararlo a schiavitù. «E’ pare che avesser trovato l’arte», scrive il Botta, «di rompere la superbia dell'uomo, di ammansarlo talmente che più volontà propria non avesse… Rendevano gli spiriti mogi, come gli uccellatori gli uccelli a cui hanno dato il comino: veri affatturatori da una parte, veri affatturati dall'altra; né nulla più compassionevole a vedersi che un giovane concio e fazionato da' famosi padri». Ben presto gl'istrumenti di terrore divennero mezzi efficaci per sempre più opprimere un popolo educato da tali uomini alla schiavitù ed all'umiliazione. Perciò divenne impossibile in questa nostra misera patria quel lavoro che, riducendo alla pratica te astrazioni della scienza, col linguaggio piano e popolare e coll'esempio trasfondata filosofia nelle moltitudini e stabilisce l’occulto legame fra il fremere della plebe armata e i pensamenti del filosofo chiuso nel suo gabinetto. La mancanza di legame fra quegli estremi, generata da preponderante oppressione, fece sì che gli italiani, primi nell’idee, primi ne’ tumulti popoleschi di carattere moderno, aspettarono immersi in profondo letargo il grande impulso del secolo XIX.
XXII. Pel lavoro continuo del tempo, la società veniva trasformandosi; gli errori, sotto cui gemeva oppressa, già troppo enormi, condannati dall’universale consenso, crollavano. Luigi XIV, Federico II, Clemente XIV, Giuseppe II, quantunque non contemporanei tutti seguirono quelle stesse vie che il destino segnava. D’ordinario i principi, avvolti nei penetrali della reggia da un’aere corrotta, sempre opposti pei loro interessi ai popoli che crescono di prosperità quanto essi scemano di potere, rappresentano la forza che contrasta all'umano progresso, costretto perciò, affine di svilupparsi, ad una lotta continua. Ma nell’epoca di cui parliamo, la volontà universale era gagliardissima e tutta intesa a liberare la società dalle reliquie del feudalismo, ingombro fastidioso a' principi non meno che ai popoli. Bramosi questi di veder tolti anche i segni degli antichi ceppi; quelli,teste innalzatisi sulle ruine dei baroni, circondati dell’aura popolare, non ancora ne sogni erano perturbati dallo spettro della rivoluzione. Quindi popoli avidi di riforme ebbero re riformatori; presso i quali que’ sublimi ingegni, che la società, per combattere gli errori, stretta dal bisogno produce, trovarono protezione e favore. Cosi gli stessi re (tanta è la forza del fato) disarginarono il torrente che dovrà nelle sue onde travolgerli.
La schiera illustre de' filosofi francesi, con ottimi effetti, tenne dietro a' voli de' filosofi italiani e riusci a dileguare l’ipocrisia, sotto la cui stretta giaceva oppressa la ragione. Il destino de' tempi condusse al rogo gl’italiani, cosparse di fiori la lieta via de' francesi. Furono gli uni e gli altri pari d’ingegno: i francesi vantano la vittoria, gli italiani la precedenza, il coraggio, la corona del martirio; le dottrine di questi estranee al volgo, perché lontanissimi dal risorgimento; quelle de' francesi, nati quasi col risorgimento, popolarissime. Del resto serbarono, sì gli uni come gli altri, il carattere di lor nazione: gl'italiani profondi pensatori; leggeri gli altri e brillanti. L’immaginazione e la logica potente del Diderot, i sarcasmi del Voltaire, lo spirito di sistema dell'Helvetius disfecero la superstizione; strapparono alla società la maschera dell’ipocrisia e dell’impostura e la mostrano quale ella era.
Le dottrine cristiane staccarono l’uomo dalla vita pubblica, alla salute della patria sostituirono quella dell’anima. L’isolamento prescritto ebbe effetto, e non già in favore dell’anima, ma naturalmente in favore del corpo. Cosi il mondo romano venne dal cristianesimo sminuzzato in infinite personalità egoistiche. E quelli uomini, che lavoravano ciascuno per sé e s’innalzavano ciascuno sulle ruine degli altri ed il proprio bene avvantaggiavano a danno del pubblico, si dissero fratelli. I filosofi francesi gli smascherarono, anatomizzarono il loro cuore e mostrarono loro il vero scopo di ogni loro azione; di più ispirarono loro la dignità ed il coraggio di confessare apertamente le proprie inclinazioni. La società, a voce alta e sonora proclamò la sua formula: Ognun per sé ; la maschera dell'ipocrisia cadde: passo immenso verso il risorgimento, impossibile a compiere, prima che chiaramente e francamente si riconoscesse la condizione presente. I filosofi del xviii secolo si adattarono precisamente a compiere l'opera che richiedevano i tempi: abbattere la superstizione e sgomberare il cammino ai legislatori. Il Montesquieu cercò riformare le leggi della società, come quelli ne avevano riformato il cuore e la mente. Il Rousseau precorse i tempi, tentò stringere in un sol patto le disgregate forze della società: il suo Contrailo sociale è già un passo verso il socialismo.
