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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

QUISTIONE NAPOLITANA

FERDINANDO BORBONE E LUCIANO MURAT

ITALIA 1855

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SCHIARIMENTI E RISPOSTE

Sommario

Incoraggiamenti per questa seconda edizione — Domenico Mauro, Girolamo Ulloa, Bianchi Giovini, Raffaele Conforti, il Giudice Albarello — Ingiustizia delle accuse del De Sanctis — Il giornale il Diritto — Giovanni La Cecilia ed un suo opuscolo — I veri devoti di re Bomba — Perché celiamo il nostro nome — La nostra dichiarazione sull’Anione — S’insiste a volerci accusare senza buone ragioni — Conclusione.

La prima edizione di questo opuscoletto è ormai esaurita da parecchi giorni. Ciò è per noi motivo di vera compiacenza ed allegrezza, massime se voglia riflettersi, che non solo parecchi tra i giornali più assennati del Piemonte (1) e di fuori si pronunziarono in senso favorevole intorno a questa nostra qualsiasi scrittura, ma ci giunsero pure parole di conforto e d’incoraggiamento da parte di uomini, che diedero prove non dubbie del loro amore infinito all’Italia, tra i quali figurano pure i nomi di Napolitani assai chiari ed illustri, la cui vita è stata ed ètuttavia un perenne martirio, un nobile e sublime sacrifizio per la redenzione della patria comune (2).

Lo scopo che dal bel principio ci proponemmo, e che crediamo di aver raggiunto, fu quello di lanciare una nostra indea in mezzo al pubblico, di vedere il modo come essa veniva accolta, e fare, per così esprimerci, una ricognizione politica del numero e delle forze de’ nostri avversarii. Noi gli abbiamo contati questi avversarii, ed essi per buona ventura sono sempre gii stessi, ed in una minoranza tanto impercettibile, anzi così microscopica, che non potendo entrare animosamente in campagna, si destreggiano, comunque indarno, di molestarci ai fianchi ed alle spalle.

In questa categoria però non deve comprendersi il signor Domenico Mauro, antico e generoso campione di libertà, il quale, se ha potuto mostrarsi verso di noi eccessivamente severo, ha non pertanto lasciato intatto ciò che il diritto della guerra vuole che fosse sempre rispettato fra gli stessi nemici. Egli non è del nostro avviso e ragiona a suo modo; noi non siamo del suo, e ragioniamo a modo nostro, senz’intenderci a vicenda. Ecco tutto.

Ci duole di non potere affermare il medesimo pel signor Francesco De Sanctis, il quale, si è volontariamente condannato all’ira, e spostando, anzi dimenticando la quistione principale del nostro opuscolo, ci ha fatto pensare e dire quello che mai non abbiamo né pensato, né detto, corate quando scrisse, che noi non sapevamo altrimenti difendere la causa di Murai che ricoprendo d'infamia il proprio paese (3).

Quest’accusa è veramente tremenda, e se si trovasse, non dirò nelle nostre intenzioni, che altri con selvaggiocinismo han pure malignate, ma nel contesto della nostra scrittura, un lontano motivo per muoverla e sostenerla, noi non sappiamo con qual penitenza potremmo farne ammenda.

Abbiamo usati, com è nelle nostre abitudini, tutt’i riguardi della cortesia e della gentilezza coi nostri avversarii politici, sperando di venir con esso loro ad una discussione non tumultuosa ed aggressiva, ma pacata e tranquilla, e quale si addice a uomini che abborrono da ogni soverchieria e violenza, e che si professano e sono amici e propugnatori di libertà e di liberalismo; ed invece ci siam veduti assaliti da parole iraconde e minacciose, e peggio ancora, da ingiurie e da calunnie: come se le minaccie potessero impaurirci, o le ingiurie e le calunnie potessero giungere sino a noi!

In qual luogo, p. e., del nostro libriccino abbiamo chiamati colpevoli Cirillo, Pagano, Ciaja, ecc.,che furono eroi, fecero atti da eroi, e morirono da eroi? Ebbene, il signor De Sanctis, quantunque avesse presente il nostro opuscolo, pure ha voluto per forza affibbiarci questa colpa, che per lo meno ci farebbe passare per pazzi.

In qual luogo, p. e., del nostro libriccino, noi abbiamo voluto calunniare i nostri compagni d’infortunio, che gemono nelle galere e negli ergastoli, o che mestamente si aggirano con noi sulla terra dell’esilio? Ebbene il De Sanctis, cangiandoci, come suol dirsi, le carte in mano, ha scritto così: Voi calunniate de’ compagni d'infortunio. La plebe ed i prigionieri sono troppo lontani, non vi possono rispondere, ma gli esuli ben vi possono domandare che proviate e determiniate la vostra accusa, acciocché un italiano, guardando in viso un esule napolitano, non abbia il diritto di dire: alla larga! Costui può ben essere uno de' devoti (borbonici).

Taluni che pei loro fini volevano dar credilo a queste parole, che ci contentiamo di chiamare imprudenti, si sono spinti ad eccessi, che in verità parevano impossibili in Piemonte, dove sino le provocazioni continue ed impotenti de’ giornali retrivi non si hanno neanche l’onore del pubblico disprezzo..

Ci rincresce sopratutto che il Diritto, compilalo da uomini di cui noi rispettiamo non solo le opinioni, ma benanche il senno e la dottrina, sia con troppa buona fede caduto in un errore di fatto molto grave, ed abbia pure tenuto con noi un linguaggio, il quale, senz’avere i pregi dell’imparzialità, ha invece tutti i difetti della passione. Noi almeno non sappiamo intendere altrimenti quel suo annunzio, cioè, che l’Emigrazione napolitano (sic!) era indignata de! nostro opuscolo; mentre si avrebbe potuto e dovuto dire, che taluno o taluni dell’emigrazione napolitana partecipavano a quello sdegno. Senza mandato e senza procura non debb’essere concesso a chicchessia di parlare in nome di tulli. E ci permettiamo ricordarlo al Diritto, perchè esso forse ignora quello che ormai è troppo notorio a tutti, cioè che una specie di protesta contro il nostro opuscolo venne portata in giro per esser firmata, e che appena dieci o dodici condiscesero a sottoscriverla. Ora, gli emigrali Napolitani sono moltissimi in Torino ed in tutto il Piemonte, e ve ne ha parecchi che, per l’autorità della dottrina e per la chiara fama di cui godono in Italia, avrebbero dovuto figurare tra i primi in un atto di simil natura, e non figurarono, e non vogliono figurarvi. Se poi i nomi valgon nulla o poco pel Diritto, crediamo che il numero debba valer qualche cosa, ed è appunto il numero anche scarso delle firme che mancò, che manca, e mancherà sempre che voglia ritentarsi la medesima prova. Bene gli onorevoli compilatori di quel giornale possono, per vedute loro particolari, essere indignati verso di noi, ma da leali e gentili cavalieri che essi sono, convien che confessino di non avere dalla parte, loro neanche tutti i protestanti, contro Luciano Murat.

Noi almeno non dubitiamo di affermar ciò per riguardo al signpr Giovanni La Cecilia, il quale, avendo altra volta giudicato in massa il popolo del Regno di Napoli e trovatolo inferiore agli stessi bruti, anzi alle stesse macchine, non è possibile che si sia unito agli altri per mostrarsi. egli pure indignato di poche nostre innocenti parole.

Sentite infatti che cosa dice La Cecilia della società napolitana: «La società napolitana, egli scrive (4), è come alta piramide alla cui base stanno plebe avvilita, ignorante, scalza, cenciosa, i lazzari e

in cima posa re Ferdinando… Eppure (5) Francesi, Britanni e Tedeschi conoscono l’umana dignità, ed il Napolitano è sempre la bestia da soma di Ferdinando Borbone!!»

Sentite ancora in che concetto egli tiene i contadini e gli operai, cioè più che tre parti degli abitanti di quel reame: «I contadini (6) delle provincie (copiamo) sono più imbrutiti che i lazzari, gli operai sono vere macchine produttive in una parola vi sono classi che assomigliano a truppe di scimmie e di castori, vita animale, movimenti meccanici, non mente, non spirito, e se per un istante una scintilla ne balena, ne apparisce, re e preti la volgono al male, al feroce istinto del selvaggio, — ad avversare coloro che vorrebbero renderli migliori, e trasformare la loro esistenza.»

Sentite quel che egli pensa delle donnepopolane di Napoli: «Bevono (copiamo sempre) l’ignominia vendendo persino le giovani loro figlie a prezzo d’oro, e pur muoiono gridando, se bisogna — viva il santo D. Placido, viva il nostro Salvatore — oggi si va in paradiso. Così pure moriva l’asino dell’apologo del Casti, accoppato dalle busse, scorticato ancor vivo, ma fedelissimo al padrone, e se ne vantava con orgoglio al cospetto di nobilissime fiere, come tigri, orsi e leoni, le quali avevano voluto redimerlo dal servaggio. — L’orso andava ripetendo e digrignava: mai vid'io liberi i ciuchi!! E ’l somaro, tant’è, agonizzante esclamava: per l’onore della razza, ad esempio anche degli uomini, viva il bastone che mi finiva, io spiro fedelissimo al nobil padrone. Amen (7)

E se vi piace ancora ingozzar di questo fango, udite queste altre parole con cui ci vuol persuadere che la plebe napolitana sia fatta per essere signoreggiata ed imbesliata da Don Placido Backer, che fu il più infame dei preti, e da Ferdinando Borbone, che è il più spietato de’ tiranni antichi e nuovi: «Or si dia libertà, egli scrive (8), ad una plebe che ne prende a termometro due ampolle (9) e il capriccio di un lontano protettore!! Ferdinando e Don Placido Backer sono i soli che possono e signoreggiarla e finirla d’imbestialire.«(10)

Ma torniamo al De Sanctis. Se a lui dunque piacerà d’insistere, affinché noi provassimo e determinassimo la nostra voluta accusa contro gli emigrati, noi non ci ricuseremo di accettar la sua sfida anche per questa parte, benché il facessimo di assai mala voglia. E però gli risponderemo, che erano emigrali politici Napolitani, e vivevano liberi ed indipendenti a Torino, od a Genova, il dottor Vincenzo Lanza, già professore all’Università, deputato al Parlamento di Napoli, Camillo Caracciolo de’ principi Torcila, giovane dovizioso, ornato di lettere e di scienza, l’avvocato Mambrini, già segretario generale all’Intendenza di Salerno nell’aprile del 1848, l’avvocato Filippo Capone, socio dell’Accademia filosofica genovese, col censo di 30,000 franchi di rendita, certo Martinez, certo Rosiello, ed altri, i quali, smaniosi di riguadagnare la terra natale, non solo si mostrarono devoti del governo borbonico, ma spinsero benanche sino al fanatismo il loro culto e la loro religione verso Ferdinando II, e per ottener da lui venia, sottoscrissero innanzi al console cav. Morelli la più turpe, la più abbietta, la più degradante, la più vile dichiarazione di schiavitù volontaria, che qui non riportiamo, perchè ci parrebbe di contaminar queste carte e di offender pure con essa l’Italia ed il nome italiano. L’obbrobrio di tali infamie passerà nella storia, e lasciamo al signor De Sanctis la responsabilità di averci costretto innanzi tempo ad ufficio tanto doloroso ed ingrato.

Ci si è fatta colpa dal De Sanctis di non aver messo il nostro nome nell’opuscolo. Potremmo rispondergli, che se così avessimo creduto, certo non avremmo motivo di arrossirne; perocché il nostro nome, dal 1834 in poi, si trova ne’ registri di tutte le prigioni e de’ castelli di Napoli, ne’ processi e nelle condanne pei reati di Stato, nell'elenco dei proscritti politici, ed oggi figura pure tra i nomi dell’eletta famiglia di coloro che vanno ad assidersi alla mensa da sedici soldi dell’emigrazione italiana in Torino. Potremmo aggiungere che o liberi, o prigionieri, o esuli, o nella vita pubblica, o privata, o scrittori, o giornalisti, noi potemmo ingannarci, fare o

o tentar cose di nessun conto, ma conservammo sempre inviolata la nostra fede, custodimmo gelosi la indipendenza delle nostre opinioni, non piegammo mai il ginocchio innanzi ai potenti, e spesso obbligammo i poliziotti del Borbone, i carnefici nostri e del popolo, a parlar di noi e de’ nostri compagni, lontani 0 presenti, con parole di ossequio e di rispetto; la qual cosa non pare abbia fatto il De-Sanctis, e lo confessa egli stesso (11). Con tutto ciò il nostro nome non guadagna nulla, e rimane e rimarrà povero ed oscuro, ma onoralo sempre. E d’altra parte, chi oggi vorrebbe presumere tanto di se, da dire, p. es., al suo paese, sono Io che parlo? Noi ammiriamo il coraggio di chi pensa ed opera diversamente; e riteniam questo, cioè, che più un'idea, un’opinione, una proposta qualunque è impersonale, e più gli uomini si senton liberi a portarvi sopra maturo giudizio, ed accettarla 0 respingerla, perocché il vero è vero per sè, e non perchè altri rafferma 0 lo nega.

