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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

STORIA D'ITALIA

DAL 1814 AL 1866

DI CARLO BELVIGLIERI

VOLUME QUINTO

MILANO

CORONA E CAIMI EDITORI

1872

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LIBRO VENTESIMOSETTIMO

Cavour difende la propria politica al Parlamento. — Daniele Manin, e suo programma unitario. —Onori italici a Cavour e dall’esercito di Crimea. — Nota austriaca. — Consigli d’Inghilterra e di Francia a Napoli. — Risposta. — Richiamo di ministri. — Processo Mignona. — Altri casi nel regno. — Moto insurrezionale in Sicilia. — Il barone Bentivegna. — Attentato d’Agesilao Milano. — Partenza delle truppe imperiali dalla Toscana. — Riduzione delle guarnigioni dei ducati e nelle Romagne — Viaggio dell'imperatore e della imperatrice in Italia. — Amnistia. —Congedo di Radetzkv. — L'Arciduca Massimiliano. — Il Governo mitigato ne’ modi, eguale nella sostanza. — Anche i principi tutelati si rammorbidiscono un poco. — Amnistia pontificia. — Cessazione dello stato d’assedio a Bologna. — Viaggio di Pio IX. — Progetti mazziniani. — Tentativo di rivoluzione a Genova ed a Livorno. — Spedizione di Carlo Pisacane — Ponza. — Sapri. — Vertenza pel Cagliari. — Rottura diplomatica tra l’Austria e la Sardegna. — Cose interne del Piemonte. — Affare di Monaco. — Attentato Orsini.. — Legge piemontese sui cospiratori e sulla stampa. — Plombières. — Il gabinetto di Francesco Giuseppe cerca deludere le stipulazioni di Parigi relativamente ai Principati Danubiani. — L'arciduca Massimiliano tenta senza successo di conciliare i Lombardo-Veneti coll’Austria.

Ci avviciniamo all'ultima parte del gran dramma dell'italico rinnovamento. Tutti gli attori sono presenti: il popolo, principalissimo d’essi, coll’antico anelito all'indipendenza, alla libertà, coll’anelito più recente e meno generale verso l'unità, in alcuni figlio del convincimento, in altri sentito come necessità, o adottato per calcolo; lo straniero sempre nemico, coi principi suoi alleati e complici volenti la conservazione dei trattati del 1815, ligi allo spirito che gli aveva informati, epperciò di fronte all’agitarsi nazionale per forza di cose più o meno tiranni; la diplomazia estera, parte ostile, parte piegata a più miti consigli, ma pur essa trepidante innanzi alla mole delle quistioni che s’andavano a smuovere; la fazione democratica, generosa, avventata, incorreggibile, che crede solo in sé stessa e nell’efficacia delle proprie idee e di mezzi ornai dal buon senso e dal fatto egualmente respinti; i generosi subalpini che, stretti al loro monarca valoroso e leale, stanno per la quarta volta nel secolo per levare il grido: Guerra all’Austria! cinque milioni contro una Potenza di trentasei! ma avevano seco la parte culta della nazione; avevano seco un uomo, che d’ingegno acuto, di volte re indomabile, d un patriotismo temprato a freddo e calcolatore, capace della pazienza, delle arti più squisite del diplomatico, e degli ardimenti rivoluzionar), s’accingeva ad utilizzare tutte le forze vive del paese, a superare gli ostacoli, a contenere gli avversanti, a trascinare gli amici, a soddisfare il voto affannoso di tante età, a placar l'ombra di tanti martiri che sui patiboli o sui campi di battaglia erano spirati gridando: Viva l’Italia!

Allo sciogliersi del parigino congresso, il ministero sardo rimase costituito cosi: Cavour presidente, agli affari esteri ed alle finanze; Rattazzi all’interno, Lamarmora alla guerra, Lanza alla pubblica istruzione, Daforesta alla grazia e giustizia, Paleócapa ai lavori pubblici. Immensa era l’espettazione quando il 6 maggio Cavour presentossi al Parlamento a rendere conto della condotta de' plenipotenziarj sardinelle conferenze e nelle stipulazioni del trattato di pace, ed a chiarire quanto se ne fosse vantaggiato il Piemonte; compito bene arduo, poiché nessuna delle cose sperate s’era realmente ottenuta. Alle interpellanze del deputato Buffa rispondeva, doppio oggetto aver avuto la missione dei plenipotenziarj sardi a Parigi; conchiudere la pace colla Russia; attirare l’attenzione dell’Europa sui mali che affliggevano l’Italia. Espose i vantaggi materiali che pel trattato sarebbero venuti al Piemonte; osservò che assai più di quelli era apprezzabile d’aver esso avuto parte alla decisione di quistioni interessanti l’ordine europeo, contro la massima stabilita a danno delle Potenze minori nel Congresso di Vienna. Venendo poscia a quello che risguardava la questione italiana, pur confessando che nessun risaltato positivo si poteva dire ottenuto, «tuttavia si sono guadagnate due cose (diceva): la prima, che l’infelice condizione dell’Italia venne denunciata all’Europa, non già da demagoghi, da rivoluzionarj esaltati, da giornalisti appassionati, ma da rappresentanti delle primarie Potenze, da statisti che seggono a capo dei loro Governi; la seconda, che quelle stesse Potenze hanno dichiarato necessario, nell’interesse europeo, di apportare rimedio ai mali d’Italia»; e conchiudeva: Se da un canto abbiamo ad applaudirci di tale risultato, dall’altro devo riconoscere eh’esso non è scevro d’inconvenienti e di pericoli. Egli è sicuro che le conferenze di Parigi non hanno migliorato le nostre relazioni coll’Austria. I plenipotenziarj della Sardegna, e quelli dell’Austria, dopo aver seduto due mesi a fianco, si sono separati senz'ire personali, ma coll’intima convinzione, essere la politica dei due paesi più lontana che mai dal mettersi in accordo; essere inconciliabili i principj dall'uno e dall'altro Governo propugnati.

«Questo fatto è grave; ma è conseguenza inevitabile di quel sistema leale, liberale, che Vittorio Emanuele inaugurava salendo sul trono; al quale sistema voi avete sempre prestato fermo e valido appoggio. Né io credo che la considerazione delle difficoltà e dei pericoli, sia per farvi consigliare di mutare politica.

«Per la prima volta nella storia nostra, la questione italiana venne discussa davanti ad un Congresso europeo; non come a Lubiana ed a Verona, coll’animo di ribadire le catene d’Italia, ma con intenzione di arrecare alle sue piaghe qualche rimedio.

«Terminato il Congresso, la causa d’Italia è portata al tribunale della pubblica opinione, cui, secondo il detto memorabile dell’imperatore de' Francesi, spetta l’ultima sentenza, la vittoria definitiva....»

Come allorquando erasi trattato di approvare l'adesione alla lega, così furono adesso varj i ragionamenti a favore, contro l’operato dal ministero; ed anche questa volta i fautori delle idee conservatrici ebbero interprete il conte Solaro della Margherita, e i democratici il focoso Brofferio; nondimeno, la condotta dei plenipotenziarj al congresso fu approvata ampiamente, ed il Governo del re invitato a perseverare in essa, ed il Senato unanime, proponente Massimo d’Azeglio, confermò quel voto. Che poi le parole degli oppositori non esprimessero il pensiero del paese, manifestossi in prima al ritorno delle truppe che avevano combattuto nella Crimea, giacché nelle feste e nelle ovazioni che ricevettero sul loro passaggio, al plauso pel valore mostrato nella Tauride mescevansi chiari eccitamenti a spiegarlo su campi meno lontani, ed in più sante battaglie; e maggiormente poi per gli indirizzi gratulatorj da molte parti d’Italia inviati a Cavour, al quale gli Emiliani ispedirono Commissione a rammemorare il patto fraterno che legava que’ popoli a' subalpino; ed i Toscani gli coniarono una medaglia, portante la sua effige, col-motto, Colui chela difese a viso aperto.

Infatti le proteste di Cavour al Congresso e nel Parlamento, indicavano al popolo italiano la insegna intorno alla quale doveva rannodarsi, ed a ciò contribuirono potentemente il consiglio e l’opera di illustri patrioti, in passato propugnatori di repubblica, primissimo de' quali Daniele Manin. Caduta Venezia, egli si era stabilito a Parigi dove conduceva vita illibata, poveramente facendo il maestro; bellissimo esempio e solenne rimprovero a parecchi i quali offuscarono con vanti indecorosi il merito delle cose o fatte o sofferte per la patria, e mendicando ed adunghiando indecorose mercedi. Riverito dai democratici più temperati, voluto amico, od almeno rispettato da tutti., egli coll’ansia dell’esule seguiva le vicende d’Italia, e spiava i modi che le potessero apparecchiare meno infelici destini. Mente perspicace, cuore leale com’era, egli dall’ampio orizzonte politico di Parigi ben vide e comprese, come, nelle condizioni in. che trovavasi, e, secondo ogni verisimiglianza, sarebbesi per gran tempo trovata l’Europa, fosse vano e pernicioso pensare a repubbliche, e come d’altro canto senza forte unità fosse impossibile all’Italia conquistare e mantenere la sospirata indipendenza; e, sebbene affranto dai dolori, si diede con alacrità giovanile a sviluppare questo concetto con varj scritti su effemeridi nazionali e straniere, sforzandosi di persuaderne le frazioni, nelle quali scindevansi i liberali d'Italia. Né egli veramente aveva atteso il Congresso di Parigi; ma ponderata tutta l'importanza della spedizione piemontese nella Crimea, fino dal 6 gennajo aveva pubblicato una lettera, allo intento di concretare un grande partito nazionale.

«Sia (in quella diceva) la iscrizione della bandiera nazionale: Indipendenza, unificazione. Ho proposto questa formola, ho mostrato questa bandiera, ho invitato a schierarsi intorno tutti i sinceri patrioti italiani; ed ho motivo di credere che lo invito non sia rimasto senza frutto. Al di fuori del partito puro piemontese, e del partito puro mazziniano, v’è la grande maggioranza dei patrioti italiani. Questa, per diventare grande partito nazionale, ed assorbire gli altri, aveva bisogno d'una bandiera propria, che ne esprimesse rettamente le aspirazioni. Essa ora esiste. Il partito nazionale dovrebbe costituirsi sotto l’influenza d’una idea di conciliazione, d’unione, di concordia, al di fuori dei partiti che rappresentano idee di disunione e di discordia. Il partito nazionale comprenderebbe patrioti realisti e repubblicani; vincoli d’amore e di concordia fra loro sarebbero la comunione dello scopo, e la risoluzione di sagrifìcare le loro predilezioni di forma politica, in quanto pel conseguimento di quello scopo fosse richiesto. Bisognerebbe rendere più intima questa unione, più forte questa concordia, trovando modo di fondere le due frazioni in guisa, da costituirne uni tutto compatto; perciò si esigerebbero concessioni reciproche, dalle quali potesse risultare un accordo. Nel rinvenire i termini di questo compromesso sta il vero nodo della quistione, ed a scioglierlo devono pensare tutti i veri amici d’Italia. Io per una parte ho proposto una soluzione. Il Piemonte è una grande forza nazionale. Molti se ne rallegrano come d’un bene, alcuni lo deplorano come un male; nessuno può negare che sia un fatto. Ora i fatti non possono dall'uomo politico essere negletti; egli deve constatarli e trarne profitto. Rendersi ostile, o ridurre inoperosa questa forza nazionale nella lotta per la emancipazione italiana, sarebbe follia. Ma è un fatto che il Piemonte è monarchico; è adunque necessario che all'idea monarchica sia fatta una concessione, la quale potrebbe avere per corrispettivo una convalidazione dell'idea unificatrice.... Il partito nazionale, a mio avviso, dovrebbe dire: Accetto la monarchia,purché sia unitaria; accetto la casa di Savoja, purché concorra lealmente ed efficacemente a fare l'Italia, a renderla indipendente ed una, o se no, no.... Bisogna pensare a far l’Italia, e non la repubblica; a far l'Italia, non ad ingrandire il Piemonte. L’Italia col re sardo: ecco il vessillo unificatore. Vi si rannodi, lo circondi, lo difenda chiunque vuole eh l’Italia sia, e l’Italia sarà».

Così, nel mode più solenne e preciso, veniva alla nazione enunziato il concetto nel quale, dopo i casi del 6 febbrajo, avevano intraveduto salvezza parecchi repubblicani, Saliceti, Montanelli e Lafarina, che sino d’allora accontatisi, deplorando le fraterne discordie, proponevano di secondare quel Governo, qualunque e’ fosse, che prendesse a propugnare l’indipendenza e l’unione d’Italia in un solo regno ((1)). E dietro gli accennati, altri moltissimi d’intatta riputazione tra i democratici e grandissima parte dei costituzionali aderirono al programma dell’antico dittatore di Venezia. Così l'avessero fatto sinceramente quanti avevano dedicato pensiero e braccio alla patria! quante forze morali e materiali non si sarebbero più. tardi logorate in perniciosi ed imprecati conflitti! ma non precorriamo agli eventi.