L’Italia intanto non seguiva, ma d’un tratto oltrepassava gli stranieri da' quali riceveva l'impulso. Il Montesquieu studiando le relazioni sociali, cercava lo spirito delle leggi; ma le sue conclusioni erano erronee: «il terrore, scrive egli, negli Stati retti da un despota, l'onore nelle monarchie, la virtù nelle repubbliche, sono i moventi delle umane azioni»: quasi l'uomo cangiasse natura, col cangiar forma di governo. Gli Italiani per contro riprendevano il corso dell'antica loro filosofia; e il Beccaria, il Filangieri, Mario Pagano, il Romagnosi, lutti dimostrano ad evidenza come Punico ed invariabile motore degli uomini è la ricerca del bene. L’uomo tende alla felicità, scrive il Beccaria, come il grave al suo centro. Da cotesto movente applicato alla macchina sociale s’ottengono diversi effetti: i Deci, i Curzi, i Fabrizi nelle repubbliche; i Seiani ed altri vilissimi schiavi sotto la tirannide. Su cotesto principio fonda il Beccaria le sue teorie Dei delitti e delle pene, e il Filangieri tutta La scienza della legislazione. E il Pagano e il Romagnosi illustrarono la Scienza Nuova, di cui Vico, librandosi a più alta regione, avea posto i fondamenti: e cosi applicando la filosofia alla storia, come il calcolo alla meccanica, crearono la scienza d’ogni cittadino, la civile filosofia. Il Romagnosi passava all’applicazione: e, mentre tutti accordavano al popolo sovrano diritti illimitati sull’individuo, egli li ristringeva e dimostrava che l'individuo nel contratto sociale, non rinunzia a' suoi 'diritti, come pretende il Rousseau. «Un governo civile, scrive il Romagnosi, non può né deve toglier diritti, ma dichiararli e proteggerli; ché l’uomo non deve mai servir all'uomo, ma alla necessità della natura ed al proprio meglio ». Quanto quei sommi Italiani, più degli stranieri dei tempi loro, più dei moderni socialisti sviati dall'ecclettismo, toccavano del vero e s’ avvicinavano alla soluzione del problema sociale!
Non tardarono a raccogliersi i frutti di quelle dottrine. Il giogo pretesco e fratesco sotto cui l’Italia affannavasi, si alleggerì: in Napoli, in Toscana, nelle possessioni austriache i Gesuiti erano soppressi; le scienze e le lettere tosto fiorirono. Rimanevasi immobile il solo Piemonte; ivi imprigionavasi l’esule Giannone, ricacciavano in bando il Lagrangia, l’Alfìeri, il Denina. Venezia ammollita era la città degli amori e delle maschere; Genova sotto l’antica forma chiudeva moderna plebe. Pio VII, vedendosi sfuggire il potere, pensò governare colla pompa; perduta ogni riputazione in Europa, limitò all'Italia queste sue pretese e vagheggiò d’essere capo d’una pacifica e lieta lega de' principi italiani. Oltremonte, la società si sgombrava degli avanzi del medio evo ed il passato faceva continue concessioni al presente; ma r. on per ciò cessava la prevalenza di quello, rimanendone salde le basi, che solo la forza poteva distruggere. Il popolo di Parigi, che più di ogni altro era oppresso dal peso de' suoi mali, e più soffriva della contraddizione tra il governo e le leggi, tra le leggi e le idee, tra l’idee ed i costumi, iniziò la grande lotta fra il passato e il futuro. Lotta lunga, d’esterminio, interrotta da una tregua che dura, ora che scrivo, da quarantanni, ma prossima a finire; ed i varii rivolgimenti avvenuti in questo tempo ne sono i presagi.
I dolori sofferti indicavano il fine della rivoluzione francese: le guerre civili da cui era stata lacerata, le molteplici tirannidi, gl’insopportabili gravami del medio evo conducevano all’unità, all’eguaglianza, all’abolizione dei privilegi. Ma il diritto di proprietà, cardine principale dell’antica società, era scosso, non divelto; dunque i mali, sotto altra forma, dovevano indubitatamente rinascere: la solidità d’un edilizio non soffre, se, conservando le fondamenta e le mura maestre, vi studiate solo a mutarne gl'interni scompartimenti. L’unità anch’essa divenne tirannide, usurpazione, privilegio; l’eguaglianza civile un’amara derisione, perché la miseria de' più assicurava al ricco(que’ privilegi che la legge aveva aboliti. Distrutta l’antica gerarchia, cercossi un legame che potesse reggere ed unificare gli sforzi di quella nuova società, nella quale, come nell’antica, l’utile privato contrastava col pubblico. S’invo cavono le virtù romane, parve sorgessero; ma erano effetti dell’esaltazione temporanea, non dell’istituzioni; poco durarono. Furono virtù d’uomini, non di moltitudini; e perciò debole sicurtà per ottenere il fine propostosi da coloro appo i quali era il maestrato.