Appena pubblicalo il nostro opuscolo, ci si era riferito vagamente, che taluni de’ protestanti si dolevano del modo con cui vi era traitato il popolo napolitano. Non pensavamo che il De Sanctis, cui certo dovea esser ben noto il libro del signor La Cecilia innanzi citato, avrebbe scelto questo speciosissimo pretesto per muoverci guerra.

E perchè noi che amiamo il nostro paese, ed abbiamo coscienza di non avergli mancato mai, volevamo escludere sinanche la possibilità di somiglianti cavillazioni, subito mandammo all’Unione (anno II, n(Q)291) la seguente dichiarazione:

Signor Direttore,

Ella si è compiaciuta di rassegnare nel suo giornale il mio opuscolo La Quistione Napolitano, Ferdinando Borbone e Luciano Murat. Siccome talune parole da me dette, forse per non esser chiare abbastanza, hanno dato luogo ad interpretazioni in tutto opposte ai miei pensamenti, così, a togliere ogni dubbio, la prego volermi permettere di ritornare sullo stesso tema nel seguente breve articoletto.

«Con la storia alla mano ho detto nel mio opuscolo che i liberali di Napoli furono e sono pochi di numero, e però furono e sono insufficienti a rovesciare da sè soli i borbonici. Ho detto che per tal motivo, e ad onta di aver essi sostenuti sforzi magnanimi ed eroici, pure sopraffatti e vinti, dovettero cedere innanzi alle armi reazionarie di quel governo scellerato ed immorale nel 4799, nel 4821 e nel 4848.

«In tutto questo non mi pare che possa esserci neanche la possibilità di un pretesto di voluta offesa né pel paese, né per coloro che, animati da santi e generosi pensieri, offrirono se stessi sull’altare della patria. Più anzi era ed è la resistenza da vincere, e più è da apprezzare la grandezza del sacrifizio e la nobiltà di animo di coloro che, nulla curandosi degli esigli, delle galere, degli ergastoli e della morte, brandirono le armi e pugnarono.

«Del resto, se si vuole che i liberali napolitani siano invece (relativamente all’impresa da compiersi) molti o moltissimi, allora come si spiega che re Bomba, avendo nemici numerosi all’interno, e per giunta l’odio e l’esecrazione di tutto il mondo civile, continua a fare quello che fa? A contenere otto milioni di uomini irritati e frementi, credo non dovessero bastare poche migliaia di Svizzeri, se questi non trovassero un valido appoggio in quella canagliaccia infinita che contava o conta tra i suoi caporioni i cardinali Ruffo, i Mamone, i Fra Diavolo, i Speciale, i Canosa, i De Matteis., i Guarinij gli

Intonti, i Cioffi, i Delcaretto, i Morbillo, i Campobasso, i Peccheneda, i Campagna, ed ultimamente il tanto famoso don Orazio Mazza,

Che sopra gli altri com’aquila vola;

e se tutti questi non si appoggiassero pure all’inerzia delle moltitudini spaurite o compresse dai più terribili e continui martirii di una tirannia inesorabile e spietata.

«Il tempo di certo ha di molto allargato le file dei liberali napolitani, e questo progresso non saprei negarlo senza essere tenuto stolidissimo e di cervello ottuso o testardo. Per ora dunque, tutto al più, sono possibili in quel regno, come sempre, delle rivoluzioni più o meno parziali e non mai generali; ed i fatti mostreranno al mondo se mi appongo al vero. Ecco tutto.

«Intanto le grandi potenze, che oggi, dopo l’umiliazione della Russia, hanno quasi in pugno i destini dell’Europa, se in altri tempi poterono non curarsi che poco o nulla di quanto accadeva nel regno di Napoli e delle atrocità borboniche., al presente vi si debbono interessare per forza, dal perchè una piccola favilla dell’Etna o del Vesuvio basterà ad appiccare il fuoco ai quattro canti dell’Italia, e forse l'incendio potrebbe divampare più terribile in altri siti, dove chi domina usa ogni arte per iscongiurare il pericolo, anzi il terremoto che gli rugge sotto i piedi.

«Ma noi appunto vogliamo questo, risponderanno taluni. Per me confesso che mi sgomenta, non il terremoto, ma le conseguenze di esso, le quali potranno distruggere il poco di bene che si è fatto ed assicurato, e compromettere l’avvenire, Dio sa per quanto tempo!

«Se le mie vedute però non sono troppo corte, pare che Francia ed Inghilterra siano bene apparecchiate e decise ad ischiacciare, specialmente nella nostra penisola, ogni movimento rivoluzionario che con qualunque nome o pretesto possa sorgere, e che in tutt' i casi sarebbe usufruito dai nemici perpetui d'Italia.

«E siccome chi non vuole gli effetti si occupa ad allontanare o distruggere le cause, così per necessità logica Francia ed Inghilterra, vedendo ad occhi aperti il gravissimo rischioche si corre lasciando a Napoli una dinastia borbonica, debbono presto o tardi risolversi ad isradicarla per sempre, ed anche a cancellarne sino il nome abborrito a tutti.

«È per questo ch'io ho scritto che un regno della bassa Italia con a capo Luciano Murat, e nelle presenti contingenze, è molto probabile o possibile; ma non ho affermato e non affermerò mai, che questa sia cosa certa, perchè mi ricordo del proverbio il quale ci avverte che dal detto al fatto vi è un gran tratto.

«Torno dunque a ripeterlo. Io non sono infeudato,venduto a nessuno, ma subisco le condizioni onnipotenti dei tempi, e le accolgo e le festeggio: perchè se da esse non viene al mio paese tutto il bene desiderabile, gli deriva però tutto il bene possibile, liberandolo dal più duro servaggio eh* esso sopporta da tanti anni, e che è impotente a distruggere con le sue forze.

«È doloroso che noi non abbiamo mezzi acconci a redimerci da noi stessi; ma sarebbe poi questa una buona ragione per ricusar gli aiuti che ci si offrono, e che ci rendono abili a farlo? Che sarebbe avvenuto della Grecia, senza la battaglia e la vittoria di Navarino? Ed i Greci avevano sopportato e combattuto più di noi.

«In ultimo dimando, se siamo in grado di volere o disvolere a modo nostro, e mi aspetto una bella ed eloquente risposta, e spero averla non di parole, ma di fatti.»

Credevamo che tutto dovesse finir 11$ ma c’ingannammo. Il De Sanctis non volle saper nulla della nostra dichiarazione, e facendo egli stesso da giudice ed accusatore, ci condannò per mancato rispetto al popolo napolitano!

Ma questa condanna diventa impotente come la sua collera. La storia del Regno di Napoli è nota all’Italia ed

al mondo. Siamo noi forse fuori del commercio delle nazioni civili per creare i fatti di nostro capo, e darli a

credere a chi ci piace? Poco più poco meno, tutti conoscono le nostre glorie e le nostre sventure, i nostri vizi e le nostre virtù. Il riferir le cose come stanno, e

come esse sono, pare a noi che sia dovere di ogni onesto cittadino, il quale prende a scrivere della sua patria. Che anzi non contenti di narrare soltanto, noi abbiamo voluto indagar le cause de’ mali che soffriamo, e

benché ciò non entrasse nel piano del nostro lavoro, pure l’abbiamo fatto esprimendoci così: È da lungo tempo che la tirannia religiosa e politica d'accordo hanno inceppato il pensiero di quel popolo generoso. Dov’è dunque la nostra colpa? Perchè il De Sanctis ha tanto gridato da sembrare un furibondo? Abbiamo noi forse calunniato i liberali del 1799, i liberali del 1820, i liberali del 1848, e

con ispecialità quei prodi nostri soldati che pugnarono per la guerra santa dell’indipendenza, che si coprirono di gloria a Curtatone, o che sostennero l'eroica difesa di Venezia? Abbiamo detto, e lo direm sempre, che i liberali furono e sono ancor pochi per togliersi dal collo rabbonito giogo borbonico, quando altri, forse pei suoi disegni, si studia di dimostrarci che ve ne ha più del bisognevole. Vorrebbe forse il De Sanctis che noi salutassimo pure col nome di eroi coloro che con la forza brutale delle armi puntellano il dispotismo più selvaggio che ci tiene schiavi? Vorrebbe egli che noi proclamassimo innanzi all’Europa che tutto l’ordine de’ magistrati e

degli amministratori, che tutta l’infinita canaglia poliziesca napolitana sia animata da sentimenti di equità, di giustizia e moderazione, mentre il nostro disgraziato paese è caduto in tanta miseria, mentre si mantiene da essi e per essi in tanta abbiezione? La patria si onora dicendo e praticando il vero, non con vane lusinghe o studiate menzogne.

Signor De Sanctis, tu hai insultata pubblicamente la sacra memoria di un uomo forte in guerra, generoso in pace 5 di un Principe, di un re che amò i Napolitani, che meritò di essere riamato, che fece tutto per essi, e che fu trucidalo da Ferdinando di Borbone, il boia di Cirillo e di Mario Pagano, l’origine prima de" mali nostri, del nostro infinito dolore. Innanzi alla tomba di un grande sventurato come fu

GIOACCHINO MURAT,la pietà era per te un dovere, e tu pronunziasti parole inumane e spietate. Tu fosti pure crudele col figlio di quel Principe e di quel Be, che per tanti anni ha mangiato il pane dello esilio, si è nutrito di amarezze e di dolori, e che bandito dall’Europa reazionaria, mai non ha dimenticala l’Italia, e la terra che aspetta e spera in lui il suo vendicatore. Ti è mancata la giustizia, ti è mancata la carità, e pretendi ora di fare l’avvocato del popolo napolitano, ricantando quello che tutti sanno, e che niuno ha messo in dubbio? Iltuo, non volendo, sarà il più segnalato servizio al nostro comune nemico.

AVVERTENZA

Ad evitare ogni equivoco, l’Autore di questa scrittura dichiara:

1° Che tutto quello ch’egli ha detto non si riferisce soltanto al contenuto della protesta di pochi onorevoli emigrati Napolitani contro il principe LUCIANO MURAT. ed all’articolo del prof. Francesco De Sanctis, inserito nel DIRITTO (anno II, N. 256, venerdì 5 ottobre 1855); ma comprende pure le opinioni e le asserzioni di altri articoli pubblicati sullo stesso argomento in qualche giornale del Piemonte o di fuori.

2° Che egli porta il massimo rispetto a quelli che prende a confutare, stimandoli tutti uomini di onore, probi, leali e buoni Italiani, comunque sia di avviso opposto a ciò che sostengono o propugnano, perchè in coscienza è persuaso di dover tenere altra via da quella ch'essi tengono.

3° Che se alcuna parola gli sarà sfuggita, o non propria, o non conveniente, sin da ora la ritratta, come se mai non fosse stata detta.

4° E che in fine, ove per avventura il presente opuscolo, che esprime il pensiero di un uomo ignoto e nulla più, desse luogo a discussioni o risposte, egli confida che i suoi avversarii politici, pel nobile carattere che li distingue, vorranno combatterlo con armi giuste, e com’è l’usanza delle persone cortesi e gentili.

12 Ottobre 1855.

Io non ho letto l’opuscolo Murate i Borboni

La severità è più ingrata allo scrittore che ai leggitori: né a ciò è obbligato se non per la patria.

BALBO — Della Storia d'Italia.

