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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO


V. GIORDANO

LA VITA ED I DISCORSI PARLAMENTARI DI GIOVANNI NICOTERA

NELLE LEGISLATURE VIII, IX, X, XI e XII

SALERNO

STABILIMENTO TIP NAZIONALE

1878

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Or sono pochi anni

Il buon senso fa gli uomini capaci, l’amor proprio è il vento che gonfia le vele e conduce il lor vascello nel porto.

NapoleoneI

Or sono pochi anni, Michele Lessona, nel presentare agl’italiani la traduzione dell’«0rigine dell’uomo» di Carlo Darwin, la fece precedere da una breve prefazione, nella quale si leggono, fra le altre le seguenti parole:

«Un gentiluomo napolitano, dicesi, ebbe quattordici duelli per sostenere la preminenza del Tasso sull’Ariosto. Al quattordicesimo duello ferito a morte, esclamò: — E dire che non ho mai letto né l’Ariosto né il Tasso!

«Questa è un po la storia degli Italiani rispetto a Darwin: molti che ne dicono male ed anche taluni che ne dicono bene non lo hanno mai letto.»

E questa è un po la storia degl’italiani anche rispetto a Giovanni Nicotera: molti lo lodano, molti lo censurano, ma non tutti lo conoscono.

Bisogna dunque studiare quest’uomo nella sua vita e nei suoi atti; e perché ciò riesca agevole presento agl’italiani questo libro.

A dir vero molto ho titubato prima di addivenire alla presente pubblicazione, nel momento in cui Giovanni Nicotera occupa uno dei più alti posti dello Stato, dacché non volevo dare motivo ai malevoli di farmi accusare di plagio. Ma poiché io non aspiro a nessuna carica pubblica che potesse farmi gravare sul bilancio nazionale, l'accusa sarebbe mal diretta e quindi da questo lato posso sfidare ogni suggestione.

I lettori, leggendo il rapido cenno biografico di Giovanni Nicotera, leggendo i suoi principali discorsi fatti nel Parlamento nella qualità di Deputato, nel lasso di sedici anni, potranno con serenità dire la loro parola intorno ad un uomo, che ha proceduto innanzi sempre animato dalla fede nella libertà.

Ed oltre a questa fede, Giovanni Nicotera ebbe altresì quel buon senso, che dovrebbero avere tutti gli uomini, ma che disgraziatamente non è che patrimonio di pochi.

E a sperare, pel bene d’Italia, che a quest’uomo non manchi mai la fede nelle libere istituzioni e che il buon senso, tanto necessario, non lo abbandoni mai.

Salerno, agosto, 1877.

V. G.

BIOGRAFIA

I

Volgevano tempi tristi per l’Italia. Da quattro secoli era smembrata e schiava. L’ultimo grido di libertà era stato soffocato a Firenze da Clemente VII e Carlo I colla morte di Ferruccio, il quale, esalando l’ultimo sospiro, diceva a Maramaldo: «Tu uccidi un uomo morto». Genova e Venezia, rette a repubblica, dipendevano dal volere di pochi, ed appena tollerate, traevano un’esistenza ingloriosa e servile. Due volte da Napoli e da Genova si levò un grido di libertà con Masaniello nel 1647 e con Balilla nel 1746: ma una serie di guerre regie ridusse il nostro paese in tale stato, che nel Congresso di Vienna del 1815, sui tappeti verdi della diplomala, venne stipulato quell'iniquo trattato ed architetto quell'edificio immaginario che doveva essere la tomba della libertà e della nazionalità, e pel quale l’Italia nostra si trovò divisa in sette monarchie, gnasi tutte importate dallo straniero e di origine straniera. A Milano, a Venezia, a Firenze regnavano Sii Austriaci; a Napoli i Borboni francospagnuoli; a Lucca ed a Parma alternavasi Borboni ed Austriaci; ouasi può dirsi che nella Sardegna solo eravi una lunaria italiana; a Roma una monarchia papale straniera e provocatrice d'interventi stranieri per ingordigia di potere. Le popolazioni oppresse e vessate in tanta servitù, s’agitavano senza poter spezzare quella cerchia di ferro entro la quale erano tenute strette da Francesi e Tedeschi.

L’agitazione morale e materiale era inmensa, ed a poco a poco si svolgeva l’aristocrazia dell'ingegno, la quale incominciò a sentire il bisogno d’un avanzamento morale ed a svolgere con Parini, con Alfieri, con Foscolo, con Leopardi e con Giusti, il sentimento nazionale. All'infuori di questo però ogni desiderio era limitato a riforme civili e locali, e soltanto si sognava un ingrandimento di regno a spese altrui; si paragonava la memoria della servitù del regno Franco-Italiano, con quello pesante del Lombardo-Veneto; si pensava ad una forma costituzionale ad imitazione della inglese, o spagnuola o francese; e qualche più ardimentoso giungeva a cospirare con ùno od altro principe pel reame di tutta Italia; ma nulla più.

Nello svolgersi di queste condizioni tumultuose per desiderii e tendenze tanto impari tra loro, nascevano i tentativi di Napoli nel 1820, del Piemonte nel 1821, dell'Italia di mezzo nel 1831 e nel 1832. Sfortunatamente però, se nei primi due moti erano prevalse aspirazioni nazionali, negli ultimi due sopraggiunse la sfiducia in questa iniziativa; per la quale sfiducia, cedendo all'influenza e preponderanza francese, andavano perduti i moti dei Ducati e delle Romagne.

Si fu in questo periodo di servitù, smembramento, dipendenze e mistificazioni dei despoti che dilaniavano l’Italia, che Giuseppe Mazzini, lanciava in mezzo all’Europa, il suo programma di «Unità e Libertà», le cui fatidiche parole passarono come orma di fuoco sull’animo degli Italiani e furono la prima favilla «che gran fiamma seconda».

Dall'esilio quell'illustre Italiano propugnò il suo programma, lo caldeggiò con il coraggio dell'apostolo, lo difese coll’ardimento del cospiratore, lo mostrò ragionevole, attuabile col pensiero del filosofo, lo fece apparire bello, sublime con le tinte meravigliose del suo stile sempre giovane, sempre vivo, sempre stupendo. Di là dall’esilio il suo programma si diffuse tra i giovani, i quali divennero suoi discepoli, ed egli li accolse intorno a se accesi del santo fuoco della patria libertà. Ed in quelle giovani menti, non viziate dall'ambizione, trasfuse le sue idee, i suoi principii, che si allargarono, si diffusero, divennero coscienza popolare mercé l’associazione della «Giovine Italia» fondata fin dal 1832 da lui, Ruffini, Guerrazzi, Bini ed altri, la quale ben presto incominciò a diffondersi in tutta Italia ed all'estero.

La «Giovine Italia», mossa da ardenti sentimenti di patriottismo, mirava al conseguimento dell’indipendenza della patria; essa aveva un concetto proprio in cui convenivano il fine e i mezzi. Con altezza d’animo svelò il fine, i mezzi non potevansi svelare senza condannarsi all'impotenza, e non furono svelati. Grandemente pratica questa società, educava alcuni anche ai mezzi, oltre all’educare la moltitudine ai principii suoi, avviandola al fine che proponevasi di raggiungere a benefizio della nazione dalla quale distaccavasi soltanto per farsi nucleo della nazione stessa ringiovanita.

E i principii di libertà si andavano così rapidamente diffondendo nel nostro paese, e non tardarono molto a farsi strada nell'antico reame di Napoli e sopratutto nel Cilento e nella Calabria. A Catanzaro eravi allora Luigi Settembrini, che tanta fama lasciò di se, il quale insegnava lettere italiane. Il giovane patriota che non sognava altro che «Italia, Libertà, Unità», fondò assieme a Benedetto Musolino l'associazione della «Giovine Italia» che in poco d’ora fece proseliti immensi. Sorprese grandemente Napoli, la notizia che colà eravi una grande setta; ma pur troppo ivi «tutti erano settarii, e non ci era setta alcuna. La setta era il pensiero ereditario ucciso nei padri e risuscitato nei figli, e la tirannide colpendo sette e cospirazioni, dilatava, ingrandiva quel pensiero secreto, gli dava la pubblicità dei suoi giornali e delle sue persecuzioni» (1).

Luigi Settembrini venne arrestato e gittato in prigione, ma l’opera sua non si distruggeva; restavano i cospiratori, fra questi Giovanni Nicotera, giovinetto quattordicenne, che da discepolo era divenuto degno compagno di cospirazione col Settembrini.

II

Il giorno 9 settembre del 1828, da Felice e Giuseppa Musolino, nacque Giovanni Nicotera in S. Biase, provincia di Catanzaro. Circondato dagli affetti della famiglia passò i primi anni di sua vita tra Nicastro, S. Biase e Pizzo nella casa materna; si recò quindi a Catanzaro dove insegnava quell’anima intemerata di Luigi Settembrini, che egli ebbe a maestro.

Chi non sa Luigi Settembrini? Chi non sa di quanto affetto egli era compreso per l’Italia e per la libertà? Ebbene egli che era dominato da tanto patriottismo, infondeva nell'animo dei suoi discepoli un amore santo per la patria, e quei discepoli figli di quelle patriottiche regioni calabre, di fantasia vivace ed ardente, apprendevano religiosamente i precetti del loro maestro.

Giovanni Nicotera, era non ultimo dei discepoli di Luigi Settembrini. Il quale di concerto con Benedetto Musolino, zio materno del Nicotera, visto da quanto patriottismo questi era animato, lo affiliarono MI’ associazione della «Giovine Italia», che di tanto giovamento doveva riuscire all'unificazione della patria.

