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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

LA SITUAZIONE

DI GIUSEPPE MAZZINI

LONDRA

Settembre 1857

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

I

Quando i Partiti scendono, sistematicamente alla immoralità — quando perduta ogni dignità di fede, ogni abitudine di guerra leale, non assalgono più che colla menzogna, non combattono che coll’insulto, non ammettono possibilità di convinzioni diverse in altrui o d’onestà traviata se vuoisi in chi, guerreggia in altro campo che non il loro — stanno spegnendosi: son Partiti decaduti a fazione. I Partiti forti non insultano, confutano; reprimono, non calunniano;

deplorano l’errore degli avversi, non attribuiscono ad essi delitti gratuiti.

I cattolici e i monarchici del Piemonte hanno dato e danno in questi ultimi giorni segni visibili dello stato a cui accenno. Ricordano gli ultimi tempi della antica rivoluzione francese, quando la fede ne’ suoi destini non viveva se non negli eserciti che combattevano al di là della frontiera, quando in Francia la paura suggeriva il terrore, il dubbio sui propri fati generava il sospetto, e alla maestà del giudizio di Luigi XVI erano sottentrati il cieco furore e la cieca calunnia.

Al primo svelarsi dei disegni di Genova, i Partiti forti avrebbero usato un linguaggio di. condanna severa; avrebbero deplorato le illusioni perenni d’uomini che s’ostinano in creder l'Italia propizia in oggi a rivoluzioni; avrebbero cercato dimostrare che la via pacifica tenuta dalla monarchia piemontese è la sola dalla quale possa quando che sia venir salute all’Italia; avrebbero insistito sulla grande responsabilità che pesa su chiinterrompe quella vìa senza certezza di schiuderne un’altra, sui pericoli d’una guerra fraterna, sui pretesti somministrati a interventi stranieri. Contro un Partito il di cui disegno qual che,si fosse era evidentemente fallito o rimesso indefinitamente a tempi futuri, la vittoria era facile. Bastava contener le accuse per entro i termini del verosimile, usar linguaggio di dolore più che di trionfo brutale, e accusare d’acciecamento e d’inettitudine anziché di colpe incredibili e di insana ferocia.

I partiti deboli, le fazioni, hanno tenuto altra via. Irritati di trovarsi pendente ad ogni ora sul capo la spada di Damocle, smentiti, dall'esistenza di un vasto malcontento in una delle loro città, nelle affermazioni diffuse all'Europa d’una unanimità senza pari nei sudditi del Regno Sardo, noiati del vedersi ricomparire sugli occhi numeroso abbastanza un Partito ch'essi da parecchi anni dichiarano spento, s’attennero al metodo facile, ma pericoloso, delle calunnie. La stampa moderala e la retrograda diedero a gara un turpe spettacolo di contumelie, di corrispondenze bugiarde e stolide a un tempo, di menzogne avidamente accolte o architettate per fini politici, d'ipotesi sulle intenzioni dei congiurati calcolate ad aizzare contenessi le passioni del volgo letterato o plebeo: taluno, il Cronista, parlò dal campo dei moderati, con piglio d’oscena gioia, di probabili gole allacciate e teste spiccate dal tronco, tal altro dal campo cattolico, l’Armonia, lamentò la possibilità che per difetto di prova la repressione si riducesse a parecchi anni di reclusione per un piccol numero di popolani. In quest’orgia d’Iloti briachi che si chiamano moderati e religiosi, un Luigi Roggero fu accusato, per errore, dal Cattolico, d’esser valdese; una donna straniera, la cui devozione alla causa Nazionale Italiana dovrebbe fare arrossire ogni Italiano che la sà trattenuta in carcere da un Governo nostro, fu derisa, calunniata da parecchi giornali di Torino, e la Gazzetta del Popolo insinuò che si sarebbe dovuta trasportare con,due dita alla frontiera. Genova si disse minata in più punti; un organo semiufficiale, la Gazzetta di Genova, dichiarò ordinato il saccheggio. La Gazzetta del Popolo accennò alla liberazione dei forzati come a parte del disegno; affermò intanto minata la Darsena, minato il palazzo dei Dogi Liste di proscrizione domiciliari di tutti gli ufficiali, invasione di contadini per compire l’opera di

carnificina,

non una iniqua calunnia, non una tattica Austriaca fn risparmiata per aizzare la classe dei cittadini abbienti contro i nuovi Catilina. Gli stolti non osavano intanto giovarsi, com'era dovere, della Guardia Nazionale di Genova!

Dopo le accuse feroci, il gesuitismo politico: ogni arte è buona a colpire il nemico. A separare un fatto patentemente generoso dagll'altri, le dichiarazioni di dissenso tra me e Pisacane: a. prova della mia ambizione, le storie di convegni nei quali io, contro l’altrui opinione, insisteva perché, si facesse in Genova dov’io era; a prova della mia viltà, la mia subita partenza dopo dato l’ordine della mossa.

Poco monta che le accuse si contraddicano, e ch’io, fuggendo, mal potessi far monopolio a pro della mia influenza del moto ordinato. I lettori son molti; molti di corto intelletto; molti avvezzi a leggere spezzatamente i giornali; dove una calunnia non giunge, pensano, giungerà l’altra.

Le dichiarazioni ministeriali intanto riducono fin d’ora e il processo iniziato ridurrà più sempre i gazzettieri moderati e religiosi alla parte di calunniatori sfrontati.

Qual parte io m’avessi nei pensamenti genovesi del giugno, se di soldato o di capo, non monta. Posso bensì contrapporre alle basse accuse l’affermazione di chi non ha mentito mai, né celato, anche dov'era pericoloso svelarla, la verità; e lo fò.

È menzogna che una parte qualunque della città fosse minata. Ogni ufficiale interrogato dirà che l’ufficio dei sacchi di polvere colla miccia è quello di rovesciare subitamente porte chiuse e che importa varcare.

È menzogna che volessero liberarsi i forzati; erano anzi adottati provvedimenti speciali per impedir nel subbuglio ogni tentativo di fuga.

É menzogna l’esistenza d’ordini di saccheggio; gli ordini citati dalla Gazzetta di Genova o non esistono o son opera di calunnia.

É menzogna la lista degli indirizzi domiciliari degli ufficiali.

É menzogna l'ordine mio citato, se non erro, dal Cattolico, che parla di bottino da serbarsi a non so quale società nazionale.

È menzogna ogni accusa, non dirò di strage, ma di guerra accanita alle truppe. Se pure qualche istruzione mia o d’altri è caduta elemento di processo, ogni uomo potrà chiarirsi che s’insisteva per questo: non violenze: i soldati piemontesi sono italiani che bisogna conquistare alla patria comune.

É menzogna ogni lista di proscrizione. L’ultime linee ch'io scrissi prima della sera 29 farebbero arrossire, se apparissero mai nel processo, parecchi tra i calunniatori.

Il disegno non recato ad effetto intorno al quale s’affaccenda in oggi il governo piemontese era disegno Italiano; né credo aver bisogno di provarlo. Bastano Livorno e il fatto generoso di Pisacane tentato con braccia in parte di genovesi per indicare a qual concetto si coordinasse il moto locale; come fosse anello d'altre imprese, non proposito isolato, impresa per sé. E se il governo ha sequestrato coccarde, sa quali colori vi splendessero sopra. Se Genova sorgeva, sorgeva non per intolleranza di mal governo locale, di pesi enormi, o di misureche buone in sé e quando i nostri confini fossero all'Alpi, sono, oggi cheStanno alla Magra, oltraggio gratuito a vecchi ricordi e null’altro: sorgeva per tutti; per culto all'idea Nazionale; per ira lungamente, pazientemente represse, contro la tirannide esercitata sugli Italiani dall'Austria e da' suoi proconsoli per dichiarare ch’essa pure è città Italiana, che suoi sono i dolori fraterni, sue le speranze, suoi i doveri, sua la vergogna che s’aggrava sulla fronte all’Italia schiava. Come Pisacane s’impossessò del Cagliari per giovarsene alla liberazione dei prigionieri di Ponza e alla discesa sulle spiaggie napoletane, cosi Genova voleva che i suoi materiali da guerra, i suoi mezzi d'azione fossero mobilizzati a pro dell'impresa e della Patria comune.

É questo il vero, e nessuno può far che non sia.

E a qualunque abbia anima Italiana, non da livrea il concetto potrà parere inopportuno, immaturo, pregno di pericoli, ineseguibile, non ignobile o tristo. Genova sorgeva, non provocata da patimenti fuorché d’altrui, non sollecitata da speranze fuorché d'Italia. Genova sorgeva dicendo alle nazioni d’Europa:

«Io disperdo con un solo fatto tutti gli errori che voi nudrite tuttora sulla questione Italiana: io v'insegno in modo che non ammette dubbiezza o confutazione ciò che l’Italia vuole, ciò per cui soffre, freme, combatte. I vostri lagni sulle nostre condizioni materiali, le vostre proposte di miglioramenti amministrativi, i vostri protocolli inefficaci perché s' allentino le catene a pochi prigionieri, provano che voi non ci conoscete, e ci disonorano. In Italia non si combatte per egoismo d’interessi materiali, per impazienza d’oppressioni individuali, per soprusi d’un giorno o patimenti locali che la rassegnazione di chi soffre o un mutamento possibile nelle tendenze di chi tormenta potrebbero far cessare. In Italia si combatte per essere. Vogliamo di popolo farci Nazione. Vogliamo unità. Vogliamo che dalle l’Alpi al Mare sia rappresentata da un Patto comune, da una sola Bandiera, l’idea collettiva, la vita Italiana che ci freme dentro. Questo vorremmo, s'anche schiudeste domani tutte le nostre prigioni, s’anche i nostri padroni concedessero libero l'esercizio d’ogni diritto locale. E sorgiamo a provarvelo. Genova ha libertà. Genova ha mezzi che nessun errore o artificio economico può rapirle. Genova può sperare di correggere per vie legali ogni vizio, ogni malvolere

governativo. E per questo Genova sorge. Voi non potrete supporre ch’essa sorga per altro che per una Idea; il suo porre a rischio ogni cosa più cara senza che alcuna cagione propria, immediata la sproni, vi provi almeno ora e per sempre, perché frema l’Italia e qual potente alito di vita comune si stenda per le diverse parti che la compongono».

Era una bellapagina di storia, né so d'alcuna città che ne abbia scritto una simile. I Polacchi scrivevano ai Russi sulle bandiere: per la nostra libertà e per la vostra: Genova avrebbe detto ai fratelli: io pongo a pericolo per la vostra la mia libertà.

Il governo ch'è piemontese, non Italiano, può fare il debito suo reprimendo e difendendosi contro chi sorge, anche per trascinarlo verso migliori e più nobili fati. Ma gli scrittori che si dicono uomini della Nazione e s’avventano rabbiosamente contro chi tenta innalzarne dove che sia la bandiera che dichiarano ad ogni ora il Piemonte essere palladio della libertà di Italia e trattano siccome colpa ogni tentativo generoso ch'esce a pro’ d’Italia da questo Piemonte — che levano ogni mattina in alto davanti ai loro fratelli e all'Europa le cuffie del silenzio e i flagelli grondanti sangue italiano poi maledicono ogni sera a quei che privilegiati di santi sdegni e di santo amore tentano giovarsi della propria libertà per rompere sul viso agli oppressori dei fratelli ordegni di tortura e bastone — che piaggiatori un giorno' del popolo insorto poi di Carlo Alberto moderatore, poi di noi, poi di re Vittorio, poi di Luigi Napoleone, dello Tsar, d’ogni forza che vinca, osano chiamar traditori noi che da ventisei anni predichiamo ad alta voce un programma d’Unità Italiana e d’azione, danno all’Europa un tristo spettacolo.

Se non che contro gentaglia siffatta io sdegno difendermi. Néscrivo queste mentite per me; le scrivo per gli uomini i quali, pure avendo affetti di città e di famiglia e vita riposata e, molti almeno, averi e conforti d'esistenza materiale, rinunziavano lietamente ad ognicosa e s’avventuravano ai pericoli d’una impresa, il cui primo risultato doveva essere di trasportarli fuori della terra ove nacquero, a soccorrere fratelli d’altre provincie, tra rischi di navi armate in crociera o di battaglioni concentrati forse sui punti di sbarco. Le scrivo per debito verso una città, nella quale l'idea nazionale s’è fatta popolo e il raro concetto che la libertà propria dev'essere a servigio dell altrui, verità sentita ed elementare. E le scrivo perché da quella oscena polemica e da quel cumulo di calunnie gli stranieri che leggono e guardano attenti alle cose nostre non imparino a crederci contaminati insanabilmente di tutte colpe e indegni davvero di libertà.

Tristo a dirsi! se l'Europa potesse mai giudicarci dal linguaggio dell'unica stampa libera che sia in Italia — se non avesse eloquente risposta alle pazze accuse la bella morte dei nostri migliori, la vita nobilmente vissuta da noi nelle contrade' straniere, gli affetti meritati dovunque andammo, gli scritti che i nostri accusatori non leggono o pensatamente dimenticano, i fatti repubblicani di Roma e Venezia — tutto un partito, partito d'uomini che predicano e tentano azione in nome dell'Unità Nazionale, d'uomini che approvati o no nei loro disegni pratici, sono pure ovunque accettati come imbevuti d’un culto religioso alla Patria comune, d’uomini che hanno, non foss'altro, instancabilmente e innegabilmente diffuso il nome e il desiderio d'una Italia tra le nazioni, d’uomini che incauti o no, improvvidi o no, rinnegano pur sempre gioie della vita individuale, conforti, averi e fama e pace e sicurezza per correr dietro a ciò che essi credono il vero, altri un fantasma di vero apparirebbe agli occhi di tutti come partito ebbro di vendetta e di sangue, partito di devastatori e carnefici, vólto a saccheggiare e distruggere le proprie città pur gridando di volerle emancipate e combattenti a pro dell'Italia, ed ambire monopolio di direziono pur infamandosi e suscitandosi contro l’immensa moltitudine degli Italiani. E perché? perché saremmo noi, che protestammo arditamente contro gli errori delle sette socialistiche francesi, seguaci di Catilina e sovvertitori d’ogni vincolo di convivenza sociale? perché libereremmo i forzali che il dì dopo truciderebbero noi? perché daremmo le case egli averi al saccheggio, quando staremmo per iniziare una guerra alla quale dovrebbero concorrere tutte le fortune? perché renderemmo impossibile con atti insani di ferocia ed esosi a tutti, il favore del paese e d’ogni paese? 0 frenesia di suicidi, o certezza in noi — e ammessione tacita in voi, dacché tentativi ed accuse si riproducono frequenti e su molti punti d’Italia — che ad una vasta cifra d’italiani sorride l’idea di delitti siffatti e un futuro d'anarchia sistematica, di strage ordinata e rapina. A questa conseguenza voi trascinereste, sciagurati, il giudizio straniero, il giudizio degli uomini ai quali continuerete domani a mendicare vilmente una frazione omiopatica di libertà o miglioramento locale per le provincie oppresse d’Italia, se per ventura il basso e cieco furore del vostro linguaggio non rivelasse ad un tratto che siete pochi e non l’Italia, ma il fango d’Italia.

No; non riescirete a ingannar l'Europa su noi. Lentamente, ma infallibilmente giusta, l’opinione va illuminandosi e s’illuminerà più sempre sulle vere tendenze e sull'avvenire dei partiti in Italia. L’opinione vi vedrà intolleranti, ingiusti, immorali. L'opinione v’udrà oggi accusar Pisacane d’avere inalberata la bandiera rossa, domani d’essere murattista, v’udrà persistere in dire ch’io sacrifico ogni cosa di esclusivismo repubblicano, quando scritti e proclami miei non parlano che di volontà nazionale; v'udrà un giorno a chiamarci fiacchi, inetti, idealisti, utopisti; un altro feroci, saccheggiatori, inesorabili a qualunque ci è avverso; e vi conoscerà partito bugiardo. L’opinione v’udrà proclamare a ogni tanto che l’Italia è vulcano presto ad erompere, poi protestare contro ogni fiammella che si guizzi sul nostro suolo; v'udrà millantarvi inevitabili liberatori, poi chiedere libertà all’uomo del 2 dicembre, alla diplomazia inglese, allo Tsar; v'udrà dir minacciosi, in piglio di Argante; o riforme, o rivoluzione, poi confessarvi impotenti a ottenere riforme e nemici alla rivoluzione; e vi conoscerà partito di parole e di faccendieri codardi. L’opinione vi contrapporrà una intera serie di forti fatti, dai piemontesi del 1821 sino ad Agesilao Milano e a Carlo Pisacane, e intenderà che, per quanti insetti brulichino tra i suoi velli, il Leone Italiano cresce pur sempre di membra e vigore.

II

Il signor Ausonio Franchi in un numero della Ragione che mi viensottocchio, inveendo contro il tentativo di Genova ch’ei chiama con aperta mala fede trama ordita contro la libertà, dichiara che dove non è tirannide, le sommosse sono attentati contro la libertà, sono fasi di guerra civile. Norme siffatte prefisse a criterio dei casi di Genova son forse logica di filosofo materialista, non certo d’uomo italiano che intenda a porre onestamente in chiaro le condizioni della questione vitale che s’agita in oggi nelle viscere del paese.