Eglino furono costretti ad usare la forza per sostenersi; la libertà spari: il popolo s’avvezzò ad inchinarsi alla forza e curvo ed umiliato sotto il giogo non curò più qual forma avesse. La Francia fu costretta a pensare ed a muoversi secondo il volere di pochi che la governavano, d’una fazione, non già sozza e vergognosa di persone o di famiglie, come quelle che nel medio evo dividevano le repubbliche, ma di principii. Erano idee, non uomini, che governavano; ma idee tiranniche, perché non popolari; impotenti perché opposte agl'interessi materiali delle moltitudini; non erano che la maschera, di cui coprivasi la vera sovrana, la fora. In quel presente distintamente scorgevasi l’avvenire della Francia: l’autorità protetta dalla forza era la sua costituzione; indi inevitabilmente resultava che il più forte sarebbe stato il più autorevole. I destini si compievano: un potere fondato sulla forza pe’ repubblicani era usurpazione; l’impero n’era il legittimo possessore. L’occupò ed anch'esso. a sua volta cedette a forza maggiore. Il popolo in quei cangiamenti non notò che un mutar di nomi; poco se ne curò.
La rivoluzione venne seguita dalla guerra, come il lampo dal tuono; essa produsse in Italia varii effetti secondo l’utile de' varii Stati in cui divedevasi la penisola. La Francia offri amicizia all'I talia e soccorso al Piemonte per cacciare gli Austriaci di Lombardia. L’utile dell’Italia ed anche l’utile del Piemonte, quella volta concorde coll'interesse della nazione, volevano l’alleanza colla Francia; ma non la volle casa Savoia. Il re sardo doveva unirsi cogli altri a vendicare la morte del fratello ed a sostenere il trono crollante. L’utile dinastico prevalse al bene del Piemonte e d’Italia, e sempre prevarrà: Vittorio Amedeo si collegò coll'Austria, e così fecero, ma occultamente, il re di Napoli e il papa. Le due repubbliche di Venezia e di Genova scelsero una neutralità disarmata, solito partito di quei governi che per vecchiezza son fiacchi. Neppur esse si mostrarono italiane; ed è naturale: italiana sarà solo l'Italia unita, non potrà esser mai tale una parte di essa.
Fece come loro il duca di Toscana. Vittorio Amedeo, Ferdinando, il papa temevano più l’idee che la guerra; si collegarono coll'Austria. Genova, Venezia, Toscana temettero più la guerra che l’idee; scelsero la neutralità. Cosi con diverso consiglio gli Stati italiani si separarono; da fato comune oppressi vilmente caddero insieme.
Dal 1796 al 1815 i prìncipi italiani, in ozio imbelle e vergognoso, furono spettatori di grandi avvenimenti, aspettando che ia spada degli stranieri loro rendesse il trono. Non appena lo risalirono, si mostrarono perfidi tiranni, quanto inetti politici e vilissimi guerrieri erano stati. All'aristocrazia italiana, già sepolta nelle anticamere de' prìncipi, dell'antico splendore non restava che il nome. Se si consideri come casta, fra quei grandi mutamenti, sperò solo ne suoi tenebrosi e turpi raggiri cortigianeschi, perché a ciò solo stendevasi la sua riputazione; quindi non è materia di storia. Se si considerino i singoli individui, si divisero, secondo l’indole e I’utile loro, fra i due campi: quindi abbiettissimi servi e nobilissimi martiri. La nascente nazione italiana bisogna cercarla nel popolo: in quello troveremo illustri campioni delle nuove idee e terribili difensori del passato; e fra quei due estremi una turba d’indifferenti. Facciamoci a studiare quegli avvenimenti, e vedremo come da elementi cosi discordi vengano i primi concetti della nazionalità italiana.