Se la nazione italiana comprese l’alto significato delle parole e degli atti del ministro di Vittorio Emanuele, non lo compresero meno i principi italiani ed i loro Governi, pur celando la paura sotto le forme dello sdegno e del disprezzo. Il duca Francesco I d'Este scriveva allo imperiale cugino, lo interesse e la dignità comune richiedere che si mettesse prontamente freno alla piemontese insolenza; Ferdinando II al suo ministro degli affari esteri imponeva di trovar modo a castigare lo scandalo sollevato dal conte Cavour; Baldasseroni, pur ridendosi dalle bravate cavouriane, scriveva a Leopoldo, la questione italiana posta sotto falso aspetto dal Governo sardo, essere questione territoriale che minacciava tutti. E quant’érano quelle voci, si fecero udire accusatrici a Parigi, a Londra, a Pietroburgo, ma anzitutto a Vienna; donde il conte Buoi scrisse ai rappresentanti austriaci, verissima l’asserzione di Cavour al Parlamento della immensa distanza che correva tra i principj politici professati dai due gabinetti: la nota presentata dai legati sardi al Congresso non essere che un libello contro l’Austria; legittimo lo intervento armato di questa negli Stati italiani, perché conforme alle sue massime, e voluto dai principi; in' giusto, al contrario ed intollerabile da parte della Sardegna arrogarsene la difesa; non i mezzi di repressione adoperati dall’Austria, né la sua presenza armata agli altri Stati mantenere il fermento e l’irritazione in Italia, ma le incessanti manovre del partito sovvertitore, e gli infuocati discorsi del Parlamento piemontese; del resto prontissimo lo imperatore a richiamare sue milizie appena i principi si dichiarino sicuri contro i rivoluzionarj, ad ottenere il qual risultato, l’Austria non escludeva le sagge riforme, che anzi aveva incessantemente raccomandate ai Governi della penisola, con tutti i riguardi dovuti alla loro indipendenza; soggiungeva che persuaso dal canto proprio, l’attacco del conte di Cavour movere dal bisogno d’un successo parlamentare, attendeva con piè fermo gli avvenimenti, fidando che i Governi italiani, al paro all'austriaco assoluti, ne avrebbero, imitato il contegno, pronto sempre a respingere ogni attacco ingiusto, da qualunque parte venisse. Il ministro di re Vittorio Emanuele commise la facile confutazione di quello scritto ai giornali, che lo fecero senza il riserbo cui almeno nelle forme sarebbesi imposto; co§ì la vertenza passò nel dominio della opinione pubblica non solo in Italia, ma in Inghilterra ed in Francia, dove se il Piemonte contava arrabbiati nemici, non gli mancavano favorenti ed amici. Ragione poi del silenzio da Cavour mantenuto si fu l’aquistata certezza che i gabinetti di Parigi e di Londra non intendevano lasciarsi trascinare-di subito ad una rottura coll’Austria, come ei lusingavasi prima di ritornare a Torino ((2)). Epperciò, sempre deciso a rimaner saldo, conobbe necessaria prudenza, e non indietreggiare, smettere Ji sua foga bellicosa, e lasciare, sotto pericolo di trovarsi abbandonato, che le cose prendessero quello sviluppo lento ch’era nei disegni delle Potenze, attendendo in disparte l’esito delle sollecitazioni di riforma, che dovevano essere poste alla reggia napoletana. Il Governo borbonico erasi associato alle proteste dell’Austria contro l'ingerimento preso dal Congresso di Parigi negli affari interni degli Stati italiani, ed aveva insistito con forza (argomento di cui il conte Buol non poteva far uso) sulla sconvenienza assoluta che il Congresso si occupasse di uno Stato che non aravi rappresentato; ma con questo esso porgeva appiglio alla risposta delle Potenze occidentali. Di chi era la colpa se i plenipotenziarj di Napoli non erano stati ammessi-alle conferenze? Ferdinando II era stato il solo principe in Europa, il quale non avendo voluto dichiararsi, durante la guerra, erasi per altro dimostrato propenso alla Russia, raddoppiando le, amichevoli dimostrazioni. Fattasi poi la pace, il suo' Governo non aveva cessato di adottare misure, che accennavano ad uno stato di guerra, gravose ai sudditi, ed intorno alle quali gli oratori francese e britanno avevano fatto osservazioni inascoltate.

Fu allora che il conte Walewski, ministro degli affari esteri in Francia, inviò a Brenier, ambasciatore a Napoli, una nota, la quale riassumeva le querele che potevano giustificare lo intervento diplomatico delle Potenze occidentali. In essa protestava come il congresso di Parigi, convocato per conchiudere ed assicurare la pace in Europa, non potesse rimanere indifferente alla presenza di certe cause, che presto o tardi avrebbero potuto comprometterla. Diceva che una delle condizioni essenziali alla pace europea era la conservazione dell’ordine e della tranquillità in Italia.

«Noi siamo convinti che la situazione attuale tanto di Napoli come della Sicilia, costituisce un serio pericolo pel riposo d’Italia, e questo pericolo che minaccia la pace dell'Europa doveva necessariamente fissare l’attenzione del Governo imperiale; in ogni caso esso ci impone un dovere, quello di tener desta la sollecitudine dell'Europa, e la previdenza degli Stati più direttamente interessati a scongiurare deplorabili evenienze. Noi abbiamo adempito a questo dovere prendendo l'iniziativa in seno del Congresso; noi la adempiamo egualmente facendo appello allo spirito stesso di conservazione del Governo delle due Sicilie, iì quale darà prova delle sue buone intenzioni col farci conoscere le misure che egli avrà creduto conveniente adottare».

A questa nota, non volendo accondiscendere, era facile cosa il rispondere, ed il ministro Caraffa non tardò a farlo dichiarando che nessun Governo aveva il diritto di ingerirsi nell'amministrazione interna di un altro Stato, e sopratutto in quella della giustizia; che il mezzo immaginato per mantenere la pace, era causa delle rivoluzioni, che re Ferdinando aveva sempre usata la massima clemenza e generosità verso i traviati, e se in allora noi faceva si era per la provata insufficienza di questo mezzo; il re, giudice solo de' bisogni de' suoi sudditi, non mescolandosi negli affari degli altri Stati, non avrebbe permesso ad alcuno intromettersi ne’ proprj; che la pace d’Italia non verrà turbata per nulla quando i male intenzionati, destituiti di ogni esterno appoggio, fossero abbandonati alle leggi del regno. In questa maniera acerba, ma in ogni modo legale, il Governo di Napoli prendeva la sua posizione davanti al Congresso, e davanti alle insinuazioni della Francia, ed a quelle che non erano meno giuste, ma forse più interessate, della Inghilterra. Ferdinando non si dissimulava quanto di pericolo avvolgesse tale condotta, ma egli fidava nell'Austria, e più fidava in sé stesso; epperciò diedesi a spingere i già cominciati bellicosi apprestamenti.

Armava da tutte ’ parti: riorganizzava l'artiglieria lungamente negletta; completava i reggimenti svizzeri; disponeva intorno a Napoli cinquantamila uomini da riunirsi ad un cenno; e sotto mostra di spedire truppe in Sicilia, dove risvegliavasi lo spirito rivoluzionario, metteva in pronto legni da trasporto e da guerra. Allora le Potenze occidentali si trovarono, senza affatto volerlo, impegnate su d’una via conducente a pronta rottura; per evitarla era d’uopo far sosta, ed accettare qualunque lieve soddisfazione. Dichiararono adunque a Ferdinando come sarebbonsi tenute soddisfatte se in cambio di generale amnistia avesse acconsentito a concederla a coloro, che ne lo supplicassero. Personaggi sinceramente devoti al re, il principe di Petrulla ambasciatore a Vienna, i generali d’Ischitella e Filangeri, il principe Carini ambasciatore a Londra, e persino il famoso Del Carretto, così odiato nel 48 e divenuto quasi popolare nel 56, tanto era stato il progresso della reazione, propendevano a spedienti conciliativi: ma il re stette saldo; e per tutta risposta fece piantare nuove batterie lungo le coste, fortificare Capua e Gaeta, conferendone il comando al conte D’Aquila, con ostentate istruzioni di respingere ogni assalto o di demagoghi o di esterno nemico. Francia ed Inghilterra, punte sul vivo, richiamarono i loro ambasciatori, e ruppero e relazioni diplomatiche.

Il 28 ottobre Brenier ministro dì Francia, ed il primo secretano della legazione britannica, abbandonarono la capitale ito mezzo alle dimostrazioni le più vive di simpatia, anzi di una vera agitazione popolare: e poiché gli ambasciatori napoletani a Londra ed a Parigi non accennavano a muoversi, quei Governi inviarono ad essi i loro passaporti, per altro ben risoluti a non procedere più là nei tratti ostili.

Mentre queste cose accadevano, altre si aggiungevano a tenere agitato il pubblico, ed a preoccupare gravemente il Governo. In una perquisizione fattasi all’avvocato Mignona, si rinvennero un programma di Mazzini ed una lista di nomi, e fu aperto un processo per cospirazione. Fra gl’incolpati, strana miscela, figuravano due preti, una religiosa, due uomini di legge, quattro forzati. Il pubblico dibattimento si fece sotto la presidenza del Grimaldi, magistrato di grande reputazione, e l’interesse destatosi fu tanto, che parecchi membri del corpo diplomatico, vollero assistervi. Inanimito dalla loro presenza, il Mignona, principale accusato, allo aprirsi della seduta domandò se avrebbe avuto facoltà di difendersi. Sulla affermativa del presidente, egli cominciò rompendo in querele d’aver veduto gli interrogatorj falsificati, d’aver subito torture morali e fisiche, e segnatamente d'aver ricevuto cinquanta colpi di bastone. I dibattimenti aperti con tali auspicj, proseguirono fecondi di strani casi. Avendo un Raffaele Ruggero, monaco agostiniano, deposto favorevolmente agli inquisiti, il procuratore generale alzasi a un tratto, grida pazzo il teste, e vieta che sia udito più a lungo: ma poi con incoerenza manifestalo pone fra gli accusati. Finalmente il pubblico ministero pronunciò la sua requisitoria, e domandò la pena capitale per Mignona e per Noè, per gli altri la galera.

Il tribunale dichiarò non eravi stata cospirazione, ma solamente progetto; talché Mignona venne esiliato, e le altre pene furono mitigate, rimanendo onore di coraggio al tribunale, cadendo nuova odiosità sul Governo. Appena sopito il rumore di questo affare, pronunciossi l’agitazione in Sicilia; pareva che tutto cospirasse a realizzare le previsioni delle Potenze occidentali.

Il 22 novembre alcuni patriotti siciliani aggruppatisi intorno al barone Bentivegna, già deputato al Parlamento del 48, tentarono di chiamare all armi i loro concittadini, e di levare la bandiera della insurrezione. Non avendo trovato appoggio nelle popolazioni tra Messina e Palermo, parte rifuggitisi in un bosco caddero in mano alle milizie; altri si ritirarono a Cefalìi, e furono arrestati più tardi. A Messina nulla accadde, tranne l’affissione di scritte: «Viva il principe ereditario, Viva la libertà, Viva la Costituzione del 1812, che furono ben presto strappate dagli agenti della polizia. Bentivegna e parecchi dei capi, giudicati sommariamente, furono passati per le armi; altri, condannati a morte dai tribunali ordinarj, ebbero, tranne un solo, commutazione di pena da Ferdinando. In questa circostanza il Governo gareggiò di sconsigliatezza cogli insorti, giacché quelli con poveri mezzi e relazioni scarsissime s’avventarono ad una impresa superiore di troppo, ed il Governo, che teneva guardata l’isola dalle migliori sue truppe nazionali e svizzere, poteva far pompa di sicurezza e di generosità, risparmiare al tutto i supplizj, e soddisfare i desiderj delle Potenze occidentali.