Cito, tra la moltitudine degli accusatori, il sig. Ausonio Franchi non perché le sue accuse abbiano maggior peso dell’altre, ma perché, movendo da lui scrittore di merito in alcune cose e liberissimo in tutte, rivelano più potentemente il guasto, che s’è fatto negli intelletti per riguardo alla questione Nazionale e come i migliori soggiacciano pur troppo senza pure avvedersene all’influenza esercitata negli ultimi anni dalla tattica monarchica piemontese, dal dualismo che s’è fatalmente impiantato di Piemonte e d’Italia.

Questo dualismo è in oggi la piaga mortale della Nazione. Bisogna combatterlo a viso aperto, distruggerlo, o rassegnarsi ai danni e alla vergogna della schiavitù.

Se la questione che s’agita nell’anima nostra fosse questione di miglioramenti interni in una frazione d’Italia, questione sociale o politica concernente i quattro milioni e più d’uomini viventi nelle provincie sarde; chi potrebbe sognar di congiure o sommosse? A chi non parrebbero colpa le vie della violenza quando l'esercizio dei diritti di petizione, di stampa, d’associazione non è conteso?

Ma la questione non è locale; è Nazionale, Italiana. Cercammo finora, cercammo tuttavia la Patria comune, l’Italia Una, l’Italia dell’Alpi e del Mare, l'Italia per la quale da quasi due terzi di secolo muoino i nostri migliori. Da ventisei anni in qua da vita è per noi una guerra tendente a conquistarla. Se ad altri, ottenuto un grado qualunque di libertà per sé stesso, or piace dimenticar quel pensiero, noinon possiamo né vogliamo dimenticarlo. Gli ozi dello Statuto non possono farci traditori della nostra bandiera e dei milioni di nostri fratelli ai quali giurammo d’esser liberi insieme.

Sulla carta d’Europa noi non conosciamo che l’Italia; le diverse frazioni di territorio che la compongono non sono per noi che zone di operazione. Un trattò d’Italia conquistato a libertà diventa pel partito nazionale la base a una linea di operazione che ha il suo punto obbiettivo al di là.

Chi non ammette questo programma, può essere piemontese, genovese, lombardo o toscano; non è Italiano.

E l’ammettevano essi tutti, quei che ci rimproverano in oggi di turbare le libertà pacifiche del regno sardo, immediatamente dopo il 1848; e ci dicevano: «ringraziamo la provvidenza che ci salva quest’angolo d’Italia alla libertà; diverrà punto d’appoggio alla leva emancipatrice: ordineremo le nostre file; raccoglieremo materiali all’impresa nazionale; qui si ritrarranno i generosi delle altre provincie, quando i loro tentativi non riusciranno, a rinfrancarsi, a prepararsi securi a nuove riscosse; da qui diffonderemo ai fratelli schiavi la bella chiamata. Il Piemonte libero è il campo dell’azione dell’esercito liberatore».

Io crollava il capo fra la speranza e il dubbio presago, e diceva: sì, purché duriate fermi nella vostra fede; purché gli ozi di Capua non, v’addormentino; purché il tentatore della natura umana, l’egoismo, non vi faccia, nel soddisfacimento di alcuni dei vostri bisogni, apostati dei vostri fratelli; purché all'unità degli infelici non sottentri il dualismo fatale del potente e del fiacco, del prospero e del meschino.

Ah vergogna e dolore! il tentatore ha prevalso, il campo del l’esercito liberatore s’è fatto convegno d’addormentatoti o peggio. Il dualismo del prospero e del meschino s’è impiantato, coi nomi di Piemonte e d’Italia, negli animi. Il senso di solidarietà, di comunione con tutti i nostri per sangue, cielo, patimenti e missione, che davanti agli uomini e a Dio ci faceva degni di libertà, s’è intorpidito tra i nuovi interessi e le anguste speranze. La piccola patria ha fatto dimenticare la grande, la vera, l’unica patria, l’Italia. Gli uni, i raggiratori, i tormentati, non dirò d’ambizione — non son da tanto — ma di vanità, sognano lo scanno nel Senato o nella Camera, le fazioni ministeriali, l’impiego. Gli altri, i tiepidi, accantonati nel loro giornale, nella loro rivista, nella loro sottoscrizione, pei cannoni di difesa, hanno convertito ciò che non doveva essere se non mezzo in fine. La turba dei creduli sfaccendati ha cominciato a diffondere per ogni dove che la mera esistenza dello, Statuto e della monarchia piemontese è la salute d’Italia. Gli italiani dell’altre contrade che dovevano rinfrancarsi, riordinarsi ad opere generose nella libera zona d’Italia, trovano, diventati esuli, emigrati, come nel medio evo, su questa zona, leggi d’eccezione, arbitrio, persecutori e birri, qualunque volta tentino insistere sull opera emancipatrice. La bandiera d'Italia è proscritta, dove, non si frammischi ai bei tre colori un quarto colore, di una famiglia di principi. La parte del campo liberatore è ridotta ad una codarda, immorale, antiitaliana teoria dell’esempio, che dice a fratelli schiavi; noi siam liberi, e ci basta:: fatevi liberi, se potete.

E quando noi, costanti, severi, fedeli alle nostre prime promesse, gridiamo, colla parola e col fatto, agli immemori: «la vostra libertà, frutto del fermento nazionale, che corse nel 1848, l’Italia intera, è un debito maggiore per voi. Per legge di Dio e di uomini, i doveri sono in proporzione dei mezzi. Voi li avete questi mezzi, materiali e morali: usatene, o siete indegni di esser liberi. Non parlate & esempio, non aggiungete l’insulto all'inerzia; esempio a chi? agli uomini che hanno la del silenzio sul capo? a quei die, ricinti dalle baionette straniere, . non possono riunirsi in cinque, non procacciarsi un fucile, non trasmettersi colla stampa un consiglio? L’ esempio che voi date è quello dell'egoismo, quello dei ricco che don chiusa nelle casse la propria fortuna, mentre d’intorno a lui si muore d’inedia, quello dell’uomo che abbarra la propria porta mentre si scanna al di fuori 0 il Piemonte è l’antiguardo della nazione, o merita la maledizione di Caino. Oprate, perdio, e vi seguiremo; dove no, opreremo e faremo di trascinarvi sull’arena dietro alla opportunità che pre tendeteaspettare» — Abbiamo il nome di traditori e le accuse le più stolte, le più villane, s avventano da quei che tradiscono ad ogni ora la loro missione sulle teste dei soli che amino sempre e davvero l'Italia e tentano di fare per essa.

Pochi anni prima del 1830, sorse in Francia una scuola d’uomini i quali in nome delle libertà violate, dell’onere offeso, e del diritto dei più, si diedero a sommovere le moltitudini. Parlavano ai popolo d’un’èra novella che schiuderebbe a tuo» le vie del miglioramento materiale, intellettuale, morale; enumeravano con accento di sdegno le ineguaglianze tra i figli d'una stessa terra, le ingiustizie tradizionalmente commesse a danno della classe più numerosa e più povera; s’affratellavano coi popolani nelle associazioni segrete; congiuravano, combattevano con essi. I popolani rovesciarono un giorno la monarchia de' vecchi Borboni. Gli uomini di quella scuola saliti ai potere, ordinarono leggi a tutelare l'esercizio dei propri diritti, a perpetuare nella propria classe ogni influenza governativa, a far monopolio per sé di ricchezza e d'onore. E noi? le promesse? l'eranovella d’eguaglianza e d'amore? gridava il popolo dimenticato. Noi abbiamo conquistato il nostro ben essere, risposero i moderati di Francia; conquistate il vostro, se pur potete.

Con qual nome chiama egli lo scrittore socialista quei disertori della causa del popolo? Quel nome può darsi dal popolo italiano al Piemonte.

Ponete una terra, la Francia a cagion d’esempio, ricaduta, dopo ungeneroso tentativo di rivoluzione, sotto un giogo tirannico e invasa dallo straniero. Ponete che nel bacino del Rodano o altrove. un esercito di quarantacinque mila francesi, provveduto d’ogni materiale di guerra, padrone d'una zona di settemila. miriametri quadrati, appoggiato sopra una popolazione di quattro milioni d’uomini e più, abbia serbato libertà d’azione ¡e gli occhi di tutta la nazione s’affissino in esso, e gli oppressi di tutta la nazione stiano preparati a secondarne le mosse? Intorno al recinto che racchiude quello esercito e quella popolazione, l’invasore tortura e trucida; il nome e la bandiera di Francia son trascinati nel fango.

I liberi del bacino del Rodano guardano altrove; s’ordinano a convivenza gioconda: patria, dicono, ci è il suolo che noi calchiamo: noi siamo liberi e basta.

Con qual nome chiamate quei disertori della Nazione? Quel nome può darsi dalla Nazione Italiana al Piemonte.

In virtù del moto che suscitò nel 1848 l’Italia intera a tendenza nazionale, il Piemonte è rimasto libero. Quattro milioni e mezzo d'italiani, con esercito proprio, con arsenali, con navi da guerra, con mezzi finanziarii eguali a ogni impresa, son liberi da nove anni, e né un palmo di terreno è stato conquistato alla libertà al di là dei loro confini, né una sola vittima strappata per opera loro in Italia alla tortura o al patibolo.

E non basta. Per tattica di monarchia che non vuol fare, ma vuol tenersi pronta a padroneggiare un moto possibile, i raggiratori dell’alte sfere cospirano incessanti, comeché smentiti a ogni tanto pubblicamente dai padroni, a persuadere ai miseri dell'altre provincie italiane che la monarchia piemontese farà.

Per bisogno taluni d’inorpellare a se stessi il vero e liberarsi da un rimorso, tali altri d’esimersi da sagrificii e pericoli, i raggiratori delle basse sfere, s’affaccendano a convertire le ipotesi sussurrate

dai primi in prossimi fatti e ad avversare siccome fatale a più vasti e securi disegni ogni provai ogni disegno di azione. E la credulità degli ineducati, il prestigio potente esercitato sugli animi da un fantasma di forza, l’ozio che accarezza i tiepidi nell'amore, la vanità ferita dallo spettacolo dell'altrui costanza, l’egoismo conscio o inconscio, di quei che servono ai conforti della vita, hanno creato, segnatamente nelle classi medie, un popolo di raggirati che commettono da nove anni ostinatamente la salute d’Italia ai protocolli che riconoscono il dominio dell'Austria sul LombardoVeneto, a proposte di ministri liberatori che insegnano ai padroni come possa evitarsi l’unità nazionale, a guerre di Crimea che mendicano la cooperazione dell’Austria, a mediazioni francoinglesi che dimandano e non ottengono liberazione d’alcuni prigionieri, ai disegni occulti’ dell'uomo che, spenta la libertà di Francia e di Roma nel sangue, è costretto da fati inesorabili a vivere e morire tiranno. Così, il Piemonte s’è fatto, non solamente inerte, ma predicatore d'inerzia. Per opera sua, il partito nazionale perde una moltitudine di forze, e d’uomini, che se non seguissero miseramente illusioni e fantasmi, se disperassero d'ogni cosa fuorché delle forze vive e vere d’Italia, s’accentrerebbero a chi vuol fare.

Io conosco raggiratori e raggirati d'antico, e avrei potuto da molto dire a' mieiconcittadini: non abbiate speranza che gli uni o gli altri si pieghino al fare; dai primi non avrete mai che delazioni e tradimenti; i secondi seguiranno, il di dopo, un’azione energicamente iniziata. E nondimeno per obbedire in: parte a una opinione largamente diffusa, in parte per sincerar me stesso ch’io non errava ne’ miei giudizi, ho tentato, tentato ogni modo per trarne scintilla di vita italiana: ma inutilmente. Per otto lunghi anni lasciammo intatto dai nostri lavori il Piemonte. Poi, l'anno addietro, dicemmo ai raggiratori: vi manca l’opportunità? sussurrate ai vostri che non ci attraversino le vie; e la creeremo per voi, pel vostro esercito, dove vorrete: temete la nostra bandiera? noi non leveremo se non una bandiera nazionale, e, sebbene traditi una volta da voi, torneremo ad aspettare riverenti che le volontà della Nazione si manifestino. Ai raggirati dicemmo: voi credete che la salute d’Italia penda dalla monarchia piemontese: sia; ma questa monarchia non può, anche volendo, scendere sul campo prima: c’è d’uopo aprirle la via, come nel 1848, con una insurrezione di popolo: congiungete dunque i vostri sforzi coi nostri a crearla. 1 primi s’affiatarono di tanto che bastasse, con chi fosse più credulo, a confermar l’opinione di desideri italiani; forse ad addentrarsi nei nostri disegni; forse a potere un giorno accusarci di concessioni; poi, stretti a decidere, si ritrassero: I secondi accennarono assenso; non diedero aiuti, non tentarono ordinarsi a lavoro pratico. Oggi gli uni e gli altri ci accusano e ci calunniano.

A me, a noi, non importa di calunnie e d'accuse. Non riconosciamo, giudici fuorché Dio,'la nostra coscienza, e l’Italia futura. C’importa di chiarire senza reticenze codarde la nostra, e l'altrui:posizione. C’importa di. dire, che, tentate tutte le vie, noi non abbiamo più: obblighi fuorché verso la Patria comune f che sentiamo onnipotente, il dovere di aiutare i nostri fratelli ad emanciparsi; che crediamo i mezzi d‘ ogni città Italiana sacri all'impresa. Nazionale;! che dove il popolo. 'vorrà che. siano mobilizzati per. quell'intento, lo conforteremo a farlo come ad opera santa; che questo è il segreto dei tentativi di Genova e che quanti attribuiscono ad essi un diverso pensiero o ingannano o sono ingannati. C’importa di dire, che quattro milioni e mezzo d’italiani liberi in mezzo al servaggio comune e nondimeno inerti fuorché a parole, sono colpevoli verso la Nazione e indegni di ciarlare di Patria, d’abborrimento all’Austria, d’orrore contro le ferocie borboniche in Napoli. C’importa di dire che agli uomini del Piemonte i quali dissentendo dalle nostre vie, si dichiarano nondimeno amanti d’Italia e sentono profonda come noi là sentiamo la vergogna delle condizioni presenti, corre debito di provarlo, d’osare, d'esprimere arditamente la volontà loro, d’associarsi pubblicamente, di provvedere d'armi i loro fratelli schiavi ed inermi, di formare col sagrificio d’ognuno la cassa della Nazione. C’importa di dire che solamente ad uomini siffatti noi concediamo diritto di giudicarci, di consigliarci, di modificare la tattica dei Partito d’Azione. Le accuse degli altri che atteggiandosi a fautori della Causa Nazionale, non fanno né sagrificano mai alcuna cosa per essa, non meritano se non disprezzo, e lo hanno largamente e profondamente da me.

Una ITALIA:questo vogliamo ed avremo; né poseremo prima d'averla. Incerti del nostro popolo, noi potevamo, prima del 1848, tentennare fra l’insegnamento, le stampe clandestine, le associazioni educatrici segrete, e lozione oggi no. Questo popolo, noi fo vedemmo sorgere, ineducato com'era, per solo istinto di patria, dovunque fu chiamato: sorgere e vincere. Oggi, ha convezioni,non istinto solamente, di patria; sordida spontaneo per le nostre città; s educa come meglio può; legge, avidamente, dove gli è concesso, le storie de' suoi maggiori; data la storia, dove l'ignoranza è legge di Stato, dai ricordi del 1848 e li trasmette a quei ch'erano fanciulli allora; chiede di fare Ozia. Questo nuovo onnipotente elemento, questo elemento vitale della Nazione futura, è nostro per comunione di tendenze e d'affetti, nostro;per riverenza sincera e vergine entusiasmo a una Idea provvidenziale di Patria Italiana, nostro per un senso di bisogni crescenti ai quali non può dare soddisfacimento che la vasta Nazione; nostro perché natura delpopolo è l'azione, e noi soli la predichiamo e cerchiamo promoverla.

Stolto chi lo fraintende, non lo interroga o si sconforta alle prime sue inesperienze o ad. alcune sue improntitudini inevitabili! Tristo chi invece di rallegrarsi del suo progresso o di salutare con fremito di fede italiana riconfortata il suo fremito, biasima e calunnia i suoi tettativi, e semina, sfrondandogli le prime più sante illusioni di unità negli sforzi, pericoli di tremendi sospetti e di malaugurate scissioni future! Noi lo conosciamo questo elemento e ce ne prevarremo: amiamo d’amore questo popolo, il cui giovine palpito è conferma alle nostre più care credenze, questo popolo che balbetta con aspirazione profetica il nome di Roma, che ha in sé più che non è in noi letterati l'unità del pensiero e dell’azione, che è presto a compiere grandi cose senza gloria fuorché collettiva, senza vanità di plauso dato a individui. E questo popolo che non ha l'anima addormentata di allori colti, né sviata da false dottrine, né intisichita dal senso inconscio d’un benessere che quando non s’ha patria, né nome, e torturano a due passi il fratello, è obbrobrio d’iloti pasciuti, ama noi; ci ama e ci segue anche quando intende confusamente, i nostri errori, perché sa le nostre intenzioni, il nostro programma semplice e logico, e la nostra costanza. Noi ce ne prevarremo à un intento che non cesserà se non colla vita. Processate, imprigionate; punite; a che pro? il popolo è l’idra le cui teste rinascono moltiplicandosi. Quando un’idea. ha penetrato tra le sue file, nessuna forza umana può spegnerla.