Io non ho letto l’opuscolo Murate i Borboni. Ciò poco importa; anzi non mi son curato di leggerlo, perchè non vi avrei appreso nulla. Scrivere per farci sapere che Gioacchino fu migliore di Ferdinando I, o de’ suoi successori, pare opera vana, perchè la cosa è nota sinanche ai bimbi. Quello però che non tutti sanno, o che taluni fingono di non sapere, o che non vogliono sapere, si è il vedere: 1° se i liberali del Napolitano hanno forze loro proprie per sollevarsi e togliersi dal collo il più malvagio de’ governi ch’essi sopportano da molli anni; 2°

se impotenti per sè stessi a rovesciare i Borboni, debbono fare assegnamento sul Piemonte, e se il Piemonte vuole e può veramente soccorrerli, 3(Q)se in fine, essendoci buon volere ed impotenza da una parie, buon volere ed impotenza dall’altra, sia miglior consiglio lasciarsi bravamente scalfire le natiche dalle legnate, gemere senza speranza fra i ceppi delle galere e degli ergastoli, andar dispersi per tutta la terra, vivere vita senza luce, senza conforti di giustizia, a libito ed arbitrio di chi manomette e uomini e cose; ovvero, offrendosi l'opportunità di uscir di questo stato con un mezzo possibile, onesto, conforme ai desiderii ed agli interessi presenti della gran maggioranza de’ Napolitani, e dirò pure degl’italiani lutti, sia buon consiglio, sia opera di buon cittadino, o meglio, sia almeno umano il salire in bigoncia, come han fatto parecchi, ed ultimamente il prof. Francesco de Sancii», che alla luce aperta del sole, stando in paese libero, senza alcun pericolo lontano o vicino, ha avuto il coraggio di protestare presso a poco così:— O Napolitani, resistete, resistete: fatevi bastonare, spogliare, incarcerare, assassinare dai birri, dalla soldatesca e da quanti son manigoldi di re Bomba: io ho pensato a tutto: eccovi qua il rimedio: non francesi, non inglesi, non forestieri! Unione al Piemonte! e viva l’Italia! questa ila via dell’onore e della salute!

Almeno Manin si era destreggiato coi suoi famosi se! Almeno il repubblicano di Venezia avea fatta abnegazione condizionata del suo principio, lasciandosi così aperta la via ad altri espedienti, qualora Vittorio Emanuele non accettasse la sua magnanima proposta! Ma il signor De Sanctis, con tutta buona fede ed innocenza, come se proprio ne avesse avuto il carico dalle migliaia e migliaia di vittime e di martiri del suo paese, come se si fosse inteso o messo d’accordo col re e col governo Sabaudo, e più ancora, con Palmerston e Luigi Napoleone, è venuto a regalarci una bella pappolata nel Diritto, che, se non altro, ha il merito di farci ricordare delle nostre quondam esercitazioni scolastiche di rettorica.

Sulle prime egli in una protesta si era contenute a dire, che a Napoli non voleva il governo Borbonico; non voleva Murai perchè straniero e di ostacolo entrambi al risorgimento italiano. Erano due negazioni: si abbisognava di un’affermazione netta ed esplicita. Ciò venne osservato da tutti. Non che l’affermazione mancasse in quella scritta, vi stava anzi, o vi era sottintesa. Ma si volea far mostra di destrezza ed abilità politica concerto malizioso silenzio, che per altro è stato più eloquente della parola. I meno accorti se ne sono avveduti, e non imporla dirne altro. Ora però conveniva gittar un po’ di cenere negli occhi, fingere lo spasimante per Vittorio Emmanuele e pel Piemonte, e dichiarar fuori tempo quello che si è avuto l’imprudenza di non dichiarar prima.

Io non intendo scrutar le intenzioni di chicchessia, ciò ripugna al mio carattere, alle abitudini di tutta la mia vita. Mi sarà però conceduto il diritto di ragionare sui fatti, perchè ognuno sia al caso di conoscer bene taluni uomini, e dare ad essi, oppur no, piena ed intiera fede, ora che questi stessi uomini tanto si agitano e si maneggiano nella quistione che ci occupa. Ma innanzi ad ogni cosa, è bene risolvere i tre problemi sopra indicati, e poscia entrare in taluni altri particolari e conchiudere.

Rendo ai miei avversarli politici quella giustizia ch’essi, son certo, non vorranno negare a me, cioè che essi ed io amiamo e vogliamo, anche col prezzo del nostro sangue, la libertà ed indipendenza della nostra patria infelice, e che, salvo il disaccordo nella scelta de’ mezzi, noi non abbiamo che una religione, la religione del riscatto di tutta l’Italia dall’AIpi all’ultima Sicilia.

I. I liberali del Napolitano hanno forse loro proprie per sollevarsi e togliersi dal collo 
il più malvagio de’ governi ch’essi sopportano da molti anni?

E con vera ripugnanza, anzi con vero e profondo dolore elle io entro in questa discussione. V’ha nella vita politica degli uomini certi momenti terribili, in cui è pur forza, per provvedere alla salute della patria, dire o fare talune cose che vi rendono impopolare ed inviso alle moltitudini, governate più dal sentimento che dalla ragione, che vi acquistano sin la riprovazione di quelli stessi che pensano e sono del vostro medesimo avviso, ed infine che vi tolgono la pace ed il riposo, ed anche ciò che più si agogna e si desidera, la stima e Valletto degli amici. Sia qualunque il vostro nome, chiamatevi pure o Gioberti, o

d’Azeglio, o Poerio, o Balbo, o Garibaldi, o Mazzini, ciò poco monta. Néil nome, né il martirio durato, né le mille prove di coraggio e di patriotismo basteranno a salvarvi. I carnefici per punirvi sono inesorabili come tutti i carnefici, e quel che più addolora, è il vederli uscire con volti accesi d’ira da mezzo alle file del vostro stesso partilo. Certo è questo il più grande de’ sacrifizii, ed io l’offro di tutto cuore alla patria.

Or bene, i liberali di Napoli non ebbero mai e non hanno al presente forze loro proprie per sollevarsi e togliersi dal collo il più malvagio de’ governi ch’essi sopportano da molti anni. É da lungo tempo che la tirannia religiosa e politica d’accordo hanno inceppato il pensiero di quel popolo generoso. Il viaggiatore che capita in quel regno non vi scorge nulla che accenni alla vita di un popolo civile, niuna instituzione utile e fecondatrice di bene, niun insegnamento pubblico o privato, non strade, non comunicazioni tra provincia e provincia, tra la capitale e le provincie, non traffichi, non commercio, non arti, non industrie, non manifatture 5 e se non fossero le migliaia e migliaia di frati, di preti, di legulei, di vagabondi, di accattoni ed oziosi 5 se non fosse la serenità e purezza del cielo, la fecondità del terreno ricco d’una vegetazione spontanea e rigogliosa, gli parrebbe trovarsi in uno de’ paesi dell’Africa imbestialitidal dispotismo più degradante.

Non v’è poi bisogno di molta perspicacia od acume di mente per comprendere, che un popolo così decaduto ed oltracciò nutrito di errori e di pregiudizii grossolani, che crede alla jettatura al fascino, alla magia, ai maghi, agli stregoni, alla stregoneria, ai sogni, al miracolo del sangue di S. Gennaro, al miracolo della zazzera che cresce sul cucuzzolo del crocifisso del Carmine, ed a mille altre cose pazze ed assurde tutte, possa poi pensare seriamente alla libertà, possa comprenderla, volerla, e morir per essa e con essa.

Ho inteso sempre a dire che un popolo, poco più poco meno, ha quel che si merita. Ora io non dirò che il popolo di Napoli meriti di soffrire quel che soffre, di non trovare sussidio ed aiuto nella legge, di essere oppressato, conculcato, dilanialo dai tanti manigoldi e da tutta quella canaglia di ribaldacci e ladroni che lo spremono, lo smidollano, lo decorticano quasi a diletto 0 a pompa di efferatezza e di crudeltà senza esempio, ma è solo mio intendimento enunziar fatti che cadono sotto gli occhi del mondo, che ognuno può vedere e toccar con mano per assicurarsene, e che oggi non debb’essere più permesso di rivocare in dubbio.

La storia di quel reame, massime da cinquantanni in qua, è una prova irrecusabile di quanto affermiamo. In questo intervallo di tempo, noi vediamo i liberali Napolitani sorgere, combattere e soccombere per ben tre volte, cioè nel 1799, nel 1820 e nel 1848. Nel novantanove gli uomini più probi, più morali, più dotti, leggendo libri francesi, e pensando alla francese, si dichiararono per la repubblica. Erano pochi, e fecero atti di eroismo e morirono da eroi. La loro colpa, se pur colpa può dirsi, fu solo di essersi tenuti lontani dal mondo della realtà, di aver sognato e sempre sognato resistenza o la possibilità d’un governo che, avendo a fondamento principale la virtù, non può sorgere in mezzo ad un’orda di selvaggi, che non conoscevano né legge, né Dio, che aveano smarrito sino il sentimento del bene e del male. Alla repubblica napolitanadunque doveva accadere ciò che accadde. Essa era sorta contro il volere del popolo, ed il popolo stesso la uccise. Dal fondo delle Calabrie il cardinal Ruffo mosse contro la capitale, ed il suo esercito della Sani a fede, ingrossatosi lungo il cammino per l’accorrere numeroso delle genti che trovavan diletto negli incendi!, negli eccidii e nelle rapine, vinse e disfece i repubblicani, che accanitamente resistevano. Allora fu versato il miglior sangue di Napoli, anzi d’Italia. Cirillo, Conforti, Ciaja, Pagano ed altri molti morirono come i ladri strangolati sulla forca per mano del boja. Ecco il primo trionfo dei Borboni!

L’invasione ed occupazione francese sino al 1815: la ristaurazione del governo borbonico: la caduta e la fine infelice di Murat, avevano creati de’ partiti. Vi furono calderari e carbonari, quelli che si dicevano amici del trono e pensavano difenderlo con provvedimenti di un sistema inumano e scellerato $ questi, che pur proclamandosi amici e promotori di progresso e libertà, spesso si macchiavano d'infamia, commettendo assassinii, cospirando nei loro segreti conciliaboli. Il carbonarismo a poco a poco s'infiltrò in talune classi, fece dei proseliti, e giunse a dominar l’esercito. Esso diede il segnale d'insurrezione in Monteforte: in poche ore la rivoluzione, come vasto incendio, divampò in tutto il regno: gli ordini governativi furono mutati: il vecchio Ferdinando I diede e giurò solennemente una costituzione: poi la spergiurò, poi vennero gli Austriaci, contro cui i Napolitani fecero mala prova ad Antrodoco: poi sostituirono tribunali di sangue, si popolarono le prigioni e gli ergastoli, si rizzarono patiboli, molli esularono in lontane contrade, molti perirono d'inedia e sfinimento, si commisero enormezze, atrocità senza numero e quasi incredibili, ogni cosa si corruppe, il dispotismo più feroce fu rimesso in piedi; e così per una lunga serie d’anni, dal 1821 al 1848, fra i tanti mostri che desolarono il nostro povero paese, salirono a celebrità infame il principe di Canosa, rintontì ed il marchese Francesco Saverio Delcarretto. Ecco il secondo trionfo dei Borboni!

Siamo al 1847. Le notizie delle riforme concedute da Pio IX e da Leopoldo

IIagl’italiani di Roma e di Toscana infiammano i pochi liberali Napolitani e ridestano negli animi loro viva speranza di sorti migliori. La stampa clandestina è in gran movimento: i proclami d’insurrezione vengon fuori e si spargono da alcuni giovani attivi ed audaci. Carlo Poerio, Mariano d’Ayala, Francesco Trincherà, Domenico Mauro, Raffaele Trombetta, ed altri sono cacciati nelle prigioni di S. Ermo e di S. Maria Apparente. Succedono nel settembre i fatti di Reggio, il bombardamento di quella illustre città, l’uccisione di Domenico Romeo, la dispersione e cattura di quei che combattevano al suo fianco contro i regii, la condanna dei medesimi, e fra gli altri, del venerando Giannandrea Romeo, e poi un silenzio di tomba sino a novembre.