Le riforme che testé narrammo avevano migliorato le condizioni de' popoli italiani; ma non perciò erasi in loro risvegliato il sentimento nazionale. Quando nel cuore dei re la sicurezza diè luogo al dubbio ed alla paura, le riforme imprese si arrestarono e le condizioni de' popoli divennero peggiori di prima. Destino inevitabile della monarchia: nulla v'ha di durevole, nulla di costante in lei, meno il male; tutto cangia al cangiar di re, e sotto il medesimo re, al mutare de' sentimenti che predominano nel suo cuore. All'antico desiderio d’istruire e migliorare successe l’altro d’avvilire e deprimere i popoli; e meglio che in quello, in questo nuovo intento riuscirono. In Milano a tale era giunto il dispregio di se medesimi, che nelle farse, nelle commedie da strada (scrive Napoleone) solevano rappresentare l’Italiano che astuto ma codardo ingannava un certo grosso capitano talora francese, più spesso tedesco, forte, prode e brutale che, dopo esser caduto nel laccio, finalmente puniva con buone percosse) ingannatore, fra gli applausi degli spettatori italiani. Né meno vergognosamente avvilite erano le popolazioni del regno di Napoli. Carolina ed Acton, la Messalina e il Seiano di que' tempi, ingannando un re malvagio ed indolente, avevan tratto in dispregio quanto era della nazione; i giovani napoletani, ne’ costumi, nelle vesti ed eziandio nell'aspra favella, ponevano ogni studio ad imitar gli stranieri. Cosi la nazione, per svilimento e miseria, correva a totale ruina. Intanto, come è destino de' governi, che soverchiamente opprimono e per vie oblique cercano salute, perire anzi tempo; cosi avvenne che i popoli italiani, abituati dai despoti, che per tal modo credevan salvarsi dalla rivoluzione, ad avere se stessi in dispregio, per consuetudine d’imitazione cominciarono ad assaporare le dottrine d’oltremonte, le quali non avrebbero trovato favore presso uomini, anziché degli strani imitatori, sinceramente italiani. Il terrore dei governi diè peso a cose di nessun merito in sé; si videro congiure dove non erano che detti e pensieri; s’innalzarono patiboli. L’idee si cangiarono in sentimenti; dal sentimento si formò un partito che accolse nelle sue file gl’italiani più degni e più generosi di quei tempi, traviati da affetto, anzi da fanatismo, pe’ Francesi. Tali erano gli umori degli uomini in Italia, quando i Francesi irrupper dalle Alpi.
Fu Milano la prima capitale in cui quegli stranieri pretesero portare la libertà. La grande città lombarda si mostrò indegna delle sue glorie passate; i Francesi trovarono indifferenza nel popolo e fra i liberali adulazione e servilità da far stomaco. Il generale repubblicano ebbe in Milano piaggerie e pompe da re; e ben si scorgevano in quelle accoglienze gli effetti de' cinque secoli di servitù che, da' Torriani in poi, avevano oppresso quel popolo. I più caldi liberali, e fra questi molte donne, speravano la libertà, chiedendola, in linguaggio da servi, al conquistatore. «Il Buonaparte, scrive il Botta, con severo ciglio rispondeva: «la conquistassero; uscissero dall'imbelle vita; le armi pigliassero, le armi usassero; dura cosa esser la libertà, duri cuori e dure mani conservarla; fuggire lei la mollezza ed il lusso, solo albergare fra popolazioni forti e magnanime». Più dignitosamente cominciarono i popoli dell'Emilia; la repubblica cispadana surse con modi più virili; s’armarono i cittadini, assalirono un drappello austriaco, lo vinsero, ira mostrarono al Bonaparte i prigionieri;. nobile modo di rendere omaggio, mostrando il proprio valore. Poco o nulla fecero i Romani. Ma assai diversamente si condussero i Napoletani. la repubblica partenopea surse, visse e mori fra le stragi. I generali francesi non furono salutati di lodi e di dolci accoglienze; ma di fragor d’armi, di gemiti di morenti e di stormeggiar di campane. Le popolazioni di quello Stato non poltrirono nell'indifferenza, ma mostraron di esistere.
A quelle repubbliche successero i regni. I tumidi vantatori di libertà si fecero, con pari adulazione, ad implorare il servaggio. vile e turpe richiesta in sè, e più abbietta perché comandata. Repubbliche e regni, che a capriccio del vincitore sursero e caddero; non furono che vergogne nuove all'Italia. Ella, sotto il dominio francese, fu una schiava plaudente al padrone.
Cotesti stranieri, che si dicevano repubblicani ed amanti dei popoli ed apportatori a loro di libertà, estorsero agl’italiani, che gli applaudivano, più di duecento milioni di lire in denaro; altrettanti in preziosi capolavori ed oggetti da museo, rapiti dalle più famose nostre città; nove vascelli, dodici fregate, molti legni minori, e grande provvigione di canape e legnami da costruzione tolti alle repubbliche di Venezia e di Genova. In Napoli, dopo la fuga del re, era inclinatissimo il popolo a darsi nuova forma di governo consentanea ai costumi, alle leggi, all’indole loro, senza che facesse d’uopo gli stranieri occupassero la città. Ma i patriotti che dai Francesi soltanto speravano repubblica e libertà, per amor di patria tanto operarono colla forza e fino col tradimento, che il popolo fu vinto. Colla promessa di libertà, cessarono alquanto dalle armi; non vi erano che pochissimi luoghi ove ei combatteva. E non appena si videro imporre taglia di guerra di oltre a dieci milioni di lire, e per pareggiare alle francesi le loro istituzioni, furon privati dell’antico diritto, che carissimo avevano, di eleggersi il municipio, e poi anche disarmati; crebbe la ribellione e si venne alle stragi. L’oppressione de' caduti governi aveva reso facile l’impresa a' Francesi, i quali si aperser la via fra i troni rovesciati; ma l’intemperanza e la tirannide loro fecero sorgere il sentimento nazionale sotto varii nomi, sotto varie torme; si fece grande rodio contro gli stranieri; le armi italiane, di cui i governi non sepper giovarsi, lampeggiarono nelle mani del popolo.