E questa idea, entrata or nelle file del popolo genovese, gliela insegnaste voi pure; questa, patria ch’ei cerca, voi pure pretendete a parole d’amarla; questo nome santo d'ITALIA suona a ogni tanto, delusione colpevole, sulle vostre labbra. Gli avete detto: l’Italia sarà, gli gridaste ieri, giova ripeterlo sempre, o riforme o rivoluzione. Oggi volete punirlo, perch’esso, non vedendo riforme, cerca rivoluzione; ma potete spegnerlo? potete cancellar la logica che strappava a voi quelle parole e suggerisce ad esso quei tentativi?

Repressione impotente e madre d’irritazione: giudizi pronunciati in virtù di una contraddizione eretta in sistema: dualismo pubblicamente impiantato fra governo e popolo: son queste le inevitabili conseguenze del processo ch'or si sta preparando.

Genova conquistata visibilmente alla causa nazionale: il bivio fra la repressione tirannica dell’aspirazione italiana o il seguirla apertamente e capitanarla, schiuso più sempre chiaro davanti al governo: la bandiera dell'azione popolare, dacché la monarchia piemontese non vuole, impiantata a pro dell’Italia, esempio ed incitamento a tutti, nel core degli Stati Sardi; son risultati questi dei tentativi falliti, che né persecuzioni, né giudizi possono ormai più cancellare.

III

Fra la stampa cattolica, della quale è necessario registrare di tempo in tempo i moti ¿agonizzante — la stampa immorale, adoratrice del fatto, e accusatrice per mandato di chi paga, alla quale è debito, per rispetto agii stranieri, di. provare da quando a quando ch’essa calunnia — e il partito d’azione, stanno i tiepidi. Or non parto dei tiepidi par segreto egoismo e per paura accarezzata dai conforti della vita; parlo dei tiepidi per fiacchezza e titubanza di mente, degli Amici politici nei quali il concetto, per non so quale squilibrio di facoltà, non si traduce mai in fatto; degli uomini che vorrebbero il fine, ma s’arretrano davanti ai mezzi e alla necessità delle decisioni supreme; degli uomini che pure amando la patria loro, non osano desumere, norma alla vita, le conseguenze morali di quell’amore; di quanti pur consapevoli che le grandi imprese non si compiono senza unità di lavori, non sanno trovare in se energia sufficiente a guidare, né devozione che accetti d’esser guidata; degli irresoluti che non sentono la responsabilità della forza ch’essi possiedono; dei machiavellizzanti parlamentari i quali non avendo mai veduto una sola rivoluzione nazionale compirsi se non coll’armi, s’ostinanonondimeno a travedere, la salute del nostro popolo in un mutamento di, ministero sardo: degli scrittori che convinti nell'intimo core, della vanità d’ogni rimedio diplomatico, d’ogni miglioramento amministrativo, d’ogni agitazione puramente legale, rifuggono pure per paura d'un’accusa o d'un nome nell’additare arditamente l’unico, efficace: rivoluzione. Strano a dirsi; la principale cagione per la quale l'Italia non fa, vive nell’esistenza di questa frazione, inefficace perse, poco influente, poco amata negli individui che la compongono, ma potente a impedire, a intorpidire, a sfibrare, a seminar, non volendo, lo scetticismo negli animi mal certi dei governi.

Gli uomini dei quali io parlo hanno buone, oneste intenzioni; mancano di coraggio morale e di vigore intellettuale: intendono i guai, le. piaghe d’Italia, e ne gemono; non ne afferrano le aspirazioni, le speranze, la forza latente: hanno fede nell’avvenire, non nella potenza che gli uomini possiedono per fondarlo coll’opera propria: hanno virtù che basta a mantenerli puri di colpe o viltà, non tanta da spingerli a fare. Amano la patria ma tiepidamente. Diresti fossero come quei credenti cristiani che l’annientano sotto l’onnipotenza della grazia, la forza e la missione della libertà umana. La loro facoltà logica procede diritta e severa; ma sino a certi confini che non s’attenta mai di varcare: protestanti della politica lo Statuto è la loro Bibbia; liberi, audaci, so occorre, al di qua, al di là ammutiscono riverenti.

Da questa gretta pedantesca riverenza a un incedente del progresso Italiano trasformato in legge di questo progresso, e dalle fiacche tentennanti abitudini della mente, nasce inevitabile un modo imperfetto di considerare la questione Nazionale, che conchiude fatalmente alla inerzia. E inerzia suonano i discorsi a gli scritti di questa frazione inconsciamente dissolvitrice d’ogni disegno che accenni ad azione: discorsi e scritti composti sempre di premesse senza conseguenze, o di negazioni senza una affermazione che additi la via da seguirsi. Disapprovatori eterni, comunque senz’ira e calunnia, d’ogni tentativo del Partito d’Azione perché ineguale al fine che deve raggiungersi, non occorre mai alla loro mente di chiedere a se stessi: se l’opera nostra e i nostri mezzi afforzassero quei tentativi, non riuscirebbero essi potenti? Hanno sovente preso a trattar la questione Italiana con piglio severo d'uomini che la meditarono lungamente e sanno le vie da scioglierla; ed io lessi attento e desideroso come chi spera di trovare riconfermate le proprie idee o svelate migliori alle quali ei. possa aderire, ma indarno. Anatomia senz’ombra di scienza fisiologica: discusse con biasima più o meno giuste le vie segnate da altri; nessuna indicata dallo scrittore: è questo invariabilmente il sunto dei loro lavori. I tentativi d’insurrezione parziali ed isolati— scrivevano nel Diritto dell'11luglio — ci parevano promettere pericoli moltissimi, debolissima speranza di riuscita, anche momentanea: e però ammonivamo coloro, i quali impazienti ed illusi volessero rinnovarli, a ben ponderare quanta responsabilità si assumessero in faccia alla Nazione. Imperciocché, se pur è vero che in certi casi il sangue dei generosi vivifica una causa santissima, e feconda il seme delle generazioni che hanno a vendicarla; è altrettanto indubitabile che ogni tentativo fallito è per un certo tempo un disperdimento di forza; tanto più inopportuno, quando hanno circostanze tali, in cui la quistione è di tempo, virtù è l’attendere, coraggio e valore è l’apparecchiarsi con calma e conpazienza alto lotta».

Ma i casi, nei quali è santo e giovevole il martirio, quali son essi?quali le circostanze in cui è virtù l'attendere? Dov’è la norma per definirli? Quali tentativi sono per voi parziali e isolati? Non era isolata, parziale, l’insurrezione che nel l 820 Morelli e Silvati iniziarono in una terra di provincia napoletana? e non riesci insurrezione vincitrice del Regno? Non era parziale il moto che l’alcalde di Mosteles cominciò nel 1808 nella Spagna contro la dominazione francese? e non ebbe risposta energica da un capo all’altro della Penisola? È s’anche quando è virtù l’attendere, è pur necessario apparecchiarsi alla lotta, quali son gli apparecchi che suggerite? come v’apparecchiate voi medesimi?

L’ardita impresa condotta da Pisacane, riuscendo o fallendo, voi dite, merita plauso e produrrà risultanze più o meno propizie alla causa; ed e vero; ma perché non direste lo stesso d’ogni altra impresa tentala contro qualunque manomette, usurpando e smembrando, il dritto Italiano? Perchéun’altra impresa, che non doveva essere se non il secondo atto di quella di Pisacane, e che doveva, riuscendo, renderne certa con mezzi potenti la vittoria, è visitata di biasimo cosi severo da voi? Perché meditata da italiani liberi in terra libera e protetta dallo Statuto? Che! La libertà scema dunque i doveri degli italiani verso

l’Italia? Deve lo Statuto fruttar egoismo all'anime nostre?

No, direte; ma i modi dell’impresa creavano il rischio di farci nemiche armi italiane.

Forse il concetto dell'impresa ora tale da rendere impossibile., se trapassava al fatto senz’altrui sospetto, ogni lotta accanita. Forse, la necessità sentita d’evitare ogni battaglia contro quell’’armi che vorremmo conquistare all'Italia, e la impossibilità d’evitarla dacché s'erano preparate a difesa, determinarono gli uomini che avevano architettato il disegno a starsi inerti; e voi, se non ci foste, non so il perché, sistematicamente avversi, avreste affacciato spontanei anche quella ipotesi. Ma perché chiamate logica selvaggia la convinzione di chi crede che le libere terre d’Italia, invece di dare alla Patria comune illusioni e delusioni eterne, dovrebbero darle aiuto d’uomini e di materiale? Perché parlate d'una formola propria sostituita in Genova al principio della causa nazionale, quando non ne avete il menono indizio, quando il grido: la Nazione salvi la Nazione, è visibilmente l’unico che predomina da più anni in qua sututti i tentativi del Partito d’Azione? Perché decretate, voi patrioti Italiani, l’inerzia delle terre Sarde evocando pericoli di violenza dai governi che li circondano, pericoli che accompagnerebbero ogni azione a pro dell’Italia, sia di popolo, sia di governo? Perché parlate d’attentato contro un Patto che ha costato sangue, sagrifici e dolori? Quel Patto è figlio del fremito Nazionale, creato nel 1848 in Italia dai nostri lavori, dalla nostra predicazione, dai nostri martiri. Perisca le mille volte, se mai dovesse inoculare in quattro milioni e mezzo d’Italiani l'egoismo e l’obblio!

Noi vogliamo italianizzare più sempre il Piemonte. Per noi, lo Statuto non è se non una conquista di quattro milioni e mezzo d’Italiani, conquista che' li rende capaci di giovare efficacemente alle Causa Nazionale. Per voi Piemonte e Statuto sono enti per sé: bisogna salvarli anche a patto d’abbandonare la Causa Italiana. Voi accettate, non per difetto d’aspirazioni, ma per difetto di coraggio morale, quel dualismo fatale ch'è oggi, come dissi nell'articolo precedente, la più tremenda piaga d’Italia.

Non v è in oggi per ogni uomo che si chiami italiano se non una causa, la CAUSA ITALIANA. Non ve che una via per promoverla, via di dovere per ogni uomo che si vanti italiano, l’azione italiana.

Il punto d'appoggio alla leva che deve promuovere quest'azione è naturalmente collocato dové libertà, dove gli italiani possono meglio intendersi, e apprestare senza pericolo gli apparecchi della lotta. Al Piemonte è toccato in sorte d'essere questo punto. Per questo ci è sacro; per questo, se l’Austria o altri osasse assalirlo, sorgeremmo noi tutti, monarchici e repubblicani, a difenderlo; per questo da tutta Italia, da tutta Europa si guarda in esso. Ciascuno intende che il Piemonte ha grandi doveri da compiere.

Vuole e può compirli il governo?

Non vuole; e parmi dovrebbe essere oggimai provato per tutti che, tremante per le sorti della monarchia, senza coscienza della propria forza; senza genio per indovinare quella della nazione, il governo paventa anzitutto della rivoluzione. Ma s anche volesse, non può. Il governo può molto, ma non può iniziare. L’iniziativa de' grandi fatti spetta, negli Stati che si reggono. liberamente, al paese. Vincolato dalle sue relazioni coi governi stranieri, stretto all’osservanza di un diritto regio, che non è quello dell'Europa futura, il governo non potrebbe violarlo mai se non come chi v'è costretto dell'insurrezione al di fuori, da una agitazione prepotente al di dentro.

Promuover la prima, organizzar la seconda è dunque in Piemonte parte di popolo.

Non so so questa sia logica selvaggia, parmi italiana; e panni che dii non la segue possa chiamarsi piemontese, liberale, costituzionale, ciò che ei vuole, non italiano.

A questo modo chiaro, franco, leale di porre la questione i tiepidi non hanno risposto mai. Richiesti d'un programma pratico, noi danno; parlano incertamente di attendere, attendere che, e fino a quando? Susurrar. o d'opportunità misteriose, senza definirle. Non par s’avvedano che ogni teorica d’opportunità non significa alla fin dei conti se non: altri prepari il terreno per noi. Ed essi? non hanno doveri? non sono uomini? non hanno fratelli? non possiedono mezzi per preparare alla loro volta il terreno?

No; un popolo, di venticinque milioni, un popolo che ha già cacciato una volta in pochi giorni il _nemico dal proprio suolo, un popolo che su cento uomini conta nelle sue città novanta i quali si dicono patrioti, un popolo al quale il consenso di tutti gli oppressi affida l'iniziativa della guerra di nazionalità, e che sa quindi di non poter muovere senz’esser seguito, non aspetta opportunità, le crea; non sogna iniziative impossibili di governi; li trascina, se buoni, tacendo, o li affoga; non parla d’un attendere indefinito; si prepara con insistenza alla lotta, presto appena, colpisce.

E questo prepararsi alla lotta significa ordinamento, concentramento di mezzi e d'uomini in unità di disegno e dazione; significa frammettersi a tutte le vicende di questa guerra combattuta dagli uomini della nazione, e aiutarli di opera e di consiglio, e migliorarne i disegni, e frenarne, ove occorra, i moti imprudenti, preparando e maturando fraternamente moti più opportuni e potenti. 11 collocarsi a spettatori e critici inerti d’una lotta che deve decidere dei fati comuni, e biasimare tentativi il cui intento v’è arcano e applaudire come Cesari a gladiatori morenti, a chi more da prode per voi e pe’ figli vostri, è tristissima fra le parti e prepara pur troppo all’Italia danni, rancori e dissidii che noi tentammo e tentiamo in ogni modo sopprimere.

E tristissima fra tutte ragioni e tale ch'io sento rossore in parlarne, è quella data come origine di dissenso dall'articolo del Diritto a cui accenno: «condanniamo....... un partito, il quale sostituendo al principio della causa nazionale una formula sua propria, o a dir meglio la causa d’un sol uomo ecc. Noi al pari di qualunque altro buon Italiano, combatteremo sempre questa tirannide di nuova specie, questo Io messo in luogo d'Italia.»

Ai buoni italiani io vorrei consigliare di adoprarsi a combattere, con onore, non foss’altro di rischi e di sagrifici, la tirannide dell'Austria, dei francesi in Roma, e. degli svizzeri in Napoli, la tirannide pretesca, la tirannide del bastone, della tortura, la tirannide che smembra 0 cancella l’Io dell’Italia, la tirannide che disonora il nome Italiano davanti all’Europa; non la mia: la mia non ha cassa né sussidio di baionette assoldate, né prestigio di tradizioni dinastiche, né appoggio di diplomazia, né prigioni, né birri; e atteggiarsi da Bruti contro tirannide ¡siffatta, quando a due passi di distanza passeggia il croato, tocca i ligniti del ridicolo. Ma agli scrittori del Diritto io dirò: non è concesso a voi onesti’ e, con altri, quasi sempre imparziali, gittare un’accusa di servilità a un Partito che sagrifica i propri averi, combatte e more col nome d’Italia sul labbro, senza convalidarla di prove. Or dove sono? Nel nome? quel nome, non fu assunto mai dal Partito: fu dato, con impudenza solenne e credendo allontanarmi uomini che m’amano irritandone l’amor proprio, da taluno fra i vostri o fu raccolto poi coni’ arme di guerra dalle spie, dagli agenti austriaci e dai gazzettieri di corte e di misere fazioni che sognano aristocrazia dall’esilio. Nella formola che voi dite sostituita al principio nazionale?

Se accennaste mai alla formola Dio e il Popolo, ricordatevi che sotto l’impero di quella formola, proclamata spontaneamente da Roma e Venezia, cioè dai soli due punti nei quali la Sovranità Nazionale era in atto, si salvava, non foss'altro, contro Francia ed Austria l’onore d'Italia, mentre dagli uomini d’altre formole, si tradiva fuggendo: Se a quella più strettamente politica colla quale tentavamo più recentemente accordo con tutte frazioni: la Nazione salvi la Nazione; la Nazione sia arbitra de' propri fati: potete ideare formola più identica di questa al principio Nazionale? o guardando agli uomini del Partito d’Azione, agli uomini, che mentr’altri si svegliava, la parte di spettatori e di critici si stringevano a lavoro con me, dagli uomini vostri del 1833 sino agli arditi popolani del 6 febbraio, da Petroni a Calvi, dai fratelli Bandiera a Carlo Pisacane, osereste mai dalla loro condotta desumere taccia d’animo servile al Partito! Schivi dalle usate calunnie dei gazzettieri immorali, voi sapete che i Bandiera s’emancipavano, per morire, dall'influenza de' miei consigli. Osservatori attenti delle vite che più meritano per ingegno e virtù, voi sapete che su questioni sociali ed altre, correva dissenso tra Pisacane e me; ma quando pensavamo d’Italia, dei suoi dolori, delle sue vergogne, de' suoi doveri, l’anime nostre s’immedesimavano in un solo palpito d’opere concordi e l'azione.

Sì, m’amavano o m’amano; insieme a molti altri, i generosi che ho nominato; ed io li amo, e il loro amore comeché grave di profondo inconfortato dolore, m’è scudo che basta contro tutte lo ingiuste accuse e le pazze calunnie. Ma questo affetto osereste voi chiamarlo servile? Non potete levarvi a un, ideale di comunione nella stessa fede senza intravvedervi tirannide? Son per voi servi gli uomini ai quali i ricordi del passato e la coscienza dell'avvenire e la presente abbiezione e il fremito dell'anima libera ispirano una parola di azione, sol perché, quella parola non è proferita da voi?