I liberali mancavano di tutto: non aveano armi, non aveano munizioni, erano pochissimi di numero, ma tra essi invece vi erano uomini d’ingegno, di grande probità e di molto credito. Essi giunsero a spaventare il governo forte di 100 mila soldati, e bastò l’audacia di una dimostrazione nel 27 gennaio 1848, fatta da pochi inermi per necessità e non per elezione, a gittare lo sgomento nell’animo di Ferdinando Borbone, ad impaurirlo come fosse suonata l’ultima sua ora, ed indurlo a promettere e dare uno statuto chiesto a mezza voce e non aspettato da quanti veramente aveano soffiato in quell’incendio, e che, conoscendo il donatore, rimasero come sbalorditi alla vista del dono, e non credevano agli occhi proprii.

Feste, luminarie, baci, abbracciamenti sulle prime: poi ambizione sfrenata di molti, accuse, recriminazioni, minacce, tumulti, stampa invereconda e libertina, che spesso assaltava con le ingiurie, che trafiggeva con la calunnia gli uomini più onesti, più devoti alla causa della libertà; ed in cima a questo catafascio d’infamie, l’imbecillità del ministero del 5 aprile e la reazione sorda del re e della sua camarilla, che affilavano le armi in segreto, che designavano il giorno e le vittime delle loro vendette. E il giorno non si fece aspettar molto, e venne il 15 maggio, e con esso l’eccidio de’ cittadini, l’agonia e la morte della giurata costituzione, e quindi prigionie, esigli, confische, condanne, e come per giunta alla derrata, il cavalletto e le bastonate! Ecco il terzo trionfo de’ Borboni!

Questa in breve è la storia genuina del nostro paese da 50 anni in qua. Ora perchè i liberali mai ivi non sono riusciti a nulla, o meglio, perchè invece hanno peggiorala la loro condizione e quella del paese per cui generosamente insorgevano? La risposta è facile a darsi, quando non si sia preoccupato da falsi concetti, quando la mente non si lasci offuscare dalla passione. Diciamola dunque noi la verità, perchè è dovere in questi momenti supremi di dirla tutta ed intiera la verità, perchè ognuno sia al caso di saperla senza ambagi o circonlocuzioni.

La verità delle verità è questa: i liberali nel 1799, nel 1820 e nel 1848 furono pochi in faccia ai moltissimi che li combattevano, e però soverchiati dal numero soggiacquero. 1 moti parziali d’insurrezione del Vallo, del Cilento, di Cosenza, di Civita di Penne e dell’Aquila, vi dànno l’immagine vera e fedele dello stato politico-mo-< rate di quel paese, col presentarvi lo spettacolo di grandi | e colossali individualità che lottano animose contro un ‘ dispotismo immobile ed inflessibile come il fato degli antichi, e che pesa sopra una massa numerosa ed inerte, la quale straziata ili cento modi, soffre e si rassegna a soffrire, senza di aver neanche il coraggio di levare un grido, di muovere un lamento contro i suoi oppressori.

Néci si dica che la cifra deliberali del Napolitano si è di molto accresciuta dopo gli avvenimenti dei 1848. Certo se si volessero considerar come liberali tutti quelli che la prepotenza e l’arbitrio della polizia e le stolide e feroci condanne delle Corti Speciali cacciarono nelle prigioni e ne’ bagni, tutti quelli che, per tema di cadere nelle unghie de’ cagnotti del Borbone, esulando dalla patria, cercarono rifugio in altre terre, oh! si metterebbe insieme un bel numero. Ma la cosa sta bene altrimenti.

Il Governo di Ferdinando è il governo della paura e del sospetto. Quindi non è a far le maraviglie se esso vede ila per tutto ed in tutto nemici e cospiratori; se spesso incarcera e bastona i più indifferenti, dirò ancora i più devoti (mio Dio vi ha pure i devoti!) del suo brutale sistema. Io non esagero, scrivo la storia de’ fatti, di cui io stesso e per lungo tempo sono stato testimonio e parte. Gli uomini di onore e di retta coscienza non saprebbero darmi una mentita. Vorrei che il mio fosse un inganno! E che potrebbe accadermi di più desiderabile, di più consolante dopo tanti anni di patimenti e di sciagure, dopo di aver perduta sin la lontana speranza di risorgere quandochessia, dopo che son caduto nello scetticismo politico più deplorabile?

E prima di accusarmi d’irriverenza verso la patria, che io amo e compiango, spero che non invano ho fatto appello alla ragione ed alla storia per convincere i miei avversarli della verità di ciò che asserisco; e se questo non basta, non so che farci. Forse verrà giorno ed essi pure di buona o di mala voglia metteranno giudizio.

Intanto mi dicano, di grazia, se sono stranieri o Napolitani i 100 mila uomini che formano l’esercito del re di Napoli, che bruciarono ed insanguinarono i palazzi di Toledo nel 15 maggio, che scannarono i vecchi, gli infermi, le donne, i fanciulli, gl’imbelli in Messina ed in Catania. Mi dicano se tutta quella bruzzaglia di spie, delatori, birri, scherani, manigoldi, ceffacci da forca di ispettori, commissari, ed altra simile lordura che rende si burbanzosa l'onnipotenza poliziesca, ci piovve di fuori nel regno, o se invece nacque in casa nostra, in riva al Sebeto, all’Ofanto, al Volturno o al Garigliano. Oh! mi viene il rossore sul viso, e la penna mal si presta al suo ufficio. In Roma ci è modo da scusare i Romani se non rovesciano l’osceno governo del Papa. Ci ha Francesi, ci ha

Austriaci che contengono le moltitudini frementi. Nel. Lombardo-Veneto ci ha pure gli Austriaci e numerosi, che sarebbe quasi impossibile di snidare da Verona e da Mantova. Ma in Napoli sono i Napolitani i carnefici dei napolitani.

Che cosa dunque conchiuderemo da tutto ciò? Conchiuderemo che i liberali di Napoli non hanno forze loro proprie per sollevarsi e togliersi dal collo il più malvagio de’ governi ch’essi sopportano da molti anni. Sicché re Ferdinando potrà continuare impunemente a far lo stesso o peggio di quel che fa, se pure le armi collegate di Franeia e d’Inghilterra non lo avranno sbalzato dal trono, o se stanco il cielo di più a lungo sopportar le infamie di quel mostro, non ne avrà consegnata l’anima nera a quella giustizia Che attende ciascun uom che Dio non teme.

II. Se i liberali di Napoli, impotenti per sestessi a rovesciare i Borboni, 
debbano fare assegnamento sul Piemonte; e se il Piemonte vuole e può veramente soccorrerli.

Da quello che è detto innanzi, pare a me che l’impotenza dei liberali di Napoli non possa revocarsi più in dubbio, neanche da quelli che vivono di sogni e di chimere, e che potrebbero chiamarsi incorreggibili. I liberali della Romagna, della Toscana, dei Ducati e del Lombardo-Veneto hanno molti guai in casa loro. Non rimane dunque che il Piemonte, in cui si affissano gli occhi di quanti soffrono e sperano nella Penisola.

Io non dirò che il Piemonte sia troppo piccolo Stato per una tanta impresa, per essere insomma l’unificatore d’Italia. Tutto al contrario. II Piemonte, o m’inganno, non ha coscienza della sua vera forza: esso è onnipotente. La più bella prova che possa addurne, sono le parole stesse del De Sanctis: «Volemmo vincere, egli dice, o perire col Piemonte; perdemmo; ma ci è rimasto un bene immenso. Il sentimento nazionale che prima viveva segreta speranza ne’ libri e nelle sette, ora ha una bandiera, una tribuna, una stampa libera ed una opinione irresistibile. Un gran progresso si è da noi fatto. Noi ci siamo educati a sacrificare le nostre opinioni, le nostre più sacre affezioni a questo sentimento. né ciò solo. A poco a poco noi ci siamo accordati ancora nell’applicazione, cosa difficilissima. Il Piemonte è divenuto un terreno neutro, in cui si sono riconciliate tutte le differenze. Ciascun partito è venuto a fare atto di abnegazione innanzi al Piemonte. I bravi Siciliani ne diedero i primi l’esempio. Potevano scegliere a loro re un inglese, scelsero un italiano, da cui non potevano sperare alcun soccorso.... Oh! una bandiera piemontese sventolante per le coste di Napoli! Quanti cuori farebbe ella battere!»

Queste parole suonano dolcissime ad ogni orecchio italiano, e lo confesso, le poesie piacciono anche a me un pochino. Ma la politica, per disgrazia de’ poeti, non ha nulla di poetico. Ciò sarebbe il minore dei mali, se essa almeno s’ispirasse nel sentimento della giustizia e della equità. Eppure la faccenda spesso non la va cosi. Infatti qual cosa più naturale, più conforme alla ragione, alla storia, all’etnografia, alla geografia stessa della nazionalità italiana? Che cosa potrebbero desiderar di meglio gl’italiani d’oggidì, se non che, rovesciati i tiranni grossi e piccoli, stringersi le destre, riunirsi intorno ad un re francamente leale, galantuomo, e fare di tutta la terra che si distende dal Moncenisio alla Trinacria un ovile con un sol pastore?

Ho detto che il Piemonte è onnipotente, e certo è tale, se lo si raffronti con l'universalità de’ governi oppressori d'Italia, perchè esso è l’Italia. Se il Piemonte solo a* vesse a combattere contro una lega deH’Austria cogli altri Stati della Penisola, la vittoria non potrebbe mancargli, perchè entrerebbe in campagna con 24 milioni di combattenti, perchè combatterebbe per una causa giusta, per una causa santa. Dio sarebbe col Piemonte.

Tutto questo è facile a capirsi anche da quelli che non vogliono capirlo. Ma s’immagini, p. e., il caso non improbabile che Francia ed Inghilterra, per motivi già noti, che io non voglio e non debbo discutere, impedissero al Piemonte di correre per la sua via, d’iniziare cioè, proseguire e compiere la guerra dell'indipendenza, di piantare il suo glorioso vessillo sul duomo di Milano e di Palermo; supponiamo, io dicevo, che tutto questo, che ora è una nostra ipotesi, si effettuasse passando nel campo della realtà, quale allora sarebbe il partito da prendere pel Piemonte? In che modo potrebbe esso correre in nostro aiuto?

Prima di rispondere a tali dimando, esaminiamo se il caso è possibile a verificarsi. Per conto mio sarei tentato a dire che l’unità d’Italia mai non è entrata nel capo dei ministri della regina Vittoria, e mollo meno di Luigi Napoleone. I lettori che hanno esperienza delle cose e un po’ di pratica della nostra storia, mi persuado che senza molla fatica saranno pure del mio avviso. Verrà tempo in cui il primeggiare fra le nazioni con la forza delle armi di mare e di terra sarà tenuto sistema rovinoso ed immorale. Io anzi non dubito che questo tempo possa esser molto lontano, almeno per l'Europa civile. Ma guardiamoci intorno, e tosto ci accorgeremo che la politica cammina ancora per la vecchia strada, e che le gelosie e le rivalità di primato si mantengon vive ed accese a Pietroburgo ed a Vienna, come a Londra ad a Parigi. Che cosa infatti è questa guerra di giganti della Francia e dell’Inghilterra da una parte, e della Russia dall’altra? Che cosa sono queste flotte, questi eserciti, questo assedio così lungo ed ostinato, questo tuonare incessante di cannoni, questa tremenda carneficina, questo spietato macello di migliaia e ' migliaia di uomini sotto le mura di Sebastopoli, già fatta un mucchio di sanguinose rovine?....

Ora, costituita l’Italia una ed indipendente, ognuno può vedere da sè qual posto essa verrebbe a prendere nel banchetto delle grandi potenze. L’utile è la legge suprema della politica, cui sono estranei i nobili sentimenti di generosità e disinteresse. né mi pare che quei che ora hanno in pugno le sorti ed i destini de’ popoli, stimino conforme ai loro disegni ed ai loro presenti vantaggi che l’Italia veramente sia. Lamartine repubblicano, così benevolo verso di noi, è le stesso De Sanctis che lo scrive, Lamartine, anche quando il poteva, non pensò, né volle mai che l’Italia fosse nazione. Vedano da ciò i nostri lettori come vi debbano esser disposti gli altri.

Pure questo fatto dovrà compiersi; ma sarà una elaborazione lenta e progressiva del tempo: sarà il risultato de’ nostri sforzi, della nostra perseveranza, del nostro accordo, de’ nostri fermi e patriotici propositi, delle occasioni propizie, e dirò ancora della fortuna, che è tanta parte delle cose umane. Certo è opera buona, lodevolee degna di esser proseguita con crescente ardore quella, di mantener vive ed accese le idee di unità, nazionalità ed indipendenza italiana. Non vi debb’esser anzi altra fede, allareligione, altra bandiera che questa. Ma si badi a

procedere prudenti e circospetti, a non affrettarsi di troppo, e sopratutto a non ¡scambiare la religione col fanatismo.