Nel successivo dicembre un attentato di natura riprovevole, che poteva avere le conseguenze più gravi, ebbe luogo in Napoli. Era il giorno della Immacolata Concezione, ed il re colla famiglia, cogli alti funzionarj dello Stato e della città, dopo avere assistito ai riti religiosi, passava in rassegna venticinquemila uomini, quando un giovine soldato Agesilao Milano, esce dalle file, gli si avventa contro, vibrandogli un colpo di bajonetta. Sviata l'arma dalla sella, il re non fu che tocco assai leggermente, e Milano squilibrato lasciò cadere il fucile; investito, ed atterrato da un ufficiale d’ordinanza, venne tradotto in carcere. Ferdinando, senza molto scomporsi, impose calma col cenno agli astanti, onde non si sgomentasse la regina, che a poca distanza lo seguiva in carrozza, e continuò la rivista. La giornata fu chiusa colle congratulazioni del corpo diplomatico, colle luminarie, e coi viva della moltitudine. Milano fu condannato a morte. Il tribunale aveva dichiarato, che questi non aveva complici, e la prontezza della sua morte ne era in qualche modo la prova; ma la polizia, o sospettando, o sapendo altrimenti, cominciò perquisizioni e catture; nuovi locali si destinarono ad uso di prigione; arrestati ed inquisiti antitichi furono posti in libertà per far luogo ai recenti; le lettere si dissuggellavano negli uffizj; gli studenti e lo esercito furono sottoposti a sorveglianza speciale di una commissione di polizia, e specialmente contro i calabresi abbondavano i rigori ed i soprusi; pareva di vedere in ognuno di essi, un parente, un amico, un complice d’Agesilao Milano.... e ad accrescere, e quasi a legittimare que’ rigori, un giornale clandestino, La libera parola, usciva colla apologia del regicidio: ed encomiava l’eroismo del Milano, paragonandolo a Muzio Scevola, ed eccitando i suoi commilitoni a vendicarlo.

Al finire del 1856. ed al principiare del seguente anno, altri incidenti vennero a mantenere e ad alimentare l'agitazione ed i sospetti. Scaricandosi della polvere da un vascello di guerra, la polveriera prese fuoco e scoppiò, con distruzione di edifìcj, morte ‘di persone, e minaccia della reggia, non molto discosta dall’arsenale. Fu caso od artificio? gli appassionati di ambe le parti pensarono e dissero artificio; il Governo confermò quella opinione con indagini e con inchieste, senza riuscire a nulla, se non fu forse metter voglia di rinnovare il truce spettacolo. Al 4 gennajo, la fregata a vapore Carlo III, carica di fucili, stava per salpare alla volta di Palermo. A un tratto scoppia la santa barbara, con orribile schianto, moltissimi feriti, quaranta morti, e sarebbero stati anche più, se l’equipaggio d’un legno inglese ancorato nel porto non avesse data pronta ed efficace opra a salvare i caduti nell'onde. Questa volta fu persuasione generale che il caso non v’entrasse per nulla. La polizia raddoppiò d’attività non solamente ne’ dintorni di Caserta, dove re Ferdinando erasi ritirato, ma per tutta l’estensione del regno. I suoi rigori accrebbero il malcontento. Nelle Calabrie scorrevano bande armate, e lo atteggiamento accennava a prossima rivoluzione così, che il console degli Stati Uniti non dubitò di chiamare da Genova un legno per proteggere i suoi connazionali in ogni evento.

La rottura delle relazioni diplomatiche colle due grandi Potenze occidentali facendosi ogni dì più sentire per gli imbarazzi molteplici che produceva, ed il Governo volendo uscirne senza concedere nulla, non che ledesse la sua dignità, ma nemmanco porgesse apparenza di soddisfazione, cercò ed ottenne i buoni ufficj della Prussia, la quale, per mezzo del suo incaricato a Genova, fece pratiche officiose presso Clarendon per riannodare le relazioni. Il nobile lord, disposto a transigere, non a cedere, domandava comunicazione del decreto risguardante lo invio dei detenuti politici napoletani sul territorio della repubblica Argentina, ed esigeva che quanti bramassero profittare di quel beneficio, vi fossero autorizzati; ed a ciò Ferdinando acconsentiva; ma il britanno uscì con altri gravami: i nuovi arresti; lo spionaggio eretto in sistema; l'uso della cuffia di silenzio nelle carceri; l’accusa contro la fregata inglese Malacca d’aver venduto polvere da guerra nella rada di Napoli; la pubblicazione di opuscoli ingiuriosi all’Inghilterra. Il Governo napoletano cercò di scagionarsi invano: le sue spiegazioni furono rejette, ed ogni probabilità di ravvicinamento si dileguò; ond’esso, conscio dello isolamento in cui si trovava, con avvedutezza si volse per appoggio al clero ed alla parte meno educata del popolo, sgraziatamente numerosissima, che subivane la influenza. Allora appunto i vescovi del reame in una adunanza avevano creduto di trovare parecchie lacune nei precedenti Concordati, ed a mezzo dei ministri del culto e della pubblica istruzione, presentarono al re i loro voti per conseguire ampiezza maggiore di. giurisdizione e di prerogative. Ferdinando era disposto a questo ed altro; ma repugnava al suo carattere ed alle sue abitudini il cedere, fosse pure ai vescovi ed al papa. Tuttavia, dopo qualche irresolutezza, decise accontentare il clero, non già con nuovo Concordato, sibbene a mezzo di regj decreti. Per essi la Chiesa andò francata da ogni tutela del potere civile; ottenne il diritto di unirsi conciliarmente, senza autorizzazione, e di pubblicarne gli atti, ebbe facoltà illimitata di acquistare, e prender possesso di legati e doni anche in forma estragiudiziale; di sostituire in tutti gli atti giudiziari o finanziarj alla sanzione secolare la vescovile. Furono inoltre fissate nuove norme ai rapporti tra Chiesa e Stato: si regolarono i modi nei quali l’autorità politica dovea concorrere alla esecuzione delle sentenze ecclesiastiche nel caso di materiale resistenza, senza però attribuirle alcun diritto di esaminarle; per la vendita dei beni ecclesiastici era mantenuta la semplice approvazione del potere civile; la censura preventiva fu levata alla commissione sugli studj, ed attribuita ai vescovi; questi dovevano essere uditi in tutte le cause risguardanti cose o persone di chiesa; i processi contro gli ecclesiastici sarebbonsi tenuti secreti; i vescovi avrebbero avuto diritto di domandare al re la commutazione delle pene inflitte, e sostituirvi la reclusione in un convento; l’ispezione delle scuole pubbliche e private affida vasi a' vescovi: un seminario per gli alti studi ecclesiastici doveva stabilirsi a spese dello Stato, ma ai vescovi soli si riserbava il diritto d’inviarvi gli allievi. Codeste concessioni ottennero benissimo l’effetto che il re si proponeva, specialmente presso l’alto clero; ma Roma non mostrossene molto soddisfatta che bramava un concordato; da ciò una certa freddezza tra il pontefice ed il re. Il quale presto fu da ben altre cure avvolto, sebbene al momento, per circostanze indipendenti dal suo ingegno e dal suo volere, dalla moderazione dei nemici, e dall’ajuto degli amici si fosse nell'alte regioni politiche diradata la procella che lo minacciava.

Fino dal tempo delle conferenze di Parigi, Napoleone III aveva dato opera ad amicarsi la Russia, la quale, e piena di rancore coll’Austria, e per risollevare suo prestigio morale in Europa, davagli facile ascolto. L’Inghilterra allora ritornò ai suoi tradizionali legami coll'Austria, lieta anch'essa di uscire dall'isolamento, frutto di sua condotta; e così andavasi delineando quel sistema d’alleanze, che resse la nuova fase politica.

Lo effettuarsi di questo esigeva concessioni reciproche: allora il gabinetto britannico, senza recedere, o disdire quanto aveva fatto di concerto con Napoleone, cessò da ulteriori ostilità verso il re di Napoli; e l'Austria, pur senza far mostra di cedere ad esterni consigli, adottò inusata moderazione in Italia, così riguardo alle occupazioni militari, come riguardo al civile reggimento della Lombardia e della Venezia: con che non solo aggradiva alla nuova alleata, ma s’argomentava di amicarsi le popolazioni, spezzar Parma appuntata contro lei dal conte di Cavour, e mettere inciampi al corso della politica nazionale di Vittorio Emanuele e del suo Governo.

Epperciò, sebbene qualche agitazione mazziniana qua e là non mancasse; sebbene quell’abbominazione degli assassinj politici continuasse a funestare Parma e Carrara segnatamente, dove si rimetteva lo stato d’assedio, pensò anzi tutto a ritirare molte delle truppe d’occupazione. Già dal maggio 1855, acconsentendo alla, richiesta del granduca, aveva richiamato le guarnigioni di Livorno e di Firenze ((3)); ora poi levò i distaccamenti che teneva sparsi per le Marche e per le Legazioni, conservando solo presidio in Bologna ed Ancona; di li a qualche mese anche Parma fu sgombera: cosi salvava l’apparenza, sminuiva l’odiosità, pure mantenendosi in arme nei luoghi di importanza maggiore.

Non mancò nel tempo medesimo di fare officj presso le Corti italiane, acciocché nei loro modi governativi adottassero quelle possibili mitigazioni, delle quali accingevasi a dare ella medesima esempio; ed a quello intento fu stabilito il viaggio di Francesco Giuseppe coll'imperatrìce Elisabetta, sposa di lui, per le province di Venezia e di Lombardia.

L’Austria (disse Napoleone I) è sempre in ritardo d’un esercito e d’una idea». Se, debellato il Piemonte, cadute Roma e Venezia, ella avesse sinceramente accolto pensieri di conciliazione, anziché di astio e di vendetta, conosciuti i limiti della vittoria, ricomposta l'amministrazione del paese sottraendola all’arbitrio soldatesco ed agli uomini esosi, la presenza de' quali soltanto era insulto e provocazione, non dico già che sarebbe riuscita ad amicarsi i Lombardi, farli obliosi delle speranze nazionali, ma certo fra quello abbattimento d’animi, fra quella incertezza, fra quella sfiducia avrebbe potuto ottenere una sosta all’ire, e forse per un qualche tempo rimovere il compimento dei nostri destini. Ora Francesco Giuseppe scendeva col sorriso sul labbro a chiedere conciliazione ad un paese troppo aspramente ed a lungo spoglio, oltraggiato, insanguinato in suo nome; veniva nello istante in cui sopra quello cominciava a balenare il raggio della speranza; quali benefìzj poi, quali vantaggi,quali concessioni arrecava egli che rimarginassero le piaghe, od almeno in parte compensassero de mali e dei dolori sofferti?

Prima di avviarsi in Italia, Francesco Giuseppe fissò con sovrana risoluzione il riordinamento della due Congregazioni centrali di Lombardia e di Venezia già disciolte, e nominò i membri che dovevano comporle. Il 25 novembre fece solenne ingresso in Venezia, dove fu accolto con pompa officiale, ed anche con frequenza di cittadini, ma senza gran dimostrazioni di letizia, le quali poi non mancarono quando il sire cominciò a spargere alcune parziali beneficenze. Rimise al Comune di Venezia il restante del debito incontrato collo Stato nel 1849 per iscambiare la carta comunale in biglietti del tesoro, che ammontava alla somma di ben tredici milioni di lire. Quindi in due lettere indirizzate al maresciallo Radetzkv, accordava intera grazia a settanta individui di Lombardia e di Venezia, condannati per alto tradimento, e levava il sequestro già posto ai beni de' rifuggiti politici, e promise ventimila fiorini annui pei ristauri alla basilica di San Marco. Le quali cose furono accolte con riconoscenza; la città prese un aspetto più animato, e le feste, se non furono degne della antica reputazione di Venezia, riuscirono però tali da soddisfare bastevolmente alla Corte imperiale. Attraversò il Veneto, la Lombardia, e dappertutto si potè scorgere lo stesso dualismo della vita officiale e del sentimento popolare. Applausi vi furono, ma scarsi, e più che da vili transazioni, o da immemore abjettezza dell insubre metropoli, ispirati dalla recente amnistia. Il contegno fu tranquillo e dignitoso, ed arcane intimidazioni, che moveano da' capi del partito nazionale, imposero riserbo anche alle poche famiglie o meno avverse o devote. A Milano l’amnistia diventò generale, e non solo pe’ condannati d’alto tradimento, ma ancora per le colpe minori di perturbazione della pubblica tranquillità, e di rivolta. Il tribunale sanguinario di Mantova, che teneva sempre aperti i suoi processi, venne licenziato collo stesso decreto 25 gennajo 1857.

L’opinione pubblica attendeva con impazienza il momento in cui verrebbero promulgati i decreti relativi alla nuova organizzazione politica ed amministrativa della Lombardia, colla cessazione del Governo militare che aveane fatto strazio sì fiero.

Il 28 febbrajo lo imperatore scriveva a suo fratello arciduca Ferdinando Massimiliano: «Per dare a' miei sudditi del regno Lombardo-Veneto una prova particolare della mia continua sollecitudine pel loro benessere, ho risoluto, confidando nell’alta intelligenza da voi sempre appalesata, di nominarvi governatore generale del detto regno, e di munirvi, come mio rappresentante, dei poteri necessarj, acciocché siate in grado di adempire degnamente il corrispondente mandato nei regno, e di vegliare efficacemente allo andamento giusto e regolare, alla pronta spedizione degli affari in tutti i rami della pubblica amministrazione; di rilevare i bisogni in ciò che risguarda lo sviluppo intellettuale e materiale del paese, e di prendere a tempo energica iniziativa per le misure e le istituzioni possibili ad essere accordate. Voi risiederete alternativamente a Milano ed a Venezia; io vi faccio dovere di impiegare costantemente tutti i poteri che vi ho confidati al mio servizio ed al benessere del paese, di cui la prosperità mi sta tanto a cuore».