A me voi non siete amorevoli; non ne so le cagioni e non monta. Ma poiché a patto di cadere in aperta contraddizione con voi medesimi, voi men ch’altri potete concedermi doti, ch’io non presumo d'avere, d’ingegno potente o non comune virtù, perché non vedete in questa influenza mia contro la quale voi protestale, un sintomo, un indizio delle condizioni d’Italia? Da ventisette anni, se credo a voi, io son fatale alla causa Italiana; da ventisette anni, se credo ai gazzettieri tiepidi e non tiepidi, io non ho commesso se non errori; anzi fui parecchie volte dichiarato irrevocabilmente spento, nullo, e immeritevole ch'altri se n’occupi; e nondimeno, canuto per anni e cure, esaurito di mezzi miei; avversato da quanti governi, governucci, uffici di polizia e ritrovi di spie ha l'Europa, si ch’io, dall’inglese infuori, non ho un palmo di terra sul quale io non passeggi illegalmente e pericolando, risorgo a ogni tanto agitatore seguitò — non potete oggimai dir da pochissimi —e ingrato, inviso a Poteri forti d’organizzazione segreta e pubblica e d’eserciti e d'oro e taluni, se debbo credere alla stampa, pur d’opinione! Perché?

Io dirò a tutti voi, tiepidi e irresoluti di fronte a una condizione estrema di cose, il perché; e v’insegnerò a un tempo come possiate spegner davvero la mia fatale influenza. Io non sono se non una voce, che grida azione;ma le condizioni d’Italia vogliono azione; e la parte migliore d'Italia, il popolo delle città e la gioventù non corrotta dagli ozi codardi o dai. sofismi dei mezzo intelletti, ha desiderio d'azione, e gli uomini di governo coi loro terrori o colle illusioni che spargono, tradiscono un presentimento d'azione; e il bastone e la. cuffia del silenzio di Napoli, intimano azione; e i ricordi gloriosi del 1848 e la vergogna senza nome d’un popolo che ha quei ricordi ed è nondimeno, Belisario della libertà, condotto attorno da' suoi dottori a mendicare ai protocolli di tutte le conferenze, ai memorandum di tutti i ministeri semiliberali, una speranza ingannevole di miglioramento, comandano dovere supremo l’azione. In questo sta il segreto della mia influenza. E finché voi proporrete, rimedio a guai d’Italia, sonniferi, immobilità, opportunità indefinita, l’anime che hanno febbre d’azione verranno a me che grido: associazione, popolo, iniziativa d'insurrezione, fucili e daghe: verranno a noi che quando dal mezzogiorno d’Italia ci chiedano — perché ci fu chiesto, e lo scrivo a rimprovero di chi doveva far altro e non fece — di mandare un vapore a Ponza, troviamo via di mandarlo, mentre voi non date che sterile compianto e parole.

Volete spegnere la mia fatale influenza? agite; fate meglio e più efficacemente di me; dov’io lasciato solo da voi tiepidi e molti pur troppo, tanto su ciò che voi chiamate piccola scala, riunitevi a tentar su grande. Non importa, benché lo dovreste, congiungervi con me, con noi; importa che voi stessi vi costituiate partito dazione: il partito d'azione dovrebbe non aver circonferenza e aver centro' per ogni dove. Predicate tutti unanimi all’Italia che solo una via di salute e d'onore le avanza: prepararsi a sorgere con forze proprie e sorgere. Italiani voi pure, preparatevi e preparate. Agitate il Piemonte a far ch’esso si riscota al senso de' suoi doveri. Agitate l’esercito perché si levi a liberatore. Date danaro o fucili ai vostri fratelli del sud, del nord e del centro. Maturate vasti disegni, e appena potete, tentatene l’esecuzione. Aiutate noi se riesciamo a fare, come noi v'aiuteremmo se tentaste fare. Non avrete allora da temere tirannidi né di padroni, né di patrioti. All’unanime sforzo, i padroni dovranno pur soggiacere, e i patrioti,. credetelo, benediranno il momento in cui, abdicando la grave e profondamente sentita responsabilità potranno smarrirsi, semplici soldati, nelle file della maggioranza commossa.

IV

Ai tiepidi per ecletticismo d’ingegno e fiacchezza d’animo dei quali ho parlato finora, s’aggiungono, aiutandosi pur troppo delle reticenze e degli errori onesti dei primi, altri più numerosi, tiepidi per egoismo, per agi di vita, per ignobili paure, per invidiuzze meschine, per avversione ingenita al sagrifìcio, per vanità trepida d’essere creduta seguace, per ambizioncelle letterarie che il vortice dell'insurrezione, sommergerebbe. Turba senza nome o con nome che morrà domani, vera crittogama dell’Italia, costoro non fanno, non tentano fare, non insegnano a fare; ma deliberatamente inerti, s’irritano nel loro segreto ch'altri faccia o lo tenti. Bensì, volendo pure apparire patrioti, parlano contro chi fa in nome di chi farà: creano a sé stessi e ad altrui un fantasma di forza, una ipotesi d’opportunità, un se che potrebbe diventare affermazione quando che sia, propongono quel se, quel fantasma, all’adorazione degli Italiani, e vanno salvando il paese coniandogli medaglie e stampandogli indirizzi anonimi. Son gli uomini che predicono grandi fati all'Italiaquando alcune migliaia di soldati piemontesi salpano a difendere il cadavere turco; che iniziano la libertà della Patria comune da un invio possibile non probabile, di navi anglo-francesi a Napoli; che sapevano le. conferenze di Parigi non potersi sciogliere senza un mutamento decisivo, nelle sorti italiane; che intravvedono nel viaggio del papa una guerra imminente fra l’Austria e l’impero francese; in ogni flotta straniera che attraversa il Mediterraneo un fatto misterioso; in ogni tre segretarucci di ambasciata che si riuniscono a novellare o peggio, un

sintomo importante della situazione. A udirli, la diplomazia tutta intera s’affaccenda di e notte a fare l'Italia; perché vi s’affaccenderebbero gli Italiani? L’Italia per essi non è in Roma, Milano o Napoli; ma in Vienna, Londra e Parigi. Gli uni, un tempo repubblicani severi, idealisti e che no? sagrificano nobilmente le convinzioni dell’anima alla salute del paese e si fanno muratiani; taluno, memore d’aver ciarlato di patria e ri mutamenti europei vent’anni addietro coll’esule principe Luigi in Arenenberg, sa che dove si concedano tre o quattro anni — quanti appunto, salvi eventi non sottomessi a calcolo umano, son necessari alla rovina dell’impero — alla profonda politica dell'invasore di Roma, ¡ Italia escirà fatta e armata, come Minerva, dalle mani di chi ereditò dallo zio la massima che il Mediterraneo dee' essere lago francese: i più sono monarchici piemontesi, e tra questi ultimi pochi son creduti, gli altri faccendieri, o infingardi che delegano ad altriil fare per non far essi.

Se i fautori della monarchia piemontese — intendo degli uomini i quali guardano all'Italia e ne cercano per mezzo della monarchia l’emancipazione — avessero buona fede e coscienza di intento, si sarebbero da lungo tempo avveduti non esservi che due sole vie atte a spingere il governo sardo sul campo: un’agitazione interna' di popolo toccante i confini della minaccia, o una serie d’offese all’Austria tale da irritarla a farsi assuntrice; e le due vie si congiungono in una. La loro stampa assalirebbe continuamente l’Austria con quei modi che provocano intimazione ripetuta e inattendibile di repressione. Le loro sottoscrizioni avrebbero impinguato le liste della sottoscrizione pei 10,000 fucili. La loro parola suonerebbe,una insistente chiamata all'insurrezione alle provincie invase: s’ordinerebbe per essi la stampa clandestina. Si formerebbero associazioni nazionali con intento dichiarato italiano. E d’altro lato, al menomo rimprovero, al menomo sopruso dell'Austria, dichiarazioni collettive di cittadini griderebbero al governo: accettate la sfida, manifestazioni imponenti lo accerterebbero delle intenzioni popolari; membri della Camera Piemontese riceverebbero come i membri del Parlamento Inglese, petizioni al governo perché chieda l'abbandono delle provincie romane dall’armi straniere. Un Partito che dicesse: trascineremo a forza la monarchia sarda ad assalire o a doversi difendere, sarebbe quindi Partito intelligibile e probabilmente onnipotente a iniziare se non a vincere.

Ma gli uomini l’opere dei quali, nello spazio di nove anni, si limitano a comprar cannoni di difesa per una fortezza dello Stato e a coniar medaglie ad un uomo il quale insegnava nel suo Memorandum ai governi stranieri come possa evitarsi una Italia — gli uomini che avversarono la sottoscrizione pei 10,000 fucili e avversano sistematicamente ogni tentativo di guerra all’Austria — gli uomini che salutano del nome di Farinata chi, dichiarando ripetutamente il suo rispetto ai trattati in virtù dei quali il LombardoVeneto è austriaco, non Ita proposto di pratico se non il progetto, vecchio di 47,anni, del principe Aldini — non sono Partito; sono scimmie ridicole d'un Partito che avrebbe potuto esistere mezzo secolo addietro.

Abbiano o non abbiano combattuto a Cariatone, gli uomini i quali, pochi dì dopo i fatti di Livorno e le ferocie della soldatesca, gridano all’orecchio del principe ereditario assoluto di Toscana: viva il principe costituzionale! e tacciono davanti a una notificazione di polizia, sono deliberatamente ridicoli. Siano o non siano membri del Parlamento Napoletano del 1848, gli uomini che, muti davanti al tentativo eroico di Pisacane, dicono, fallito il tentativo, sotto il velo dell’anonimo al re di Napoli: noi biasimiamo quel tentativo, ma vogliate darci la Costituzione, sono deliberatamente codardi a un tempo e ridicoli. Vogliano o non vogliano, gli uomini i quali dichiarano al conte Cavour: voi siete il nostro liberatore; e quando il conte Cavour risponde: la monarchia piemontese aborre dalle rivoluzioni: la monarchia vive in virtù di trattati e li rispetta: l'emancipazione e l’unità d’Italia sono. utopie: vanno pur ronzando all'orecchio dei gonzi, gli è un Farinata foderato di Machiavelli, sono indicibilmente, vergognosamente ridicoli.

Ridicoli, e peggio: sono egoisti. Sono uomini che non volendo fare, non amando abbastanza l'Italia per sagrificarle la loro sicurezza individuale o un po’ di danaro, dicono ai creduli, consapevoli della menzogna: noi non facciamo perché un governo farà.

Io li conosco questi uomiciattoli, e potrei, se l’anima altera noi disdicesse, tesserne la storia ai miei concittadini. Li vidi tutti — e primi tra loro quei che m’insultano oggi sull'Espero e altrove — aggirarsi, in sembianza di penitenti sommessi, d’intorno a Cattaneo ed a me, quando, tradita Milano, l’esilio accoglieva nel Ticino essi e noi, e dirci: abbiateci or vostri e per sempre: ah! se v’avessimo ascoltato prima! Li udii applaudire frenetici, tanto da impaurire il povero tremante governuccio ticinese, là Clarino di Berchet recitata da Gustavo Modena e rizzarsi in piedi e urlare in vece sua ogni sera il sangue avrà dell’ultimo verso. Giuravano tutti, anche gli uomini che in Milano avevano stolidamente cercato d’avventare la plebe su per le piazze addosso a Cernuschi ed a me, che una solenne esperienza s’era compita e che rinsaviti per sempre non trarrebbero auspicii oggimai se non dall’Italia paese, dal popolo e da se stessi. Taluno accettava da noi commissioni segrete che poi tradiva. Pochi mesi passavano; e benché Venezia persistente nelle difese dovesse essere per essi centro naturale dell’azione lombardo-veneta — mentre suonava al loro orecchio la chiamata di Roma — io li vidi dileguarsi ad uno ad uno da noi e raggrupparsi tacitamente intorno alla monarchia. Poi, suggerita dal timore che Roma repubblicana prendesse l’iniziativa del moto nazionale, venne la seconda riscossa, e mentre io scriveva cadrete, essi congiuravano, attivissimi in apparenza e decisi ad osare,, a sommovere in nome del re piemontese la Lombardia; ma, sperperato dai mali ordini e dal tradimento l’esercito regio, non levarono un sol uomo e abbandonarono immoti la povera eroica Brescia al nemico. E né anche la seconda esperienza fruttò. Videro Roma assalita, senz’ombra di diritto o pretesto, dall’armi austriache, francesi, napoletane; e benché — contrasto che dovrebbe bastar solo a definire i due Partiti — Roma avesse risposto generose parole e fraterne promesse a chi parlava dell’apprestarsi la monarchia piemontese a combattere, videro quella monarchia guardare indifferente, senza una sola protesta, alla lotta ed alla caduta; videro impediti dall'accorrere a difendere in Roma l’Italia i soldati della divisione lombarda, e solo Manara sottrarsi nobilmente co’ suoi quattrocento ai divieti di capi che avevano combattuto per la libertà della Spagna, ma che, fatti novellamente di. parte regia, ricusavano combattere per l’onore e per la libertà dell'Italia; videro Genova insorgere nello sdegno per voler combattere l’eterno nemico d’Italia e difendere Roma; videro le armi regie avventarsi con efferatezza, non ancora dimenticata, contr’essa; e nessuno tra loro mosse una voce: perdio! là non sono i veri vostri nemici. Poi videro otto lunghi anni di torpore trascorrere fra il gemito e l’ira di tutta Italia e né una promessa adempirsi né un passo moversi a pro della tormentata Nazione; e nondimeno ripetono pur tuttavia ad una ad una le menzognere parole del 1848 e illudono, come allora, il paese a non movere e abbandonare i generosi che tentano ridestarlo, per non guastare più alti disegni.

Son essi monarchici convinti costoro? no, noi sono. E tentata da me e da altri ogni via di transazione, di ragionamento e d’accordo per trarne scintilla di vita, è necessario oggimai gridar alto ai poveri illusi lombardo-veneti, agli aggirati toscani, ai romagnuoli tornati per le loro arti in bastardi (1) «non fidate m costoro; essi vi trascinano, di sogno in sogno, d’addormentamento in addormentamento, fin dove muoiono i poti poli, fin dove morì, nell’opinione europea, la Polonia. Come i preti cattolici vi parlano da Roma una fede ch’essi non hanno, così quei faccendieri politici v’aggirano dietro a speranze nelle quali non credono. Incadaveriti nell’egoismo, schivi dei sagrifici che l’azione nazionale comanderebbe, attribuiscono concetti d’azione a un go«verno che non può averli né porli, avendoli, in atto. A noi, come nel 1848 dicevano immoralmente che bi«sognava giovarsi de' governi per poi rovesciarli, confessano in oggi non aver fede nelle intenzioni della monarchia, ma finger d’averla per comprometterla e sospingerla sull’arena. Or la monarchia li smentisce, per serbarsi in pace con tutti, a ogni tanto; e quanto al sospingerla, bisogna porla sul bivio o di perdersi o di combattere; insorgere e dirle: o con te o contro te. Tentano essi? spendono i loro averi, arrischiano le loro vite a sommovere la Lombardia? Danno armi ai fratelli inermi del Sud? Agitano l'esercito Sardo? Fanno essi insomma? No; delegano il fare ad altri, senza creargliene la necessità. Da nove anni essi non hanno tentato salvare una sola vittima; da nove anni non v’hanno conquistato un solo dei miglioramenti che predicano incamminamento alla libertà; da nove anni vi condannano al ridicolo d’un popolo che freme, minaccia, e soffre più sempre. E a noi, a noi soli dovete l’esserne salvi finora; senza noi, senza le nostre agitazioni, senza le paure che noi poniamo nel coro de' vostri padroni, l’Europa riderebbe ormai di questo vulcano che invece di lava erutta medaglie, e affiderebbe a un nuovo Porta la storia delle vostre sventure».

Che s’io recitassi le basse arti esercitate da costoro in Lunigiana, in Toscana, e in Napoli dopo lo sbarco dei nostri, per impedire il secondarsi d’ogni moto iniziato da noi — s’io dicessi con quali menzogne sono ingannati dai pretesi monarchici i poveri popolani, e lettere mie imposturate, e in qualche luogo fin minacce di spionaggio contro agenti nostri — io so che susciterei contrassi un fremito tale dal non sorriderne. Ma sdegnoso di siffatte vendette, io mi contenterò di dire fin dove la mia voce può giungere: giudicate i Partiti dall'opere loro. Da taluni infuori che furono imprigionati anni addietro in Poma perché prima di dichiararsi monarchici lavoravano con noi, possono essi citare un sol uomo dei loro imprigionato, sottomesso a processo? Dalla sottoscrizione pei cento cannoni infuori, possono essi (1) citare sagrificio nei loro averi a pro' della causa comune?