La rivolta di Pavia, le Pasque Veronesi, la rivolta di Lugo, gli assalti degli alpigiani, le zuffe de' facchini e de' carbonari di Genova su per la Polcevera e pel Bisagno, furono terribili proteste degl'Italiani, contro le istituzioni portate a forza dagli oltramontani. Ma tremendo fu sopratutto il furore della gigantesca Napoli (come la chiama il Botta); in ogni valle risonò il fragore delle armi, corsero rivi di sangue. Il valore, come dovevasi, contro lo straniero cangiossi in ferocia; patriotti e ribelli si sbranavano con pari ardimento, ma con diversa fortuna. Alle guerre successero i supplizii: centoventi nobilissime teste caddero sul palco, ove quei generosi incontraron la morte, come l'avrebbero incontrata in campo, da forti. Quei terribili avvenimenti mostrarono agli stranieri che un popolo italiano esisteva; ed essi, che avevano fugato le ordinate forze allo stipendio de' re, vennero atterriti. dai pugnali dei popolani.
Se ci furono in quelle guerre armi ed armati italiani, non mancarono neppure oratori e scrittori d’italianissimi sensi. — «Italiani» (sclamava un frate in Verona, concionando sulla pubblica piazza), «di qualunque condizione, di qualunque sesso voi siate, impugnale le armi: esse sono pur quelle degli Scipioni, dei Fabii, dei Cammilli; esse sono pur quelle degli Sforza, degli Alviani, de' Castrucci. Italiani, impugnate le armi; impugnate le armi, finché questi barbari, di qualunque favella essi sieno, non sieno cacciati dalle dolci terre italiane.... Vi apprestano gl’insulti e le mannaie, perché il servire chiamano viltà, il resistere ribellione. Vi accusano d’armi nascoste, vi chiamano gente traditrice, come se non fosse più viltà al più forte usare i cannoni e i fucili contro ai deboli, che ai deboli usare contro ai più forti gli stili e le coltella... Vinti i Francesi, quale altro barbaro s’ardirà d’affrontare la vincitrice Italia? Tutti saran cacciati; il sole italiano non splenderà più che su fronti italiane; l’aria non udrà più l’ispide favelle… ».
Nella stessa Cisalpina, degli Stati italiani il più servile, circolava nel 98, acclamata dal popolo, forte e grave orazione: «E d’onde, in te, uomo da nulla,» (esclamava l’autore, giovane piacentino, contro Trouvé che veniva a riformare il governo) «d’onde in te, piccolo straniero, barbaro per l’Italia, la potestà di operare tante e si gravi cose, a dispetto nostro, nella nostra repubblica?...
Questa è dunque la fede, l’amicizia, la fraternità che di Francia ne apporti? questi i modi e le forme onde la prima ambasceria presso la novella repubblica condisci e onori? Questa la libertà, la prosperità che in Italia rafforzare pretendi? Qual vasta materia di dire per quelli che mai non posero ne’ tuoi fidanza! Diranno che voi non prometteste libertà agl’italiani che per più agevolmente dominarli e spogliarli; che oggi sotto pretesto di riforme gli caricate di nuove catene, onde viemeglio continuare ad ismungerli, a dissanguarli; che l’oro, non la libertà, è l’unico idolo vostro; che quella, d’ogni virtù maestra e fonte non è fatta per voi, né voi per lei; infine che la libertà francese sta tutta nelle parole e negli scritti, negli ululati di furibondi tribuni e nelle declamazioni di perversi e impudenti sofisti». In questi sensi continuava l’autore a rinfacciare alla Francia i suoi torti: sensi italianissimi, giusti rimproveri. I Francesi promiser molto, non attesero nulla; vile ipocrisia fu chiamare i popoli a libertà e farli poi più servi di prima. Perché non usare francamente, senza promesse mendaci, del diritto che loro dava la conquista?
Né meno italiane ed anche più altere furono le parole che il generale Championnet, assai più equo del Bonaparte, udì suo malgrado a Napoli, quando agl’inviati che domandavano la revoca di una taglia di guerra soverchiamente grave, egli rispose: Guai a' vinti! Erano cinque gl’inviati del governo (scrive il Colletta); «fra questi Manthoné già capitano d’artiglieria, gigante d'animo e di persona, amante di patria e sprezzatore d’ogni gente straniera. Il quale, sconoscendo le forme di ambasceria, fattosi oratore di circostanza, così disse: «Tu, cittadino generale, hai presto scordato che non siamo tu vincitore, noi vinti; che qui sei venuto non per battaglie e vittorie, ma per gli aiuti nostri e per accordi; che noi ti diemmo i castelli e noi tradimmo, per santo amore di patria, i tuoi nemici; ché i tuoi deboli battaglioni non bastarono a debellare questa immensa città, né basterebbero a mantenerla, se noi ci staccassimo dalle tue parti. Esci, per farne prova, dalle mura e ritorna, se puoi; e quando sarai tornato, imporrai debitamente a taglia di guerra e ti si addiranno sul labbro il comando di conquistatore e l’empio motto, poiché ti piace, di Brenno».