Nel giorno medesimo il maresciallo Radetzkv riceveva sovrano rescritto, che gli accordava il domandato riposo, e metteva a sua disposizione le ville reali di Stra, di Monza, di Milano, i palazzi Augarten, dì Hetzendorf, e lo stesso imperiale di Vienna. Per altri decreti, il conte Giulay fu nominato comandante del secondo corpo d’armata, e comandante generale nel regno, nella Carinzia e Carniola, e nelle provincie marittime. Luigi de Kilbeck fu presidente del Governo civile in Milano, e capo della cancelleria dell’arciduca. Si diedero poi decorazioni del Toson d’Oro, della Corona di Ferro, e del nuovo ordine di Francesco Giuseppe a signori e prelati, o già benemeriti dell’Austria nelle passate vicende, o che il Governo sperava di attirare al proprio partito. Ma tra gli sforzi e le illusioni pacifiche non mancavano incidenti a mostrare che le esigenze e le concessioni erano ben lontane ancora dallo scontrarsi. Ed in vero, salve piccole e lievi riforme, nulla in sostanza s’era toccato del generale ordinamento; ché, se la persona e le intenzioni dello arciduca Massimiliano erano degne di rispetto, i suoi decantati poteri si riducevano a ben poca cosa; gli officiali dell’esercito non avevano smesso per nulla il loro piglio arrogante e beffardo, e ad ogni tratto, si può dire sotto gli occhi stessi dell’imperatore, accadevano collisioni, che mostravano anco ai meno veggenti come il fuoco covasse sotto la cenere, e come il sentimento patriottico si andasse invigorendo, e trasse alimento da quelle agevolezze medesime, colle quali l’Austria sperava almeno di assopirlo o di traviarlo.

Egli è innegabile che ad alimentare quello stato di inquietezza negli animi de' Lombardo-Veneti servivano il contegno ed i maneggi de' capi del partito rivoluzionario, l’emigrazione d’oltre Ticino, e sopratutto la politica del conte di Cavour.

Nel giorno in cui l’imperatore d’Austria metteva il piede nella capitale lombarda il municipio di Torino decretava la accettazione ed il pubblico collocamento di una statua monumentale, opera dello scultore Vela, che i Milanesi offrivano in segno di fratellanza, all’esercito sardo; rappresenta un alfiere, che tiene in atto di difesa e di minaccia levata la sua bandiera. Dicono, che quando Francesco Giuseppe seppe del dono e del voto, in un accesso di collera volesse subitamente marciare su Torino, e che gli accorsi ministri bastassero appena per impedire lo avventato divisamento. Speravasi che qualche ufficiale di Vittorio Emanuele andasse, giusta la pratica di vicinato, a complimentare l'augusto; nessuno si mosse. Anzi, avendo dovuto un ufficiale sardo passare da Venezia in missione presso Said-bascià, i giornali piemontesi cantarono su tutti i toni lo scopo di questo viaggio, smentendo la voce corsa, che l’ufficiale fosse inviato a Francesco Giuseppe. In questa maniera la Coree sabauda si vendicava dello sprezzante silenzio col quale Vienna avea accolto la comunicazione della morte delle due regine, tanto più notevole, poiché entrambe di sangue imperiale.

Riaprivasi al 7 gennajo, il Parlamento subalpino, e re Vittorio, dopo avere esposto qual parte l'esercito avesse avuto nella spedizione della Crimea, quale la diplomazia nel Congresso di Parigi, «È la prima volta, (diceva) che ad una Potenza italiana fu dato difendere gli italiani interessi ad una adunanza europea. La necessità di migliorare la sorte della penisola fu dimostrata, ed il mio Governo continuerà ad operare in questo senso.... Le dure prove che coll'ajuto della Provvidenza abbiamo superato; le grandi opere condotte a termine in mezzo a difficoltà finanziarie inaudite; la parte che noi abbiamo preso alla politica europea, mostrarono fino alla evidenza la efficacia e la bontà delle istituzioni dal mio magnanimo genitore date a suoi popoli. Fatte più solide dal tempo, fecondate dalla unione intima del trono colla nazione, elleno assicureranno alla nostra patria un avvenire di prosperità e di gloria».

In attesa della definitiva costituzione delle Camere, il conte Alfieri di Sostegno ebbe la presidenza del Senato; Carlo Cadorna quella dei deputati, poiché il già ministro Buoncompagni era incaricato di rappresentare la Corte di Sardegna a Firenze.

Non seguirò le discussioni avvenute all'occasione delle interpellanze sulla politica estera, nò quelle intorno alla pubblica istruzione, ed alle quistioni commerciali, le quali, per quanto ne fosse la importanza relativa, non toccavano il vivo della politica, che formava la preoccupazione degli animi, ed in questo il ministero lasciava campo alle singole opinioni di manifestarsi, senza ricorrere all'appoggio de' suoi amici. Ma ben diversamente si comportò quand'ebbe a chiedere una specie di sanatoria per le opere di fortificazione costrutte recentemente ad Alessandria, ed a far approvare il progetto dei cento cannoni onde mettere in istato di difesa la piazza: per ajutarlo nella quale opera, Daniele Manin prese iniziativa di una sottoscrizione patriottica, che corse per tutte le città, segnatamente della Venezia e di Lombardia. Il conte Solare della Margherita combatté la cosa come inutile in sò stessa, e come minacciosa all’Austria; Brofferio rimproverò al ministero di non aver dato l’esempio della obbedienza alle leggi; e Cavour non volendo manifestare. le ragioni vere, porse risposte assai vaghe, però sufficienti, poiché gli stessi oppositori apprezzavano meglio d’ogni altro i motivi taciuti, e servirono a porger campo a nuova brillante protesta di sentimenti nazionali, giacché, meno sai voti della estrema destra, tutto il Parlamento approvò la politica del ministero.

Mentre le Camere piemontesi proseguivano i loro lavori, la Corte di Vienna ogni giorno più lasciava intravedere, che in breve la sua collera proromperebbe. Benché Francesco Giuseppe dovesse riguardare il contegno di Vittorio Emanuele come una rappresaglia, non mancò di adontarsene, tanto più vi si aggiungendo te dimostrazioni di simpatia,inviate, lui presente, da' Lombardi al di là del Ticino, ed il linguaggio irriverente dei giornali piemontesi,che applaudivano fin all’assassino dell’imperatore; ordinò quindi al conte Buoi di far querela alla Corte savoiarda, ed il conte Paar, incaricato degli affari dell'Austria in Piemonte, il 10 febbraio del 1857 ricevette acerbissima nota, di cui dovea dare lettura al conte Cavour. Dopo di avere il ministro viennese brevemente parlato delle accoglienze avute in Lombardia dallo imperatore, e lamentato, che se negli animi dei sudditi italiani di Sua Maestà rimaneva ancora freddezza, diffidenza ed inquietudine, era dovuto specialmente alle insinuazioni straniere,proseguiva: e Egli è anzitutto l’atteggiamento del Governo piemontese, che ha ferito i sentimenti dell’imperatore. Infatti la stampa piemontese, fedele alle sue abitudini abjette ed al suo odio sistematico contro l’Austria, ha preso l’impegno di mostrare i recenti avvenimenti di Milano sotto una luce opposta alla verità dei fatti. La dominazione dell’Austria nel regno Lombardo-Veneto, rappresenta come priva di qualsivoglia titolo legittimo, e come sorgente unica di tutti i mali della penisola; la calunnia e le ingiurie versate su tutti gli atti del Governo sull’augusta persona dello imperatore, e su coloro che gli sono devoti; l’insurrezione e persino il rigicidio predicati come unici mezzi di liberare l’Italia da quello che si dice giogo straniero, ecco i temi che i giornali piemontesi negli ultimi tempi hanno svolto con un raddoppiamento di fiele e di virulenza...

Di fronte a questi attacchi, diretti contro una Potenza amica e confinante, il Governo sardo, imponendosi un contegno il più completamente passivo, si è per lo meno esposto al sospetto di non averli voluti scoraggiare. Né ciò è tutto: appelli indirizzati agli stranieri per farli concorrere a sottoscrizioni clamorosamente aperte per rinforzare il sistema difensivo dei Piemonte, che nessuna Potenza intende minacciare; il ricevimento officiale di pretese deputazioni delle nostre provincie italiane, recantisi ad esprimere la loro ammirazione per una politica che il loro Governo disapprova; infine l’accettazione di un monumento offerto da sudditi del? imperatole in commemorazione dei fatti d’arme dell’esercito «ardo, sono altrettante dimostrazioni offensive, le quali, per essere calcolate sulla troppo facile credulità del pubblico non offrono meno un lato gravissimo...»

La nota continuava accusando il Governo sardo di alimentare le passioni rivoluzionarie, e di associarsi alle speranze di coloro, che avrebbero voluto infrangere i trattati, e cassare le divisioni territoriali attualmente esistenti in Italia; e metteva fine intimandogli minacciosamente di designare i mezzi ohe avrebbe adoperati, e di dare garanzie, per far cessare simile stato di cose. Dieci giorni dopo, Cavour rispondeva. Toccate dapprima le accuse mosse contro il Governo di re Vittorio, protestava non voler difendere gli eccessi che la stampa piemontese si permetteva contro la persona dell’imperatore; ma negava, che potessero arrecare od avessero apportato serj imbarazzi al Governo imperiale, od influito sulla opinione dei Lombardo-Veneti, appoggiandosi alle asserzioni del conte Buoi istesso intorno alle accoglienze avute dall'imperatore nelle città italiane; citava gli attacchi violenti; ed acerbi contro l’Austria dei giornali belgi ed inglesi, che pur non avevano impedito all’Austria di cercare appoggio ed alleanza dall’Inghilterra, e di mostrarsi orgogliosa dei buoni rapporti stabiliti con quella Potenza; e dichiarava, che, quanto alle offese contro la persona dell’imperatore, egli sarebbe soddisfatto assai se il Governo imperiale lo avesse posto in condizione da usare mezzi efficaci a punirle ed a farle cessare. Ma, proseguiva, ascoltando le amare querele che il conte Buoi volge alla stampa sarda, si sarebbe tentati a credere che la stampa austriaca conservi, rispetto ai sovrani ed ai Governi stranieri, la misura più perfetta, e ch’ella non passi mai i limiti fissati dalla moderazione e dalla convenienza. Nulla di tutto questo. Anzi, al contrario, i giornali austriaci, e sopratutto quelli che si pubblicano in Lombardia, sono zeppi d’ingiurie e di attacchi contro il Governo sardo, e non risparmiano per nulla la persona del,re e dei membri della sua augusta famiglia. Mi sarebbe facile appoggiare a numerose prove quest’ultima asserzione; io mi limiterò a ricordare il linguaggio dei giornali di Milano e di Verona riguardo ad un’augusta principessa, prossima parente dell’imperatore -d’Austria, linguaggio il quale motivò energiche rimostranze da parte della Corte reale di Sassonia. Se il signor De Buoi ha ragione di lamentarsi intorno alla violenza di una stampa interamente libera, che non penetra £unto negli Stati austriaci, che cosa potremmo dir noi d’una stampa sommessa a censura severa, che non rispetta né le istituzioni, né gli uomini politici del nostro paese, e che circola liberamente fra noi? Nel Piemonte, se è libero l'attacco, lo è altresì la difesa, e l’Austria, attaccata da una parte della stampa, è difesa non solamente dai giornali che ci vengono dal di là del Ticino, ma ancora da un certo numero di quelli ohe si pubblicano negli Stati del re. In Lombardia, al contrario, l’attacco solo è permesso: i giornali vi riproducono impunemente gli articoli più odiosi dei fogli che fanno opposizione al Governo del re, e contengono frequentemente ingiurie ed insinuazioni personali contro gli uomini di Stato del Piemonte, che muovono la stessa nausea che alcuni fogli sardi fanno provare al conte Buoi. Non è tutto ancora. Il conte Buoi accusa il Governo del re di starsene indifferente dinanzi alla polemica infiammata dei giornali. Certo non si può dire altrettanto dell’Austria. Gli articoli, che contengono i giornali ufficiali, ispirati dal Governo imperiale, provano che il gabinetto di Vienna sanziona e dirige gli attacchi de quali noi siamo l’oggetto. In verità, dopo aver letto un articolo di fondo della Gazzetta ufficiale di Milano, di cui la sorgente non può essere dubbia, e nel quale i ministri del re sono paragonati a Robespierre ed a Cromwell, fa meraviglia l'acerbità dei lamenti, che la tolleranza degli uomini di Stato piemontesi ispira al conte Buoi. Ribattute quindi le accuse di incoraggiare dottrine funeste, di lasciar scalzare i fondamenti del trono, e di distruggere il sentimenti monarchico; e di avere provocato dimostrazioni negli altri Stati d’Italia; scagionato il Governo del re circa il monumento da erigersi in Torino all'esercito sardo, destinato a ricordare specialmente la guerra di Crimea, sul quale dichiarava non permetterebbe segno od allusione che potesse offendere la suscettibilità dell’Austria o del suo esercito, conchiudeva:

«Dopo aver risposto ai rimproveri del ministro imperiale, io potrei alla mia volta enumerare gravami, ai quali ha dato luogo la condotta del Governo austriaco verso di noi, dai sequestri posti ai beni de' Lombardo-Veneti divenuti legalmente sudditi sardi fino all’espulsione violenta e non motivata da Milano d'uno dei membri più distinti del Senato del regno. Io preferisco di non seguitare il ministro austriaco sul terreno delle recriminazioni, per non avvelenare un a discussione, che non potrebbe portare vantaggiosi risultati ai due paesi.»