Educati alla scuola dell’esperienza e della sventura, noi non ci lascieremo prendere dalla smania di una facile popolarità, gridando ai nostri connazionali: non francesi, non inglesi, non forestieri. Si fa presto a dirle queste parole, ma i forestieri sono in casa nostra, e vi staranno finché noi non ci saremo apparecchiati a mandarli via con ben altri argomenti che non son le parole.

Il Piemonte dunque, se pur non m’inganno, senza l’accordo ed il consenso della Francia e dell’Inghilterra, non può direttamente giovare co’ suoi mezzi materiali al riscatto delle altre provincie della Penisola, e sopratutto di Napoli, mettendo al servigio della rivoluzione le sue armi ed il suo esercito. Niuno de’ ministri presenti e futuri di Vittorio Emmanuele,

e fosse pure tra essi lo stesso Francesco De Sanctis, si sentirebbe il coraggio di spingerlo a questo passo. Il tentativo, se non altro, sarebbe giudicato dagli stessi Italiani audace e pieno di difficoltà e di pericoli, ed i più che hanno credito e nome, non sarebbero disposti a mettere in forse le sorti e l’avvenire del paese in un’impresa tanto arrischiata.

So che il Macchiavelli, grande e profondo maestro di politica, ragionando di quello che può nelle umane cose la fortuna (Principe, Capit. XXV),ha scritto così: «Io giudico ben questo, che sia meglio essere impetuoso che rispettivo, perchè la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tener sotto, batterla ed urtarla; e si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedono. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perchè sono meno rispettivi, più feroci, e con più audacia la comandano». Ma per conto mio non so, né posso arrendermi al suo consiglio, e perchè i tempi in cui egli scrivea son ben diversi dai presenti; e perchè non mi pare che sia necessità ineluttabile il giuocare, come suol dirsi, sopra una sola carta quel poco di patrimonio che abbiamo potuto mettere insieme nel corso di tanti anni, dietro tante e così dure sofferenze, dietro tanti e così lunghi sacrifizii.

Coll’adesione della Francia e dell’Inghilterra, si capisce, il cammino sarebbe di molto abbreviato, anzi avremmo pressoché toccata la meta. Queste nostre discussioni, le quali oggi possono avere un valore qualunque, allora sarebbero inopportune ed oziose; perchè niuno vorrebbe tanto presumere di sé, da ricordare al forte figlio del magnanimo Carlo Alberto di non lasciar passare la bella occasione di redimere l’Italia e farsene signore. Prode soldato egli stesso della indipendenza, non è a dire con quale amore ei sarebbe ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito e che patiscono l’importabile e ladro dominio straniero; non è a dire con che ostinala fede, con che pietà, con che lagrime gli si arrenderebbero quelle provincie, cui pesa più grave il giogo di tirannelli spergiuri e senza onore, vedendo in lui un redentore, un uomo proprio mandato da Dio. Ed in vero quali porte sogli serrerebbero? chi gli negherebbe l’ubbidienza? quale invidia se gli opporebbe? quale Italiano gli negherebbe l’ossequiò? Niuna impresa come questa potrebbe pigliarsi con maggiore speranza di successo, perocché niuna come questa è così nobile, niuna è così giusta, niuna è così reclamala dall’opportunità de’ tempi e delle circostanze.

Ma in politica bisogna contentarsi del possibile, ed a me non pare possibile che Casa Savoia abbia nella presente quistione tutta quella libertà di azione, che taluni per malizia, ed altri per aver le vedute troppo corte, o per esser troppo passionati, vorrebbero attribuirle. So che parecchi de’ giornali progressisti piemontesi, in cui scrivono uomini di polso e di coscienza, van ricantando questa canzone in tutti i tuoni. Ma Dio buono! Pochi mesi addietro si discuteva della legge de’ conventi, si discuteva dell'alleanza, ed essi ci faceano sapere che noi non eravamo liberi all’interno ed all’esterno dagl’influssi stranieri, e che ora era questo ambasciadore, ora quell’altro che attraversava il corso regolare delle cose tra noi; e potranno ora darci a credere che Francia ed Inghilterra se ne volessero stare spettatrici inerti con le mani alla cintola in un affare di tanto momento, come è quello della ricostituzione d’Italia in una sola famiglia, e sotto un principe solo? Credat Judaeus Apella; non ego.

Per me penso che il Piemonte, stando le cose nei termini sopra descritti, gioverà meglio all’Italia col non fare, col non tentar nulla colle armi. Continui esso a splendere come faro luminoso nella sapienza delle sue leggi, e delle sue instituzioni liberali, nella fede e religione del suo re, nell’incremento delle arti e delle industrie, nel patrocinio generoso di coloro che gli vengono a chiedere asilo e sicurezza dopo le battaglie ed i naufragi della libertà, e sia pur certo che così comportandosi avrà assicurata per sè un’immensa conquista morale, che, oltre di essere la più desiderabile e la più durevole, la più onorala, è anche la più utile, la più fruttuosa pel rimanente della Penisola.

III. Se essendoci buon volere ed impotenza a risorgere dalla parte deliberali di Napoli, 
buon volere ed impotenza a soccorrere dalla parte del Piemonte, ed offrendosi la possibilità di conseguire 
con altro mezzo il tanto sospirato riscatto, sia da accettarsi o pur no questo medesimo mezzo.

Ho detto che i liberali di Toscana, di Romagna, dei Ducati e del Lombardo-Veneto hanno molti guai in casa loro, lo che, in altri termini, significa che ben poco o nulla possano o debbano sperar da essi i Napolitani. È inutile ch’io mi occupi di Mazzini e del partito mazziniano. Questo partito, e dico quello che so, non ha avuto che rari ed oscuri seguaci nel regno di Napoli. La polizia di Delcarretto non se ne è mai preoccupata seriamente. In un libro redatto sopra i dati più esatti e le relazioni più minuziose di tutti gli uffici polizieschi di Austria, Francia, Inghilterra e degli altri Stati Italiani, si vedevano registrati i nomi di quanti in Europa appartenevano alla Giovine Italia, e ad ogni nome si accompagnava un rapido cenno biografico di ciascuno individuo, scritto da mano assai abile. In quel libro che fu rinvenuto in un ripostiglio segreto di un Capo di divisione al ministero della polizia in Napoli nel 1848, appena vi figurano tre o quattro persone del reame, che da più anni trovavansi pure all’estero.

Ma ammesso che i mazziniani vi fossero in buon numero, come nello Stato del Papa, io credo che, escluso il caso di una pugnalata nelle costole o alla gola, il Borbone non avrebbe altro a temere da essi. Taluni chiamerebbero questo un assassinio. Sono uomini timorati di Dio, e bisogna lasciarli pensare col loro capo, almeno bisogna lasciarli dire. In quanto a me, non ¡scorgo altro nel Re di Napoli che un rettile velenoso, contro cui tutte le armi sono buone e giuste, sino i ciottoli delle vie.

V’ha ancora di più. I mazziniani non hanno troppo credito in Italia. Non mi fa maraviglia che essi sieno forse desiderati a Milano o a Roma. Quando i mali giungono all’estremo, chi li soffre si appiglia ai partiti violenti e disperati, e come il naufrago per salvarsi, lottando con la morte, stringe in pugno l’alga e la sabbia. Ma in Piemonte dove vi è una bandiera, una tribuna, una stampa libera ed una opinione illuminata, i mazziniani non contano un fico, il Governo non ne prende alcun pensiero, e lascia pure che taluni predicatori continuassero a predicar liberamente la loro religione, perchè crede che questo sia un utile passatempo, una buona ed innocente distrazione per certi poveri cervelli.

Non è che io voglia giudicare con pochi riguardi Mazzini ed i suoi seguaci: stimo anzi e l’uno e gli altri, perchè sanno volere risolutamente e costantemente una cosa, e il loro motto è o vincere o morire! E siamo giusti con tutti, l’Italia deve molto a Mazzini ed ai mazziniani; ma oggi il loro programma mi pare un vero anacronismo, e quindi non è a stupire se i più avveduti, senza rinnegare la loro fede, si sono messi per un’altra via, e se le defezioni sono continue e numerose. Ultimamente lo

stesso Manin (incredibile!), nulla curandosi della scomunica maggiore, si è ribatezzato costituzionale!

I liberali di Napoli adunque non bastano a loro stessi. Dai liberali degli altri Stati Italiani vi è da sperar poco o nulla.

Il

Piemonte forse è impedito a far tutto quello che vorrebbe e potrebbe. Mazzini e i mazziniani mancano di eredito, e sono pure impotenti a dare indirizzo ad una rivoluzione, e mollo meno a governarla e farla servire al nobilissimo scopo cui essa sarebbe destinata; quale in conseguenza è il mezzo che la fortuna presenta a noi Napoletani per risorgere con probabilità di successo dall’abisso in cui siam caduti, e quel che più monta, per risorgere con utile e con onore al cospetto dell’Italia e del mondo?

Prima di entrare nella discussione di quest’ultima parte del lavoro, è bene lo esaminare attentamente quali possano essere i propositi della Francia e dell’Inghilterra rispetto all’Italia in generale ed al regno di Napoli in particolare. Comprendo che sia cosa molto difficile per privato e modesto scrittore do spingersi col pensiero nei labirinti della politica dei gabinetti. Ma qualche cosa se ne può sapere o prevedere da chi guarda ai fatti straordinarii che si succedono e si compiono in Europa. Nei vediamo oggi le due maggiori potenze dell’occidente impegnate in una guerra a tutta oltranza contro la Russia. Più che il sentimento del primato e della supremazia, v’ha in questa lotta qualche cosa d’ignoto, di cui non si ha coscienza, qualche cosa insomma di confuso e di vago, che accenna il passaggio ad un nuovo ordine, ad un nuovo assetto ed organamento del mondo politico. Con la caduta di Sebastopoli noi siamo in grado di veder meglio quel che si pensa e quel che si vuole a Parigi ed a Londra.

Da lungo tempo gli uomini di stato delle Tuilleries e del Foreign-Office si preoccupavano dell'Italia. Non che essi il facessero mossi da sentimenti di generosità e di umanità, come se compassionassero i nostri mali e le nostre sciagure; invece vi erano spinti da tutt’altre cagioni. Non si voleva, non si vuole, né si vorrà mai che l’Italia fosse un focolaio perpetuo di agitazioni, di tumulti, di commovimenti pericolosi alla pace ed alla sicurezza generale. Per questo vi erano stati avvisi officiali ed officiosi, rimostranze, consigli ai governi della Penisola, perchè qualche cosa concedessero alle esigenze imperiose de’ tempi, rimettendo, se non in lutto, almeno in parte di quel rigore, o meglio ancora di quelle misure violente e bestiali, cui spesso si abbandonavano per odio o vendetta gli uomini del potere, concitando così le moltitudini, spingendole ai partiti estremi.

Come fossero accolte siffatte rimostranze, specialmente a Roma ed a Napoli, pur troppo l’abbiam veduto e il vediamo ancora. Il Papa ed il Borbone le hanno non solo tenute in altissimo disprezzo, ma si sonò spinti più innanzi, addoppiando i rigori, le vessazioni, gli arbitrii, e l’uno coronando l’opera d’infamia con la instituzione del cavalletto, l’altro con quella della commissione delle legnate. E quasiché queste provocazioni non bastassero a mostrare il loro mal talento, eccoli a parteggiare con modi coperti ed insidiosi in favore della Russia, alla cui onnipotenza si congiungon pure la sorte e l'avvenire di lutti i despoti di primo e di second’ordine i quali contristano l'Europa. Il re di Napoli poi, caporione dei reazionarii, fatto audace dai passati successi, assecondato dalla fortuna che spesso è l’amica de’ tristi, quantunque d’animo vile e gaglioffo, non so se più balordo o pazzo, e dandosi l’aria di bravaccio, ha voluto per giunta recare ingiuria alla maestà della Francia e dell'Inghilterra, mancando dei dovuti riguardi ai rappresentanti dell’una e dell’altra. Sono noti al mondo i suoi modi altieri e sprezzanti tenuti coi ministri Tempie e De la Cour: è noto il fatto di Messina e l’insulto al signor Feghan, addetto alla legazione britannica.