Lo straniero il giorno dopo, prima di confermare la taglia, ordinava si disarmasse il popolo, rammentando i mille Francesi morti nel solo assalto della città.
«Tu eri venuto per recare le leggi del Direttorio» (scrive il Foscolo a Napoleone) «che perdevano la Francia e davanla in preda allo straniero; e tu affidasti quelle leggi ad assemblee di ignoranti e di faziosi. I trattati d’alleanza ci rendevano servi; i proconsoli francesi sopraggiungevano a metter lo Stato a soqquadro; gli ordini e le mene del Direttorio ci disarmavano per assicurare la nostra dipendenza. In qual modo adunque la nostra repubblica poteva lottare? quali erano i nostri capi? antichi schiavi, novelli tiranni, uomini che non erano né politici né guerrieri. La regia autorità era in essi senza il coraggio e senza il genio per esercitarla; vili cogli audaci, audaci co’ vili, di continuo occupati a conservarsi un potere che loro sfuggiva di mano, non pensavano che a spegnere le accuse co’ benefizi, le querele colle minacce, e gareggiavano di brighe co’ proconsoli, di tradimenti co’ principi stranieri».
Da quel tempo ha principio la storia de' moderni italiani. Un popolo feroce, che pei dirupi delle Alpi e degli Appennini, per le strade di Pavia, di Verona e di Napoli sparge il terrore fra gli stranieri, e pochi oratori e scrittori, che pieni di coraggio civile rinfacciano a' conquistatori le usurpazioni ed i vanti e proclamano i proprii diritti, furono il germe del futuro popolo italiano che, inaffiato dal sangue de' martiri, cominciò ben presto a gettar sue radici. Ed il concetto dell'Italia indipendente e libera raccolse sotto lo stesso vessillo quelli che, per ragioni diverse e con diversi sentimenti, si erano levati contro agli stranieri; il sentimento comune dell’odio contro gl’invasori gli strinse e gli unì.
XXIII. Questo concetto, questo voto italiano, col tempo e col volgere degli avvenimenti, diede origine ad una setta. Sorgeva questa a Bologna: dei settari altri erano federalisti, altri unitari, tutti nemici agli stranieri; quelli accarezzati, questi temuti dai Francesi. Ebbero il nome di Lega nera ; il sospetto e i delatori ne esageravano l’importanza. Per cacciare gli Austriaci, secondare i Francesi; poi volgersi contro questi: tale era il loro disegno. Santo il fine, tristo il mezzo; ché indipendenza e libertà non si conquistano servendo altrui. Dopo due anni sorse altra società detta dei Raggi; fu emanazione di quella, fu il partito d'azione che si parti dai più. Il Pino e il Lahoz, generali cisalpini, il Birago ed altri di altre parti d’Italia pensarono al modo di levar gente armata per incarnare il disegno. Crebbe a tal segno nel Lahoz l'odio a’ Francesi, che venne accusato; abbandonò il suo comando militare; gettassi fra i popoli della Romagna sollevati, quantunque inalberassero la bandiera del l'antico despotismo; capitanò, ordinò e pose in moto quelle genti sfrenate; e poi mori sotto le mura di Ancona con nome più di traditore dei Francesi, che di propugnatore dell'indipendenza. La disperazione di un uomo, che die’ di cozzo invano nel fato d’Italia, si scorge nelle sue ultime parole, riferite dal Botta; egli sperò libertà e indipendenza da una nazione che non ancora valeva a conquistarsele: «Troppo siamo noi divisi per istato, troppo per leggi, troppo per opinioni (esclamava morendo); né gli Italiani, usi al giogo da tanti secoli, hanno l'antico valore conservato. Combattono animosamente per superstizione, mollemente per la libertà; i popolani mirano al sacco ed alle vendette, i magnati all'ozio ed all'interesse...»
Ma il lavoro del risorgimento italiano seguiva il suo corso e si stendeva; si moltiplicavano le sette, varie di riti, di forme, di nome, tutte intese a libertà e ad indipendenza. Finalmente quella famosa dei Carbonari sorta forse fra i monti degli Abbruzzi e delle Calabrie, assorbì nel suo seno quante altre ve n’erano e coprì l’Italia di sue fila. Il concetto dell'unità italiana sempre più diventava universale e gagliardo: alcuni Napoletani tentarono nel 1813 spingere Giovacchino alla conquista della penisola; erano già d’accordo cogl’inglesi e forse non era dubbio l’evento; ma Carolina, persuadendo al marito partisse per l’Alemagna, sperdeva le concepite speranze. Più fortunati nel 1815 i partigiani della libertà videro coronati i loro sforzi: un fiorente esercito di napolitani, mosse le armi alla conquista dell'Italia, incitava gl’italiani a sollevarsi in suo favore. L’impresa falli, e perché capitanata da un re che per necessità di regno sempre è pauroso, e perché il sentimento dell'unità italiana non era ancor diventato bisogno.