Cresceva negli anni il Nicotera e dallo studio di lettere passò a quello dell'avvocheria. Ma allo studio egli accoppiava il pensiero politico, dacché non sapeva più dominarsi e voleva prender parte ad ogni tentativo che avesse potuto, benché menomamente, arrecar bene alla patria. E però egli fu uno dei cospiratori che prepararono la rivoluzione in cui perdettero la vita Domenico Romeo, Pietro Mazzoni, Gaetano Ruffa ed altri nel settembre 1847.

Intanto nel principiare del 1848, spirava un’aura di vita, che partita dalla Sicula terra, si diffondeva con elettrica velocità in tutta Europa, dando lena e vigore agli oppressi. I quali, sorti alla voce di li bertà, spezzarono i ceppi e minacciarono i despoti. All'urto violento, tremarono sotto le vacillanti corone, i mal fidenti monarchi, e, mentre commossi dal comune pericolo, concedevano le une sulle altre e larghezze e riforme e municipii e consulte, correndo frettolose al riparo, Pio IX, precorse gli altri con opportune riforme, ponendo cosi le basi d’una confederazione italiana. Grande entusiasmo destossi in tutta Italia, e nuove speranze germogliarono nel cuore dei patrioti.

Il re di Napoli vedendosi minacciato dalla rivoluzione, cercò ovviare al pericolo concedendo anch'egli una costituzione, e indusse con ciò gli altri principi a seguirne l’esempio.

Ciò non pertanto egli era impensierito della Sicilia, la quale sosteneva una guerra contro il suo Governo per conseguire l’indipendenza. I nuovi ministri, fra' quali erano il Bozzelli e Carlo Poerio, ad onta di tutti gli sforzi possibili non riuscirono a tenere unita la Sicilia al Napoletano, che anzi il Parlamento dell'isola proclamò la decadenza di re Ferdinando.

Dopo la promulgazione in Napoli dello Statuto costituzionale, gli animi si esaltarono sempreppiù, giacché i liberali temevano la mala fede del re. Questi dall'altro lato costretto dalla forza degli eventi nominò un nuovo Ministero, a capo del quale chiamò il Trova, e bandì un proclama pieno di sensi italiani, in cui confortava i popoli del reame a partecipare alla guerra dell'indipendenza che re Carlo Alberto aveva impegnata coll’Austria.

In questo frattempo i comizii avendo eletto depotati non tanto bene accetti al re, questi raddoppiò le arti per gittare la diffidenza nel campo dei liberali. Ma le sue mene vennero ben presto riconosciute, ed accrebbero gli odii contro di lui.

L’apertura del Parlamento, fissato pel primo fu differita al quindici maggio. Due giorni innanzi venne fuori, in nome del re, il programma del cerimoniale, in cui contenevasi il giuramento che dovevano fare i rappresentanti del paese; ma questi riunitisi il giorno 14 in Assemblea preparatoria a Monte Oliveto, si dichiararono contrarii a giurare nel modo prescritto dal re Ferdinando.

La mattina del 15 maggio la truppa occupò le rie principali.

La città era minacciosa, ed i deputati riuniti a Monte Oliveto inviarono Commissioni a re Ferdinando per chiedergli la pronta apertura del Parlamento, unico mezzo come metter fine allo esaltamento degli animi. Ma esse e lo stesso Ministero, che fece l'estremo del poter suo a impedire la guerra civile, non riuscirono nei loro intenti. E la guerra civile scoppiò terribile, e qual mai si prevedeva.

Un colpo sparato in aria dai sollevati, verso il mezzodì, fu quasi il segnale della lotta. Gli Svizzeri, e la Guardia reale, incominciarono a farsi innanzi. Un fuoco vivo e terribile rispose loro dalle barricate e dalle finestre. Morti e feriti molti soldati, i capi ordinarono si adoperasse il cannone, ed il cannone seminò la strage. Molti palazzi, ove i combattenti erano animatissimi, vennero attaccati. Da tutte parti si resisteva. La forza del numero finì per disperdere i sollevati.

Gli spogli, le violenze, gli eccidii, furono immensi per parte dei regi, e dove più fiero era stato il contrasto, fierissima riuscì la strage. E si rubò, si scannò a man salva, e si passarono persone per le armi....

Torme di «lazzari» compri dagli agenti di polizia, percorsero le strade ed ebbri di furore e di vino, aggredirono e malmenarono i più noti liberali e i più animosi deputati del Parlamento. La devastazione e lo spoglio regnarono sovrani. Il tentativo del popolo era stato soffocato nel sangue.... e molti cittadini egregi erano morti col grido d’Italia sul labbro.

La triste nuova di questa orribile tregenda produsse a Cosenza una impressione delle più tristi nell’animo di quei cittadini, i quali ben presto costituirono un Governo provvisorio.

La sollevazione andava sempreppiù rinvigorendo ed i varii campi, ove si acquarterarono i rivoltosi ingrossavano per masse e per entusiasmo. Unico intento dei capi era di affrettarsi per assicurare la buona riuscita, onde aver poi campo di mandare essi soccorso e re Carlo Alberto sui piani lombardi. Un nuovo aiuto giunse loro, per parte dei Siciliani, i quali accrebbero le forze, il comando supremo delle quali venne dato al generale Ribotti.

Due giorni dopo Siculi e Calabri marciavano uniti a Spezzano Albanese ed all'Angitola presso il Pizzo, nelle cui vicinanze ai 22 giugno aveva luogo una prima fazione, durante la quale, Giovanni Nicotera che qual capo della Guardia nazionale di S. Biase, combatteva col grado di capitano, ebbe a segnalarsi, fra gli altri, per arditezza e coraggio.

Il Borbone a reprimere la sollevazione calabrese mandava il generale Nunziante, il quale giunto al Pizzo recavasi a Monteleone con buon polso di soldati, accresciuti poi fino al numero di cinque mila. In questo mentre il generale Busacca sbarcava a Sapri.

I rivoltosi frattanto sempreppiù si organizzavano, e fattisi accorti che il punto importante dell'attacco era Monteleone, ove il nemico tagliava in mezzo le Calabrie, ed ove riceveva soccorsi da Napoli, per mezzo del Pizzo, si risolsero di mettere un campo a Filadelfia.

Ad onta però di tutto l'entusiasmo di cui erano animati quei rivoltosi, ad onta che il grido di libertà si ripercuoteva forte nei loro cuori, pure era destino che dovevano soccombere.

Il generale Nunziante, espertissimo dell’entusiasmo dei rivoltosi, comprese che ad attaccarli subito sarebbe restato schiacciato, ed aspettò che un siffatto‘entusiasmo fosse scemato. E così egli attaccò quelle masse, che di giorno in giorno, anziché organizzarsi, andavano disperdendosi, perché il Ribotti non seppe stare all'altezza dei bisogni, nè, a quanto dicono gli storici dell'epoca, volle attenersi scrupolosamente a quello che gli veniva ingiunto dal Comitato di salute pubblica costituitosi nelle Calabrie. All’attacco le forze dei rivoltosi dovettero retrocedere. Questo fu terribile colpo alla rivoluzione in Calabria-Citra, talché fu forza sgombrare Cosenza e raccogliere tutte le forze in Tirioli, posizione fortissima, la quale dominava le tre strade che menano a Catanzaro, a Cosenza e a Nicastro.

Giovanni Nicotera, che in quelle regioni aveva respirato le prime aure di vita; che in quelle regioni aveva incominciato a balbettare la prima volta il sacro nome di patria, sotto la guida di un Settembrini e di un Musolino; che in quelle regioni aveva imparato ad amare il suo paese teneramente e tenacemente con culto che confinava col sacrifizio e col martirio, anziché deporre il pensiero di continuare, anima ardente quale egli era, si spinse innanzi e si recò in Tirioli, ove eranvi gli altri rivoltosi, che tenevano ancora fermo innanzi alle truppe del generale Nunziante.

In questo frattempo alla capitolazione di Nicastro e all’entrata in Cosenza del generale Busacca, vennero aggiunti i fatti di Catanzaro, i quali diedero l’ultimo crollo alla rivoluzione. Ribotti, d'accordo cogli uffiziali pressoché tutti, aveva più che mai risoluto di tentare ad ogni costo il ritorno in Sicilia, mentre i boschi della Sila offerivano così a lui come ai Calabresi un sicurissimo asilo, nel quale avrebbero potuto aspettare i navigli necessarii alla fuga. Ma un invincibile terrore invadeva gli animi, il perché sordi ai consigli della prudenza e senza volere aspettare che da Messina, cui avevano inviato più messi, venissero i legni richiesti, Ribotti ed i Siciliani, seguiti da un centinaio di Calabresi nella notte dei sei ai sette luglio, n’andarono a furia alla marina di Catanzaro, dove imbarcatosi su due traballi, fecero vela alla volta delle isole Jonie; ma non giunsero al loro destino perché per via vennero sequestrati dal generale Salazar.

Poco dopo la partenza dei Siciliani, i membri del Comitato, seguiti da un centinaio di Calabri, si

muovevano per la Sila; senonché i più disperdevano, prima ad Arena Bianca, indi a Bianco, e da ultimo nel cuor della Sila, talché appena in venti giunsero la sera degli 8 luglio a Bottricello, che sta sulla marina fra Catanzaro e Cotrone, e così il 9 luglio s’imbarcavano su di una piccola barca Ricciardi, Rocco, Susanna, Eugenio de Riso, Luigi Miceli, Luigi Caruso, Giuseppe Sarda, Stanislao Lupinacci, Basilio Mele, Paolo Vocatello, Pasquale e Benedetto Musolino, Giovanni Nicotera, Salvatore La Macchia, Domenico Mauro e Nicola Lepiane, i quali tutti presero la volta delle isole Ionie. Giunti però nelle vicinanze di Cotrone la barca li trasbordò su due trabacoli molfettesi, ed in essi continuarono per Corfu, ove giunsero il giorno 12, dopo aver corso pericolo d’esser catturati dai medesimo Salazar, che aveva catturati i Siciliani, pochi giorni innanzi. E così la Calabria vedeva muovere per la terra dell’esilio tanti figli diletti sui quali dovevano poi pesare le condanne contumaci del Borbone.