Sono egoisti e patrioti a parole. 0 l’Italia è,matura per fare; e debito loro, concedendo pure ad essi la necessità del Piemonte regio, è quello di promovere insurrezione tanto da somministrargli opportunità d’intervento — o non è; e debito loro, come nostro, è quello di educarla all'azione, d’insegnarle la sua forza, d’ispirarle fiducia nel Partito che s'assume dirigerla. Or questa fiducia s ispira coll'unità; ed essi spendono la vita in condannare e calunniare quanti uomini rappresentano più attivamente f energia del Partito: s’ispira colla predicazione insistente della verità tanto che s’addentri nel core del popolo; ed essi fondano la loro politica, sulla menzogna, additando la salute d’Italia un giorno nella diplomazia che sanno avversa, un altro nell’impero Francese che abbominavano ieri, un terzo nelle tendenze dello Tsar che dichiaravano un anno addietro nemico della civiltà, un quarto in Murai che dovrebbe farsi sgabello alla libertà del paese, poi rovesciarsi: s’ispira col sacrificio; al quale. non mancano le occasioni s’anche l’Italia non fosse matura ad emanciparsi. E quand’io vedrò costoro raccogliere fondi a sollievo degli esuli che ramingano per le terre d’Europa — aiutar coll'oro la fuga, provata possibile, dei prigionieri — istituire stamperie clandestine nelle provincie schiave — diffondere, per mezzo d’associazioni e letture, simpatie popolari per la causa Nazionale d’Italia in Inghilterra, nella Svizzera, in America—lavorare instancabili a nazionalizzare gli eserciti nostri e italianizzare il Piemonte — allora, io li dirò tiepidi per errore di mente e ignari delle vere condizioni d'Italia, non per egoismo di core; ma allora soltanto, e non prima d’allora. Oggi, guardando a tutti questi, cospiratori giurati un tempo e diffonditori della Giovine Italia o del— l’Associazione Nazionale con me, or convertiti alle teoriche d'opportunità indefinite o alle cieche inerti credenze nella monarchia piemontese e vedendo gli uni scrittori tranquilli di libri pagati o di giornali filosofico-letterari coi quali accarezzano la vanità d'un crepuscolo di fama in terra di schiavi, gli altri appiattati in una cattedra, affaccendati nella finanza, all’agguato di speculazioni proficue, o dati agli ozi di villeggiature, o trasformanti l'amore di donna, santissima tra le cose o nella quale dovrebbero rinfiammarsi tutti i nobili affetti, in egoismo di voluttà addormentatrice, o profanando i vincoli della famiglia, che dovrebb’essere santuario della Patria ed obbligo di lasciarla grande e libera ai figli, a diventare ostacolo all'azione e chiesuola d’individualismo, sento il diritto di gridare ad essi tutti: se non trovate in voi energia che basti a rimanervi eretti sulla persona, giacete e tacete; se in una impresa alla quale avevate giurato di consacrare ora e sempre pensieri, parole ed opere, e alla quale è poca una vita, i sagrifici o i pericoli di pochi anni v'hanno spossati, giacete e tacete, se il gigantesco proposito di crearvi una Patria e il guanto di sfida cacciato solennemente davanti all’Europa ai vostri padroni non erano espressioni di fede, ma bollore di sangue giovanile e irrequietezza di sfaccendati, oggi che siete maturi d’anni e avete faccende, giacete e tacete.

Ma non ammantate di teoriche monarchico-piemontesi l'egoismo che s’è abbarbicato all'anime vostre; non vestite di forme politiche l’infingardaggine; non erigete ai giovani nuovi l’inerzia in sistema perché sentite voi stessi inerti; non vi costituite agli occhi dei miseri che non sanno, cospirazione officiale, diplomazia rivoluzionaria, avversa ad ogni aspirazione emancipatrice, alla sola vera santa cospirazione degli uomini che non mutano, degli uomini che attengono quel che giurarono, degli uomini che dicono colla parola e col fatto al loro popolo: o agire o educare all'azione; o vittoria o protesta. E la vittoria, in tutti i tempi ed in tutti i popoli, incorona sempre una serie di proteste crescenti di vastità e d'energia.

V

Varianti del testo non colpevoli nelle intenzioni, pur non innocenti di vanità forse inconscie e dannose a ogni modo — stanno avverse all’azione altre esigue frazioni d’uomini poco potenti per sé, ma che pure accrescono confusione nell'esercito nazionale e fortificano di pretesti i molti che hanno bisogno di giustificare a se stessi e ad altrui la pro.

pria inerzia: i letterati che gridano libri, non armi a un popolo che non sa o non può leggere — i socialisti che vorrebbero indugiare l'insurrezione fino al momento in cui fossero certi di veder trionfare i loro sistemi — i rari scrittori ai quali non incresce leopardizzar colla penna e parlare di peregrine spade e di degenere progenie dei Bruti, ma che non amano il tolgo profano, e seminano quindi scetticismo e disperazioni precoci — gli indipendenti tocchi di proudhonismo che stimano peccato contro la libertà dell'individuo il frammischiarsi ad associazioni — e finalmente i pochi, ma importanti uomini ai quali una fama meritamente ottenuta nel 1848 e nel 1849 dà potenza di bene, ch’essi lasciano isterilire nell’isolamento perché non amano me o altri membri operosi del Partito d’Azione.

Ai primi, i quali atteggiandosi a sacerdoti del Progresso, tratterebbero volentieri noi come barbari, vorrei ricordare che tutte le mie prime aspirazioni furono letterarie e ilrimo modesto nome che ottenni mi venne da lavori di letteratura. E la voluttà dello scrivere solitario mi affascina tuttavia di tanto che quando in tal raro momento m'accade sognare di potere ancora avere un’ombra di vita individuale sulla terra, io chiedo a Dio di concedermi, fatta Nazione l'Italia, due anni di vita romita si ch’io potessi, prima di riposare le stanche ossa presso alla sepoltura materna, scrivere alcuni miei pensieri sulla Religione e un volume di storia popolare d'Italia; e m'è dolore il sapere ch'io non li avrò. Ma vidi giovanetto pendere dalle forche Garelli e Laneri, e vidi pochi anni sono, quand’io stava sull’incanutire, come un popolo impari più da tre mesi 'di libertà combattente che non da dieci o vent'anni di libri e stampe clandestino o non clandestine. Ond'io scrissi e scrivo, ma cospirando; ed esorto altri a scrivere, purché cospirino e gridino armi e, potendo, le apprestino. Quei che ci vietano l'Italia, hanno libri che inserviliscono l'anima e baionette che trafiggono i corpi. Noi possiamo coi libri versare un raggio di luce sull’anime; ma le catene del corpo non si frangono se non col ferro.

La poesia, dove non è Patria, può far da prefica sulle tombe o proclami in versi come quei di Berchet. I libri di schietta letteratura splendono in terra schiava come lampadi intorno ai feretri: possono illuminare, non riscaldare i cadaveri. Le scuole filosofiche, se potessero aver vita mai nell'Italia com'è, contribuirebbero ad addormentar gli animi nella sfera del pensiero puro, a illuderli come se vivessero quando non avrebbero se non un fantasma di vita, e a costituire una casta depositaria di scienza. arcana, un Bralynanismo occidentale. La scienza, non può farsi popolo che tra i liberi. Dove i milioni sono condannati da una. forza brutale alle tenebre della schiavitù, il letterato, se non è Tirteo o Mameli, è inevitabilmente corruttore, trovatore egoista, o misantropo.

Ma se per libri; intendete:i soli che possano riescir utili, i libri mezzo e non fine, i libri che insegnano le teoriche del progresso come legge di vita, i ricordi gloriosi de' nostri padri, i doveri che ogni uomo ha verso la propria terra, chi li biasima; tra noi? chi tra noi, sapendo, non ha tentato lavori simili?

L’error vostro sta nel pretendere ch'essi compiano una missione impossibile; nell’intolleranza contro chi cerca compirla coi soli mezzi efficaci; nel non guardare oltre al cerchio concesso a quei libri; nello smembrare la vita ch’è pensierosi azione e cacciare in nome dell'una l’anatema sull’altra metà. Scrivete per chi può leggere scrivete ai popolani, all’esercito, agli abbienti, e so pur trovato chi legga; agli uomini del contado nelle provincie Sarde, dove si tratta d’insegnare — e si può — doveri dimenticati verso la madre comune e destare coscienza di Nazione e solidarietà coi fratelli oppressi; ma Don dite: noi libereremo coi nostri libri gli uomini delle valli bergamasche e bresciane, gli abitanti dell’Appennino, i miseri tiranneggiati delle provincie napoletane. E non dimenticate che se mattai rara copia de' vostri libri ha da penetrare in quei luoghi, v’è forza ricorrere a noi, alle nostre organizzazioni, ai nostri mezzi di contrabbando, a questo partito che d’azione biasimate.

L’immensa maggioranza degli italiani non sa leggere; e sulla cifra menoma che sa, ai nove decimi è vietato di leggere. Di fronte a questo fatto, a che giova dire: libri e non armi?

No; e un infermo collocato in una atmosfera guasta, appestata, io non so d’altro primo rimedio che quello di strapparlo, forzatamente se occorre, a quell’elemento corrotto e trasportarlo dove spira, pura, libera, incontaminata l'aria di Dio. A un popolo schiavo, ricinto di terrori, di baionette e di spie, io non so d’altra iniziazione educatrice possibile che quella di sperdere violentemente spie, baionette e terrori, e porlo libero, emancipato, a fronte della propria missione.

Primo stadio d’ogni educazione è un affermazione dell'io. Come i germi, le idee non fruttano se non cacciate in terreno rigonfio di vita propria, il vero, per incarnarsi in fatti, ha bisogno d'essere svolto, conquistato dalla coscienza. Per obblìo di questi principii nell'educazione individuale, infiniti educatori non riescono dopo molte cure che a crear pedanti e insterilire gl’ingegni: per obblio di questi principii nell’educazione dei popoli, molti fra i socialisti non riescono, con intenzioni purissime, che a. creare egoisti e trapiantare nelle classi che vogliono redimere, i vizi delle classi, locate in alto. A nessuno è dato migliorare se non la cita; e la vita dei popoli è la libertà. Date a un popolo libero, a un popolo sulle istituzioni del quale predomini una dichiarazione di principii morali, le idee d'associazione, d’emancipazione del lavoro, d’un giusto riparto della produzione: frutteranno cguaglianza, incremento di pace interna e d’amore: le stesse idee cacciate a popoli schiavi frutteranno odio, vendetta, corruttela d’interessi materiali contemplati esclusivamente; nuovo servaggio o feroce licenza: il 2 dicembre: o le stragi della Polonia austriaca. Il. socialismo francese di Fourier, Proudhon e d’altri che predicarono le riforme sociali potersi produrre sotto qualunque forma di reggimento e separarono il progresso sociale dal politico, ha generato la tirannide ch'or pesa su tutta, la Francia e per essa su tutta quasi l’Europa.

S’anche gli italiani sapessero e potessero leggere, io quindi griderei pur sempre agli uomini che dicono libri, sistemi e non armi: armi e libri a conquistarvi prima d’ogni altra cosa la patria. La Patria è il dovere accettato, riconosciuto, sentito. La Patria è l’idea d’una missione da compiersi. La Patria è un vincolo, una comunione, un vangelo d’amori visibili tra venticinque milioni d'uomini chiamati ad esser nazione. Senza quella, voi correte rischio di vedere le migliori idee isterilirsi o sviarsi a suscitare tristi e basse passioni. Una gente serva, diseredata di vita pubblica, di un grande intento collettivo, e di quanto avviva l’entusiasmo, l'amore dell'onesta gloria e gli affetti più generosi, torce a meschini interessi individuali ogni incremento di forza intellettuale e materiale. Se non che tutte questioni riescono oggi inutili davanti al fatto ricordato da me poco addietro; i più tra gli Italiani non sanno, e i più tra quelli che sanno non possono leggere. Libri per essi son oggi le azioni; libri viventi son gli uomini, quando sanno rappresentare ad essi in tutti gli atti della vita la: fede nazionale che intendono a far trionfare.

Néquesta fede è rappresentata dai letterati leopardizzanti, ai quali accennai sul principio. 11 volgo profano fu sempre indizio di letteratura fredda ed artificiale; oggi è bestemmia; e chi osasse ancor proferirla sarebbe profano egli stesso all’arte come ad ogni altra facoltà di bello e di vero. 11 popolano d’Italia è in oggi assai migliore del letterato: combatte e more, mentre l’altro teorizza, per una idea. Ben sono, come in ogni altra classe, difetti in esso; ma perché tentiamo noi rivoluzione, se non per correggerli?.

E chi vorrebbe tentarla se gli uomini, 'popolani o no, fossero fin d’ora quali dovrebbero essere e saranno, mutate le istituzioni corrotte e corrompitrici tra le quali oggi vivono? L’Italiano — e ne conto pur troppo fra gli uomini che mi furon più cari — il quale s'arresta sdegnoso e scettico davanti all'opra iniziata perché gli elementi dei quali ei dovrebbe valersi sono inferiori all’ideale dell’anima sua, è un fiacco che soggiace egli stesso alle influenze esterne contro le quali ei s’era accinto a combattere, o un codardo che piega e cede perché trova seminato di triboli e spine, di calunnie, d’ingratitudini o di pericoli la via ch’ei s’era illuso a credere cosparsa di fiori. Non giurammo noi all’ideale dell'anime nostre? non cominciammo a metterci in guerra in nome d’un mondo futuro contro il mondo com ò, per ciò appunto che lo trovammo corrotto? I deboli, i tristi son molti? Tanto più fieramente e ostinatamente dobbiamo combatterò; Qual diritto ha di condannare l’altrui scetticismo chi si ritrae scettico e disperato su primi scontri, sulle prime delusioni, alle proprie tende?

Agli indipendentisti tocchi di proudbonismo, che in nome della loro libertà individuale si stanno appartati dalla. chiesa militante dei loro fratelli, io dico:

«Voi non siete liberi; voi non avete dignità d’individui; siete miseri schiavi che rinunziano all'unica via d'emancipar se stessi ed altrui, l’associazione delle forze. Schiavi nel pensiero dacie che il vostro non ha alimento di comunione con quello de' vostri fratelli schiavi nella parola che v’è contesa nei cinque sesti dell'Italia da doppie censure ecclesiastiche e civili, straniere e do«mestiche, schiavi nelle vostre facoltà di locomozione negate dal primo birro che vi tolga a sospetto sulla frontiera d'una provincia ch'è vostra, schiavi di tutto e di tutti, e iloti in Europa, senza nome, senza patria e senza bandiera, non v'avvedete d'essere per giunta ridicoli facendo atto di libertà contro i soli che non possano farvi correre un’ombra di rischio? Noi non siamo oggi né uominicittadini; siamo soldati combattenti per conquistarci diritto d’esserlo. La libertà non,. comincierà per noi che quando avremo una patria. Oggi, com’io m’affratellai, studente ai carbonari, pur conoscendoli impotenti e con animo di mutarne le associazioni, m’affratellerei, milite devoto, a qualunque organizzazione io trovassi più potente delle nostre a fare l’Italia».

Letterati dai libri e non armi, scrittori che in una terra sulla quale Dante combatté la battaglia di Campaldino e Campanella e Macchiavelli patirono, per cospirazioni, torture e prigioni, paventano di far discendere l’ingegno sulle vie del volgo profano, socialisti che non vogliono insorta l’Italia se non prima convinta dei loro sistemi, e indipendenti tocchi di proudhonismo, non sono se non eterne e meschinissime varianti del povero grettamente superbo io individuai# che morrà domani sostituito al grande immortale io collettivo dell'ITALIAche grida a tutti i suoi figli: fate ch'io sia. Indugeranno, non impediranno l’opera che Dio e gli uomini vogliono. Pur dove gli indugi costano lagrime di madri e sangue di prodi, sono colpa da cancellarsi quanto più presto si può; e questo potrebbero, volendo,gli uomini ai quali i fatti del 1848 e 49 hanno procacciato fama e influenza popolare in Italia.

L’emigrazione l’interno contano nomi cari al paese, spettanti alle diverse provincie italiane, e che uniti, sarebbero pegno dell’unità dell'impresa, e le darebbero forza invincibile. Dal silenzio degli uni, dall'inerzia degli altri, da qualche dissenso più apparente che reale, gli avversi a ogni azione, i moderati, i tiepidi traggono partito ogni giorno a provare che i tempi non sono maturi, che la discordia è nel nostro campo, che i più tra gli uomini della bandiera nazionale sono contrari, non già solamente al tale 0; al tale altro moto d’azione, ma al principio stesso dell'azione; e generano nelle moltitudini una incertezza, una esitazione, un sospettare continuo, fatale ad ogni generoso disegno. Parmi, e lo ridico pensatamente a ogni tanto, che sia dovere assoluto di quegli uomini metter fine a condizione siffatta di cose.

Non si tratta d’unirsi a me o ad altri che sia: si tratta d’unirsi 'tutti in un principio; ed è che l'Italia può, Dolendo, iniziare con forze sue l’opera del proprio riscatto, che, potendo, lo deve, e chi freme sempre giacendo è parte di codardi o di stolti.