Ciò non ostante si erano tanto mutate le opinioni, che gl'Inglesi, campioni dell’assolutismo, per acquistar favore fra i popoli, scrivevano sulle bandiere di loro soldatesche sbarcato a Livorno: libertà e indipendenza d'Italia. Quel sentimento nazionale, dopo il 1815 cominciò ad avere gran peso nelle sorti della penisola; sin d’allora l’Italia c’è; la sua storia è quella delle sette, delle cospirazioni, de' martiri. Quella forza latente, soverchiamente compressa dal dispotismo, ruppe di tratto in tratto l’invoglio, si mostrò, scese in campo; ma finora fu sempre vinta, perché l’Italia finora non seppe al tutto spogliarsi degli antichi errori e staccarsi affatto dal passato.
XXIV. Si ricercherebbe invano nella storia un moto cosi ampio, come quello del 1820 negli Stati napoletani; neppur la Francia nella sua prima rivoluzione si sollevò con tanta concordia. Quale che fosse la cagione, certo è che tutti corsero alle armi; non si mostrarono gli oppositori, s’infinsero i tiepidi. Il resto d’Italia si stette noncurante, come per lo passato; solo il Piemonte rispose all'incitamento generoso. Furono vinti perché il carbonarismo, setta in quanto a principii italianissima, si mostrò municipale nella pratica e secondò le consuetudini di servitù che mal si potrebbero cancellare d’un tratto. Con poca fatica ottenuta poca libertà, i capi stessi del moto corsero a rendere omaggio al trono che avrehber dovuto atterrare. Cedeva, stretto da necessità, il re; ed essi lieti prestavano fede alle sue promesse. Fuggivasi il principe, tornava minaccioso, scortato da esercito straniero; ed eglino, in luogo di sperdere fino le ceneri della monarchia e muovere animosi ad incontrare il nemico, si atteggiarono a difesa, vollero opporre una stolta ed assurda legalità alla forza, sperarono veder rispettati dai despoti i loro moderati desideri!, mantennero a ca|o dell’esercito gli uomini più avversi alle nuove cose. Alla guerra segui la meritata sconfitta; a questa supplizi! e proscrizioni.
Veniamo ai moti del ‘48. Le speranze, le grida, le bandiere, che in varii punti innalzò il popolo d’Italia, furono italiane. I principi al solito finsero concedere quanto loro la paura Strappava; il popolo loro confidò le sue sorti; così il moto, cominciato appena, mutò natura. Il re di Sardegna muove la guerra. Trarre la spada e gettarne il fodero; chiamare il popolo italiano alla rivolta; poco curare gli altri principi, anzi abbattergli; col cannone rispondere alle note diplomatiche; disperdere la vecchia camarilla che colle sue trame impediva esercito e Stato; con riforme pronte ed essenziali mutare l'esercito regio in esercito italiano; muovere rapidamente l’insegne e non fermarsi prima che a Vienna: questo chiedeva l'utile d'Italia. Gir cauti; accarezzare i varii partiti, gli uni per conservare il passato, gli altri per avvantaggiare il presente; cercar protettori fra le altre potenze; spegnere l'ardore de' popoli, trattare solo co’ principi; primo fine assicurar la corona, gli antichi Stati; poi, dilatarne i confini: così persuadeva l’utilità della dinastia. E questo naturalmente prevalse. E l'immensa guerra di una gente che vuol esser nazione fu angustiata negli stretti confini di una lite per la Lombardia, fra Casa Savoia e Casa d'Austria: seguì inevitabile la disfatta. Similmente l’utile d’Italia voleva che il Papa, il re di Napoli, il Granduca di Toscana con ogni lor forza prestasser soccorso al re di Sardegna; ma l’utile loro voleva non dessero mano all'ingrandimento di un emulo, non si aprissero la voragine che gli avrebbe inghiottiti. I moti di Roma e di Toscana si contennero nei limiti di quegli Stati: si crearono nuovi governi e popolari; questi colle opere calcarono le vestigio dei caduti. I Siciliani vollero un re, un'aristocrazia; sperarono esser liberi e indipendenti mentre l’Italia era schiava: il moto fu oppresso, ne seguì la sconfitta. La Toscana pensa difendere i propri confini: non indugia la ruina. Venezia sogna esser sola città libera nell'Italia serva: Venezia cade onorata. In Roma il primo potere esecutivo si affretta a difendere gl'immaginari confini con una linea di soldatesche. Il Triumvirato le raccoglie, propugna la causa italiana; ma, suo malgrado, nell'opera una forza arcana lo costringe ad esser romano. Non temevasi ancora l’intervento francese e ad ogni caso volevasi romper la guerra. Due partiti si offrivano: muovere verso Napoli o muovere verso il Po; quello prometteva effetti maravigliosi, questo incertissimi eventi. Il Mazzini, l'unitario per eccellenza, preferiva il secondo: «non usciamo cosi, diceva egli, dallo Stato»; tanto potente è la forza arcana delle idee municipali fra noi I Difendere Roma fu risoluzione municipale, non italiana, Roma è vinta: il Mazzini vuol smentire i calunniatori di quel rivolgimento; scrive l'eloquentissima lettera a Toqueville e tutti i suoi argomenti, tutti i suoi sforzi sono intesi a dimostrare che quei moti furono non italiani, ma romani; e così fu veramente. I primi istanti di tutto le sollevazioni appartengono alla storia comune d’Italia; il seguito della guerra è storia piemontese, toscana, romana, veneziana, siciliana; ma non italiana.