A Corfù i profughi vennero provveduti di passaporti inglesi e venne posto a loro disposizione un vapore inglese, che pagarono 120 talleri, per farsi trasportare in Ancona, per quindi recarsi a Roma, ove ferveva ancora la lotta tra il dispotismo e al libertà.

III

Roma!

A Roma la città delle antiche glorie e delle antiche memorie, erano rivolti gli occhi di tutti. A Roma il moto era divenuto così potente che Pio IX non era valso più a signoreggiarlo. La costituzione da lui data; la convocazione dell Assemblea dei deputati non valsero a nulla. Il suo ministro Rossi fa ucciso con un colpo di pugnale nel collo sulla gradinata del palazzo della Cancelleria, ove aveva sede l’Assemblea, e così, commesso questo gran peccato d'umanità, il potere venne nelle mani dei democratici. Il papa preso da spavento fuggì travestito a Gaeta, abbandonando l’eterna città, ove fu tosto proclamata la repubblica. Mazzini capo attivissimo della «Giovine Italia» e Garibaldi, l’ardito condottiero comandavano in Roma.

Ai nostri profughi Calabresi, appena giunti a Roma, un nuovo rammarico li aspettava. Alcuni giornali avevano propagata la voce che i Siciliani erano stati abbandonati e traditi da loro! All'annunzio doloroso di tanta infamia, i capi di quella spedizione Musolino, Ricciardi ed altri, scrissero una protesta sul «Contemporaneo» di Roma in data 25 luglio 1848, nella quale sdegnosamente respinsero la vigliacca accusa. Giovanni Nicotera a Roma prese ben presto servizio nel reggimento Manara, dove fu creato uffiziale»

Intanto il papa si era rivolto alle potenze protettrici, e ai suoi prieghi un esercito francese, sotto il comando del generale Oudinot fu spedito a Roma e intimò di ristabilire il precedente Governo. Avutone un rifiuto, i Francesi mossero all'assalto, ma incontrarono petti di bronzo in quei valorosi soldati della libertà.

Lotte si seguirono a lotte. La stupida ferocia del generale francese non si arrestò innanzi alla maestà dei monumenti, alla memoria di tante glorie riunite, innanzi cui piegò la fronte dell'Unno che superbiva esser «flagello di Dio». Ogni cosa fu preda alle bombe. I colossi di Prassitele e di Fidia; il tempio della fortuna virile; l'aurora di Guido Reni; gli arazzi di Raffaello; gli affreschi del Dominichino; le pitture del Tintoretto; il Pantheon, il Colosseo,

Campidoglio dal fuoco danneggiati e dal ferro; minacciato nell'Ercole di Canova il più bel parto della moderna scultura, salvo appena dal delubro che lo racchiude; colpito perfino quel miracolo della cupola vaticana lanciata in aria dall’audacia divina di Michelangiolo. Senonché la sacrilega bomba sembrò recedere inorridita e confusa per così brutto peccato; e in mezzo al grandinare di tanta pioggia di fuoco, nel ferale splendore delle notturne tempeste, le ossa del Buonarroti e del Sanzio sursero dai loro avelli sdegnose a maledire la Francia.

Mentre le bombe tempestavano nell’interno e il cannone batteva in breccia, poche centinaia di giovani, guidati dal generale Garibaldi, e fra questi un diciannovenne Calabrese bruno di volto, dagli occhi scintillanti, dal piglio audace, spingeva i commilitoni a tener saldo innanzi al nemico; questo giovane era Giovanni Nicotera.

Era il 30 aprile. Ottomila francesi con dodici cannoni da campo avanzavano in due colonne. Dirigeva Oudinot simultaneo l’assalto alle porte Cavalleggieri ed Angelica. Alle 11 del mattino, procedendo verso villa Panfili, occupate alcune case, incominciò di quivi il suo fuoco d’artiglieria e di moschetto. Mosse ad attaccarlo il generale Garibaldi alla testa della prima brigata. La pugna fu micidiale per più ore. GliItaliani caricarono più volte i

Francesi alla baionetta e li costrinsero a ritirarsi, lasciando molti prigionieri feriti e morti. Giovanni Nicotera combatté splendidamente in questo rincontro ed ebbe la fortuna di far parte di quel nucleo che prese prigioniero un battaglione francese. Verso la linea del Vaticano con pari ardimento si combatteva. I Francesi respinti su tutti i punti, divisi, confusi, sbandati sentivano bruciarsi le piante dal suolo della libera Roma, ricevendo meritato castigo dell'attentato sacrilego. La sera bivaccarono a quattro miglia, il dì seguente a quattro leghe dal Campidoglio, e, invece delle sale dorate che già sognava Oudinot, ebbesi a tetto una tenda. Molti perirono anche trai volontarii della repubblica in quella giornata, moltissimi furono i feriti, uno fra questi Giovanni Nicotera, il quale riceveva così col sangue un battesimo repubblicano.

Le sorti di Roma però incominciarono a cangiare dopo di quel giorno.

Due bastioni a sinistra della porta S. Pancrazio, i più malconci dal fulminar dei cannoni, erano guardati da un battaglione dei volontarii della repubblica romana. Di notte ne è valicata la breccia. «I francesi han superate le mura!» è il grido che sorprende e sgomenta tutti, grido che è seguito dallo stormire dei bronzi. Alla voce della madre che chiama i figli a riscossa, surto il popolo nella sua onnipotenza, è pronto a ricacciar l’aggressore. Inesplicabili indugi nei condottieri frena il bellicoso entusiasmo; frasi sconnesse ed ambigue annunziano differito l’attacco. Manca nei capi l'uniformità del pensiero: triumviri e generali dissentono, dissenton questi tra loro; si discute non s’opera; e intanto che scorre un tempo prezioso è coronata la breccia. Mal reggendo a una perplessità che disanima; a una sospensione che prostra, un pugno di valorosi torna a riconquistare la casa che fu perduta la notte e la ricompra col sangue. Ma non sostenuti e non afforzati da nuove genti, cadendo quasi tutti quei prodi sotto un numero ognora crescente delle falangi francesi, la posizione è irremisibilmente perduta.

Il generale Medici difende porta S. Pancrazio. Il cannone nemico tuona. Molti cadono. I superstiti fatto delle rovinose macerie baluardo e tringea, tengono in freno il nemico proteggendo fino all'estremo i bastioni.

I Francesi intanto, protetti dalla oscurità, incoraggiati dalla stanchezza dei volontarii mezzo sepolti nel fango e spossati dalla fatica e dal sonno, superata la breccia, irruppero assalendo furiosamente i pochi che erano preposti a difendere la seconda linea. Al violentissimo attacco empievasi il campo di confusione e terrore, accresciuto dal frastuono spaventoso delle armi, dal rovinare dei ripari e dei tetti, dai fulmini di natura e di guerra, dall'orrore di quella notte d’inferno. Ostinata è feroce fu la zuffa. Il primo indietreggiare degl'Italiani arrestò più che la voce, l'esempio di Garibaldi, che in quello scontro superò se stesso: poi spuntò il giorno e colla luce tornava l’animo a quei valorosi. Riuniti in un impeto generoso e sublime, fecero atto di disperato valore e lanciatisi come leoni feriti, i vinti Italiani giunsero un’altra volta a respingere i vincitori Francesi. Ferruccio moribondo si vendicava di Maramaldo! Impietrarono i veterani d’Africa all’incredibile audacia, piegarono all'urto tremendo ed attesero che si spegnesse l'esaltamento nervoso che sosteneva quei corpi estenuati ed affranti.

Gessato il quale, non era più forza umana che valesse a resistere. Le batterie degli assediati ormai mute, sfracellate, deserte, non fugati gli artiglieri ma spenti, avviticchiati ai lor pezzi; attorniati i nostri per ogni dove dai Francesi; incerti gli ordini e rari; caduti gli ufficiali in gran parte; i non caduti cadenti di sete, di fatica, di fame; i combattenti più che soldati fantasmi; intorno a Roma un deserto, un sepolcreto le mura; la città una rovina; da ogni parte il nemico circonda, assale, frantume, incenerisce ed i giovani Italiani cadono sotto il piombo dei soldati della repubblica francese, come cadono gli eroi.

In questa giornata cadde ferito il gentile poeta della libertà Goffredo Mameli. Trasportato all'ospedale della Trinità dei Pellegrini fu messo vicino a Giovanni Nicotera. L’uno «l’immagine più schietta dell'idea italiana», l'altro «l’immagine più ardita dell’italiana azione». Il Nicotera vide morire il Mameli accanto a se, e così due anime gemelle si separavano per sempre 1

I difensori della romana repubblica vistisi a mal partito volevano ancora sostenersi portando la guerra nel cuore stesso della città, facendo d’ogni palazzo un castello, d'ogni monumento una torre, d'ogni casa un fortino, d'ogni rovina un baluardo, d’ogni proiettile un’arma, e finché pietra rimanesse su pietra, finché un braccio sostenesse una spada, non restar mai dalle offese, sì che di Roma non rimanesse che il nome a vergognarne la Francia, dei Romani non uno a maledirne il trionfo: tale quel popolo da darne al mondo l'esempio.

L’Assemblea però considerate le condizioni di Roma, visto lo stato dei combattenti, pesata la posizione del nemico, avvantaggiata d'assai, uditi i generali d'ogni arma, consultata la propria coscienza, deliberò il giorno stesso desistersi da ogni ulteriore difesa, impossibile e vana, restarsi dessa al suo posto.

Il voto e le condizioni dell'Assemblea vennero respinti dai Francesi. Un manifesto annunziava: ricusato ogni patto, non compromessa la dignità del popolo così generoso, cedersi unicamente alla forza, spalancarsi le porte della città, lasciarsi ai figli di Voltaire, il triste onore di compiere fra le rovine e le stragi il religioso mandato, e di mescere all’incenso dei turiboli, il fumo di tanto sangue innocente che domanda vendetta.