Forse fu solo dimenticanza non aver toccato delle fortificazioni di Alessandria, intorno alle quali era facile il dire che nessun trattato impediva di farle, mentre l’Austria fortificava la non sua Piacenza.

Il Governo viennese avea ceduto ad un assalto di collera, e non dovea tardar molto a pentirsi; la risposta di Cavour non gli dava alcuna soddisfazione, ed esso non poteva rimanere sotto il pe$o della argomentazione vittoriosa, massime dopoché la pubblicità data alle due note, gli faceva punto d’onore il non recedere. Ma d'altronde il conte Buoi non voleva assumere la responsabilità dinanzi all’Europa d’una rottura; nò poteva dimenticare quello che lord Palmerston aveva detto alla Camera dei Comuni:

«Se il Piemonte fosse minacciato, é dovere della Francia e dell Inghilterra ajutarlo con ogni sforzo. La sola esistenza di questi legami d’onore tra la Francia e l’Inghilterra da una parte, ed il Piemonte dall'altra, bastano a proteggerlo, se non dalla minaccia del pericolo, certo contro il pencolo stesso».

Sollecitato in due sensi opposti, il ministro austriaco prese una via di mezzo; richiamò il rappresentante imperiale da Torino, dichiarando che ciò non di meno quello della Sardegna potrebbe rimanersi con tutto agio e tutto onore a Vienna. Cavour non era tale da mostrare cedevolezza indecorosa, ed ordinò al marchese Della Ceva di ritornarsene in Italia.

Liberatosi in simil guisa dalle molestie viennesi, il gabinetto sardo si volse a por fine ad antica questione col principe di Monaco.

La famiglia Grimaldi, bandita da Genova fra i tumulti delle fazioni, appoggiandosi e servendo agli Angioini ed ai Valois, circa la metà del 1300 era giunta a stabilirsi in quella terra. Spodestata dalla rivoluzione francese, venne rimessa nella epigrammatica sovranità dai trattati del 1814-15, il primo dei quali la collocava, come già in antico, sotto la protezione di Francia; il secondo invece sotto quella di Casa di Savoja, della quale i Grimaldi erano vassalli fino dalla metà del secolo XV pei territorj di Mentono e Roccabruna ((4)). Nel 1848 quegli abitanti, irati al principe Florestano per l’abbandono nel quale lasciavali, e per le rapine e le concussioni esercitate da' suoi commissari, e partecipando anch’essi alla commozione gravissima del tempo, si sollevarono, e respinta la Costituzione loro proposta, invocarono Carlo Alberto, che nell’agosto aderì, e fece militarmente occupare Mentone e Roccabruna. Protestò Florestano, e le grandi Potenze lo appoggiarono sì, che la legge di annessione votata dalla Camera dei deputati venne dal Senato respinta; ciò nondimeno le regie truppe non si ritirarono. Nel 1852 era corsa voce, avesse il principe aperto trattative coll’Austria per cederle a prezzo sue ragioni, ma che si opponessero Francia ed Inghilterra; certamente s'erano poso prima opposte che il principe s’accordasse con una società di speculatori, che volevano fondarvi una repubblica modello. Era adunque ben naturale che Hùbner al Congresso di Parigi, ribattendo l'accusa fatta all’Austria di tenere Bologna, Ancona, Modena, Parma e Piacenza, rammentasse quelle non essere la sola parte d’Italia da truppe forastiere occupata. Ma la Corte di Torino, anche non curata la sproporzione enorme esistente fra cosa e cosa, poteva difendersi accampando sue pretese sovrane.

Già sino dal 1850 il re Vittorio Emanuele II aveva fatto estendere una memoria per esporle e sostenerle, il che per altro non aveva impedito alla diplomazia di porgere benigno orecchio ai reclami di Florestano, cui la invasione piemontese lasciava un impero di poche miglia quadrate, popolato da millecinquecento pescatori. In questo tempo il gabinetto di Torino rinnovò l'assalto con nuova memoria, nella quale i fatti sono messi in luce, ed i diritti con abilità e forza discussi e difesi. La sua debolezza stessa attirò qualche interesse al principe Florestano, il quale, o troppo fidente o sconsigliato, propose patti d’accomodamento: la Sardegna gli farebbe una concessione di terreni, in iscambio delle due terre; rinunzierebbe al protettorato di Monaco, cui egli deferirebbe a qualche Potenza vicina, che occuperebbe il dominio colle proprie forze fino a tanto ohe si trovasse mezzo di mettere in piedi un esercito nazionale; finalmente pagherebbe una indennità di quattro milioni.

A codeste proposizioni il gabinetto sardo ne contrappose di più ammissibili. Ricordando come nel 1815 la famiglia Ludovisi Buoncompagni, ridotta alla signoria di Piombino, ebbe per l’isola d’Elba che riunivasi alla Toscana una somma d’indennità uguale ai redditi percepiti dallo Stato nel 1801, proponeva pei Grimaldi simile condizione. Ma Carlo III, in questo mezzo succeduto al padre, non accettò; la differenza fu rimessa ad un arbitrato diplomatico, e prima che decisione si proferisse ben altri principati che quello dei Grimaldi non fosse, dovevano scomparire dalla carta d’Italia.

Intanto, o tratti a rimorchio dai consigli e dallo esempio dell'Austria, o sentendo la forza delle circostanze, anche gli altri principi della penisola accennarono a mitezza fino allora non usata, ma anco questi, tra molto sciupìo di parole, e molto scalpore di parziali beneficenze non mettendo mano al fondo delle costituzioni, né a sostanziali riforme, terminavano, come l’Austria, a null’altro che a dimostrare la fermezza impenitente de' lor consigli, ed a persuadere che vano era mettere in essi qualche fidanza.

Più d'ogni altro mosso da benevolo intento d’amicarsi le popolazioni parve Pio IX. Le accuse nel Congresso di Parigi rivolte al pontificio Governo non avevano avuto, come a Napoli, conseguenze ufficiali per l’astensione che s’impose la Francia, ma bensì quella di erigere maggiormente la opinione pubblica, e di suscitare vivissima polemica tra partigiani e nemici. Ma se gli uni, appoggiati alla stretta legalità, potevano chiedere vittoriosamente al ministro torinese, con qual diritto s’immischiasse negli affari interni d’uno Stato indipendente, non potevano poi con altrettanta facilità confutare la sostanza de' gravami, i quali, anche spogliati delle acerbe esagerazioni di parte, non riuscivano meno serj o meno veri: occupazione straniera, e massimo l’austriaca, odiosa a' popoli, onerosa all’erario, oltraggiosa al principe stesso: grande numero d'esiliati e di captivi per cose di Stato: arbitrio dominante: negletta ed illusoria Esecuzione del motuproprio di Gaeta, che avrebbe dovuto essere norma di reggimento: giurisdizioni ecclesiastiche, clero invadente gli offìcj e le magistrature più eccelse. L’anno 1857 parve promettitore di sani consigli. Dei trecento ((5)) circa imprigionati per cose di Stato, venti ebbero amnistia, gli altri no, perché ritenuti rei di delitti comuni; a ventisette esuli fu permesso il ritorno, tra questi allo Sturbinetti, che tanta parte aveva avuto nella rivoluzione; nel maggio poi il commissario pontificio Amici, e l’austriaco generale Dagenfeld pubblicarono la cessazione dello stato d’assedio in Bologna; e con tali atti Pio IX auspicava un suo viaggio per le provincie adriatiche, dal quale prendevasi argomento a maggiori speranze. Visitate le città dell’Umbria, del Piceno e della Flaminia, e specialmente Loreto, fece lunga sosta a Bologna, dove furono ad ossequio gli arciduchi estensi e toscani, l’infante Roberto I colla madre, il re Lodovico di Baviera, il conte Bissingen per lo imperatore d’Austria, ed il commendatore Boncompagni per Vittorio Emanuele. Annuendo a' preghi di Francesco I e di Leopoldo II, visitò Modena e Firenze, ricevendo splendido accoglimento nelle reggie, meno espansivo ma non indivoto dalle popolazioni, le quali nel loro buon senso sanno distinguere assai bene la religione dalla politica. Ma gli applausi ricevuti da Pio IX nello Stato suo avevano un’altra significazione, e coraggiosamente la rivelarono numerosissimi indirizzi, firmati da ragguardevoli personaggi, invocanti la provvidenza riparatrice del Governo e del principe ai mali ed ai bisogni di sudditi. «Sappia il pontefice (diceano i Bolognesi), e vegga le condizioni vere dei suoi dominj; imperciocché sarebbe la massima disavventura, se dopo la solennità ed il favore della sovrana presenza, dovesse il paese rimanere nel deplorabile disaccordo col Governo». Più particolareggiate ed energiche furono le rimostranze de' Ravennati e d’altre città di Romagna. Ma i sindaci che aveano l’incarico di presentare que’ voti, ne furono dalla prelatura cortigiana impediti ((6)). 

Si stamparono; ed il Governo n’ebbe piena contezza, scarsa o nessuna il pontefice. Il quale tornato a Roma, concistorialmente magnificò le accoglienze ricevute, e mostrandosi persuaso anch’egli, come già Gregorio XVI, e come di solito i re, che tutto andasse nel modo migliore, parve confermarsi nell’avversione alle novazioni ed alle riforme, sua gloria un giorno, e dalle quali ripeteva, vulgare lamento, di non aver colto che amarezze ed ingratitudine.

Mentre Cavour lottava nelle difficoltà inerenti alla grande impresa; tenacissimo ne’ propositi antichi, e dominato insanabilmente dal superbo pensiero che nulla di bene si potesse fare per l’Italia se non moveva da lui, Giuseppe Mazzini gliene accumulava di più aspre, dando moto a nuovi tentativi.

Quello che arrovellava e sospingeva maggiormente all’azione lui ed i suoi scarsi seguaci, si era lo andamento grave e regolato che prendevano in Piemonte le libertà, e delle quali da sett’anni non cessavano predire la immanchevole caduta, ed il vedere come uomini di patriotismo superiore ad ogni sospetto, aderissero a quel sistema, e come gli Italiani, ed in ispecie i Lombardo-V e neti e gli Emiliani, tornassero a guardare fidenti nella reggia subalpina, in re Vittorio, e nel duo ministro. Per questo non lasciavano via, né modo a sberteggiare ed accusare Cavour, non vergognondosi di ripetere sott’altra forma, con altro intento, ma colla giustizia medesima, le accuse che gli scagliavano contro i clericali.

Sperando che uno scompiglio in Francia potesse riuscire a vantaggio della vagheggiata democrazia, Mazzini si mescolò in due congiure contro la vita di Napoleone, che fallirono entrambe. Gli uomini di parte moderata esagerarono senz’ altro la importanza di quelle; ma è chiaro altresì che i nostri non vi, fecero brillante figura, e che Pianori, e Mazzini stesso servirono a confermare la vecchia accusa, che aggrava la nazione italiana.

Sconcertato ne’ suoi piani sopra la Senna, si volse a tramare qualche cosa di nuovo e di grande in Italia. Il paese che più d'ogni altro poteva porgere materia ad una insurrezione, era il reame di Napoli, dove la reazione borbonica aveva mantenuto vivo l'odio nelle classi più colte.