Cosi l’ardore, che l’idea di libertà, dalle Alpi al mare, accende in ogni petto italiano, veniva sopito dal municipalismo. E si noti che non parlo di quel municipalismo che atterrisce i volgari; cioè, delle rivalità fra città e città, delle ruggini fra cittadini e cittadini. Perocché in queste cose è il germe della grandezza e della libertà futura d’Italia: animate da tal sentimento, tutte le città si studieranno superare l’una l’altra nel numero e nel valore de' loro battaglioni, nella magnificenza delle loro opere pubbliche; né sarà permesso ad una di loro aspirare alla supremazia delle moderne capitali. Non è questo dunque il municipalismo di che ragiono: accenno al rispetto di quei confini fittizi che impedirono il moto universale, che chiusero i moti particolari; accenno a quel ritegno che, loro malgrado, sentono i governi nuovi a superarli, alle stolte speranze che ne traggono di conservare i miseri acquisti che debbono al caso. Niuno degli Stati nei quali l’Italia è partita può dirsi italiano; perché, ripetiamolo, la parte non è eguale al tutto. L’utile di una dinastia, d’un municipio o d’una provincia non è quello d’Italia; ma dipende dalle relazioni loro colle potenze europee. Se uno degli Stati italiani esce dai limiti o muta le leggi che lo straniero gl'impone, allora la sua fortuna, se non ha sostegno in un’altra potenza gagliarda quanto l’Austria, è legata a quella della penisola italiana. Nessuno degli Stati italiani potrà riformarsi contro il volere d’Europa, senza l’opera concorde di tutta Italia; quindi è che l’Italia sarà o tutta libera, o tutta schiava.
Ed è vano citare gli Stati Sardi contro la mia asserzione. Lo statuto vige in Piemonte, non perché lo difendano i popoli in genere indifferenti, o l’esercito ligio al re, non alle leggi; ma perché le condizioni in che trovasi tutta la penisola fanno impedimento alle forze dell'Austria e le vietano por mano ad una guerra. Le vittime che tutti i giorni cadono dall’Alpi al Lilibeo, il cupo fremer del popolo, que’ pugnali di tratto in tratto corruscanti sul volto degli oppressori sono sostegno delle sue franchigie al Piemonte. E se gli uomini di Stato di quel regno non fossero di cosi corta veduta, i tristi avvenimenti del 6 febbraio 1853 a Milano non avrebber creduto pericolo, ma guarentigia di loro indipendenza. Guai al Piemonte, se il resto d’Italia tranquilla e paziente curvasse il capo sotto l’oppressione, né turbasse più i sonni de' suoi tiranni!
Da quarantanni, ora che scrivo, cominciò la storia moderna d’Italia: le sue pagine non hanno che voti, riti di sette, cospirazioni, tentativi infelici, martirii senza fine. Ma il concetto dell’Italia una e libera, prima aspirazione di qualche generoso, poi idea di molti, poi sentimento di moltissimi, ha invaso l’Italia e si è diffuso nell'universale; sdegna oggimai l'angusto confine delle sette, ove non trova campo bastevole; non vi ha uomo pensante che non l’intenda, e al volgo incerto ora sembra cagione dei suoi mali, ora speranza di migliore avvenire. La tirannide intanto va mutando il sentimento in bisogno. L’azione è certa, è inevitabile: ma saremo vincitori o vinti? Chi sa?!...
Se, poco curando la molta e dolorosa esperienza, ciechi seguiremo l’istinto che, per la via obliqua ma in apparenza più piana, ci condurrà agli antichi errori, la schiavitù sarà ancora lunga. Se francamente, troncato ogni vincolo col passato e col presente, seguiremo la via aspra ma retta, la vittoria è sicura.
FINE DEL PRIMO SAGGIO.
Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura! Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin) |
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