Già sin dal 1851 l’onorevole signor Gladstone, nelle sue famose lettere a lord Aberdeen, avea pel primo suonato a stormo la campana della giustizia contro i carnefici gallonati e togati, contro i demagoghi di palazzo che straziano la misera Napoli. L'eco di tutta Europa area ripercosso il suono di quelle squille, ed il loro vindice fragore avea compreso di costernazione e di spavento (non di rimorsi perchè non ne sono più capaci) i colpevoli. La causa de’ martiri Napolitani avea già riportato il suo trionfo morale: Iddio visibilmente la proteggeva. Il signor Gladstone, allo spettacolo di dolori ignorati, o non creduti, o derisi, e di un governo brutale e selvaggio che a capriccio trasgrediva e violava le leggi divine ed umane, che torturava una intiera nazione di otto milioni di creature innocenti, che l’avvelenava nelle fonti della vita civile, che l’educava al disprezzo dell’autorità, che la martoriava con ogni maniera di supplizio, e che era insomma un oltraggio alla religione, alla civiltà, all'umanità ed alla decenza, avea pure detto che egli, svelando al mondo quelle infamie, ubbidiva ad un sentimento semplice, chiaro e solenne verso i suoi simili ed anche verso Iddio padre comune! La grande autorità del nome, la probità, la moderazione, la dottrina di colui che così stigmatizzava il governo di Napoli, produssero in tutta Europa indicibile e profonda impressione. Fin d’allora il nome di re Ferdinando fu pronunziato con ribrezzo: niun uomo onesto potè sentirlo a profferire senza provare orrore o raccapriccio.

Bisognava però attendere dagli eventi l’occasione propizia per liberare la terra da questo mostro. E l’occasione, o noi c’inganniamo, è venuta. Le gravi parole di John Russell e di Palmerston pronunciate ultimamente alla Camera dei Comuni, gli articoli virulenti di tutta la stampa inglese e francese, e sopratutto le rimostranze imperiose delle grandi potenze alleale, lo sgomento del Borbone all’appressarsi di una flotta nel golfo di Napoli, le notizie che vanno per le bocche di tutti, ogni cosa insomma ci autorizza a credere che grandi ed essenziali mutamenti tra breve avranno luogo in quella estrema parte d’Italia, e quindi di tutta la Penisola. L’umanità e la politica altamente li reclamano. I mali possono curarsi ora; ma se più s’indugia, le conseguenze saranno gravissime ed irreparabili.

Ora stando così le cose, tra i mezzi per risorgere, come dicevamo innanzi, con probabilità di successo, con utile e, quel che è più, con onore al cospetto dell’Italia e del mondo, non ve ne ha che uno, e quest’uno è la cacciata definitiva de’ Borboni da Napoli, e quindi la proclamazione e fondazione di un Regno della bassa Italia, cui sarebbero aggregate Toscana e Romagna; ed oltracciò la proclamazione e fondazione di un Regno dell*Alta Italia col naturale e legittimo allargamento del Piemonte nei Ducati e nel Lombardo-Veneto, e con sistema di federazione tra i due governi dominanti di tutta la Penisola, che invece di esser divisa e suddivisa, o ridotta quasi a minuzzoli, la si vedrebbe bipartita in due grandi famiglie, ciascuna di dodici a quindici milioni di abitanti. L’uniformità poi degli statuti politici, delle leggi, del sistema doganale e di commercio, de’ pesi, delle misure e delle monete, la facilità ed agevolezza delle comunicazioni morali e materiali da Palermo a Torino, manterrebbero, per ora, unite nello spirito le membra di questo gran corpo, lasciando al tempo ed alle buone occasioni, che certo non mancheranno, di fare il rimanente nello avvenire.

Ma esautorati i Borboni, è naturale che si pensi pure ad istabilire in Napoli una nuova dinastia, la quale, senza essere dello in tutto straniera al paese dove è chiamata a regnare, potesse trovarvi l'appoggio di una opinione favorevole, e quindi la sicurezza di mettervi salde e profonde radici, promovendo e favoreggiando i veri interessi e suoi e di tutta la Penisola. Ed eccoci condotti dall’ordine logico del nostro ragionamento a Luciano Murat.

Chi è Luciano Murat? Per me che scrivo, prima che leggessi una protesta contro di lui pubblicata sui giornali da pochi emigrati Napolitani residenti a Genova ed a Torino, egli, per così esprimermi, era un’idea, un ente astratto, un essere impersonale e nulla più. Ma dopo quella lettura, ho inteso proprio il bisogno di sapere qualche cosa sul conto suo in particolare, ed ho dovuto riconoscere in lui il figlio di quel prode ed invitto Gioacchino Murat, assassinato dagli scherani borbonici nel castello del Pizzo in Calabria.

Ora le tradizioni murattiane sono vive nel cuore di ogni buon Napolitano che professa una specie di culto alla memoria di un Principe, che fu così magnanimo e generoso in tutto e con tutti. Sarebbe lo stesso che accusar d’ingratitudine quel nobile e sventurato paese, se si affermasse il contrario. Il De Sanctis, fortemente passionato per una bella causa, ha dovuto lavorare di fantasia, quando si è fatto ad asserire, che il dispotismo e la corruzione furono le macchie del governo murattiano. Se non sapessi la probità dello scrittore, direi ch'egli mentisce, perchè sconoscendo la storia della patria nostra, insulta con freddo cinismo alla sacra memoria di un uomo per cui il Reame di Napoli la prima volta, dopo Carlo III, prese posto fra le nazioni civili di Europa. Utili ed essenziali riforme, buone e savie leggi, retta amministrazione della giustizia, magistratura illuminala e morale, istruzion pubblica rimessa in onore, instituite nuove cattedre di scienze, collegi e licei fondali nelle provincie, aperte vie di comunicazione Ira la capitale ed i luoghi più lontani del Regno, protetto il commercio, incoraggiale le lettere, le arti, le industrie e l’agricoltura, ristaurate le finanze, creato un esercito con buoni ordini e rigida disciplina, tutelata la vita e la proprietà de’ cittadini con provvedimenti savii ed opportuni, onorali gli uomini più chiari per opere dello ingegno, e tutto questo in mezzo ai pericoli che d’ordinario circondano un re nuovo, ecco in riassunto le vere e genuine tradizioni murattiane; ecco quello che dicono di Giacchino Murai i contemporanei e la storia. Il De Sanctis chiude gli occhi alla verità, e perchè gli vengono tra i piedi i Carascosa, i Filangieri, gl’Ischitella, i Fortunato, stati murattiani, e poscia seguaci di tutte le cause vittoriose, e strumenti attivi della tirannide borbonica, gilta il vitupero su tutto e su tutti, senza neanche ricordarsi che pochi giorni prima egli avea recitalo il più pomposo elogio di Guglielmo Pepe, il quale col fratello Florestano furono la più splendida gemma del regno di Gioacchino. Strano davvero! Dopo tante gratuite ingiurie alla memoria di quel re sventurato, dopo di aver detto che niuno si ricorda di lui, che fu uomo senza fede e senza principii, il De Sanctis si mette in contraddizione con sestesso, paga alla verità i suoi diritti, ed esce in queste parole: Egli (Gioacchino) ha il suo posto non piccolo nell'epopea napoleonica. Molte virtù private. VIRTÙ REGIE spinte all'eccesso. Amava i Napolitani. La sua fidanza in loro portava al fanatismo. Largo fino alla prodigalità, buono fino alla debolezza. AMÒ E MERITÒ DI ESSERE AMATO.— Vedano da ciò i nostri lettori in qual conto debba aversi chi, protestando contro Gioacchino, è poi costretto a rendergli questo tributo di onore. Ma Gioacchino, ci si dice, era straniero di origine. Peccalo veramente che non fosse nato in Italia come re Bomba! Stranieri sono gli oppressori della patria nostra, i tiranni in qualunque luogo sieno essi nati, qualunque nome essi abbiano, non chi ci concede vivere libero e civile, chi ci governa con buone leggi, chi ci mantiene e custodisce inviolata la nostra nazionalità, la nostra autonomia, chi combatte e vive con essa e per essa. E Gioacchino, per quanto i tempi e le condizioni generali e particolari il consentivano, fece tutte queste cose, non con vane ciarle o promesse, come è l’uso di tutti i parolai o mercanti di parole, ma con opere vere e reali, dirò pure con ¡sforzi sovraumani ed incredibili, perocché snidò dall’isola di Capri gl’inglesi, ed egli pure (lascio al De Sanctis il carico di scrutar le intenzioni degli uomini) levò il grido dell’indipendenza italiana. Mi duole che quel grido non ¡scosse gl’italiani! Sempre cosi! S’invocano tanto e poi tanto le buone occasioni, e quando poi vengono i sofisti ed i ciarlatani, che tanto abbondano tra noi, le guastano, e pretendono in ricambio di meritar della patria, anzi di essere incoronati, proclamandosi i soli incorrotti, i soli onesti, i soli e veri cittadini, e gittando su tutti gli altri il biasimo e la calunnia. Essi fecero altrettanto e peggio pel povero Carlo Alberto. Lo abbeverarono di fiele quand’era vivo: non gli perdonano neanche ora che è morto! Eppure Dante e Macchiavelli non crederono di mancare alla patria, quando l'uno chiamava tra noi Alberto Tedesco, e l’altro non avea a disdegno di darla sinanche a Cesare Borgia, purché la costituisse una, forte ed indipendente dall’Alpi alle rupi di Scilla. Ma poi i grandi fondatori de’ regni e degl’imperii in tutti i luoghi d'ordinario furono stranieri. né mi pare che la Francia abbia a vergognarsi di Napoleone I, benché italiano. Parliamo tanto di libertà, e non sappiam liberarci dai pregiudizii, e siamo sempre bambini in tutto! Povera Italia!

Ora Luciano Murat non ha neanche questa voluta colpa del padre. Non so se egli sia nato a Napoli, ma è Napolitano ed italiano insieme per cuore e per mente. Ha passato, ci si dice, la sua vita in America. Tanto meglio. Volevate forse ch’egli, proscritto dalla implacabile vendetta borbonica, avesse dimorato a Mergellina o a Portici? E voi che protestate contro di lui, che vi date l’aria di avere ai vostri cenni armi, munizioni e migliaia e miglia di uomini già pronti ad insorgere, a mandare in fiamme mezzo mondo, a rovesciare il trono del Borbone, a ricostituire l'Italia di vostro capo, perchè ve ne state qui oziosi a Torino o a Genova, e non correte nelle Calabrie, negli Abruzzi o nel Vallo a dirigere gli eserciti de’ combattenti che vi aspettano? Almeno così mostrerete al mondo che non solo parlate, ma operate da senno e non da burla. Non che io volessi accusarvi di mancanza di coraggio. Il cielo me ne guardi. So quali prove di valore e di eroismo parecchi di voi diedero a Venezia ed a Roma. So che voi amate quanto me, vi concederò anche più di me, la patria comune. E il vostro un nobile, Un delicato sentimento che io apprezzo ed onoro. Ma persuadetevi pure che non è sempre dato all’uomo di far ciò ch’egli più vuole, e spesso bisogna reputar fortuna il far ciò che si può. Ed in Napoli, ammenoché non vogliate accontentarvi del dominio borbonico, non vi è altro bene possibile e desiderabile che quello di Luciano Murat. Se questo non è il vostro avviso, almeno è il mio, e credo forse di moltissimi altri esuli, di mollissimi o di tutti quelli che gemono nelle galere e negli ergastoli, di quanti soffrono e sperano, e credo pure de’ più assennati patrioti italiani.

Sì, i più assennati e patrioti Italiani, o io m'inganno, non possono, non debbono disapprovare, nelle contingenze in cui versiamo, un Regno della bassa Italia con a capo un figlio di Gioacchino Murat. Si dice che egli, creatura di Napoleone III, non potrà non risentirne gl’influssi, mancherà d’un’ intiera libertà d’azione, farà del suo regno una provincia francese, mettendosi pure come ostacolo insormontabile a) nostro risorgimento.