I profughi napoletani, animosi e cupidi di riconquistarsi la patria, facilmente si buttarono alla impresa. Sgomentava il pensiero di riprodurre la tragedia dei Bandiera: occorrevano adunque mezzi, uomini, denari, armi, e Mazzini nulla di tutto questo avendo, s’accinse a trovarlo. Apri una sottoscrizione per acquistare diecimila fucili; ma andando essa a rilento, s’arrestò a più grave fantasia: impadronirsi con un colpo di mano di Genova, degli arsenali, delle casse pubbliche, della flotta, e portare l’insurrezione e la guerra nel regno di Napoli. Genova, oltre alla opportunità che presentava, speravasi connivente, e per la sua tradizionale avversione ai Piemontesi, e pel recente scontento di accresciuti balzelli. Nella notte dal 29 al 30 giugno del 1857, una mano di congiurati si impadronì con agevole artifizio del forte detto il Diamante, ov'erano di guardia quindici uomini ed un sergente, che vi fu assassinato. Altri tentarono sommuovere il popolo tagliarono i fili del telegrafo comunicanti con Torino, e per un istante credettero riuscita la loro impresa. Ma la polizia, la quale, da parecchi giorni aveva un vago sentore di ciò che andavasi apparecchiando, al primo annunzio fu pronta: si fecero arresti, si frugarono molti luoghi, si rinvennero depositi d’armi, ed ogni cosa sfumò.

Ventidue tra i cospiratori evasero: quarantanove furono tratti d’avanti alla Corte d’appello in Genova, la quale proferì la sentenza nel marzo dell’anno successivo, contro i presenti e contumaci. Sei di quest’ultimi, tra i quali Mazzini, Mosti, Mongini, furono condannati a morte; gli altri ai lavori forzati per varj anni, od alla reclusione; otto dichiarati esenti da pena, diciannove non convinti.

Nel giorno del tentativo fallito a Genova, la fazione medesima imprese sommuovere Livorno, chiamando il popolo alle armi. Alcuni sparsi per la città cominciarono coll’aggredire alla spicciolata i gendarmi con stili e pistole, altri in maggior numero si presentarono alla gran guardia, gridando «Viva i fratelli!». Il comandante si accingeva a respingerli; ferito, ordinò fuoco, il feritore restò sul terreno; gli altri si diedero alla fuga ed in piccolo numero si fortificarono in una casa, opponendo fiera resistenza. Quella superata i pochi superstiti furono trascinati in piazza, ed immediatamente passati per l’armi.

I capi della emigrazione napoletana, anziché attendere che fosse assicurato l’esito della rivolta in Genova, avevano preferito trovarsi pronti pel momento in cui le notizie ligure e livornesi sarebbero giunte a Napoli, a sfruttare lo entusiasmo de' partigiani, e lo sgomento della polizia, per farvi proclamare la repubblica. Epperciò fino dal 25 giugno con circa quaranta seguaci s’erano imbarcati sul Cagliari, piroscafo appartenente a società privata, sciolto a viaggiare tra Genova e Tunisi. Si munirono delle carte occorrenti, e sotto specie di mercanzie imbarcarono armi; giunti a bordo, stesero un atto, nel quale dichiaravano d'aver tutti congiurato per iniziare la rivoluzione italiana; che se. il paese non rispondesse all’appello, saprebbero, senza maledirlo, morire da forti, si firmarono in venti, Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera fra i primi: quando furono in alto mare, costrinsero il capitano a dirigersi verso l’isola di Ponza, dove sbarcati a forza, liberavano trecenventisette tra condannati e relegati per la più parte politici, ed armati se li condussero sul Cagliari, volgendone il corso a Sapri, sul golfo di Policastro, dove intendevano prender tetra.

Ma, o reputassero opportuno aspettar novelle dell'alta Italia, o li premesse il pensiero,della propria debolezza di fronte alla gravità della impresa e della responsabilità che incontravano, cercarono persuadere il capitano di sbarcarli in Corsica od in Sardegna; questa fiata colui ricusò fermamente, ed allegando che colla diversione di Ponza aveva consumato il carbone, dichiarò necessario l’approdare a Napoli. Così Pisacane ed i suoi compagni furono indotti a continuare l’audacissimo tentativo. Scendono a terra, ed al grido: «Viva l’Italia, Viva la repubblica», cercano sollevare gli abitanti del litorale, come avevano fatto nell’isola ma nessuno rispose. Agli uni parvero ben pochi per potersi arrischiare a seguirli nel disperato cimento; altri li credettero forzati evasi, che venissero a saccheggiare, ad uccidere; onde quelli, da gendarmi assaliti, non ebbero altro scampo che guadagnare la montagna, per meglio difendersi al bisogno, e celarsi; lo tentarono invano. Dopo un primo scontro, n’ebbero un secondo, e quindi un terzo a Lanza, il 2 luglio, lasciando ottanta uomini sul terreno. Pisacane ferito, fu fatto prigioniero col suo luogotenente Nicotera; Fuschini si uccise per evitare la sorte de' compagni, che, cadendo nelle mani delle guardie urbane, venivano senz’altro passati per l’armi. Pisacane non sopravvisse a lungo; lo dissero morto di ferite, poi fu chiaro che era stato fucilato. Bella intelligenza, cuore intrepido, braccio valoroso perduto per l’Italia! Alcuni degli insorgenti pervennero a riguadagnare il Cagliari, sul quale furono arrestati più tardi. In questa guisa la spedizione finì.

Grandissimo sgomento la prova audace aveva incusso al Governo napoletano. I proclami regj, gli articoli officiali, le corrispondenze officiose, si sbracciavano a provare la devozione degli abitanti, e frattanto gli arresti spesseggiavano, i rigori crescevano nella capitale, nelle provincie, e sopratutto nelle Calabrie, ed alla brama di colpire i partigiani di Pisacane univasi quella di sventare le trame un partito che agognava al ristabilimento della famiglia Murat. E per tale motivo furono arrestati come latori di corrispondenze politiche alcuni capitani della marina mercantile napoletana. Le prove mancarono, gli accusati furono prosciolti, ma non rimessi nel loro comando. Alla Corte criminale di Salerno si fece il processo per l’affare di Sapri, nel quale comparivano ducentottantacinque accusati, superstiti compagni di Pisacane, l’equipaggio del Cagliari, ed abitanti della costa, sospetti di connivenza. L’atto di accusa diede luogo ad una complicazione colla Corte di Sardegna. Portava quello, che il Cagliari era stato arrestato delle regie fregate Tancredi ed Ettore Fieramosca nelle acque di Napoli. Al contrario le deposizioni chiarirono la cattura seguita in altro mare, ed il ministro sardo credette doveroso il reclamare violato il diritto delle genti. In conseguenza domandò al Governo delle due Sicilie immediata restituzione del Cagliari, e liberazione delle persone arrestate, ed avutane repulsa, si volse a cercare l’appoggio delle Potenze amiche, ed inviò ai gabinetti stranieri un memorandum, le conclusioni del quale si fondavano sui principj del diritto pubblico; la cattura in pieno mare non essendo legittima che in tempo di guerra contro i nemici; in tempo di pace contro i pirati. La ragione era evidentemente dalla parte della Sardegna, cui soccorreva ancora lo stesso argomento storico inesattamente citato a proprio favore dal ministro napoletano Caraffa, giacché il Carlo Alberto, che aveva portato in Francia la contessa di Berry, sebbene colto in flagrante ostilità, non era stato per questo dichiarato buona presa dal Governo di Luigi Filippo. La Francia e l’Inghilterra sul primo istante diedero ragione alla Sardegna, giacché il Congresso di Parigi avendo ammesso che la bandiera copre la merce anche in tempo di guerra, ne veniva, che nessuno potesse dubitare la coprisse in tempo di pace. Se non che essendosi, dopo lo evento di cui dirò ben tosto, rallentata l'amicizia tra Francia ed Inghilterra; e quest’ultima, per deferenza all’Austria cui sempre più s’andava accostando, smesso alquanto dell’ardore onde aveva cominciato a sostenere la Sardegna, non prosegui che assai fiaccamente. La quistione s’agitò a lungo; ed il Cagliari non fu rilasciato che dopo due anni, quando già Ferdinando era sceso nella tomba, e la corona vacillava sul capo del figlio.

Ben prima di questa famosa vertenza si chiuse il processo, durante il quale vennero alla luce i particolari della Spedizione, e non mancarono le solite accuse contro il trattamento carcerario, e la pressione agli inquisiti per estorcere confessioni ed accuse. La sentenza ne dannava sette a morte; pena che fu a tutti commutata dal re: duecenquattro all’ergastolo ed a pene più lievi: cinquantasei furono rilasciati.

L’Italia, pure compiangendo ed ammirando i caduti e le vittime, era nauseata delle imprese di Mazzini, che non giovavano né alla indipendenza né alla repubblica, né ad alimentare l'abborrimento alla tirannide, perché apparivano mosse da smania inconsulta di fare, e costavano sangue generoso, che la patria reclamava pei giorni delle sante battaglie. Fu tra l’agitarsi di codesti pensieri che nell’agosto del 1857, il messinese Giuseppe Lafarina, forte ingegno, e per lo addietro caldo repubblicano come Daniele Manin, del quale aveva accettato il programma, fondò la Società Nazionale Italiana, e nell’agosto ne proclamava i principj e lo intento. Gli adepti assumevano l’obbligo morale di accettare e propagare questi dogmi politici: ogni predilezione di forma, ogni interesse municipale o provinciale doversi posporre alla indipendenza ed alla unificazione d’Italia; doversi far causa comune colla casa di Savoja; finché la casa di Savoja sarà per l’Italia, in tutta l’estensione del ragionevole e del possibile. I socj pagherebbero una lira mensile per le spese di stampa; venivano disposti in sezione ed in squadre, e giuravano:

«Benedetta l’arma del valoroso! in essa è la redenzione della patria. Maledetto chi non osa impugnarla!

«Io che la impugno la bacio, e colla mano sul cuore giuro al Dio degli oppressi di non deporla finché l'Italia non sia una, indipendente, libera.

«Mia speranza è Vittorio Emanuele, ed il suo forte esercito. Mia fede politica, il suo trono costituzionale.

«Io voglio la libertà, premio della vittoria: non la licenza a pro dei nemici del nostro risorgimento.

«Voglio la dittatura del re guerriero finché v’abbia un Austriaco sulla nostra terra.

«Noi difenderemo l’ordine, la proprietà, la giustizia, che il despotismo distrusse e contaminò.

«La mia bandiera è la tricolore italiana colla croce di Savoja: il mio grido di guerra: Viva l'Italia, Viva il suo re Vittorio Emanuele». '

Cavour seppe tutto questo, e, senza assumersi responsabilità né vincolare la propria azione, approvò ed incoraggiò, massime dopo che gli fallirono le prove di ravvicinarsi a re Ferdinando ((7)) nella cui alleanza egli ravvisava un modo più pronto e sicuro a conseguire con mezzi nazionali la indipendenza. In mezzo alle cure politiche, alle noje, alle tribolazioni che gli davano il malcontento di Genova e della Savoja, e lo agitarsi moltiforme del partito clericale, non restava dal promovere opere di pubblica utilità, le quali, mentre impongono per la grandiosità del concetto onorano altamente la operosità del piccolo paese che secondollo ad imprese, che avrebbero sgomentato potenti monarchi, e rivelano ancora gli intendimenti che nutriva, e la sua fede ne’ destini d'Italia; e furono specialmente la fondazione dell’arsenale marittimo alla Spezia, ed il traforo del Moncenisio, opera titanica, cui nulla di simile tentarono i secoli passati, ammirando ai futuri.

Nel principiare del 1858, gravissimo caso sopraggiunse ad imprimere moto più rapido alla politica, almeno apparentemente irresoluta, di Buonaparte.

Felice Orsini, dopo essere stato uno de' più ciechi strumenti del cospiratore genovese, divenutogli avverso senza rinunziare non solo alle aspirazioni patriottiche, ma neppure alle idee della scuola, intento a screditarlo ed a sopraffarlo con qualche atto straordinario, che, a suo avviso, potesse in qualche modo tornar utile alla causa, fermò il progetto di toglier via Napoleone, per la forza di cui disponeva e per l’origine rivoluzionaria riguardato il più grave, il più riprovevole tra i nemici del principio nazionale e della democrazia. Sdegnando, audacissimo qual era, di ricorrere all’opera di emissarj, s’accinse in persona al criminoso attentato. Accontatosi in Londra, dove esulava, con Carlo Rudio profugo Veneto, con Antonio Gomez napoletano, con Andrea Pieri lucchese, fermò di recarsi a Parigi, e di cogliere la prima occasione per uccidere lo imperatore col mezzo di piccole bombe, fabbricate in modo, che la caduta ne determinasse immanchevolmente lo scoppio. Nella sera del 14 gennajo, recandosi lo imperatore e la imperatrice con piccola scorta di cavalieri ad una rappresentazione di beneficenza, i cospiratori n’attesero all’ingresso del teatro il cocchio, sotto il quale le bombe lanciate prima che eglino scendessero, con terribil fragore scoppiarono. La vittima designata restò illesa, come pure l’imperatrice; ma i feriti tra la scorta ed il popolo furono circa censessanta, de' quali venti morirono. Pieri, già da Parigi sbandito, venne adocchiato e colto dalle guardie di polizia pochi momenti prima della esplosione; Rudio, che abitava con lui fu di leggeri scoperto; Gomez cacciossi malconcio e spiritato in una osteria; arrestato, diedesi a conoscere come servitore di Felice Orsini, che aveva preso il nome di Allsop; e tutti quattro furono tratti in giudizio. Orsini al dibattimento si portò con dignità e con franchezza, e per mostrare non essere volgare assassino, portò la quistione sopra il terreno politico. Parlò delle sue passate cospirazioni, del 1848, della caduta di Roma.