Intanto non una barricata abbattevasi, non una Caserma sguernivasi, non un magistrato abbandonava il suo posto; le truppe ritenute in quartiere se non lasciassero Roma. E la lasciarono alcune, seguendo lo spartano invito di Garibaldi che prometteva ai seguaci, veglie, fatiche, privazioni, pericoli, sofferenze e martirio. Uscendo dalla porta di S. Giovanni, l'audacissimo condottiero voltava il tergo alle galliche insegne per portare altrove i fati e le are della oppressa patria.

Dopo due mesi di assedio, dopo otto giorni che erano aperte le breccie, trentamila francesi espugnavano una città mal protetta dalla natura e dall'arte, infastidita dai borbonici del reame di Napoli, attorniata dagli Spagnuoli, minacciata dagli Austriaci, scomunicata dal papa.

Il terzo giorno di luglio i Francesi, che già tenevan le porte, inviarono le prime schiere nell’interno della città. E mentre celebravano gli oricalchi l'obbrobrioso trionfo, mentre calcavano i superbi cavalli la sacra terra di Roma, mentre procedevano. armate legioni in mute strade e deserte, a dispetto dei rinnegati di Francia, del generale che ne guidava l'esercito, del papa che ne provocava l’invio, del Bonaparte che ne ordinava l’impresa, del Parlamento che ne assentiva lo scopo, della nazione che ne forniva le spese, rappresentata da deputati, triumviri, magistrati e ministri, innanzi a popolo immenso, colla solennità e colla pompa che si addiceva a quell'atto, la romana repubblica, per organo del presidente dell’Assemblea, sugli occhi stessi delle francesi falangi, sfidando i napoleonici sdegni, proclamava dalla gran loggia del Campidoglio, la sua stupenda costituzione. Ma pur troppo ogni cosa ben presto ritornava allo stato primitivo!

I pochi repubblicani restati superstiti a tanta sventura, si posero in salvo, e Giovanni Nicotera si ritrasse a Torino, e di là a Genova ed a Nizza e poi nuovamente a Torino, ove si conservò vivo il fuoco di Vesta della libertà italiana ed ove egli visse molti anni temperando il cuore nelle amarezze dell’esilio e nell’odio ai tiranni.

IV

Volgevano terribili le condizioni del reame di Napoli e di Sicilia nell'epoca della reazione che seguì ai moti del 1848. Queste contrade che la natura creò un paradiso, l'uomo aveva ridotto a paese di dannazione inguantoché Ferdinando II, faceva uso di una spietatezza senza nome per reprimere e soffocare colle truppe mercenarie ogni spirito di libertà, e riempiva le carceri dei suoi avversarli politici, onde ristabilire l’antica tirannide.

In quel torno il ministro inglese Gladstone, fece un viaggio in Italia e ne portò sì triste impressione che scrisse alcune lettere nelle quali rivelando la sua indignazione per lo spettacolo della tirannide dei Governi della Penisola, svelò all’Europa questo stato di cose. Il fatto suscitò un disgusto così generale che i Governi d’Inghilterra e di Francia furono costretti a fare serie rimostranze e dichiarare, che la quiete d'Europa non si poteva mantenere, se Ferdinando non dava una costituzione, non riformava l’amministrazione e la giustizia, e non trattava più mitemente i prigionieri di Stato. Queste rimostranze non valsero a smuovere l’animo duro del re e dell'intrigante consorteria della Corte; laonde i due Governi richiamarono i loro ambasciatori e troncarono ogni relazione diplomatica con Napoli.

Da quel punto il regno fu in preda a un assiduo conflitto tra la rivoluzione e la tirannide. Nel 1856 si sollevò in Sicilia il barone Bentivegna per ottenere colle armi la costituzione del 1812, ma fu vinto dalle truppe regie e moschettato con alcuni suoi compagni. Nell'8 dicembre dello stesso anno in una rassegna che il re passava alle sue truppe sul campo di Marte fu assalito dal soldato Agesilao Milano, affiliato alle congiure mazziniane. L'audace giovane venne dannato a morte, ma il supplizio suo non atterrì gli altri. Un’altra serie di disastri combinati o causali si seguirono, i quali valsero sempreppiù a commuovere gli animi.

Un partito intanto si diffondeva nel regno ed era il murattista. Luigi Bonaparte fin da quando salì alla presidenza della repubblica, concepì l’audace disegno di riprendere la corona imperiale e di riporre sul trono delle due Sicilie Luciano Murat, figlio di Gioacchino, ex re di Napoli, che invano aveva tentato di ripigliare il regno con la infausta spedizione del Pizzo, ove venne fucilato.

E però il Bonaparte, procedendo col passo della volpe, lavorò a tessere una rete murattista nel reame’ delle due Sicilie, dove v'erano ancora viventi ed in alti posti molti uomini devoti a Gioacchino Murat, passati al soldo dei Borboni, e poteva contare sul concorso di tutti i condannati politici del 1848, le cui aderenze coi cospiratori e con i malcontenti, del regno erano immense e preponderanti. Insomma la lebbra del muraltismo si apprese al reame poco dopo il 1848.

Il piano di Bonaparte era di porre in campo la quistione italiana; muover guerra all'Austria e discacciarla dal LombardoVeneto, che sarebbe stato ceduto al Piemonte; proclamare la federazione italiana sotto la presidenza del Papa; promuovere una sollevazione parziale in Toscana e nelle due Sicilie, e dare la prima al principe Napoleone, le seconde a Gioacchino Murat.

Il conte di Cavour era a parte di questo piano, già convenuto ai bagni di Plombiéres.

Mazzini intanto lavorava in senso perfettamente opposto; voleva l'«Unità d’Italia».

In questo frattempo (1856) si costituì definitivamente a Parigi il Comitato murattista composto da Saliceti, Sirtori, Lisabo, Buffoni e Montanelli. A combattere la loro propaganda si unirono in lega Manin, Romolo, Federici, Ulloa e Petruccelli della Gattina, i quali si giovavano, per raggiungere il loro scopo, dell'opera efficace del corrispondente di Parigi del giornale il «Times».

Siffatte notizie giunte alla Corte di Ferdinando II, questi ne fece fare vive rimostranze al ministro del Bonaparte, conte Walewsky; il quale, irritato ed in tuono molto arrogante all’indirizzo del ministro di Sardegna, rispose all'inviato napoletano, essere a sua conoscenza ciò che gli riferiva; ma che il conte di Cavour «avea fatto i conti senz’oste».

Certo è che in quell'epoca il a Times» che è un giornale aperto a tutte le speculazioni politiche, pubblicò una lettera di Luciano Murat, che riponendo in campo i suoi diritti successorii al trono delle due Sicilie, si disponeva a «sagrificarsi» per Napoli; faceva appello ad un plebiscito e sentenziava che l'Italia «solamente» nella «Conferenza» avrebbe potuto riacquistare l'antica potenza.

Il pretendente sosteneva, che sarebbe salito al trono con l'assenso e col braccio di Napoleone.

È interessante una lettera che il noto cospiratore unitario, Giuseppe La Farina scrisse al conte di Cavour in quell'epoca. È un documento prezioso:

Riveritissimo signor Conte. —So che è grande indiscrezione usurpare il tempo d’un ministro occupato in tante faccende, con lettere private: ed io davvero non vorrei passare per indiscreto, presso la S. V.: ma il caso mio parmi possa e debba fare eccezione alla regola. Dalle conversazioni che ho coll'ottimo Cav. Castelli, è nata in me la convinzione, che il Ministero reputi l'avvenimento di Murat al trono di Napoli, come cosa utile al Piemonte ed all'Italia.

Noi abbiamo opinione contraria, e lavoriamo a far si, che la futura rivoluzione delle Due Sicilie sia fatta ai grido di «Viva Vittorio Emanuele».

Non è qui il caso di discutere quale delle due opinioni sia la più utile, la più onorevole e la più agevolmente traducibile in fatto. Noi crediamo la nostra. Ora noi non chiediamo al Governo piemontese aiuti palesi, perché sappiamo, che non può darne: non chiediamo aiuti segreti, perché sappiamo che non vuol darne: non gli chiediamo alcuna dichiarazione né pubblica né privata, e rispettiamo le sue determinazioni: ma ciò che chiediamo, si è, che o non dia alcun favore alla parte murattina, o che ci avverta.

Ella, signor Conte, nella sua alta intelligenza comprenderà benissimo, che la nostra posizione non è più tenibile nel caso che il Governo piemontese si mettesse più o meno apertamente dalla parte di Murat: essa diventerebbe, per lo meno ridicola, e non può essere accettata da un uomo che si rispetta. Noi stiamo facendo dei gravissimi sacrifizi e stiamo compromettendo le persone che ci sono più care: e non vogliamo avere il rimorso di spingere gente al patibolo, col dubbio che la loro opera sia contrariata da quelli stessi in pro dei quali cospiriamo. Io mi rivolgo quindi alla S. V. come al Conte di Cavour, e le chiedo che ella lealmente voglia dirmi — «noi non contrarieremo e non daremo favore al Principe Murat» ovvero il contrario. In questo caso a me personalmente non rimarrebbe che un favore da chiederle; quello di un passaporto per Parigi.

Ilconte di Cavour rispose a questa lettera invitando il La Farina a recarsi in sua casa.