Dico che i nomi di Manin, Tommaseo, Sirtori, Cattaneo, Michele Amari, Mazzoni, Ulloa, Cosenz, Montanelli, Garibaldi, ed altri uniti a due o tra nomi d’uomini del Piemonte, e a tre o quattro dei nostri, apposti a uh breve scritto che contenesse chiaramente, arditamente espresso quel principio e ne deducesse alcune tra le conseguenze, imporrebbe silenzio al ronzio degli insetti che brulicano tra i velli del lione, darebbe coscienza incalcolabile di forza al Partito; additerebbe l’ora ai nostri giovani, terrebbe ai tiepidi ogni pretesto a ricusar sagrifici, e centuplicherebbe i mezzi d’azione. Ciò ch’io, solo, come dicono, fo, può dar norma su ciò che uniti, faremmo.

Il tempo, il luogo, i modi d’azione dipenderebbero dai disegni che s’affaccerebbero da uno o d’altri fra noi, e dagli elementi che il nuovo fatto porrebbe in moto. Né quei disegni sarebbero allora su piccola scala.

Or avvenga che può della mia proposta; a me corre l'obbligo di rifarla ogni anno, tanto che nessuno possa onestamente accusarci di mantenere dissidii fatali; poi di seguire a ogni modo sulla via impresa. Io so che su quella via verrà a poco a poco l'Italia. Le illusioni non possono durare eterne. Un partito che promette sempre senza mai attendere; che biasima tutto e fa nulla; che respinge tutti i programmi senz’affacciarne alcuno; che lamenta da mane a sera i guai dell’Italia senza mai tentare d'alleviarli; che non è forte di principii, né di coraggio, né di potenza di sagrificio; che invoca la monarchia senza amarla e rimanda i fati d'Italia a una iniziativa regia impossibile; che dichiara il Piemonte solo capace di sciogliere il nodo della questione e non s’attenta di provocarvelo o d’aprirgli la via; che smembra con un simbolo intollerante esclusivo le forze attive d’Italia; che irrita, immemore dello straniero che guarda coll'oltraggio e colla calunnia quei che, errando o no, sagrificano a ogni modo e combattono, deve, se pur l’Italia è chiamata a vivere, un giorno, di libera vita, finire per cadere, impotente e deriso. Siffatto è il partito del quale ho dato finora l'anatomia morrà: dunque, tra mesi o anni non monta.

Bep mi dorrebbe che questo Partito si spegnesse fatale nella sua caduta com'è nella vergognosa sua vita. Mi dorrebbe che il popolo d'Italia ridesto reagisse troppo vivamente contr’esso, e confondesse ne’ suoi giudizi con questa minoranza di faccendieri tutta una classe sulla quale s’è pur troppo innestato. É pericolo evitato finora, ma che diventa ogni di più probabile, e sul quale mi occorrerà di tornare. Dal 1848 in poi, i popolani d’Italia hanno incontrastabilmente migliorato e migliorano; la classe u media, letterata, guasta dalla stampa e dalle false immorali dottrine della fazione alla quale accenno, ha indietreggiato nell’azione e indietreggia. Per poco. che l’elemento popolare cresca nella coscienza della propria forza, e trovi agitatori meno prudenti, meno tolleranti che noi non siamo, lo squilibrio poco avvertito finora, apparirà grave e pregno di conseguenze funeste. Tolga Iddio l’augurio; se mai l’inerzia degli uni e il rapido salire degli altri impiantassero in Italia prima, che la Nazione sia fatta, le divisioni tra classe e classe che han cacciato in fondo la Francia, 'sarebbe infiacchimento e rovina di molti anni avvenire. Ma la classe media ci pensi. L’elemento popolare non può, per natura di cose, che far con essa o contro essa. L’elemento popolare in Italia cresce innegabilmente all’azione; bisogna o guidarlo e combatter con esso, o bisognerà cedergli il campo quando che sia.

VI

Ilpopolo d’Italia, ho detto, cresce all’azione.

Parlo dell’elemento popolare delle città. Nellg. Lombardia settentrionale, in parte del Veneto, in molti punti dello Stato romano, anche gli uomini del contado son nostri e vogliosi di fare. Ma generalmente parlando, la vera vita d’Italia è nei popolani delle città. Il contado, l’elemento agricola, è non avverso, ma indifferente; manca — ed è mancanza derivante da una ignoranza alla quale nessuno può porre rimedio — d’idee, di conoscenza d’uomini e cose, e di fiducia in un partito che non ha mai fatto cosa alcuna per esso. Non agirà, spontaneo per l’insurrezione; ma non agirà contro mai; e i fatti lo hanno innegabilmente provato. Tutti i maneggi di prelati e preti che ricevevano nel 1849 le ispirazioni di Gaeta, non valsero a far sorgere in armi un sol uomo contro noi che distruggevamo il potere temporale del papa. Nelle terre d’Ascoli soltanto scoppiò sommossa; e poche forze bastarono a reprimerla. E non cito se non questo fatto, perché l’elemento. retrogrado, anti-italiano degli Stati Romani poteva invocare a suo pro la credenza religiosa, unica che potrebb'essere potente in Italia, se qualche cosa, dal desiderio di Patria infuori, fosse potente fra noi.

La fede, non nel principio religioso, ma in quel misto. d'intolleranza, di corrutela e d’ipocrisia ch'oggi rappresenta là religione, è perduta: una parte di popolo ubbidisce ancora al simbolismo cattolico per abitudine o per amor di quiete; ma nessuno è più capace di morire per esso. La credenza monarchica non ebbe mai radice in Italia; e d’altra parte, non esiste in Italia, fuorché negli Stati Sardi, monarchia, ma tirannide; in Piemonte l'affetto al re è affetto per lo Statuto, e cadrebbe s’egli. osasse sopprimerlo. Un popolo non ama mai 1qstraniero dominatore; in Italia, dove lo straniero non ha mai tentato conciliazione, e dove, mal certo dell’avvenire, s’affretta a dissanguare e impoverire il paese che può un dì o l’altro sfuggirgli di mano, lo straniero è abbonito, mutamente o palesemente, anche dai miseri nei quali l’ignoranza e la povertà estrema uccidono le più nobili facoltà della mente e del core! Non esiste da molti anni in Italia autorità venerata siccome tale che frapponga ostacoli al moto: esiste una forza brutale abbonita energicamente dai popolo delle città, non amata, ma obbedita passivamente dal popolo delle campagne, sol perché non vede, sorgere una forza egualmente potente e perché nessuno gli ha fatto intravvedere nel mutamento un vantaggio sicuro alle sue condizioni economiche.

Opinione, più o meno energicamente sentita, ma universalmente diffusa più che in ogni altra terra d’Europa, propizia ai mutamento nel senso nazionale in tutte le città d’Italia: — bisogno di miglioramento e vuoto di potenti credenze in una autorità qualunque esistente in oggi, nella popolazione delle campagne: — l’elemento popolare delle città avido d'azione, capace d’iniziarla arditamente anche inerme quando dispera d'ogni altra via di salute, aggirato da faccendieri e tiepidi, pochi in numero, ma influenti, a sperare occasioni d’azione secura dalla diplomazia, da guerre straniere, dal governo sardo; ma pronto universalmente a seguire con impeto l'impulso che gli venisse dalla classe media: — La monarchia piemontese vogliosa d’ingrandimenti, avversa all’insurrezione, incapace d’iniziativa, ma fatalmente costretta a seguire l’iniziativa popolare per bisogno di capitanarla e moderarla da un lato, per evitare lo smembramento delle sue provincie dall altro: — gli eserciti italiani tristi nell’alto, disaffetti nel basso, e disposti a resistere ad una debole iniziativa, a cedere ad una forte: — un presentimento di fatti imminenti, un senso di terrore che si traduce in ferocia nella vittoria, ma si tradurrebbe, come nel 1848 in fiacchezza, anarchia e viltà davanti a una prima disfatta, visibile in tutti i governi d’Italia: — ima aspettazione d'azione nazionale italiana in tutta l'Europa, presta a un biasimo di delusione ad ogni tentativo fallito, presta a favore ¿entusiasmo davanti a una manifestazione solenne: — è questa sommariamente, la condizione dell'Italia in oggi.

Davanti a condizione siffatta, la via segnata al partito è chiara, amare e osare: — amare più del proprio giornale, più del proprio sistema, più d'ogni simpatia o antipatia individuale, l'Italia: raggrupparsi inforno alla bandiera nazionale, salvandosi il diritto di far prevalere pacificamente, libero il paese, la propria opinione intorno ai modi di reggimento interno: — rinfrancar gli animi coll'unità: — appoggiarsi sull'elemento popolare delle città emancipandolo dai faccendieri: — agire energicamente sul Piemonte onde segua inevitabilmente e rapidamente una iniziativa che venga d’altrove, e perché consacri i mezzi ch’esso possiede a promoverìa: — dichiarare arditamente, continuamente, che il cerchio degli esperimenti è esaurito, che l’Italia non deve cercar salute che da se stessa, ma che, volendo, può averla; — raccogliere danaro ed armi: —. concentrare tutti i mezzi sopra un punto dato: —assicurar la vittoria d'una provincia, di Una forte. città: — conquistarsi l’elemento agricola coi primi decreti: — e lasciare il resto all'universale scontento, al fascino esercitato da' primi successi, alla virtù dell’esempio, ai consigli che l'ispirazione del momento,. suggerirà.

Una vittoria. L’elemento popolare può lasciarsi aggirare dai faccendieri, quand’essi parlano soli e nel silenzio comune ma la maschia eloquenza d’un forte prospero fatto, imporrà fine al codardo ronzio, e il popolo sorgerà come fiume che ha rotto le dighe. I tiepidi adorano la forza e adoreranno la nostra. Gli eserciti mitragliano le sommosse, ma si atterrano davanti alle rivoluzioni.

Una vittoria. Non opponete il fatto di Sapri, e il contegno dei villici. Così avverrà sempre in paesetti d’ignari, dove l’apparato d’una forza preponderante governativa e una calunnia che parli di masnadieri o servi di pena fuggiti agli ergastoli, prevalgono facilmente. Ma fate che l’ardito stuolo sia forte tanto da sormontare gli ostacoli primi e raggiunger Salerno; e vedrete mutar le sorti. La vittoria è per noi questione di mezzi.

E questi mezzi, il Partito può facilmente raccoglierli.

VII

lo conosco, appartenenti al Partito, dieci ricchi, ai quali cento mila franchi dati per ciascuno alla causa della Nazione, non sottrarrebbero un solo conforto reale. Quanti altri più, ignoti a me, ne conta il Partito? io potrei dare inomi di cinquanta almeno i quali potrebbero senza diminuzione reale d’ogni piacere che conforti onestamente la vita versare venti mila Tranchi ciascuno in una cassa comune. Quanti sono, diffusi per le nostre città, gli uomini che versano in simili condizioni? Quanti quelli ai quali mille franchi sono una inezia collocata spesso — non dirò sopra una carta — ma sopra un capriccio, sopra un viaggio inutile, su qualche oggetto d’arte guardato un giorno, poi dimenticato, su qualche abbellimento a una stanza già riccamente ornata? Quante, sui nostri passeggi, o nei palchetti dei nostri teatri, le donne che potrebbero togliere una gemma ai loro monili senza apparire meno splendide di bellezza, senza esser meno care a quei che amano la donna, non gli indizi della sua vanità?

I dieci, i cinquanta, i cento ch’io conobbi di persona e gii altri molti a me ignoti, si dicono e sono, a modo loro, patrioti. Abborrono l'Austria. Taluni son esuli delle terre lombarde, romane, napoletane: uomini del 1848, nomini del 4821, dannati a morte, amici di periodo in periodo d'allora in poi ai migliori fra i nostri martiri e legati d’affetto ai combattenti di Milano, di Venezia e di Roma. Io ne so, che perdettero figli, fratelli, o padri nelle nostre battaglie. Tutti deplorano le misere condizioni d'Italia; tutti cacciarono un giorno il guanto di sfida a' suoi oppressori. Come possano ritrarsi tranquilli la sera nelle loro stanze, e giacere senza che i pallidi volti d’uomini che s’assisero a mensa o a colloqui amichevoli con essi e morirono poi di laccio, di piombo, o suicidi come Ruffini e Pezzotti, s’affaccino ne’ loro sogni a suscitare nell’anima loro la coscienza ch’essi hanno i mezzi di liberare il paese e non ne usano, m’è arcano.

Io so che l’acerba parola sarà da taluni fieramente biasimata; ma io la dico perché a me quelle sembianze passano innanzi nei sonni inquieti, e rinfiammano la mia passione di patria e il proposito di dir pace a quell’anime sante e consecrarvi fino all’ultimo giorno pensieri, parole, ed opere; e grido ai ricchi d’Italia date, perch’io ho dato, sì che poco m'avanza da dare.

Sia per egoismo insinuatosi nell'anime loro, sia per quella tendenza all'inerzia ch'è piaga fatale de' nostri tempi, i ricchi del Partito Nazionale non fanno il debito loro. E bisogna dirlo. La Causa d’Italia è oggimai tanto innanzi, tanto palesemente e irrevocabilmente definita all’intera Europa, che nessuno oggimai può far velo al proprio intelletto e crederla sogno. La Causa d’Italia è realtà tremenda e solenne: tremenda, perché ogni anno e più sempre frequentemente si

more per essa; solenne, perch’è decretato che debba vincere. Tra queste due certezze, l’inerzia in chi si dice patriota, è delitto. Ogni vita che si spegne dovrebbe creare un rimorso in chi può accelerar la vittoria, e noi fa.

Un Partito Nazionale senza Cassa è l’accusa la più grave che possa moversi ai ricchi della nazione. In Inghilterra, quando una idea s’è fatta Partito, la prima deliberazione ha per oggetto la formazione d’un Fondo. L’associazione per l’abolizione delle leggi su’ cereali raccolse in poche sere, due volte, una somma di centomila lire sterline. La causa d’Irlanda era rappresentata da. versamenti che raggiungevano una cifrali centinaia di lire sterline ogni settimana. Ed ogni agitazione si governa a quel modo. Il senso pratico inglese intende che nessuna propaganda può procedere senza mezzi finanziarii, e li raccoglie. Tra noi, gli uomini presti a morir per la causa si trovano a mille; gli uomini che disserrino i cordoni della loro borsa, no.

Névalgono le obbiezioni fatte a individui o a disegni speciali. Non si tratta di far possibile o forte uh disegno che non paia buono: si tratta di dare, perché un disegno migliore possa affacciarsi. Si tratta che i ricchi d'Italia dicano ad uomini di scelta loro: se proponete un disegno plausibile a pro del paese, avrete da noi il nervo d’ogni disegno, il denaro.

Noi. dicono. E mentre una forza triplice di quella di Pisacane, forza presta su dieci punti purché armata e portata a momento opportuno da legni proprii, accenderebbe l'insurrezione invocata nel core, del Regno — mentre si schiuderebbero coll'oro le porte di quei castelli che tengono soli sospeso il terrore sulla testa di popolazioni scontente — mentre da quel ch'osano coi pugnali i popolani delle nostre città mostrano ciò che farebbero se armati essi pur di fucili — i nostri ricchi pur favellando di patriotismo e d'indipendenza italiana, tollerano freddamente inerti che i migliori tra noi, disperando d’aiuto, s’avventino per protestare che tutti in Italia non sono servi, né vili, in braccio alla morte. 1 partiti retrogradi trovano i loro Pourtalès; il Partito Nazionale Italiano, vergogna a dirsi, non può trovarli. I suoi ricchi pagano, volontari o forzati, all’Austria in pochi anni il decuplo che basterebbe a liberarli per sempre dalle esose gravezze, a liberare i loro concittadini dall'onta, e dai danni della tirannide, e a ristringere tra essi e l'elemento popolare un patto d’amore che. minaccia ogni giorno pur troppo di rompersi.

Odo taluni tra i pessimisti di parte nostra a insinuare che appunto nel destarsi dell'elemento popolare sta il segreto dell’inerzia da me lamentata; notano ciò ch'io pure ho notato l’indietreggiare delle classi medie sulle vie dell'azione e del sagrifìcio da quando il popolo comincia ad accennare di vivere di vita propria; e sospettano che il fantasma del domani, la temenza di non so qual socialismo invasore, intiepidisca gli agiati. Noi credo; ma se mai fosse, sarebbe errore fatale. Per questa unica via può crearsi in Italia il pericolo che s’intenderebbe rimovere.

Per la costituzione sociale economica del paese, per le nostre tradizioni storiche, e per le tendenze pratiche del nostro popolo, il socialismo, com'è inteso in Francia, in Inghilterra ed altrove, è e si rimarrà pianta straniera all'Italia, purché tutte le classi durino unite e attive nel solo pensiero che affatichi oggi le menti fra noi, quello dell’Unità Nazionale. Ben vivono diritti eterni di miglioramento materiale, intellettuale, morale nel popolo; e non è più concesso a rivoluzione alcuna tradirli o limitarsi a semplici mutamenti di forme politiche, ma pochi decreti della Nazione basteranno a consecrarli, e potranno eseguirsi senza indurre anarchia negli ordini sociali o rovina a giusti interessi esistenti o piati fra classe e classe. Gli 'elementi di prosperità materiale lasciati oggi inerti o sprecati son tanti nell'Italia collettiva fatta Nazione, che non è bisogno torre ad alcuno per dare incremento di sostanza o credito a chi non ha. Ma se per inerzia ed egoismo dei ricchi, la rivoluzione indugiasse di tanto che debba farsi dal vigore più sempre crescente d’un solo elemento della Nazione o sotto l’ispirazione di moti e concerti stranieri se l’idea che vive in oggi in pochi animi diffidenti e facili a travedere scendesse per molti anni d’isolamento nel popolo — se questo Dramma di dolore e di sangue che si svolge ora davanti a noi tra generosi che per la libertà della Patria rifiutano la vita e tiepidi che li guardano morire senza far cenno d’essere ad essi fratelli si prolungasse lung’ora — i pericoli d'ire e discordie covate nella miseria, ribollenti nei momenti di lotta, 9 proclivi a seguire ciecamente i suggerimenti di settari stranieri o domestici, diverranno gravi davvero. Il giorno in cui, mentre il popolo combatteva in Genova nel 1746 gli Austriaci, i patrizi tennero imperturbabilmente chiusi ¡ loro portoni,

F aristocrazia genovese periva per sempre.