«Quando i Francesi, che noi avevamo sempre considerati per amici, approdarono in Italia, abbiamo creduto che ci porgerebbero la mano; ma non tardarono a diventar nostri accaniti nemici. In uno dei numerosi assalti, diretti contro di noi, furono respinti, e ne facemmo molti prigionieri. Noi continuavamo a pensare che la Francia è la prima fra le nazioni civili e liberali; che se venivano contro di noi, gli è perché vi erano trascinati, e noi restituimmo in libertà i prigionieri alle grida mille volte ripetute, Viva la Francia, Viva la libertà, Viva l'Italia.

«In qual modo hanno essi risposto alla nostra generosità? Hanno sospeso le ostilità per un mese; ma per aspettare rinforzi. Allora tornarono all'assalto, mille contro dieci, o signori; noi fummo giuridicamente assassinati...: e dopo avere parlato dell’altre sue vicende, di tentativi legali per migliorare le condizioni d’Italia, riprovata la condotta di Mazzini, soggiunse:

«Esaminando le condizioni politiche di tutti i Governi d'Europa, mi sono fissato nell’idea, che vi era un uomo solo in grado di sottrarre il mio paese all’occupazione dello straniero; che quest'uomo era Napoleone III, il quale è onnipotente in Europa. Ma tutto il suo passato mi dava la convinzione, che egli non vorrebbe fare quello che egli solo poteva fare. Confesso adunque francamente che l’ho considerato come un ostacolo, ed allora dissi fra me, che bisognava toglierlo di mezzo.

«Io volea, l’ho detto, far da me solo; ma riconobbi che era impossibile. Allora intorno a me si trovarono uomini, che conobbero i miei divisamente e si associarono meco...»

Giulio Favre recitò a difesa dell’imputato una splendida arringa, deplorando la illusione di voler salvare la patria con un delitto: ma nello stesso tempo rendendo omaggio al carattere elevato e fortissimo dell'Orsini, alla rettitudine delle sue intenzioni e cercando respingere l'accusa accessoria delle numerose vittime dell'attentato 14 gennajo, giusta il principio, che non v’è delitto se non v’è intenzione: è lesse una lettera che lo accusato aveva diretta allo imperatore, nella quale diceva:

«Presso alla fine della mia carriera, io voglio nondimeno tentare un ultimo sforzo per venire in soccorso all'Italia, la cui indipendenza mi fece fino a quest'oggi sfidare tutti i pericoli, affrontare tutti i sacrifizj. Essa fu l’oggetto costante di tutte le mie affezioni, ed è quest’ultimo pensiero che io voglio deporre nelle parole che rivolgo a Vostra Maestà.

Per mantenere l'equilibrio presente dell'Europa, è duopo rendere l’Italia indipendente, o restringere le catene sotto cui l'Austria la tiene in servaggio. Domando io forse per la sua liberazione che il sangue dei Francesi si sparga per gli Italiani? No, io non vado fin là. L’Italia domanda che la Francia non intervenga contro di lei; domanda alla Francia che non permetta all'Alemagna di sostenere l'Austria nelle lotte che stanno forse tra breve per impegnarsi. Ora è appunto ciò che Vostra Maestà può fare, quando voglia. Da questa volontà dipendono il benessere, o le sciagure della mia patria, la vita o la morte di una nazione, a cui l'Europa va in gran parte debitrice della sua civiltà.

«Tale è la preghiera che dal mio carcere oso dirigere a Vostra Maestà, non disperando che la mia debole voce sia intesa. Io scongiuro Vostra Maestà di rendere alla mia patria la indipendenza che i suoi figli hanno perduta nel 1849 per colpa appunto dei Francesi. V. M. si ricordi che gli Italiani, tra i quali era mio padre, versarono con gioja il loro sangue per Napoleone il Grande, dovunque piacque a lui di guidarli; si ricordi che gli furono fedeli sino alla sua caduta; si ricordi ohe la tranquillità dell'Europa e quella della V. M. saranno una chimera fintantoché l’Italia non sarà in. dipendente. V. M non respinga la voce suprema d’un patriota sui gradini del patibolo; liberi la mia patria, e le benedizioni di venticinque milioni di cittadini la seguiranno nella posterità».

Pieri, Orsini e Rodio furono condannati alla pena dei parricidi; Gomez alla galera in vita; la pena fu commutata a Rudio, gli altri la subirono il 13 marzo. Orsini non ismentì fino agli estremi momenti la fermezza del suo carattere, ma senza ostentazione, senza cinismo. Giunto sul patibolo, gridò «Viva l’Italia! Viva la Francia!».... e cadde.

Grandissima in Europa fu la commozione cagionata dall’attentato di Felice Orsini. Se ne rammaricarono gli amici d’Italia, perché vedevano la loro causa macchiata da nuova opra di sangue, e la temevano compromessa davanti alla nazione francese ed al suo potente imperatore; i nemici colsero l’occasione per isfogare il loro mal animo, gettare i soliti vilipendj su tutto il paese, nel quale, sebbene non si mancasse di riprovare il fatto, pure la memoria dell’Orsini era segno di compianto, e circonfusa d'una certa gloria che s’attira sempre l’animo indomito di chi, pure traviato nella mente, affronta la morte per una causa illustre ed infelice. Questo pensiero predominava tanto nella stampa dell’unico Stato nel quale era libera, che ogni altra considerazione gli si dileguava dinanzi; e sembrò davvero che lo irritato sentimento di patria offuscasse negli Italiani il senso morale, poiché si vide andare assolto dai giurati il periodico la Ragione che aveva fatta l'apologia dell’assassinio politico e del regicidio, il cui abborrimento Orsini stesso aveva raccomandato alla gioventù italiana con nobili ed espiatrici parole.

Dopo il 14 gennajo il Governo francese aveva indirizzato all’Inghilterra, al Belgio, alla Svizzera ed alla Sardegna, hote che reclamavano provvedimenti efficaci ad impedire il rinnovarsi di simili attentati. A Londra pe fu indiretta conseguenza il ritorno dei Tori al potere; e la formazione del ministero Derby. Cavour, misurata l’ampiezza del pericolo, affrettossi a porgere al principe Latour-D’Auvergne ambasciatore di Francia assicurazioni le più assolute riguardo la sorveglianza degli emigrati, e che, senza uscire della legalità, si sarebbero con tutto il rigore applicate le leggi in materia di stampa. Infatti il guardasigilli Deforesta succeduto a Rattazzi, alla metà di febbrajo presentò al Parlamento un progetto di legge, pel quale la cospirazione contro la vita del capo d’un Governo straniero era punita colla reclusione, e le liste dei giurati pei processi di stampa dovevano, non più essere compilate per sorteggio, ma composte dal sindaco, assistito da due consiglieri provinciali o municipali. Senonché la proposta trovò negli offìcj aperto sfavore. Qui debbo retrocedere un poca.

Ne’ tempi addietro la porzione meno schietta e più caparbia dei retrivi erasi astenuta da ogni partecipazione diretta al Governo costituzionale; a quella, dopo la scissura con Roma, s’aggiunsero i nemici alle leggi che l’aveano provocata, e tutt’insieme formarono il partito designato col nome di clericale, che combatteva il Governo con sobillamenti, con proteste ed atti palesi, colla stampa, senza che tuttavia impegnasse conflitto serio sull’arena parlamentare, dove rappresentato non era se non se dal piccolo gruppo di deputati della estrema destra, la opposizione de' quali nemmanco potevasi dire compatta e sistematica. Ma avvicinandosi le generali elezioni al finire del 1857, approfittando della indignazione prodotta nel paese perii fatto di Genova (del quale mormoravasi complice un ministro), dello scontento che serpeggiava per le tasse ognora crescenti, ed istigati da Roma e da Parigi, alcuni vescovi ed altri influenti del clero avvisarono abbastanza propizio il tempo alla prova di conseguire una maggioranza nell’aula del palazzo Carignano, e per riuscirvi organizzarono una vera cospirazione alla Mazzini ((8)); comitati secreti con affìgliazioni numerose avvilupparono lo Stato, e la parola, d’ordine mossa dal comitato centrale fu trasmessa agevolmente a tutte le parecchie; i mezzi di cui il clero può disporre, furono messi in opera, e le elezioni aprirono le soglie del Parlamento a molti deputati nuovi, che volohtieri lo avrebbero chiuso per sempre. Rammaricossene il ministro, e s’irritarono i liberali, e gran parte degli elettori stette dell'opera propria confusa e non lieta. Molte voci s’alzarono qua e colà denunzianti frodi, soprusi, illegalità nelle elezioni; la Camera, appena costituita, con ottantatré voti contra sessanta, venti de' quali erano liberali, ordinò un’inchiesta, cui non riuscì difficile constatare la giustezza di quelle accuse; ma poi, gareggiando di illegalità coi clericali, confermò elezioni governative anche viziose; delle avverse, nonché le viziose sole, alcune sincere annullò, applicando nuovo titolo di non eleggibilità: fatto scusabile, non laudevole, meno imitabile, e pur troppo imitato. Le seconde elezioni, avvenute sotto l’influenza di tali fatti, riuscirono favorevoli al partilo più avanzato, a ritenere il quale, Cavour presentiva necessario tanto di sforzo quanto a combattere gli avversar]. Codesta Camera adunque deferì l’esame del progetto di legge sulla formazione dei giurì per giudicare i reati di stampa ad una Commissione, nella quale prevalevano i membri della sinistra con Lorenzo Valerio a relatore, e fu respinto. Interessante ed animatissima fu la discussione che s’aperse alla metà d’aprile. Brofferio, Pareto, Solano della Margherita, parlarono contro; Rattazzi (che colse l’occasione per mostrarsi sempre aderente al ministero, dal quale era uscito poc’anzi) difese la proposta sotto l’aspetto legale; e Mamiani e Buffa ne fecero risaltare la importanza e la necessità politica, e Cavour, con uno di que’ suoi discorsi, i quali avevano il pregio di mettere anche i piccoli fatti in luce tale da farne risaltare l’importanza in ordine alla loro indole ed alle conseguenze possibili, fini col superare ogni opposizione, ed a maggioranza grandissima la legge venne approvata; e non fu certo il minore dei servigi che egli rendesse all’onore ed al bene della nazione ((9)).

Che se i partigiani della reazione cercavano di volgere a vantaggio proprio ih reo fatto del 14 gennajo, accusandone la politica sommovitrice del Piemonte, Cavour bene veggendo come quello gravi od in un senso o nell'altro, dovesse avere le conseguenze, si adoperò onde fossero favorevoli per la causa che tutelava. Epperciò, mentre disponevasi a dare la chiesta soddisfazione alla Francia, dichiarava al principe. La Tour d’Auvergne che, dove si volessero guarire al tutto simili piaghe politiche, bisognava impedire ai tristi Governi italiani di moltiplicare il numero de' banditi; né a ciò si stette, ma spedì all'incaricato sardo in Roma una nota, da comunicare al cardinale Antonelli, nella quale parlava con molto vigore intorno al sistema con dubbia prudenza adottato dal Governo pontificio, segnatamente pericoloso al Piemonte, dove gli esuli romani ammontavano a parecchie centinaja, porgendo alla setta mazziniana sempre nuovo alimento. Scrivendo poi alle legazioni sarde enumerate le conseguenze dell’attentato contro Napoleone, ritoccava lo stesso argomento lo interesse che l’Europa aveva di togliere le cause che intorbidavano costantemente gli umori degli Italiani è l’occupazione straniera; il cattivo Governo negli Stati del papa e del Regno di Napoli; la preponderanza austriaca. Esercitava l'uffizio egemonico assunto così a nome del Piemonte nelle conferenze di Parigi, abituava la diplomazia a sentir parlare dell’Italia, de' suoi mali, della necessità di porre ad essi riparo, ed apparecchiava l’opinione ai fatti ed alle mutazioni che s’andavano maturando.