In quello stesso anno, dallo stesso La Farina, intornoallo stesso argomento, in data 22 ottobre, venne stampata un'altra importantissima lettera nella quale si leggono questi eloquenti periodi:

Ecco come io sono stato condotto a scriver sempre contro la candidatura del Principe Murat. Se il Piemonte non avesse conservate le sue libertà all’ombra della bandiera dei tre colori; se Vittorio Emanuele fosse stato un Ferdinando II o un Leopoldo D, è probabile che (data sempre l’impossibilità della Repubblica) io avrei parteggiato per Murat: perché allora ciò che più poteva convenire all’Italia, sarebbe stato un Principe nuovo, che capo d’una provincia di nove milioni di abitanti e di un esercito numeroso, istruito e ben ordinato, fosse stato come il centro unificatore della patria comune. Di più Murat Re di Napoli non puole essere che un proconsole della Francia: Murat Re d’Italia potrebbe essere indipendente. Nello stato attuale delle cose però, Murat non può servire che a creare in Italia un dualismo funesto, un nuovo pretesto per l’ingerimento dei forestieri, cagione prima di tutte le nostre sventure.

Il murattismo dunque s’era fatto strada nel napoletano. Questo partito surto soltanto per abbattere un tiranno e farci ricadere sotto la tirannia di’ i uno straniero, non era destinato ad avere successo.

Proseliti ne erano molti, perché ai più sembrava impossibile allora conseguire l'unità d’Italia, ma ciò non pertanto esso era destinato a cadere per necessità storica.

Un altro partito invece, il nazionale, animato da fede ed operosità, e che i più ritenevano impotente, doveva avere tutto intero il suo successo. Népoteva esser diverso, dacché in Italia fu sempre viva la teoria dell’unità dei popoli della medesima razza; teoria iniziata dal 663 di Roma a Corfinio. In questa idea si perseverò per venti secoli e per attuarla si andò incontro a tragedie orribili, ma mai si venne meno alla formola: «ogni contrada all'indigeno». E per diciannove secoli si combatté per la indipendenza e per l'«Italia degli italiani». Se dunque un partito murattista si credeva forte nel reame, questa forza non era dessa salda, ma era destinata a disperdersi al primo urto.

In Italia che erano stati divorati trenta popoli di razza Indo-Slava, Mongolica, Magiara, Indo-Germanica, Turiniana, non poteva aver seguito che il partito nazionale, quel partito il cui capo era Mazzini e sulla cui bandiera stava scritto: «Unità, libertà». In Italia dunque, che fu indetta la teoria dell'egemonia nazionale; in Italia dove furono fiaccati Germani, Franchi-Bizantini, Austriaci, Austro-Spagnoli, Francesi, un nuovo re straniero nel reame delle due Sicilie, che avrebbe di molto protratta l'unificazione della Penisola, lo ripetiamo, era destinato a scomparire.

Intanto nel reame di Napoli l'anarchia ed il dispotismo si contendevano il dominio ed il re non osò rimanere più nella Capitale fra il popolo concitato, e si ritrasse colla famiglia prima nella regia di Caserta, poi in quella di Gaeta, dove circondato da molte truppe non lasciavasi avvicinare che dai suoi più fidi.

In un’epoca così triste per Napoli e per l’Italia, Giuseppe Mazzini, il sommo agitatore, non si scorava pel suo avvenire. Egli profugo in Inghilterra, forse aveva divinato che a lui sarebbe dato di vedere attuata quell'unità d’Italia per tanti secoli sospirata, balenata alla mente di Dante, intraveduta dal Petrarca, presentita dal Michelangiolo, invocata dal Macchiavelli. E però egli al dir di Alberto Mario, agguantava l’Italia pei capelli ogni anno, ogni semestre, ogni settimana, ogni giorno, affissandola con occhio fulmineo, e ripetendole con voce implacabile: «Sorgi, lotta, soffri, purificati, immolati per farti una. per riafferrare le redini del mondo, per colorire il disegno di Dio sulla terra!»

Le tristissime condizioni di Napoli l’affliggevano sopra tutto ed oltre tutto, dacché egli pensava che il tener troppo la corda tesa sarebbe finita per spezzarsi, e che spezzandosi, un moto murattista avrebbe messo sul trono di Napoli un Murat, il quale sarebbe stato più difficile rimuovernelo e quindi difficile sempreppiù si sarebbe reso il conseguimento dell'unità della patria. Faceva d’uopo quindi che un moto nazionale fosse scoppiato nel reame e che avesse prevenuto subito il murattista, dacché venne a conoscenza dei capi del partito nazionale che nei primi di maggio di quell’anno a Ginevra, Luciano Murat, aveva convocato un Congresso murattista, presieduto dal Salicetì, nel quale erano stati presi dei concerti definitivi per rovesciare il Borbone di Napoli.

A raggiungere lo scopo era stato risoluto di eseI guire tre sbarchi nelle spiagge del reame di Napoli, con altrettante legioni franco-polacche, numerose almeno di mille uomini ciascheduna, con tremila fucili e forti somme di danari. Ed ove queste legioni fossero state vinte dalle regie truppe, sarebbe intervenuto il Governo francese per violato onore nazionale. Una delle tre spedizioni doveva esser capitanata dal figlio del pretendente Gioacchino Murat, e gli sbarchi dovevano eseguirsi nella provincia di Salerno, in Calabria ed in Puglia.

V

Era tale la condizione delle cose quando con tutte le sue forze e con tutta la sua attività, il Mazzini si mise all'opera per preparare la spedizione che poi avvenne a Sapri e di cui fu duce Carlo Pisacane, avendo a degno suo compagno Giovanni Nicotera.

Questa spedizione dunque venne preparata per impedire quella murattista e venne concertata a Genova in casa Mignogna, ove si radunarono Mazzini, Pisacane, Nicotera ed altri emigrati. Si discusse molto. Mazzini disse che bisognava operare; altri osservarono che sarebbe stata follia fare uno sbarco alla ventura e proposero che Nicotera e Stocco si recassero in Calabria per preparare gli animi, e che poi si fossero coi giovani che li volessero seguire ricongiunti a Pisacane, allorché questi sbarcasse. A Pisacane questo disegno non piacque e neppure a Mazzini, il quale voleva innanzi tutto tentare un colpo di mano sull’arsenale di Genova (che poi tentò senza esito), impadronirsi delle armi e coi bastimenti che ivi erano muovere alla liberazione di Napoli. Pisacane diceva essere certa la morte in questo tentativo, e che dovendo andare incontro a certa morte, preferiva moTOorire nel Napoletano, dove regnava un tiranno che si negava di fare concessioni ai popoli. Per quella volta però non venne presa alcuna conclusione.

Più tardi si stabilì di fare la spedizione di Ponza e Sapri e si fissò il giorno 13 giugno. Il generale Cosenz doveva recarsi a Napoli per assumere la direzione della rivoluzione, che si assicurava preparata e certa. Pisacane, Nicotera, Falcone e pochi altri dovevano imbarcarsi sul vapore il «Cagliari». Ma la tempesta fece ritornare a Genova una barca sulla quale si erano messe trecento carabine e Rosolino Pilo con venti emigrati, e quindi non potendosi effettuare la partenza il giorno 13, Pisacane prese il passaporto che doveva servire al generale Cosenz e si recò sconosciuto in Napoli, per verificare meglio le cose e prendere dei nuovi accordi per la spedizione.

Pisacane giunto in Napoli parlò subito con i componenti del Comitato e prese tutti gli accordi, anche tenendo presente qualche possibile disastro.

Potranno riuscire interessanti alcune lettere che il Pisacane in quelle circostanza diresse a Nicola Fabrizii, lettere scritte in casa Dragone:

Napoli 14 giugno 1857 — Procedimento energico del lavoro in Napoli, mediante gli aiuti pecuniarii che potranno ottenersi; ricezione o compra di armi, scegliendo il mezzo più pronto. Lavoro in Basilicata sospingendola all’iniziativa, al più presto come spedire i capi, se li domandano. — Continuare la pratica con le isole, nel modo il più sollecito possibile. Coi moderati evitare ogni discussione, procedendo sempre ad assimilarsi gli elementi d’azione, ed evitando ogni discussione di principii, opponendosi occultamente con ogni mezzo alle dimostrazioni. Cedere alle loro pretese di ammettere il grido di Costituzione (perché l’avvenire è nostro) nel solo caso che da questo dipendesse il fare o il non fare immediato. Contare sempre, non come condizione indispensabile, ma come spinta, (se necessaria) il progetto delle isole, o uno sbarco di una cinquantina d’armati. Un proclama pei cittadini e per la truppa, una specie di dichiarazione di principii d’affiggersi sulle mura nel momento dell'azione. Spedire una barca nelle acque di Pantelleria, con segnali convenuti, avvertirne a Nicola, comunicarsi i segnali, acciocché spedisca in quelle acque le armi.

Napoli 14 giugno 1857 — Amico carissimo — Ho abbracciato i nostri ottimi amici, io mi recai qui in Napoli temendo che la disgrazia sopravvenuta (2) avesse prodotta una catastrofe, dalla quale io non voleva né doveva essere immune; ma fortunatamente la disgrazia avvenuta non ha prodotto altri danni, se non quello della cosa stessa mancata. Ho visto tutti, ho parlato con le cime, con coloro dai quali dipende l’azione, ho trovato una gran quantità di ottimi eldtquti e più di quello che assicurava il coscienziosissifno Kilburn (3), ma manca come egli dice, un centro 'intorno a cui questi elementi potessero indissolubilméiite rannodarsi, ma non ci è mezzo per crearlo ed a questo male che dipende la esuberante individualità, non vi è che un sol rimedio, che il nostro operosissimo amico si tenga strettamente unito con costoro, e si accrediti presso di loro coi mezzi di cui noi dobbiamo fare ogni sforzo per fornirlo; egli può; avveduto e modesto com'è speriamo riuscire. Ci abbiamo segnato una linea di condotta, abbiamo calcolato più o meno quello che potrà bisognare, il tempo necessario, il modo d’iniziare, e ora è d’uopo che io e lui prefiggendoci come scopo lo stabilito, pieghiamo come si dovrà alle circostanze. Io sperava, senza verun impulso ottenere una immediata iniziativa, ma è stato impossibile (4). Riguardo ad armi abbiamo stabilito così: egli farà partire una barca inviandola nelle acque di Pantelleria con stabiliti segnali; tu avuti questi segnali farai partire immediatamente armi, e le dirigerai nel medesimo punto, ove avverrà il trasbordo. Se questo non potesse avvenire, se tu non trovi il mezzo per inviarle, ed egli come riceverle, allora, previo consenso di Mazzini, io crederei che la miglior cosa sarebbe di vender tutto e spedire il danaro a Kilburn che gli sarà assai più utile che le armi depositate in Malta, giacché con danaro sì faranno cose molto utili, anzi decisive, e si avranno armi. Io domani parto per Genova; non so cosa sia avvenuto, dopo la mia partenza; e inutile dirti con quanta ansietà sono su tale riguardo. Ti prego dire a Calona che ho tutto ricevuto, che lo ringrazierò, ma che non ho avuto tempo di farlo. Addio.