Prima di lutto il programma di Luciano Murat, e l’ultima sua lettera scritta al Times non dicono questo. Voi non vi fidale de’ programmi, ed io neppure. Siamo almeno di accordo in ciò. Ma Luciano Murat vi dice, chiamatemi, ed io risponderò all’appello, o mi vogliate soldato, o principe. Io mi dò nelle vostre mani, fate di me quel che vi piace. A promessa larga, pensaci bene, dice il proverbio. Dunque voi ci penserete: questo è il debito vostro; e quando lo avrete adempito, con prudenza e con circospezione, guardandovi d’intorno, fortificandovi e premunendovi a dovere, siate pur certi, che niun male, anzi grandissimo vantaggio sarà per derivarne a Napoli ed all’Italia intiera.

La libertà di azione piace a tutti, così ai governati che ai governanti. Credo che debba pure piacere a Luciano Murat, perchè chi mostra la nobile ambizione di voler regnare, mal sopporta i padroni. Gioacchino, impedito, impaccialo com’era, spesso ruppe il freno napoleonico, e fece da sè, quando forse sarebbe stato miglior consiglio di lasciarsi guidare da chi voleva e poteva guidarlo bene.

Le cose sono al presente assai diverse. E se non altro, Luciano Murai a Napoli sarà tanto libero quanto Vittorio Emmanuele a Torino, ed io me ne chiamo pienamente contento.

Siamo caduti in un fosso, anzi in una fogna: abbiamo le ossa slogate e rotte. Forse possiamo risorgere, raddrizzarci, e camminar per la nostra strada. Un uomo viene in nostro aiuto, ci stende la mano, dice di soccorrerci, può soccorrerci, vuol soccorrerci, e noi respingiamo quell’uomo e quella mano, accompagnando l’atto con mille ingiurie e mille villanie! Quando metteremo una volta giudizio?

Chi scrive queste carte ama ed onora quelli che combatte. S’egli ha un nome oscuro, ha però un cuore che non palpita che per la patria. Ha sofferto, soffre assai, prima nelle prigioni, ora nell’esilio; non è infeudato., non è venduto corpo ed anima, né a Murat, né a Mazzini, né a Casa Savoia, né ad altri che si crede o sia più grande o più potente di questi: egli vive di lavoro, distenti e di privazioni; e sia scrivendo, sia stampando, non iscrive e non istampa che per conto proprio, per conto di un partito solo, il partito di ciò che egli almeno crede la verità; e che da ultimo, per la ragione che non è pazzo, non pretende che sia tenuto infallibile. Errare humanum est!

DOCUMENTI

«Mio caro Nipote

«Ho compreso ed approvo i motivi che v’han suggerita l’idea di fare un esame imparziale della probabilità che ha l'Italia di emanciparsi dal giogo straniero. — Appunto perchè a me sembra, come a te, d'esser io la sola possibile soluzione, mi sono interdetto di prendere ogni iniziativa. — Allorché taluno ha sofferto quant’io e si lungo tempo in esilio, ogni illusione è svanita, la verità si fa sfolgorante, ed allora si profitta, allora solamente, dell'esperienza del passato. — Ben folle sarebbe quegli il quale solo perchè nato sui gradini di un trono, credasi essere quel trono proprietà sua, ereditarlo da tutto un popolo, come un semplice privato erediterebbe un armento. — Raccomanderei a quest'uomo, se la sua follia non è divenuta incurabile, di studiare l’istoria degli ultimi anni di Francia, ed ei vedrebbevi avere i popoli aperti gli occhi, facendo a lor talento e disfacendo i re; e se per qualche tempo vagarono nelTadozione d'una o d'altra forma di governo, essi han sempre l'istinto di tornare a quello che è il più omogeneo al loro modo di sentire, ai loro costumi, alle loro abitudini. — Quanto a me comprendo esservi situazioni ed avvenimenti nella vita che incatenano individui e famiglie intiere alla sorte d'un popolo. — Che il figlio di colui il quale primo levò lo stendardo dell'unione e della libertà italiana sia sempre agli ordini d'Italia; che non cessi di far voti perchè il progetto di suo padre diventi realtà, egli è naturalissima cosa; ma quello che io non comprenderei si è ch'egli ponesse ostacolo all'effettuazione di tal progetto, col dire: «Napoli m'appartiene; l'è mia proprietà; niuno, di me in fuori, non può, né deve render l'Italia libera, e solo a mio profitto ella deve divenirlo.«— Che l'Italia mi chiami ed io sarò orgoglioso di servirla. Dico inoltre non credermi ch'ella trovi persona la quale servala meglio di me: i suoi nemici sono i miei, ed havvi un conto ben tremendo a regolare tra noi. — Ma se l'Italia facesse altra scelta, non farei minori Voti per lei, e per aiutarla a riuscire darei a lei fino l'ultima stilla del mio sangue.—Termino dicendoti dal fondo dell'anima che felice sarà colui il quale verrà da lei prescelto, perocché la sua missione sarebbe facilissima. Lungi dal reprimere o restringere le libertà che la costituzione avrebbe date al paese, egli, affrancati i municipi, e lasciati liberi nella loro amministrazione interna, avrebbe solo ad occuparsi del ben essere generale, appoggiandosi sul concorso di coloro che il paese stesso indicherebbe, e che per conseguenza sarebbero i più interessati a fargli conoscere il vero. — Abbiti qui, mio caro nipote, l'assicurazione del piacere che provo in vedendo un membro della mia famiglia occuparsi, come tu fai, degl'interessi del suo paese. Continua, ma sovvienti di verità, che per essere antica non è men buona, ed è: noblesse oblige. — Sono tutto a te.

«LUCIANO MURAT.»

Al signor Compilatore del giornale il TIMES:

«SIGNORE,

«Un articolo del vostro giornale, ora comunicatomi, tende a rappresentarmi come uomo arrischievole, che avrebbe profittato dell'agitazione in cui trovasi il regno di Napoli per ribellare quel paese. Dice che per buona sorte la scintilla è spenta; che quanto oggi non sarebbesi terminato che ad una cospirazione in mio favore, sarà in tempo più o meno lontano rimpiazzato dall'unione ed indipendenza di tutta l'Italia, da effettuarsi dal solo Piemonte.

«Il vostro articolo tenderebbe a far credere che io., riuscendo, sarei stato un ostacolo all' unione ed indipendenza d'Italia.

«Ignoro quali prove possiate addurre in appoggio dell'asserzione.

«I giornali si occupano molto di una lettera da me scritta a mio nipote (volgono ornai due anni), la quale, senz'essere conosciuta da tutti, lo era però da coloro ai quali poteva premere di sapere le mie opinioni.

«Quella lettera non è stata pubblicata che quando il Piemonte aveva dichiarato (mediante là sua alleanza colla Francia, Inghilterra ed Austria, e medianti articoli inseriti in giornali ministeriali) di rinunziare ad ogni ingrandimento di territorio, e di volere rispettare l'attuale stato d'Italia.

«In che dunque un cambiamento di dinastia in Napoli avrebbe potuto nuocere alle idee del Piemonte? Che questi si dichiari, che egli levi lo stendardo dell'unione, dell'indipendenza e della Libertà di tutta l'Italia, ed io prendo qui impegno, come nella mia lettera, non solo di non essergli di ostacolo, ma di dargli inoltre tutto il mio concorso, non che quello di tutti coloro che passate rimembranze attaccano alla mia famiglia; perchè ciò sarebbe un effettuare le idee di mio padre, alle quali resterò sempre fedele.

«La mia posizione politica e di famiglia mi fanno un dovere di astenermi da ogni polemica ne' giornali. Desidero dunque che la presente lettera serva di risposta ad ogni altro attacco che la malevolenza potrebbe suscitarmi in futuro.

«Aggradite, o signore, ecc.

«Dal Castello di Buzenval, addì 24 settembre 1855.

«Firmato: LUCIANO MURAT.»

«Genova, 24 settembre

1855

«I sottoscritti emigrati politici delle Due Sicilie, conservando ciascuno l'indipendenza delle proprie opinioni, si credono in debito dichiarare che, siccome avversano l'attuale governo delle Due Sicilie, perchè incompatibile con la nazionalità italiana, per la ragione ¡stessa avversano qualsiasi (orma di governo che potesse costituirsi col figlio di Gioacchino Murai, e tanto maggiormente che in tal caso quel regno diverrebbe indirettamente una provincia francese.

«Enrico Cosenz— Carlo Pisacane — Tito Trisolini—Giuseppe Trisolini — Giuseppe Vergilj — Francesco Curzio — Diego De-Benedetto — Federico Salomone — Vincenzo Carbonelli — Luigi Miceli — Ippolito De-Riso — Stefano Seidita — Giuseppe Badia — Ignazio Rivarola e Baiardi — Gaetano Giordano — Bonaventura Mazzarella — Tommaso Lorusso — Carlo Romualdi — Camillo Boldoni — Francesco Spedalieri — Crespino Vitale — Salvatore Calvino — Francesco Campo — Giuseppe Mustica — Rosalino Pilo — Gaetano Laloggia — Francesco Giordano — Guglielmo Diaz — Lorenzo Montemaior — Antonio De-Blasiis — Carlo Mileti.»

«Torino, 25 settembre 1855.

«SIGNOR DIRETTORE,

«Parecchi emigrali politici delle Due Sicilie, dimoranti in Genova, avendo pubblicata nel N. 227 del suo pregevole giornale una dichiarazione, con la quale si professano avversi a qualsiasi forma di governo che potesse costituirsi nel reame col figlio ili Gioacchino Murai, i sottoscritti la pregano di volere accogliere nelle colonne del Diritto anche i loro nomi; avvegnaché essi aderiscano pienamente al fatto dei suddetti loro concittadini.

«Domenico Mauro — Giovanni Nicotera — Francesco De-Sanctis — Matteo A. Mauro — Francesco Sprevieri — Biagio Miraglia da Strongoli — Antonino Fiutino — Giovanni La Cecilia — Nicola Le Piane — Filippo Patella.»


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NOTE

(1) Come il Piemonte, l'Opinione, l'Unione, il Vessillo della libertà, l'Indépendance Belge, ecc., ecc.

(2) Tacendo dei napolitani per ragioni che tutti possono intendere, ci asterremo pure dal citare parecchi chiarissimi uomini delle altre province d’Italia, che formano una buona falange, e che stanno tutti con noi.

Il nostro opuscolo, per quanto ci costa, è stato, qui in Piemonte, combattuto sul solo giornale il Diritto, dal solo Domenico Mauro, il quale avendone fatto un riassunto a suo modo, ne ha poi dedotte le conseguenze che egli ha stimato giovevoli alla causa che propugna. Torna inutile l’avvertire che il signor Mauro è uno de’ protestanti contro Luciano Murat. Noi non possiamo che lodarci della sua lealtà. Dopo di aver dichiarato, che parecchi emigrati (41) firmarono la protesta e che furono disapprovati; dopo di averci detto i guai che verrebbero al Regno di Napoli ed all’Italia da una dinastia Murattiana (cosa che non persuade né noi, né altri); dopo di avere insistito che la redenzione della penisola deve attendersi da Casa Savoia; viene a conchiudere in termini netti ed espliciti, che ove le cose non andranno così, conviene che gli Italiani insorgano sia pure repubblicanamente. Questa, se non andiamo errati, è tutta la sostanza del suo articolo. Ma può Casa Savoia quello che tu, signor Mauro, noi e lo stesso Luciano Murat vorremmo? L’Opinione, e, quel che più monta, il Piemonte, con modi indiretti ci hanno risposto di no. E l’Italia farà la rivoluzione? E trionfando con la rivoluzione di tutti I suoi oppressori, potrà poi darle quell’indirizzo che tu col tuo cuore riboccante sempre di gioventù e di poesia, credi così facile? Ecco il busillis. Noi in tutto questo non ci vediamo molto chiaro, anzi non ci vediamo affatto. Ci chiuderemo dunque come le lumache nel nostro guscio, aspettando la pioggia. Ma avremo da aspettare assai!

— Il direttore della Specola delle Alpi, giornaluccio della città di Pinerolo, ha detto che noi non solo abbiamo fatto un cattivo opuscolo, ma benanche una cattiva azione. Questo direttore è il signor Giuseppe Del Re, che l’8 febbraio 1850 scriveva al National ne’ seguenti termini: «Nous avons l’honneur d’approcher monsieur LUCIEN MURAT, dont le nom est lié à des souvenirs qui sont ineffaçables dans le coeur de tout bon Napolitain, et nous sommes très-reconnaissant aux amabilités dont il a bien voulu nous combler.»