Pur non sia per terrore di danni avvenire che i ricchi Italiani si commovano a ben fare; sia per amore, sia per senso d’onore. Ah! dovrebbero benedire. a Dio che dava' loro i mezzi d’agevolare una impresa grande quant’altra mai, quella di far Nazione d’un popolo capace di irforire per una idea. Hanno sugli occhi, ad ogni passo ch’essi movono sulla loro terra, i ricordi splendidi di grandezza che s’innalzarono in passata nelle città d’Italia dall’oro dei ricchi e dal sangue dei popolani. Facciano per la conquista della grande Città collettiva Italiana ciò che i loro maggiori facevano per là piccola separata città. Oggi i doveri sono mutati. Noi cerchiamo, vogliamo, avremo una Patria.. Ci aiutino a conquistarla senza che troppe vittime le siano fondamento. Essi non possono oggimai più persuadere rassegnazione, pazienza: troppi sono i patimenti degli Italiani; troppo il fremito; troppa là vergogna dell'aver gridato per lunghi anni all'Europa faremo, non facendo mai. Noi ci riteniamo in condizione di guerra iniziata; e, a Dio piacendo, la sosterremo: cadremo a risorgere; falliremo venti volte all'intento per ritentar venti volte, finché si riesca. Ma il sangue di quei che in ogni tentativo impreso con pochi mezzi cadono protestando, grida contro gli uomini che potendo accorciare la via della vittoria noi fanno.

VIII

Ho toccato, fin qui d'una triste genia; tale da disonorar l’Italia e far disperare chi combatte, se fosse davvero numerosa e potente. I faccendieri, gli scribacchia— tori venduti, i calunniatori per mestiere o par sozza invidia, i letterati pacifici per coscienza di codardia, i rinomati per vanità ferita, i ricchi egoisti, i tiepidi per fiacchezza di mente o piccolezza di core, sono, per ventura la menoma parte. d’Italia. Agitatori irrequieti, seminatori indefessi di dissidii e bugie,, ciarlieri per, che incapaci d'azione, tollerati dai governi nemici e favoriti dalla monarchia piemontese, padroni quindi non molestati di gran parte della stampa giornaliera, menano grave trambusto e usurpano talora pur troppo agli occhi di chi non s’addentra la rappresentanza del paese; non sono il paese. Il paese vive nel popolo ch'essi non amano e che non li ama, nella piccola borghesia che fu ed è tuttavia il nerbo delle nostre città, nella gioventù oggi sconosciuta che crebbe a virili concetti dal 1848 in poi. In questi elementi stanno le forze vive della nazione; le sole dalle quali pende la soluzione del problema italiano. —

Io potrei, se non lo contendesse il pudore dell’anima altera, tessere la cronaca quasi personale delle misere fazioni alle quali accenno, e mostrare a qual povero grado di forza numerica ascendano di città in città. Potrei nominare i cento, i cinquanta individui, che in Romagna, in Toscana, nelle città lombarde, costituiscono la parte attiva che s’intitola moderata e susurrano di monarchia piemontese, di federazioni regie, o d’ipotesi murattiane. Potrei citargli nomini delle medaglie a Cavour; i cinque, i tre che s’accinsero di mandare a Torino indirizzi in nome di Firenze e di Roma; l’individuo che col prezzo di fucili acquistati da noi e per noi, poi venduti da lui per terrore a un governo straniero, firmò in nome di molti lombardi, in Torino, per una larga somma, la sottoscrizione pei cento cannoni. Ma a qual pro? A convincere quanti non sono insanabilmente creduli della fiacchezza numerica di quel partito non basta la sua inerzia assoluta?

Sopprimete il cicaleccio giornaliero intorno ai se, ai ma, alle contingenze possibili ed impossibili, che cosa ha — non dirò ottenuto — ma tentato d’ottenere in nove anni il partito moderato, monarchico, per l'Italia o non foss’altro per una provincia d’Italia? Sopprimete le poche, monche, codarde, anonime dimostrazioni ai Piemonte che di certo non possono conquistare miglioramenti amministrativi o politici alle provincie schiave; quali manifestazioni hanno osato questi uomini che intendono a liberare il paese? quali disegni architettarono? quali lavori nazionali iniziarono? con quali atti di civile coraggio e di sagrificio tentarono educare a generosi propositi gli italiani? Non credono maturi i tempi a combattere? protestino almeno. Or possono essi citare una sola protesta che abbia schiuso ad essi le porte d’una prigione? Possono additarci un sol disegno d’opposizione semi-legale che abbiano tentato di condurre a fine? La povera tremante frazione del ministero sardo che sentiva il bisogno di puntellare il suo più povero memorandum di; qualche dimostrazione moderata, chiese, istigò, suggerì, pregò con ambascerie i monarchici fiorentini perché. si facessero vivi; ottenne a più riprese promesse non fatti mai. 1 moderati di' Lunigiana, e del, centro ottennero dai popolani un indugio a fatti preparati da noi quando la diplomazia romoreggiava d’intervento nelle cose napoletane, promettendo, solennemente concorso all’azione se mai quell'intervento sfumasse; poi, Je loro promesse sfumarono coll'intervento. In Napoli, gli uomini di parte costituzionale sedassero i nostri a dilazioni fatali e disonorevoli, mentre Pisacane e gli esciti da Ponza combattevano, dichiarando che a suscitare fermento era necessario, prima di prorompere in,insurrezione aperta nella capitale, ordinare una manifestazione tra l'ostile e il pacifico, e giurando compirla il 4 di luglio; poi tradirono il patto e lasciarono che le nuove sfavorevoli dello scontro in Padula intiepidissero gli animi. Paventano avversar l’opinione europea? Ma s’adoprano essi a mutarla? L’ambasciata piemontese somministra di tempo in tempo al Times materiali d’articoli avventati contro noi, tiepidi contro il re di Napoli; e il Times li conchiude invariabilmente dichiarando la nazionalità italiana utopia; ma d'azione sistematica, collettiva dei moderati chi scopre indizio? Le associazioni pubbliche d’amici d’Italia formate in Londra e nelle provincie son nostre; nostre le letture frequenti a pro della causa d’Italia, e le sottoscrizioni tra gli operai di Scozia. Credono errore, colpa, follia, il liberare prigionieri a forza per condurli a scendere in terra loro? Ma perché non s’adoprano a liberarli e condurli salvi, testimonianza del vigore e della universalità del partito, in terra straniera? Noi abbiamo insegnato ad essi la via.

No; i moderati monarchici non osano, non vogliono, non possono fare; né faranno mai cosa alcuna. Mancano di genio, d’audacia, di fede, d’ispirazione nazionale, di potenza, di sagrificio; e mancano di forze e delle braccia del popolo, senza le quali nessun fatto è possibile. Pochi, timidi, avvezzi ai conforti della vita, riverenti per tradizione monarchica inviscerata in essi ai governi di fatto e alle polizie, e inavvezzi a stringere in concordia d’opere la mano callosa dell’operaio, si rimangono, capaci pur troppo di nuocere — chi non lo è? — ma diseredati d’ogni iniziativa pel bene. Vivono, come insetti intorno a generosi destrieri, nell’opera nostra alla quale maledicono stolli a un tempo ed ingrati. La loro polemica si trascinò per alcuni anni intorno al fatto dei sequestri, conseguenza del 6 febbraio in Milano; poi sulla formola o riforme o insurrezione in Italia che senza il nostro continuo fremere ed agitarci Cavour non avrebbe mai osato proferire davanti ai plenipotenziari raccolti in Parigi. Domani forse trarrà occasione di millantatrici e vuote minaccie da qualche incidente sul Cagliari. Ma l’inerzia assoluta e l’incapacità a vivere di vita propria che contrassegnano quello sciagurato partito si riflettono mirabilmente nel silenzio e nella parola della stampa straniera. Fra un tentativo di parte nostra ed un altro, la stampa straniera tace d'Italia, se non per registrare i viaggi dei principi, e le condizioni economiche dell’agricoltura.

I monarchici moderali — e v'insisto perché molti dei nostri e di certo moltissimi fra gli stranieri sono in questo punto in errore — sono, non solamente inetti, ma deboli e pochi. E nondimeno, come dissi sul principio di questo lavoro, sono potenti a mal fare, a inceppare l’azione altrui, a sviare dal diritto sentiero il moto incessante dell'elemento nazionale. Parecchi tra loro operarono virilmente sul campo durante la guerra regia; e il popolo che lo ricorda accetta volenteroso il loro consiglio, presumendo elessi maturino circostanze più propizie all'azione. Gli altri cospirarono, organizzarono con noi le associazioni segrete prima che sorgesse l’illusione fatale della monarchia piemontese. Taluni si frammisero machiavellicamente ai nostri lavori anche dopo, usurparono fama di uomini vogliosi di fare, fondando comitati, corrisposero meco; oggi si giovano dell’influenza acquistata sotto la bandiera d’azione per avversarla e impedirla e, occorrendo, tradirla, ovunque minaccia prorompere. Pochi individui, uno dei quali avea corrisposto per due anni con me ed era membro accreditatissimo della nostra Associazione, bastarono, promettendo d'incamminarsi più rapidamente all’azione colla fusione di parti avverse, a sconvolgere, dopo il 6 febbraio, tutto il lavoro di Roma. Pochi comitati, com(fosti d’uomini tacitamente legati alla razione monarchicapiemontese, paghi d’esercitare un’autorità qualunque, senza intento patrio, obbediti per abitudine da chi non sa, trascinano da più anni di inganno in inganno i generosi popolani delle Romagne. Ma chi dall'azione negativa di questi pochi, individui o comitati che sieno, giudicasse della vita, delle tendenze, della capacità del paese, sostituirebbe un fantasma alla realtà. Manca ai nostri l’intelletto politico, non il desiderio di fare.

IX

Dal 1849 in poi le vere condizioni d'Italia son queste:

Un popolo — il popolo delle città — capace e voglioso di levarsi, combattere e vincere; mancante, nelle provincie oppresse, d’armi, ma non tanto da farne argomento d’inerzia, mancante di capi e aspettandoli dalla classe media; non curante di diplomazia o di possibili nuovi nemici stranieri; disposto a gettarsi nell’arena e affrontarli tutti; imbevuto dell’idea nazionale e pronto a sagrificarle ogni cosa.

Una classe media odiatrice d’ogni dominazione straniera edella tirannide domestica papale e politica: singolarmente unanime nel desiderio dell’unità nazionale; intiepidita per mezze dottrine, illusioni artificiosamente apprestate dai governi avversi, ed altre cagioni lunghe ed inutili a dirsi, nelle antiche sue tendenze all’azione; poco conoscitrice del popolo, ma presta ad affratellarsi con esso a cose iniziate; dotata di scienza superficiale e proclive quindi allo scetticismo, sprezzatrice delle dinastie, delle ambizioni monarchiche, e della diplomazia forestiera, ma adoratrice del fatto, della forza e scambiandone spesso il fantasma per la realtà:

Un governo — il Piemonte — odiatore dell’Austria per ambizione, ma, per antagonismo monarchico e terrore di conseguenze, più assai d’ogni insurrezione popolare; cupido d’allargare i proprii domimi, ma tentennante per tradizione e mediocrità d’intelletto e pauroso

d’ogni disegno energico e collegato indissolubilmente colla diplomazia e coi governi stranieri; stretto da questi diversi elementi di vita a una perenne altalena politica, a impedire, potendo, ogni moto e a giovarsene pei suoi fini ogni qualvolta prorompa irresistibile, incapace d’iniziativa, ma obbligato a seguire l’altrui per la necessità di cercare d’impadronirsene e a un tempo per non cadere sotto il malcontento delle popolazioni.

Una fazione — la monarchico-moderata della quale ho parlato fin qui — impotente a giovare alla causa d’Italia, deliberata a impedire che altri le giovi, potente a nuocere, numericamente debole, ma padrona di gran parte della nostra stampa, attiva e aiutata dal passato a frammettersi ai nostri elementi, promettitrice con certezza di non attenere, poco scrupolosa nella scelta dei mezzi, audace non nell’opera ma nella parola, calunniatrice instancabile:

Un partito — il nostro, il partito d'azione — unico attivo, instancabile, logico, chiesa militante della nazione; potente fra i popolani, frainteso spesso dalla classe media, accettato dalla democrazia europea, ma lasciato dall’inerzia dei molti tiepidi con pochi mezzi di successo e redarguito per non potere con quei pochi mezzi operare grandi cose; solo a ogni modo che possa chiamarsi nazionale, dacché, lasciando intatte in ciascuno le convinzioni repubblicane o monarchiche e commettendo la scelta all'arbitrio del paese legalmente e universalmente rappresentato, scrive sulla propria bandiera: guerra di tutti: vittoria per lutti: LA NAZIONE PER LA NAZIONE.

In siffatta condizione di cose la via da seguirsi è chiara: La fazione moderata non può convertirsi, né importa occuparsene se non per metterne in chiaro gli inganni e distruggerne l'influenza addormentatrice.

Il governo piemontese, per chi lo crede necessario, il popolo e l’esercito di Piemonte che sono italiani e necessari davvero, non possono che seguire, come nel 1848, un fatto compiuto.

La classe media indispensabile alla guerra nazionale tentenna in oggi sulla via perché diffida della possibilità della azione; cerca una forza e non sapendo indovinarla latente nel popolo, giace inerte o si svia dietro a fantasmi di monarchie iniziatrici o di possibili guerre straniere. Mostratele questa forza in azione;la seguirà. Distruggetene lo scetticismo col fatto; oprerà degnamente sulla via delle sue tradizioni e delle sue tendenze.

Dal 1848 in poi il problema italiano è lo stesso: un fatto d’insurrezione potente e coronato di successo, una vittoria conquistata in nome della Nazione in un punto importante, la bandiera della guerra nazionale sventolante per una settimana sulle mura di una forte città d’Italia. L’insurrezione sarà universale.

Per chi è profondamente convinto della verità di questa affermazione, il dovere è potente: agire continuamente per crear quel fatto, quella vittoria. Io lo sono, e compirò quel dovere. Quanti dividono la mia convinzione siano meco o con altri che la rappresenti meglio di me.

Il fallire replicato, dei tentativi non può distruggere né la convinzione né il dovere che ne deriva. Il menomo incidente può sconcertare un disegno preordinato con tutte le cure possibili, un lavoro preparato inevitabilmente nel segreto; ma nessuno può dire che quell’incidente dovrà riprodursi ad ogni simile tentativo. Quando le cagioni dèi fallire non hanno carattere permanente, assoluto, ma occasionale, temporario, contingente, comandano un raddoppiamento di mezzi e di cuore, non altro. Il desumere dalla non riescita che non s'ha da tentare è codardia a un tempo e stoltezza.

Ogni rivoluzione nazionale fu e sarà sempre preceduta da una serie di tentativi falliti, di sommosse represse; gli animi s’educano, su quella via provata inevitabile dalla storia, alle virtù della lotta, s’affratellano nei patimenti comuni, si purificano a poco a poco nel sacrifizio delle colpe e dell’egoismo inseparabili da ogni lungo servaggio. Nessuno sa il numero dei tentativi che precederanno la vittoria; ma la storia c'insegna che quel numero si fa minore in ragione della loro energia e della loro frequenza.

Quando la protesta è continua, Dio popoli decretano la vittoria.

Nella lunga lotta alla quale è destinato, come a conquista ed evidenza del suo diritto, ogni popolo che vuol farsi Nazione, si tocca un periodo — ed è il prossimo alla vittoria — nel quale ogni tentativo fallito o no giova visibilmente alla causa del popolo che combatte. L’Italia ha raggiunto questo periodo. Ogni tentativo dal 1848 in poi ha fruttato, passati i primi clamori, o incremento d’opinione favorevole a noi in Europa, o nuovi elementi di dissidio tra l'Austria e il Piemonte, o emulazione di moto in provincie limitrofe a quelle ove il tentativo ebbe luogo. Mentre i moderati e i pedanti della politica lamentano il supremo sconforto che invade gli animi dopo un’impresa sventata o strozzata in sul nascere, il popolo vede in essa un indizio di vita e d’attività, e s’avvezza a considerare la lotta per l’emancipazione del paese come condizione normale di cose, e il possibile ritrarsi come viltà.