Pisacane stette nel regno di Napoli tre giorni e dopo d’essersi messo d’accordo col Comitato nazionale, il quale gli promise Finterò suo appoggio, ritornò in Genova raggiante di gioia ed apportatore di liete novelle: ogni cosa pronta, i capi valenti, le popolazioni animose. Giovanni Nicotera non si illudeva però. Egli comprendeva che pur troppo sarebbero venuti dei disinganni. Non per tanto non era egli quello che si sarebbe arrestato nell'audace impresa; egli che giovinetto ancora, quando altri balbetta la prima parola di amore, e ha visto appena spuntare sul viso le lanugini della pubertà, era già acceso dal santo amore della patria e della libertà; egli che dando un addio agli studii, alle agiatezze della vita, alle prime rose della giovinezza ed all'amore della famiglia, incitato dal nobile esempio dei fratelli Bandiera, si era avvolto nelle congiure avverso la tirannide; egli che si era battuto da valoroso nelle prime battaglie dell'indipendenza, riportandone una gloriosa ferita; egli che condannato dai tribunali borbonici a 25 anni di ferri per il suo amore alla libertà era andato a vivere la vita dell’esilio; egli non era l'uomo che si sarebbe arrestato anche innanzi alla certezza che la difficile impresa sarebbe andata a male.

Il segreto della spedizione conosciuto dai seguaci di Pisacane e dai popolani e popolane di Genova, fu rigorosamente serbato. É inutile dire che Pisacane appena giunse in Genova si occupò della spedizione e scrisse al Comitato di Napoli la seguente lettera:

Genova 23 giugno 1857 — Amico carissimo — Trovai, come aveva già previsto, o immediato monopolio qui, o rifare il mancato. Il materiale era stato rimpiazzato non già cosi abbondante come il perduto, ma più di quello che io sperava. Gl'indugi impossibili per ragioni troppo lunghe ed inutili a dirsi. Io ho accettato, e perché accetto sempre quando trattasi di fare, e perché son convinto che questo è l’ultimo gioco che per ora si farà; e se mai non cercheremo trarne il profitto possibile faremo tale errore che verrà scontato con lunghissimo sonno. Noi ci siamo intesi su tutto. Il giorno appresso alla partenza, sarà spedito il dispaccio a Demata, se non ricevo da voi altra indicazione. Quindi bisognerà prevenirlo, ed appena giunto fare immediatamente quello che vi ho suggerito sul rapido cenno su Napoli. Come ancora è cosa urgentissima, nel ricevere questa mia, se ieri non ne avete ricevuta un’altra, che ho spedita all'indirizzo, di fare il possibile onde quelle medesime persone si trovassero a quel medesimo luogo, e che il nostro amico (Pateras) si portasse immediatamente in Basilicata, attenendosi a quanto fu convenuto fra noi. Vi rimetterò lo scritto da affiggersi, che io avrò stampato, e che se potrò inviarvene un certo numero lo farò, ma sembrami cosa molto difficile. Or vado a dirvi ciò che io spero dalla vostra lettera che debbo ricevere.

1. Indicazione più precisa per l’invio del dispaccio, sia alla stessa persona, sia ad altro.

2. La lettera di Agresti.

3. Schiarimenti. maggiori sulla località di Ponza, che avrete avuto da quel tale indicato, e per lo stesso mezzo un avviso che potreste spedire nel ricevere questa o la precedente a questa.

4. La faccenda di armi in Malta già in corso, barca già partita da Castellammare.

5. Secondo il convenuto, avrete già almeno un cantaio di polvere, che potreste avere in tale circostanza.

Se nella vostra che ricevo leggerò tutte queste cose sarò contentissimo. La lettera di cui vi parlo diretta a Rizzo non la spedii: vi accludo varie lettere: voi le leggerete e suggellerete, ma vi prego di consegnarle al loro indirizzo appena avrete ricevuto il dispaccio, se tale merce non giunge, è segno che il contratto non ha avuto luogo, ma se giunge vi prego caldamente consegnarle a coloro ai quali sono dirette, senza la benché minima esitanza, aggiungendo a voce tutti i possibili schiarimenti. Appena saprete il contratto conchiuso a Sapri spedite quelle merci dispaccio. Finalmente se per caso in luogo di sapere la conclusione del contratto per le merci Sapri, venisse a vostra conoscenza un nostro disastro, spedite qui le merci, dispaccio all'indirizzo medesimo, ma con queste altre cosi stabilite. La cambiale è stata rifiutata. Dunque queste merci significano disastro, tutte le altre a vostra scelta, che non sieno queste, vuol dire arrivo. Spero che la cosa vada, ma non possiamo essere certi di nulla, voi continuate a lavorare alacremente su quelle basi, giacché se per imprevedibile eventualità ciò non avesse luogo, il monopolio di Genova è inevitabile, e quindi la conseguenza immediata è il nostro contratto, dunque comunque vadano le cose, ritenete che se il tutto non sfuma, la cosa, avverrà con differenza di pochi giorni. — Resta fisso che il nostro dispaccio vuol dire cosa fatta. Attendo con ansia la vostra lettera, se dopo di averla ricevuta vi è cosa che importa, e sarò ancora in tempo, vi spedirò una seconda lettera. Un abbraccio a voi ed agli amici tutti, in particolare al socio (Dragone) ed una stretta di mano alla moglie. — Abbiate in pronto i seguenti campioni. Giovedì venticinque partenza. Domenica arrivo Sapri. Salute e così sia.

Tutti erano al loro posto il ventiquattro; le armi ele munizioni erano state imbarcate negli ultimi giorni che precedettero la spedizione. Pisacane che viveva certo delle promesse avute, era speranzoso che le popolazioni si sarebbero sollevate ed avrebbero risposto al grido di libertà per rovesciare dal trono il Borbone. Dopo aver dunque tutto stabilito pel giorno appresso coi suoi compagni Nicotera, Falcone e Gagliani, scrisse il suo testamento politico riassumendo tutto nelle parole: «Libertà» ed «Associazione», e lo consegnò a Miss White, per farlo pubblicare sui giornali inglesi. Esso è il seguente:

Nel momento d’intraprendere un’arrischiata impresa, voglio manifestare al paese le mie opinioni, onde rimbeccare la critica del volgo, corrivo sempre ad applaudire i fortunati e maledire i vinti.

I miei principii politici sono abbastanza noti; io credo che il solo socialismo, ma non già i sistemi francesi informati tutti da quell'idea monarchica e dispotica che predomina una nazione, ma il socialismo espresso dalla formola Libertà ed Associazione sia il solo avvenire non lontano dell'Italia, e forse dell'Europa: questa mia idea la ho epressa in due volumi, frutti di circa sei anni di studio; non condotti a fornitura di stile per mancanza di te mpo, ma se qualche mio amico volesse supplire a questo difetto e pubblicarli, gliene sarei gratissimo. Sono convinto che le ferrovie, i telegrafi, il miglioramento dell'industria, la facilità del commercio, le macchine ecc. ecc., per una legge economica e gitate, finché il riparto del prodotto, è fatto dalla concorrenza, accrescono questo prodotto, ma l'accumulano sempre in ristrettissime mani, ed immiseriscono la moltitudine; epperciò questo vantato progresso non è che regresso; e se vuole considerarsi come progresso, lo si deve nel senso che, accrescendo i mali della plebe, la sospingerà ad una terribile rivoluzione, la quale, cangiando d’un tratto tutti gli ordinamenti sociali, volgerà a profitto di tutti, quello che ora è volto a profitto di pochi. Sono convinto che l’Italia sarà libera e grande oppure schiava: sono convinto che i rimedii necessarii come il reggimento costituzionale, la Lombardia, il Piemonte ecc. ecc., ben lungi dall'avvicinarla al suo risorgimento, ne l'allontanano; per me non farei il minimo sacrificio per cangiare un ministro, per ottenere una costituzione,. nemmeno per cacciare gli Austriaci dalla Lombardia ed accrescere il regno Sardo: per me dominio di Casa Savoia, o dominio di Casa d’Austria è precisamente lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costituzionale del Piemonte sia più dannoso all'Italia che la tirannide di Fordinando II. Credo fermamente che se il Piemonte fosse stato retto nella guisa medesima degli altri Stati italiani, la rivoluzione sarebbe fatta. Questo mio convincimento emerge dall'altro che la propaganda dell'idea è una chimera, che la educazione del popolo è un assurdo. Le idee risultano dai fatti, non queste da quelle, ed il popolo non sarà libero quando sarà educato, ma sarà educato quando sarà libero. Che la sola opera che può fare un cittadino per giovare al paese è quella di cooperare alla rivoluzione materiale; epperó cospirazioni, congiure, tentativi ecc., sono quella serie di fatti attraverso cui l’Italia procede verso la sua meta. Il lampo della baionetta di Milano fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti dai dottrinarii, che sono la vera peste del nostro, come di ogni paese.