Ora questo stesso Del Re, mutato consiglio, con lettera diretta all’egregio signor Valerio il 1° ottobre 1855, unisce il suo nome a quello degli altri protestanti contro Murati Che conto terrà il mondo, se mai ci pensasse, di uomini di questa fatta? Tutto al più potrebbe chiamarli pappagalli politici.

— Girolamo Ulloa, in una sua lettera pubblicata nel Diritto,anno II, N° 262, scrive di non aver letto il nostro opuscolo, e però non ci reca maraviglia s’egli canta fuori coro. È notevole la sua professino di fede, la quale, perche dice tutto, pare a noi che non dica niente.

— Il sig. Bianchi-Giovini, che senza conoscerci personalmente, già aveva accolta con molto favore la nostra proposta murattiana (Unione, anno II, numero 287) fu pure accusato di aver offeso il popolo napolitano in un comento fatto aduna nostra dichiarazione (Unione, anno II, N° 292) e l’accusatore fu l’avvocato Raffaele Conforti. Noteremo a questo proposito, che allorquando il signor Gladston lanciò il suo terribile atto d’accusa contro il governo napolitano, la risposta che se n’ebbe da certo Mandarini, giudice o carnefice del Poerio, del Pironi! e del Settembrini, somigliava appuntino all’articolo dei Conforti, perocché allora pure fu detto che noi avevamo leggi penali le più miti e più savie dell’Europa; che avevamo un codice civile ed amministrativo pieno di sapienza; che possedevamo tutte le instituzioni e gl’instituti della civiltà; e che in fine potevamo darci per modello ai mondo intiero. Ora tutto il mondo conosce in che conto si tengono quelle leggi e quei codici, quelle instituzioni e quegl’instituti dai manigoldi e dai ladri che ci sgovernano, e le nostre sventure fanno fremere e raccapricciare. Eh! caro Conforti, avevi per le mani una causa buona, ed hai fatta mala prova.

Come hai potuto rivolgerti contro Bianchi-Giovini, e non hai pensato da ben quattro anni all’opuscolo (Giustificazione — Ferdinando II il migliore dei re) del comune amico La Cecilia? Tu certo avevi dovuto leggere quell’opuscolo. Le tue armi dunque non sono brandite contro Bianchi-Giovini. Fingi di rivolgerti contro di lui, ma in sostanza vuol ferir noi, che seguiamo un principio. Fai benissimo!

— Viene ultimo contro Bianchi-Giovini il sig. giudice Alborella (speronza, anno I, n° 38)e come per istordire il suo avversario con un colpo forte e bene assestato sulla nuca del collo, gli si fa incontro con queste parole: «L’Anticrozio smascherò il pretume e gli scritti sulla Chinea, affrancando Napoli dalla servitù della Bestia, fecero sì che la mula bianca del napoletano non mangiasse più la paglia nella stalla del Vaticano.«Non importa che non se ne capisce niente, ma sono parole che producono un grande effetto!

(3) Diritto. anno II, n° 251.

(4) Giustificazioni — Pedinando II il migliore de’ Re. — 1851 — pag. 23.

(5) Idem, pag. 28.

(6) Idem, pag. 32.

(7) Idem, pag. 35.

(8) Idem, pag. 15.

(9) Sono quelle in cui si contiene il voluto sangue di S. Gennaro.

(10) Ci perdoni il signor La Cecilia se qui ricordiamo queste parole del suo libriccino, che pure sono le meno acerbe tra ìe altre da lui scritte. Per noi esse non suonano né odio, né disprezzo del proprio paese, ma invece le consideriamo come sfogo atrabilare di chi ama di vivissimo amore la patria, e che smanioso di liberarla dal servaggio e dalla schiavitù e renderla prospera e felice, si adira e si arrovella tutto contro gli oppressori di essa, che ne fanno strazio disonesto. Povero e sventurato proscritto da circa 30 anni, il signor La Cecilia erasi ridotto sotto il tetto paterno nel 1848, quando la sanguinosa reazione borbonica del 15 maggio lo balzò di nuovo sulla terra dell’esigilo. Quel fatto gli ottenebrò l’intelletto, e nell’impeto della sua collera, coll’animo gonfio dal dolore, mise in un fascio i buoni e gl’innocenti e maledisse a tatto il suo popolo, per la cui salvezza ora e sempre darebbe la vita sua e de’ figli suoi. Di questa medesima colpa si macchiò fin lo stesso divino Alighieri, che pure fu e sarà tenuto il massimo tra i cittadini di Fiorenza e d’Italia, quantunque avesse egli avuto passioni ed opinioni superlative, nelle quali, come s’esprime il Macchiavelli, fu tanto cieco, che perse ogni sua gravità dottrina e giudizio, e divenne al tutto un altro uomo, talmente che se egli avesse giudicalo cosi ogni cosa, o egli sarebbe vivuto sempre a Fiorenza, o egli ne sarebbe stato cacciato per pazzo. L’esempio del La Cecilia serve solo a mostrarci un’altra volta, che gli uomini di partito, benché animati da nobili e generosi sentimenti, d’ordinario riescono ingiusti, e spesso per la smania di operare quello che essi credono bene, danno in escandescenze veramente deplorabili, e al pari di tutti i fanatici religiosi, tornano esiziali a quella stessa religione che professano e difendono, comunque santissima. Collocati noi in una regione calma e serena, ci sentiamo sgombro il cuore da ogni odio di parte, e sebbene i nostri avversari! politici abbiano dimenticato ogni riguardo nell’assalirci, pure ci ricordiamo ch’essi sono tutti buoni ed onesti nostri concittadini, e non possiamo non amarli, si chiamino puri Giovanni La Cecilia o con altro nome qualunque.

(11) «Mi sovviene (scrive il De Sanctis, Diritto, anno II, n° 151) che quasi con le stesse parole me ne parlava nel carcere (cioè della rivoluzione del 1848) un commissario di polizia, salvo che egli chiamava bricconi e costui chiama imbecilli i ministri del 3 aprile, cioè gli uomini fra i più stimati del nostro paese, Carlo Troya, Dragonetti, Imbriani, Conforti, Scialoja.«Gli uomini del ministero ed il ministero sono, signor De Sanctis, due cose ben diverse; e questo tuo dialogo con un poliziotto è poco edificante.









Pisacane e la spedizione di Sapri (1857) - Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito
1851 Carlo Pisacane Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49
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1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. I HTML ODT PDF
1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. II HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. III HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. IV HTML ODT PDF

1849

CARLO PISACANE Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma

1855

La quistione napolitana Ferdinando di Borbone e Luciano Murat

1855

ITALIA E POPOLO giornale politico Pisacane murattisti

1856

Italia e Popolo - Giornale Politico N. 223 Murat e i Borboni

1856

L'Unita italiana e Luciano Murat re di Napoli

1856

ITALIA E POPOLO - I 10 mila fucili

1856

Situation politique de angleterre et sa conduite machiavelique

1857

La Ragione - foglio ebdomadario - diretto da Ausonio Franchi

1857

GIUSEPPE MAZZINI La situazione Carlo Pisacane

1857

ATTO DI ACCUSA proposta procuratore corte criminale 2023

1857

INTENDENZA GENERALE Real Marina contro compagnia RUBATTINI

1858

Documenti diplomatici relativi alla cattura del Cagliari - Camera dei Deputati - Sessione 1857-58

1858

Difesa del Cagliari presso la Commissione delle Prede e de' Naufragi

1858

Domenico Ventimiglia - La quistione del Cagliari e la stampa piemontese

1858

ANNUAIRE DES DEUX MONDES – Histoire générale des divers états

1858

GAZZETTA LETTERARIA - L’impresa di Sapri

1858

LA BILANCIA - Napoli e Piemonte

1858

Documenti ufficiali della corrispondenza di S. M. Siciliana con S. M. Britannica

1858

Esame ed esposizione de' pareri de' Consiglieri della corona inglese sullaquestione del Cagliari

1858

Ferdinando Starace - Esame critico della difesa del Cagliari

1858

Sulla legalità della cattura del Cagliari - Risposta dell'avvocato FerdinandoStarace al signor Roberto Phillimore

1858

The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

1858

Ricordi su Carlo Pisacane per Giuseppe Mazzini

1858

CARLO PISACANE - Saggi storici politici militari sull'Italia

1859

RIVISTA CONTEMPORANEA - Carlo Pisacane e le sue opere postume

1860

POLITECNICO PISACANE esercito lombardo

1861

LOMBROSO 03 Storia di dodici anni narrata al popolo (Vol. 3)

1862

Raccolta dei trattati e delle convenzioni commerciali in vigore tra l'Italia egli stati stranieri

1863

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1863

Giacomo Racioppi - La spedizione di Carlo Pisacane a Sapri con documenti inediti

1864

NICOLA FABRIZJ - La spedizione di Sapri e il comitato di Napoli (relazione a Garibaldi)

1866

Giuseppe Castiglione - Martirio e Libert࠭ Racconti storici di un parroco dicampagna (XXXVIII-XL)

1868

Vincenzo De Leo - Un episodio sullo sbarco di Carlo Pisacane in Ponza

1869

Leopoldo Perez De Vera - La Repubblica - Venti dialoghi politico-popolari

1872

BELVIGLIERI - Storia d'Italia dal 1814 al 1866 - CAP. XXVII

1873

Atti del ParlamentoItaliano - Sessionedel 1871-72

1876

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1876

Gazzetta d'Italia n.307 - Autobiografia di Giovanni Nicotera

1876

F. Palleschi - Giovanni Nicotera e i fatti Sapri - Risposta alla Gazzettad'Italia

1876

L. D. Foschini - Processo Nicotera-Gazzetta d'Italia

1877

Gaetano Fischetti - Cenno storico della invasione dei liberali in Sapri del 1857

1877

Luigi de Monte - Cronaca del comitato segreto di Napoli su la spedizione di Sapri

1877

AURELIO SAFFI Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini (Vol. 9)

1878

PISACANE vita discorsi parlamentari di Giovanni Nicotera

1880

Telesforo Sarti - Rappresentanti del Piemonte e d'Italia - Giovanni Nicotera

1883

Giovanni Faldella - Salita a Montecitorio - Dai fratelli Bandiera alladissidenza - Cronaca di Cinbro

1885

Antonio Pizzolorusso - I martiri per la libertࠩtaliana della provincia diSalerno dall'anno 1820 al 1857

1886

JESSIE WHITE MARIO Della vita di Giuseppe Mazzini

1886

MATTEO MAURO Biografia di Giovanni Nicotera

1888

LA REVUE SOCIALISTE - Charles Pisacane conjuré italien

1889

FRANCESCO BERTOLINI - Storia del Risorgimento – L’eccidio di Pisacane

1889

BERTOLINI MATANNA Storia risorgimento italiano PISACANE

1891

Decio Albini - La spedizione di Sapri e la provincia di Basilicata

1893

L'ILLUSTRAZIONE POPOLARE - Le memorie di Rosolino Pilo

1893

 MICHELE LACAVA nuova luce sullo sbarco di Sapri

1894

Napoleone Colajanni - Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane

1905

RIVISTA POPOLARE - Spedizione di Carlo Pisacane e i moti di Genova

1895

Carlo Tivaroni - Storia critica del risorgimento italiano (cap-VI)

1899

PAOLUCCI ROSOLINO PILO memorie e documenti archivio storico siciliano

1901

GIUSEPPE RENSI Introduzione PISACANE Ordinamento costituzione milizie italiane

1901

Rivista di Roma lettere inedite Pisacane Mazzini spedizione Sapri

1904

LUIGI FABBRI Carlo Pisacane vita opere azione rivoluzionaria

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Giudizi d’un esule su figure e fatti del Risorgimento

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Lettera di Carlo Cattaneo a Carlo Pisacane

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - I tentativi per far evadere Luigi Settembrini

1911

RISORGIMENTO ITALIANO - La spedizione di Sapri narrata dal capitano Daneri

1912

 MATTEO MAZZIOTTI reazione borbonica regno di Napoli

1914

RISORGIMENTO ITALIANO - Nuovi Documenti sulla spedizione di Sapri

1919

ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

1923

MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

1927

NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano





Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)















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