Poiché, appena scioltosi dalle pili urgenti preoccupazioni, il conte di Cavour, correndo il luglio, recossi invitato a privatissimo convegno, coll'imperatore dei Francesi a Plombières, ed in quello, che fu guardato con sospetto da alcuni, con ischerno da altri, e sul quale si sparsero voci fantastiche od inesatte, furono gettate le basi dell'alleanza fra Napoleone e Vittorio Emanuele, e, senza lo intermedio delle cancellerie, convennero: ajuto armato della Francia nel caso d’una aggressione da parte degli imperiali: fortunate che fossero l’armi e cacciati gli Austriaci dal Lombardo-Veneto, questo coi ducati e col Trentino costituirebbe un regno di dodici milioni d’abitanti sotto lo scettro di Vittorio Emanuele, il quale cederebbe la Savoja. Euvvi ancora chi affermò essersi trattato di dare Napoli a Murat, Sicilia ad un figlio di casa di Savoja, Toscana accresciuta delle Legazioni al principe Napoleone figlio del re Girolamo; ma queste cose, sebbene non destituite di qualche verisimiglianza, per atti e documenti posteriori si chiarirono false. Convennesi in fine che i varj Stati italiani formerebbero una federazione, sotto la presidenza del romano pontefice. Colà fu ancora tracciata la prima linea che doveva condurre al gran conflitto. Fatevi fare la guerra disse Buonaparte al regio ministro; e la attività di lui e de' suoi seguaci ed agenti fu indirizzata allo scopo d’indurre l'Austria a prendere prima le armi: cosa del resto non difficile col contegno del Governo subalpino, colle provocatrici manifestazioni, spontanee ed artificiose, del sentimento nazionale italiano, di fronte all’orgogliosa intolleranza dell’Alta Casa e del gabinetto imperiale.

Questo frattanto, sempre dominato dal conte Buoi, mostrava non accorgersi della falsità di sua posizione, ed ostentando straordinaria sicurezza, forte allo interno, amico dell'Inghilterra, mostrava d'esserlo pure alla Francia; ma in sostanza studiavasi di minarne la politica, e di svisare le conseguenze del Congresso di Parigi, che Napoleone tendeva ogni giorno più ad applicare in senso favorevole alla nazionalità — terribile fantasma dell’Austria.

Nella questione dei Principati Danubiani di Moldavia e Valacchia, le aspirazioni di quei popoli erano state soddisfatte, con vivo dispetto di Vienna, coll’opera della Francia; sul finire del 1858, le due politiche si trovarono ancora di fronte per le cose della Serbia, dove in seguito ad una rivoluzione popolare era stato deposto il principe Alessandro, tutto cosa di Vienna, e creato Milosch, idoleggiato dalle popolazioni. L’Austria, istigata dalla Porta, andava radunando alla muta buon nerbo d’uomini verso que’ confini, e pareva disposta a passarli in ajuto dei Turchi, ad abbattere la rivoluzione, e ristabilire Alessandro. Napoleone sventò gli accordi, ma intanto erasi chiarita l'intenzione dell'Austria di sottrarsi agli obblighi del trattato di Parigi, dov’erasi stabilito che, senza farne partecipi le Potenze che lo avevano sottoscritto, nessuna deliberazione sarebbe presa riguardo all’impero ottomano. Altro argomento a dissidio fu la navigazione del Danubio, alla libertà della quale l’Austria voleva mettere inciampi, adombrando, che collo scambio e colla introduzione delle merci non si effettuasse anche quello più pericoloso delle idee. Per conseguire questo non avendo coraggio di frangere apertamente i trattati, ella dovette ricorrere a mezzi obliqui, a spedienti meschini,, òhe la mettevano in uggia ai gabinetti, in discredito presso gli uomini di Stato, e la facevano oggetto di biasimo alle popolazioni, e ne rendevano sempre maggiore l’isolamento morale.

Ma iT punto più grave di contestazione fra i gabinetti di Vienna e Parigi era pur sempre l’Italia, dove a dire il vero il Governo, per quanto cercasse di atteggiarsi a benigno, concedendo facilitazioni che sarebbero state miracolo venti anni addietro, e per quanto l'arciduca Massimiliano colla splendidezza e con mostrare vivo interesse alla prosperità de' Lombardi, cercasse di amicarseli, era ben lungi dall’ottenere il bramato, successo, perché sebbene generalmente non si dubitasse della sincerità del principe, vedeasi che i suoi poteri non erano, né mai sarebbero stati tali da metterlo in grado di appagare, non già con tratti di personale benevolenza o con lustre di fasto e belle parole, ma con provvedimenti sostanziali e sinceri, le brame antiche quanto modeste. Chi poteva fidar in Vienna? E perché nessuno lo avesse a dimenticare bastava seguire il contegno sprezzante che l'insolente Giulay ed i suoi ostentavano in ogni occasione verso ii Governo civile e verso l’arciduca stesso. Ma d’altro canto non è a dubitare che se anche i poteri di Massimiliano fossero stati pari ai suo buon volere, e quali alcuni se li fingevano, i Lombardo-Veneti abborrivano troppo profondamente da qualsi fosse conciliazione coll’Austria, ed ornai erano intesi a quello che accadeva oltre Ticino: colà s’appuntavano crescienti speranze, s’intrecciavano trame operose, abjettissimi intrighi; mentre la gioventù sincera, disinteressata e bollente, vi spiava il momento ed il segnale per correre all’armi, e ricominciare la guerra d’indipendenza.

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NOTE

(1) Programma 9 aprile 1853.

(2) In una lettera da Parigi diceva: «Credo opportuno andare a Londra, parlare con lord Palmerston, e gli altri capi del Governo; se questi dividono il modo di vedere di 'Clarendon, bisogna preparare segretamente a fare un imprestito di trenta milioni, ed al ritorno di Lamarmora dare all’Austria un ultimatum ch’essa non possa accettare, e cominciare la guerra».

(3) L’occupazione austriaca dal maggio’1849 a tutto aprile 1855 costò alla Toscana trentuno milioni e novecentotredicimila lire.

(4) Question de Menton et Roccabruna, Mémoire avec documente publiée par ordredu gouvernemont tarde.

(5) Coppi, Annali.

(6) Coppi, Annali.

(7) In una delle frequenti conferenze che aveva con Lafarina, Cavour gli diceva: «L’Italia diverrà una, secondo il concetto della loro società, non so se tra uno, due, venti o cent'anni. Ella non è mistero: faccia liberamente; ma badi, che se sarò interpellato alla Camera, o molestato dalla diplomazia, la rinnegherò come Pietro».

(8) Cavour, Lettera a m.(r) De La Rive.

(9) Era un’esigenza straniera, è vero, ma infine non eccedeva i limiti dell'equo e dell'onesto. Quanto poi al gabinetto sardo interessasse il concederla, s’appalesa dalla voglia che i suoi nemici, avevano ch’e’ la rifiutasse. «Il voto (scriveva da Vienna l'inviato toscano Samminiatello del Parlamento piemontese sulla legge Deforesta, permette al conte Buoi di non fare più mistero d'una sua conversazione avuta col barone Bourqueney al momento della partenza di questi per Parigi. Il barone Bourqueney aveva detto al conte Buoi, che se il Piemonte non avesse fatta ragione alle domande della Francia, questa avrebbe spinto le cose agli estremi termini. Al che il conte Buoi rispose, che avrebbe avuto piacere che una lezione fosse data dalla Francia al Piemonte».





Pisacane e la spedizione di Sapri (1857) - Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito
1851 Carlo Pisacane Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49
HTML ODT PDF
1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. I HTML ODT PDF
1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. II HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. III HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. IV HTML ODT PDF

1849

CARLO PISACANE Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma

1855

La quistione napolitana Ferdinando di Borbone e Luciano Murat

1855

ITALIA E POPOLO giornale politico Pisacane murattisti

1856

Italia e Popolo - Giornale Politico N. 223 Murat e i Borboni

1856

L'Unita italiana e Luciano Murat re di Napoli

1856

ITALIA E POPOLO - I 10 mila fucili

1856

Situation politique de angleterre et sa conduite machiavelique

1857

La Ragione - foglio ebdomadario - diretto da Ausonio Franchi

1857

GIUSEPPE MAZZINI La situazione Carlo Pisacane

1857

ATTO DI ACCUSA proposta procuratore corte criminale 2023

1857

INTENDENZA GENERALE Real Marina contro compagnia RUBATTINI

1858

Documenti diplomatici relativi alla cattura del Cagliari - Camera dei Deputati - Sessione 1857-58

1858

Difesa del Cagliari presso la Commissione delle Prede e de' Naufragi

1858

Domenico Ventimiglia - La quistione del Cagliari e la stampa piemontese

1858

ANNUAIRE DES DEUX MONDES – Histoire générale des divers états

1858

GAZZETTA LETTERARIA - L’impresa di Sapri

1858

LA BILANCIA - Napoli e Piemonte

1858

Documenti ufficiali della corrispondenza di S. M. Siciliana con S. M. Britannica

1858

Esame ed esposizione de' pareri de' Consiglieri della corona inglese sullaquestione del Cagliari

1858

Ferdinando Starace - Esame critico della difesa del Cagliari

1858

Sulla legalità della cattura del Cagliari - Risposta dell'avvocato FerdinandoStarace al signor Roberto Phillimore

1858

The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

1858

Ricordi su Carlo Pisacane per Giuseppe Mazzini

1858

CARLO PISACANE - Saggi storici politici militari sull'Italia

1859

RIVISTA CONTEMPORANEA - Carlo Pisacane e le sue opere postume

1860

POLITECNICO PISACANE esercito lombardo

1861

LOMBROSO 03 Storia di dodici anni narrata al popolo (Vol. 3)

1862

Raccolta dei trattati e delle convenzioni commerciali in vigore tra l'Italia egli stati stranieri

1863

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1863

Giacomo Racioppi - La spedizione di Carlo Pisacane a Sapri con documenti inediti

1864

NICOLA FABRIZJ - La spedizione di Sapri e il comitato di Napoli (relazione a Garibaldi)

1866

Giuseppe Castiglione - Martirio e Libert࠭ Racconti storici di un parroco dicampagna (XXXVIII-XL)

1868

Vincenzo De Leo - Un episodio sullo sbarco di Carlo Pisacane in Ponza

1869

Leopoldo Perez De Vera - La Repubblica - Venti dialoghi politico-popolari

1872

BELVIGLIERI - Storia d'Italia dal 1814 al 1866 - CAP. XXVII

1873

Atti del ParlamentoItaliano - Sessionedel 1871-72

1876

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1876

Gazzetta d'Italia n.307 - Autobiografia di Giovanni Nicotera

1876

F. Palleschi - Giovanni Nicotera e i fatti Sapri - Risposta alla Gazzettad'Italia

1876

L. D. Foschini - Processo Nicotera-Gazzetta d'Italia

1877

Gaetano Fischetti - Cenno storico della invasione dei liberali in Sapri del 1857

1877

Luigi de Monte - Cronaca del comitato segreto di Napoli su la spedizione di Sapri

1877

AURELIO SAFFI Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini (Vol. 9)

1878

PISACANE vita discorsi parlamentari di Giovanni Nicotera

1880

Telesforo Sarti - Rappresentanti del Piemonte e d'Italia - Giovanni Nicotera

1883

Giovanni Faldella - Salita a Montecitorio - Dai fratelli Bandiera alladissidenza - Cronaca di Cinbro

1885

Antonio Pizzolorusso - I martiri per la libertࠩtaliana della provincia diSalerno dall'anno 1820 al 1857

1886

JESSIE WHITE MARIO Della vita di Giuseppe Mazzini

1886

MATTEO MAURO Biografia di Giovanni Nicotera

1888

LA REVUE SOCIALISTE - Charles Pisacane conjuré italien

1889

FRANCESCO BERTOLINI - Storia del Risorgimento – L’eccidio di Pisacane

1889

BERTOLINI MATANNA Storia risorgimento italiano PISACANE

1891

Decio Albini - La spedizione di Sapri e la provincia di Basilicata

1893

L'ILLUSTRAZIONE POPOLARE - Le memorie di Rosolino Pilo

1893

 MICHELE LACAVA nuova luce sullo sbarco di Sapri

1894

Napoleone Colajanni - Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane

1905

RIVISTA POPOLARE - Spedizione di Carlo Pisacane e i moti di Genova

1895

Carlo Tivaroni - Storia critica del risorgimento italiano (cap-VI)

1899

PAOLUCCI ROSOLINO PILO memorie e documenti archivio storico siciliano

1901

GIUSEPPE RENSI Introduzione PISACANE Ordinamento costituzione milizie italiane

1901

Rivista di Roma lettere inedite Pisacane Mazzini spedizione Sapri

1904

LUIGI FABBRI Carlo Pisacane vita opere azione rivoluzionaria

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Giudizi d’un esule su figure e fatti del Risorgimento

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Lettera di Carlo Cattaneo a Carlo Pisacane

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - I tentativi per far evadere Luigi Settembrini

1911

RISORGIMENTO ITALIANO - La spedizione di Sapri narrata dal capitano Daneri

1912

 MATTEO MAZZIOTTI reazione borbonica regno di Napoli

1914

RISORGIMENTO ITALIANO - Nuovi Documenti sulla spedizione di Sapri

1919

ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

1923

MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

1927

NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano




Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)















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