Alcuni dicono che la rivoluzione deve farla il paese: ciò è incontestabile. Ma il paese è composto d’individui, e poniamo il caso che lutti aspettassero questo giorno senza congiurare, la rivoluzione non scoppierebbe mai; invece se tutti dicessero: la rivoluzione deve farla il paese, di cui io sono una particella infinitesimale, e però ho anche la mia parte infinitesimale da compiere, e la compio, la rivoluzione sarebbe immediatamente gigante. Si potrà dissentire dal modo, dal luogo, dal tempo di una congiura, ma dissentire dal principio è assurdo, è ipocrisia, è nascondere un basso egoismo. Stimo colui che approva il congiurare e non congiura egli stesso: ma non sento che disprezzo per coloro i quali non solo non vogliono far nulla, ma si compiacciono nel biasimare, maledire coloro che fanno. Con tali principii avrei creduto mancare a un sacro dovere, se vedendo la possibilità di tentare un colpo in un punto, in un luogo, in un tempo opportunissimo, non avessi impiegato tutta l'opera mia per mandarlo ad effetto. Io non ispero, come alcuni oziosi mi dicono per schermirsi, di essere il salvatore della patria. No: io sono convinto che nel sud la rivoluzione morale esista: sono convinto che un impulso gagliardo può sospingerlo al moto, epperó il mio scopo, i miei sforzi sonosi rivolti a mandare a compimento una congiura, la quale dia un tale impulso: giunto al luogo dello sbarco, che sarà Sapri nel Principato Citeriore, per me, è la vittoria, dovessi anche perire sul patibolo. Io individuo, con la cooperazione di tanti generosi, non posso che far questo e lo faccio: il resto dipende dal paese e non da me. Non ho che i miei affetti e la mia vita da sacrificare a tale scopo e non dubito di farlo. Sono persuaso che se l’impresa riesce, avrò il plauso universale; se fallisce, il biasimo di tutti: mi diranno stolto, ambizioso, turbolento, e molti, che mai nulla fanno e passano la vita censurando gli altri, esamineranno minutamente la cosa, porranno a nudo i miei errori, mi daranno la colpa di non essere riuscito per difetto di mente, di cuore, di energia.... ma costoro sappiano che io li credo non solo incapaci di far quello che io ho tentato, ma incapaci di pensarlo. A coloro poi che diranno l’impresa impossibile, perché non è riuscita, rispondo, che simili imprese se avessero l'approvazione universale" non sarebbero che volgari. Fu detto folle colui che fece in America il primo battello a vapore: si dimostrava più tardi l’impossibilità di traversare l’Atlantico con esso. Era folle il nostro Colombo prima di scoprire l’America, ed il volgo avrebbe detto stolti ed incapaci Annibaie e Napoleone, se fossero periti nel viaggio, o l'uno fosse stato battuto alla Trebbia, e l'altro a Marengo.

Non voglio paragonare la mia impresa a quelle, ma essa ha un testo comune con esse; la mia disapprovazione universale prima di riuscire e dopo il disastro, e l’ammirazione dopo un felice risultamento.

Se Napoleone, prima di partire dall’Elba per isbarcare a Fréjus con cinquanta granatieri avesse chiesto consiglio altrui, tutti avrebbero disapprovato una tale idea. Napoleone aveva il prestigio del suo nome; io

porto sulla bandiera quanti affetti e quante speranze ha con se la rivoluzione italiana; combattono a mio favore tutti i dolori e tutte le miserie della nazione italiana.

Riassumo: se non riesco, dispregio profondamente l’ignobile volgo che mi condanna, ed apprezzo poco il suo plauso in caso di riuscita. Tutta la mia ambizione, tutto il mio premio lo trovo nel fondo della mia coscienza, e nei cuore di quei cari e generosi amici, che hanno cooperato e diviso i miei palpiti e le mie speranze; e se mai nessun bene frutterà all’Italia il nostro sacrifizio, sarà sempre una gloria trovar gente che volenterosa s’immola ai suo avvenire.

Dopo di aver dettato il suo testamento, il Pisacane saputo che i macchinisti a bordo del «Cagliari» erano Inglesi, pregò la Miss White di scrivere quattro righe per far loro conoscere la ragione per la quale si sarebbe usata la violenza; e la Miss White fece due copie di un proclama di cui ecco la traduzione:

Noi desideriamo evitare spargimento di sangue, unico scopo nostro è di liberare i nostri fratelli dalle orribili prigioni del re Bomba di Napoli, sì giustamente odiato dagli Inglesi.

Aiutandoci nei nostri sforzi, voi dovete avere la coscienza di fare una buona azione, la quale sarà approvata dalle due nazioni, italiana ed inglese.

Voi inoltre avrete il merito di salvare la nave ai vostri padroni. Ogni resistenza è vana. Noi siamo risoluti a compiere la nostra impresa o a morire.

Non è priva d’interesse anche la dichiarazione, che i marinai liguri dettarono e consegnarono ai loro amici prima di accingersi all'arrischiata impresa. Essa prova ancora una volta che il Governo sardo non ebbe alcuna parte nella spedizione. 1 lettori da essa vedranno da quali nobili e generosi sentimenti fos sero stati informati gli animi di coloro, che ultimamente, nel processo del Tribunale di San Firenze, alcuni chiamavano avanzi di galera.

I figli del popolo furono raccolti senza scelta ed esame speciale da parecchi mucchi d’affratellati al partito: racóolti in un subito, poco tempo prima del fatto. Fu detto loro:

—«Volete avventurarvi a rischi di morte per giovare ad una impresa dalla quale può venir giovamento alla patria comune?»

Essi avevano fede nell'uomo che proponeva; accettarono volentieri, e risposero:

—«Poco ci cale della vita, se possiamo sperare che il sacrificio giovi alla nazione dalla quale «per la quale nascemmo. Soltanto promettetici di pubblicare, quando che sia, la dichiarazione che vi consegniamo, perché il nostro popolo non disconosca i motivi che determinano la nostra accettazione.»

Eccola questa dichiarazione:

I marinai Liguri ai fratelli d’Italia

Noi partiamo. Partiamo noi allettati da quelle speranze di guadagno e di gloria che spingevano i padri nostri a portar la Croce rossa di Genova in Africa e in Asia e fare del Mediterraneo il mare nostro; partiamo, non costretti da invasione straniera o da crudele tirannide domestica a lasciare il suole nativo per cercare altrove un asilo alle nostre credenze.

Cittadini d’uno Stato comparativamente sicuro in Italia, vivevamo sulle nostre navi e nelle nostre case, senza temere che lo sgherro del tiranno venisse a toglierci ai nostri bambini, o rapire i figli nostri a noi.

E tuttavia non ci sentivamo liberi e felici. Dal Nord e dal Sud ci giungeva il pianto e il fremito di gente schiave e martorizzate, e quel fremito e quei lamenti avevano suono italiano. Il lungo gemito che usciva dai sotterranei di Mantova, di Pagliano e di Montefusco, l’eco delle fucilazioni di Milano e di Carrara, il sordo rumore del bastone di Napoli e di Roma, che solcava, disonorando, membra italiane, ci piombavano sul cuore e turbavano i nostri sonni.

La coscienza ci dice: Fino a tanto che 20 milioni d’Italiani sono schiavi, non abbiamo diritto di esser liberi se non a patto di consacrare la vita all'emancipazione di tutti. La piccola patria di Genova e di Piemonte non ci basta più, e aspiriamo alla Grande Patria che le Alpi e il mare hanno tracciato a 25 milioni di fratelli.

E perciò partiamo. Partiamo con Italiani di ogni provincia italiana a tentare la prova per la quale ogni provincia ha già tante volte dato i suoi martiri. I Bandiera e Scarsellini, Ruffino e Masina, Carasse e Milano, e tanti popolani, oscuri e poveri come noi, ci hanno trasmesso un sacro legato; noi lo accettiamo, e se non ci è dato eseguirlo, lo trasmetteremo ad altri più fortunati di noi.

Siamo ben pochi a tentare la prova, perché chi governa non ama l’Italia e' avversa chi s’adopra a liberarla.

Nei giorni delle glorie di Genova uscivano i suoi figli a generose imprese. Partivano per liberare Sardegna e Corsica dal giogo saraceno, a redimere la repubblica di Gaeta dal despotismo aragonese; ma abbandonavano il porto a vele e bandiere spiegate, di pieno giorno, e un immenso popolo dai muri delmolo dai campanili e dalle alture li confortava simpatico di applausi e d'augurii. Noi, da un Governo egoista e codardo siamo costretti a involarci fra le tenebre a guisa di contrabbandieri, e a celare i nostri propositi quasi fossero delitto.

La prova è difficile; il nemico che intendiamo assalire è forte di soldati stranieri e di cieca milizia propria: la provincia, in cui speriamo piantare la bandiera italiana, è abitata da gente buona ma ignorante, a cui forse si farà credere essere noi masnadieri, o pirati scesi al saccheggio. Forse ci toccherà d'essere accolti, come il drappello dei Bandiera quali nemici dei nostri fratelli.

E sia pure! Poveri popolani, non abbiamo se non la vita da dare all'Italia, e di gran cuore l'offriamo. Accolga Dio il sacrificio e lo ponga sulle bilancie dei destini d’Italia.

Se l'impresa riesce, secondateci, fratelli di Genova. Non cedete a nessuno il vanto d'innalzare secondi lo stendardo italiano: fatelo sventolare sulla Lanterna, sui forti e sulle navi.

Trasformate lo Stato sardo in provincia italiana, e se il Governo resiste compite la trasformazione senza di lui e contro di lui; le navi, le armi, i tesori e i figli di Genova non ad una famiglia, ma aisi Italia appartengono.

Se cadiamo, non ci piangete. Noi diciamo coi fratelli Bandiera: «la nostra morte sarà più utile alla causa italiana che una vita sterilmente prolungata.»