Per chi crede nella verità di queste proposizioni, la via, ripeto, è segnata. Bisogna correr là, senza badare a persecuzioni, a delusioni, a calunnie: vivere, morire nella fede e nell'opere. La coazione d’una Italia è un intento che, raggiunto, deve mutare le Sorti dell'Europa e dell'Umanità: bisogna sollevarsi all’altezza di quell'ideale ed imparare ad amare davvero e sprezzare: amare con tutte le facoltà dell’anima la Patria Italiana, e sprezzare con tutte le facoltà dell'anima i dolori che accompagnano inesorabili quell’amore. Abbiamo, nel 1848, gittato un guanto di disfida mortale all'Austria e a quanti nemici la libertà e l'unità d’Italia contano dentro e fuori: non possiamo, senza tradimento e disonore, ritrarci. '

Lavorare a distruggere il dualismo impiantato dalla monarchia tra il Piemonte e l’Italia: italianizzare il Piemonte: convincerlo ch’esso non è se non una zona d’Italia, più libero, quindi con maggiori doveri.

Lavorare a distruggere le illusioni e gli inganni della fazione che s’intitola moderata nel centro, nel regno di Napoli, e nelle città Lombarde.

Versare senza posa l'infamia meritata sui Murattiani e su quante piccole sette prostituiscono la sacra bandiera d’Italia a raggiri di pretendenti stranieri.

Richiamare senza posa gl'Italiani al culto del vero, all'adorazione de' principi!, alla moralità senza la quale non può esister Nazione, all'abbominio di (piante menzogne, di quanti artificii, di quante transazioni codarde profanano o ringrettiscono la causa d’un Popolo che ha tanti martiri da fondarne una Religione.

E sovra ogni cosa preparare l’Azione, l’Insurrezione.

È questo il programma per quanti si dicono apostoli della Nazione.

X

E il programma è possibile.

Non manca ai nostri né il desiderio ne la capacità, né l'ardire; e sono, per numero, potenti quanto basta a raggiunger due volte l’intento; ma due difetti, che sembrano contraddirsi e nondimeno scendono dalla stessa sorgente, ne inceppano finora l’attività. La nostra educazione s’è compiuta, per opera della lunga tirannide e del materialismo, su Machiavelli. La grande ombra di quell'illustre stende tuttora su noi il velo di quell’analisi dissolvitrice che comincia colta scienza e finisce colla negazione e collo sconforto; e la scienza, quale possiamo attingerla a quella sorgente, si traduce negl’intelletti mediocri, che sono i più, in una meschina abitudine di piccolo calcolo fatale a ogni magnanima impresa; e lo sconforto, quando non è temperato da una fede religiosa nel Dovere, si traduce in inerzia. L’intelletto dei nostri procede anche oggi incerto, allentato fra questi due estremi.

Dissi altre volte e mi giova ripetere qui ai giovani caldi d’amor patrio e desiderosi di tradurlo in atti, che Machiavelli crebbe educato tra gli ultimi aneliti della libertà di Firenze, quando Firenze era l’unica terra d’Italia nella quale vivesse ancor libertà. Un patto nefando stretto fra il Papato e l’impero decretava allora chiuso per tre secoli l’avvenire. Serva dello straniero, senza coscienza di popolo, di missione, di Patria comune, s'affacciava la monarchia: corrotta in sul nascere, corrompitrice, i pochi generosi s’affrettavano a morire, protestando colle congiure, fraintesi, sprezzati; gli altri erano servi abbietti o abbietti tiranni.

Compiuta un’epoca della sua vita, l’Italia incadaveriva. Machiavelli, dopo avere per debito di coscienza protestato egli pure colla congiura, si mise a contemplare, a palpare, ad anatomizzar quel cadavere. Era il cadavere della Madre; e tu senti di tempo in tempo la mano che teneva il coltello agitata da un brivido e vedi la fiamma dei santi devoti pensieri salire su per le scarne smorte guance dell’anatomista; ma quella fiamma, come i fochi dei cimiteri, non illuminava dei suoi getti che livide sembianze di morte. E scienza di morte fu la scienza di Machiavelli. L’egoismo, morte dell’anime, campeggia principiò fondamentale disperatamente accettato nelle sue pagine. Virtù non era, ed ei la ricorda come cosa spenta. Machiavelli chiede all’mteresse dell'individuo la soluzione del problema italiano che nella misura dei tempi, affaticava a lui pure l’ingegno. La sua è la dottrina della forza. Era la sola suggerita dalle condizioni d’Italia e d’Europa; e la potenza d'intelletto e l'orgoglio italiano che fremevano nell'anima del pensatore ne trassero, come farmaco dal veleno, quanto bene poteva trarsene. Ma, i poveri ingegni, che recitano, scimmiottando, la parte di pratici, rubando citazioni e frammenti d’idee a Machiavelli, e rimpicciolendo la sua teoria della forza all'adorazione idolatra di forze non nostre, non disponibili, e alle quali ogni iniziativa è contesa — gli uomini che appoggiandosi su Machiavelli irridono all’entusiasmo e all’audacia della virtù, pretendono rigenerare un popolo colla menzogna, e fondare la libertà d’Italia sull'egoismo d’un principe o sull'interesse momentaneo di governi essenzialmente nemici — gli uomini che in una questione di governo insurrezionale rifiutano ogni calcolo che non sia di forza materiale, positiva, preesistente, e chiedono a un popolo che nel 1848 conquistò con poche armi da caccia l’artiglieria di Radetzkv: dove sono i vostri cannoni? — confondono due epoche assolutamente diverse,,non intendono né Machiavelli né i loro contemporanei, e non sono, pur millantandosi pensatori, che i pedanti della politica.

La nostra è dottrina di Diritto e di Libertà. Noi siamo sul limitare d’una Epoca, mentre Machiavelli scriveva sulla tomba d’un’altra. L'Italia sta in oggi per sorgere, allora giaceva disfatta. L’unico elemento esistente ai tempi dell’analitico fiorentino era l'egoismo dell’io; l’elemento sul quale noi fondiamo le nostre speranze è un elemento collettivo, è l’istinto delle moltitudini, è il fremito duna generazione che vuol morire o vivere della propria libera vita.

I vecchi generali austriaci dichiaravano — e giusta l’antica scienza militare avevano ragione — che Bonaparte violava ogni precetto dell’arte; Bonaparte intanto gli sconfiggeva. Gli uomini che oggi s’intitolano pratici e positivi somigliano ai primi: la scienza dei popoli deve esser quella di Bonaparte.

I calcoli sulla cifra positiva delle forze edell’armi anteriormente all’insurrezione sono inezie d’uomini incapaci di guidare, di promuovere, di intendere una insurrezione di popolo. È il popolo che si tratta di far insorgere maturo per questo, consapevole del suo diritto, concorde in un voto, agitato universalmente d’un fremito di dolore, di desiderio, di speranza, di gloria futura? Se non lo è, consecratevi ad educarlo; è il tempo del martirio, della protesta. Se lo è, concentrate la somma di forze necessaria a vincere sopra un punto importante qualunque; studiate gli atti opportuni a convincere quel popolo che operate per esso, poi osate. Tutta la scienza rivoluzionaria sta in questo, e nella costanza dell’applicazione. Tentate, ritentate. Caduti dieci volte, se v’avanza vita, tornate a sorgere. Le forze d'un popolo non s’esauriscono mai; quelle dei governi nemici si consumano ad ogni lotta. La continua protesta crea l’opinione che genera la vittoria. Non vi cacciate mai in calcoli minuti di forze positive, di battaglioni e d’artiglierie; se i termini del problema consistessero nell’eguaglianza aritmetica delle forze nemiche e delle insurrezionali ordinate, la storia non avrebbe registrata una sola insurrezione nazionale. Fidate nell’entusiasmo, nell’emulazione, nelle forze che vi verranno il di dopo. Quella fede è parte di calcolo; la parte che spetta al Genio ed è ignota ai copiatori di Machiavelli, impotenti in eterno a creare un popolo o una sola vittoria.

Il vero elemento pratico che manca ai nostri, dacché la scienza di Machiavelli, non può insegnar loro che calcoli sull'individuo, è il senso della potenza collettiva, il senso della forza creata dall’organizzazione. Migliaia, centinaia di migliaia dei nostri si rimangono inutili al Partito e all'intento, perché isolati. Le loro giornate trascorrono inerti fra il lamento ed il desiderio, nella lettura dei giornali, nelle congetture su ciò che potrebbe accadere. S’essi sapessero ciò che possono! Se intendessero i miracoli di potenza che noi potremmo trarre dal nostro Partito, purché attivo tutto, purché concentrato tutto ad un fine!

È questo il senso pratico ch’io invoco ai nostri: il senso che traduce in fiuti, comunque apparentemente menomi, ogni pensiero: il senso di disciplina, d’attività continua; di convergenza di forze, picciole in sé, immense nel complesso, che fa gli eserciti onnipotenti contro moltitudini superiori di gran lunga in numero, ma operanti senz’ordini e concentramenti. Non importa il capo; capo, io lo dissi più volte, è il programma, è lo scopo. Se tutti gli individui dai quali è consentito, operassero a seconda e si consacrassero di propria autorità militi, apostoli, capifila, una incalcolabile massa di forze si troverebbe raccolta e presta a. mettersi in moto in un dato momento, quando le circostanze, un fatto, un uomo, io o altri non monta, direbbero: è l’ora.

Dovunque sono tre uomini, i quali credono debito d'Italia l’agire e vergogna l'inerzia, ivi dovrebbe essere un nucleo di chiesa militante, un foco di cospirazione, un centro d'azione. I tre dovrebbero considerarsi come stretti da un giuramento solenne e reciproco a prepararsi ed a preparare altrui per l'azione; e ciascun d’essi dovrebbe lavorare a costituirsi centro d’un altro nucleo fra' suoi amici, né aver posa prima della riuscita. Così dinucleo in nucleo indefinitamente. Ed ogni nucleo dovrebbe formarsi, piccola quanto vuoisi, una Cassa, un materiale qualunque da guerra tanto da potere operare senza indugio ove occorra, o fer sì che altri possa operare oltrepassato quel limite, ogni piccola Cassa, quando stabilito contatto con altro centro più vasto e più potente, non fosse necessaria l'attribuirla, a disegni immediati d'azione, varrebbe a prendere un abbonamento a un giornale nostro, a ristampare brevi scritti del partito, a diffonderli, per vie segrete, che(l’organizzazione sola può dare nelle province d'Italia, dove la stampa è vietata,, a soccorrere un perseguitato, ad alleviare le privazioni d'un prigioniero. Noi lamentiamo l’inerzia dei ricchi d'Italia, ed è colpa grave; ma la ricchezza sta, purché vogliamo, nelle nostre mani. I poveri Irlandesi versavano milioni nella cassa, del Partito dando un soldo per settimana; il loro esempio, tante volte citato, non sarà dunque mai imitato da noi? II. Partito sarà ricco il giorno in cui ogni individuo appartenente ad esso sentirà il dovere, il bisogno di pagare una contribuzione qualunque alla Patria comune, com’ei paga oggi alla Società in ch’egli vive. Il Partito sarà potente il giorno in cui tutti gli elementi che lo compongono saranno pronti a mobilizzarsi ed agire appena sorga il momento opportuno. Il Partito vincerà tutti gli ostacoli il giorno in cui una organizzazione pratica, positiva lo abbraccerà intero. E questa vasta universale organizzazione può sorgere dal lavoro indipendente e a frammenti che accenno. Cento piccoli nuclei costituiti nell’isolamento finirebbero naturalmente per incontrarsi e coordinarsi in un centro comune.

Io vorrei che i nostri sentissero prima il supremo dovere di rappresentare praticamente in qualunque modo possono il pensiero di Patria che hanno nel cuore; poi la necessità del. lavoro collettivo, dell’organizzazione; finalmente l'importanza d’ogni atto, d’ogni preparativo, di ogni sacrifizio anche menomo. È questo il senso pratico del quale abbisognano gli Italiani.

XI

Noi siamo in oggi, o giovani. il solo Partito che rappresenti la causa Nazionale Italiana. Bisogna mostrarsi degni dell’alta missione che ci assumemmo.

I Muratiani prostituiscono la patria Italiana a un profitto di tiranno straniero; tradiscono l’Unità della Nazione; profanano l'idea del vostro Diritto sotto concessioni principesche degne di cinque secoli addietro; mirano a dar piede alla Francia in Italia; e del resto non pongono sulla bilancia né coraggio, né mezzi, né aiuto di Diplomazia, né forza, né senno: aspettano il loro trionfo da una vostra dedizione servile.

I fautori della monarchia Piemontese vivono sopra un se provato oggimai impossibile, l’iniziativa del governo Sardo, e rifiutano aiuto all'unico fatto che potrebbe costringerlo a scendere sull’arena, una iniziativa di popolo; non possono logicamente pretendere che la monarchia rovesci dai suo trono il Papato, e non possono quindi risolvere la questione Italiana; sono costretti dalle tradizioni regie ad appoggiarsi sulla Diplomazia Europea avversa a rivoluzioni, avversa all’Unità Italiana, avversa per principio a ogni mutamento, e deliberata di concedere il meno possibile quando i fatti rendano inevitabili le concessioni.

La genìa senza nome, senza principio, senza disegno, che s’intitola moderata, è per mancanza di forze, di programma, d’audacia, di senno, e d’amore all’Italia impotente ad agire; dove, per miracolo di circostanze favorevoli, agisse, non chiederebbe se non riforme, e quindi prolungherebbe, rafforzerebbe anzi, creando interessi locali, lo smembramento Italiano.

Négli uni né gli altri riconoscono la sovranità nazionale: chiamano la nazione a soggiacere anzi tratto all'autorità d’un principe o d’un sistema.

Noi soli, repubblicani, abbiamo fatto e facciamo omaggio alla Sovranità del Paese; nostra è la formola: l'Italia per gli Italiani; la Nazione per la Nazione; nostra l’altra: battaglia di tutti, vittoria per tutti. Repubblicani da un quarto di secolo in poi finché si tratta d’apostolato, d’educazione, di diffusione di principii, pieghiamo noi soli riverente la fronte davanti alla maestà della Nazione quando si tratta d’azione, d’insurrezione, d’iniziativa armata.

Abbiamo esaurito gl’inviti, le preghiere, le istanze. Abbiamo corso tutto quanto e ricorso il cerchio delle concessioni che non implicavano apostasia. Abbiamo sprezzato l’ingiuria, l’intolleranza, la calunnia, arme, contro di noi, di tutte fazioni. Abbiamo stesa la mano agli uomini che ci si chiarivano avversi, e avversi spesso slealmente. Abbiamo detto ai fautori della monarchia piemontese: agite con noi otrascinare la monarchia sul campo con una insurrezione di popolo. Abbiamo eletto' agli uomini che biasimano la pretesa esiguità dei nostri tentativi: unitevi nell'intenzione d'agire, proponete voi stessi disegni più vasti benché più lenti; purché le forze vostre cooperino, li accetteremo. Abbiamo detto a quei che s'irritano del nostro dirigere: accettate il principio d’azione e guidate voi. Queste offerte, queste proposte stanno consegnate nei nostri scritti, nei nostri proclami, nelle nostre corrispondenze. Il furore o la tattica immorale di parte possono dimenticarle; nessuno può cancellarle. E il paese a suo tempo le ricorderà.

Non furono accolte. Siam soli; soli ad agire, soli sulla via del sacrificio, soli vogliosi e capaci quando che sia di iniziare. Ma dietro a noi sta il popolo di tutte le città d’Italia; sta una gioventù fervida, bollente, atta ad ogni magnanima impresa, Cresciuta nella memoriadelle giornate lombarde, de' bei fatti di Venezia e di Roma: dietro a quel popolo e a quella gioventù stanno, po, che ore dopo una prima vittoria, i più fra quelli stessi che, oggi ci avversano perché diffidano. E davanti a noi sta la bandiera in nome della; quale giurammo; sta quella sacra immagine dell'Italia, della Patria Una,ch’io' v’additai, o giovani, ventisei anni addietro, alla quale io promisi, tra le mura d'una prigione, di sagrificare agi, conforti e affetti di vita; e non falsai né falserò mai la promessa. Seguite me; seguite il mio grido l’'Azione, finché non troviate fra voi chi lo proferisca con maggiore energia e lo incarni con senno e costanza d’opere. Noi siamo, dal 1848 in poi, maturi per essa.

Ma seguitemi attivi, volenti, insistenti. Insegnate agli uomini chesi millantano pratici senza fare né tentar mai cosa alcuna, come l’ingegno pratico sgorghi davvero in voi dalla fede; mostrate all'Europa come voi siate gli eredi dei grandi che soli accoppiarono il culto dell’ideale col senno positivo della realtà. Ordinatevi: raccogliete materiali d'azione: siatel’esercito dell’Italia futura. Il PARTITO DI AZIONEha cacciato con dieci tentativi un guanto al nemico, una promessa all'Europa. Mantenete per l'onore, in nome del Dovere, la solenne disfida e la gloriosapromessa. Siete potenti a vincere sol che vogliate.

1857.

FINE

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NOTE

(1) Dante.

f(1) So d’una sola eccezione, d’un buono incapricciato sventuratamente di quel partito, che ha dato a una provincia schiava d’Italia 300 fucili.









Pisacane e la spedizione di Sapri (1857) - Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito
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1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. III HTML ODT PDF
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The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

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MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

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NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

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GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

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GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano





Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)















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