Se non ci è dato più vedere le nostre Riviere bagnate dal mare, date una carezza d'affetto agli orfani bambini che lasciamo fra voi: educateli nella religione della Patria: raccogliete la bandiera che nel morire, ci sarà sfuggita di mano; e se — libera si Italia dalle Alpi al mare — vi sovverrà dei morti fratelli, ergete allora — non prima — «A coloro che per la Patria hanno incontrato la morte, una tomba»,

Una tomba in terra libera e per mani libere, consolerà le anime nostre.

«Viva l’Italia!»

Genova, 12 luglio 1857.

Porro Domenico di Lerici — Barbieri Luigi id. — Poggi Gaetano id. — Pòggi Felice id. — Faridone Cesare id. — Medusci Francesco id. — Giannoni Lorenzo id. — Rolla Domenico id. — Mazzoni Domenico di Ancona — Perucci Achille id. — Cori Cesare id. — Camillucci Giovanni id.

VI

Il giorno 25 giugno 1857, alle sei pomeridiane, nel porto di Genova, s’imbarcavano come passaggieri sul «Cagliari» Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera, Battistino Falcone, Giovanni Gagliani ed un’altra ventina di prodi, che si recavano ad affrontare certa morte, per promuovere una rivoluzione e liberare la loro patria dalla tirannia. Erano pochi uomini, che fin d’allora avevano fede nell'unità della patria, quando pei più dei moderni patrioti l’unità era un’utopia da manicomio; erano pochi valorosi che correvano volenterosi ad offrire la loro vita, quando vedevano che il più gran pericolo all’unità, che essi vagheggiavano veniva dalla cospirazione murattista, la quale si manifestava ardita, infaticabile, potente perché protetta, incoraggiata e sovvenuta dall’elemento napoletano in Francia; erano pochi ardimentosi che andavano a farsi massacrare per sventare questa cospirazione prevedendo ogni suo movimento, prevenendolo ed innalzando la bandiera d’Italia, dove si voleva innalzare la bandiera d'un pretendente straniero; erano pochi generosi che non ostante le assicurazioni e le promesse degli amici e del Comitato nazionale non s’illudevano sulla loro sorte, ma che non esitavano, non indietreggiavano dinanzi al sacrifizio', e baldi e animosi, Gurzii. novelli, andavano a gittarsi nella voragine, pur di scongiurare una bruttura di eterno obbrobrio per la patria.

L’imbarco dei congiurati non diede sospetti agli agenti della polizia genovese, che la questura teneva in sull'avviso per qualche tiro che avesse potuto ricevere. Appena poche miglia lontani dal porto assalirono il capitano del «Cagliari» Antioco Sitzia ed i marinai; colla forza si fecero cedere il comando, li rinchiusero sotto coperta e diedero il comando del legno a Giuseppe Daneri, capitano marittimo, che si era imbarcato con loro.

Il primo colpo era riuscito. Era buono l’augurio. Ebbero audacia e l'audacia li secondò. Un Romano si sarebbe incoraggiato a proseguire. I nostri senza essere Romani proseguirono. Sventuratamente il loro non era che il primo passo. Il cammino che dovevano percorrere era lungo e seminato d’immense difficoltà, a superare le quali, ci sarebbe voluto un esercito bene agguerrito. Essi non erano che pochi, troppo pochi e non avevano con loro che un tesoro di fede e di speranza: di fede nella santità della causa per la quale s’immolavano, di speranza nelle popolazioni oppresse dalla tirannide borbonica che al grido «d’Italia» avrebbero dovuto sollevarsi ed aiutare 1 impresa generosa, per il conquisto della libertà. Mille cuori accompagnavano quei valorosi, mille cuori palpitavano sulla loro sorte. Ma ahi! non trovarono mille petti di uomini ardimentosi come loro che li avessero aiutati nella titanica impresa.

I congiurati dovevano a trenta miglia dal porto incontrare una barca carica di armi e munizioni, partita il giorno innanzi e guidata dallo stesso Rosolino Pilo con altri venti compagni. Una nebbia fittissima impedì a costoro di scorgere il «Cagliari» e sconfortati dovettero riprender terra per la seconda volta abbandonando il carico, che veniva catturato dal piroscafo «Ichnusa» mandato contro di loro dal Governo sardo che era stato avvertito della spedizione.

Moltissime furono le ricerche, che vennero fatte dai congiurati per la barca, ma quando ogni speranza andò fallita tennero consiglio per proseguire o procrastinare il viaggio. Nicotera fece osservare che dovendo essi sbarcare a Ponza, i fucili che dovevano esser loro fomiti dalla barca dispersa sarebbero riusciti inutili, dacché in quell’isola non li avrebbero potuto adoperare, non potendovi essi penetrare diversamente che con un colpo di mano. L’avviso del Nicotera venne accettato ed i congiurati per non perdere più tempo in un luogo dove potevano essere sorpresi, perché non ancora molto lontani dal porto di Genova, fecero affrettare il viaggio. Oramai si poteva esclamare: «Alea jacta est»; e Pisacane poteva pur dire a sua volta; «Impareranno i moderati come poche anime generose sappiano iniziare grandi fatti,, armate d’un pugnale soltanto».

E mentre il vapore salpava, quei valorosi scrivevano una dichiarazione piena di nobili e patriotici sensi.

È bene che il lettore ne abbia cognizione:

Noi qui sottoscritti, avendo tutti congiurato, forti nella giustizia della nostra causa e nella gagliardia del nostro animo, ci dichiariamo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non ci asseconderà, noi senza maledirlo sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange dei martiri italiani.

E morirono, morirono da forti!

Sottoscrittori di questo documento furono Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera, Giambattista Falcone, luigi Barbieri, Gaetano Poggi, Achille Peruggi, Cesare Fardoni, Felice Poggi, Giovanni Galliani, Domenico Rolla, Cesare Cori, Federico Foschini, Lodorico Negroni, Domenico Lerici, Francesco Moduscè, j Lorenzo Giannoni, Giuseppe Falconi, Giovanni Connellari, Domenico Massoni,. Pietro Rusconi.

Mentre il vapore procedeva, Giovanni Nicotera intese da un marinaio dire ad un altro:

— Quando non sarebbero stati fortunati costoro se avessero tentato questo colpo nel viaggio precedente. Avrebbero trovato a bordo tutte quelle casse di futili che portammo a Tunisi.

’ — Al Nicotera non bastava altro che udire un simile discorso per poter subito sospettare che ancora quella volta poteva il «Cagliari» avere a bordo dei fucili. E senza porre tempo in mezzo chiese subito al comandante del vapore lo stato delle mercanzie imbarcate per vedere se e quante armi vi erano. In realtà furono rinvenute sette casse delle quali tre con settantacinque due colpi, altrettante con sessanta tromboni, contenente canne smontate, che furono lasciate sul vapore.

Il giorno 27 giugno alle quattro pomeridiane, il «Cagliari» avente a poppa bandiera piemontese dai tre colori, a prua una piccola bandiera rossa, sotto pretesto di avarie sofferte, dava fondo innanzi Ponza.

Ponza, isola sul Tirreno di duemila abitanti, dista da Gaeta circa 60 chilometri. A Gaeta eravi allora, come abbiamo avuto occasione di dire, il re di Napoli, che pauroso di stare nella Capitale erasi colà rifugiato colla sua famiglia e coi suoi ministri.

Ponza era, come lo è tuttora, un luogo di relegazione, e però eravi una guarnigione di circa 500 tra veterani, artiglieri e soldati di linea. Comandava l’isola un maggiore ed il porlo un capitano.

Appena giunto il «Cagliari», fu chiamato a bordo il pilota pratico e colle minaccie lo si costrinse a guidare il vapore all'imboccatura del porto. Frattanto il comandante dell'isola, avendo incaricato il capitano del porto e l'aiutante di piazza di verificare lo scopo dell’arrivo di quel vapore con bandiera sarda costoro vi andarono personalmente e fecero salire a bordo due dei loro, i quali vennero fatti prigionieri dai congiurati.

Il Nicotera costrinse costoro, tenendogli una pistola spianata contro, ad indurre il capitano del porto a salire a bordo, ed essi, presi dalla paura, riferivano al capitano le parole che loro venivano suggerite dal Nicotera, che tenevano nascosto alle spalle. Ogni opera però fu inutile, dacché il capitano non volle salire. In questo mentre vennero gittate in mare tre lancie del vapore».

In una di queste discese Daneri capitano marittimo, con in mano la patente sanitaria per la libera pratica, Nicotera, Falcone ed altri cinque che con ardimento più unico che raro avevano 'per scopo di farsi consegnare le armi e le munizioni. La lancia si accostò alla banchina dèi porto doganale, ove era anche l'ufficio di Sanità. Quivi giunti il deputato di salute si accostò a Daneri e gli disse che aspettassero l’arrivo del cancelliere della deputazione. Mentre ciò avveniva il Pisacane in altra lancia con entro dieci compagni si diresse alle spalle del porto, e sbarcarono gridando: «Viva l'Italia! — Viva la Repubblica!». Allora il Nicotera cogli altri suoi saltarono a terra, arrestarono i due deputati di salute ed impadronitosi del posto doganale, ve li rinchiusero rimanendovi Daneri a guardia, armato di pistola. Dalla terza lancia discesero Agostino Ghio ed altri otto: si gittarono ad un tratto sopra la scorritoia reale ancorata nel porto, sequestrarono i due ufficiali e tre marinai che vi stavano a guardia, e ne inchiodarono il cannone. Il drappello di Pisacane assalì la gran guardia, disarmò i veterani che la custodivano, e s'impadronì del posto e delle armi ivi esistenti. Nicotera coi suoi assalì l'abitazione del comandante per farsi cedere tutte le armi dell’isola. Un ufficiale che Nicotera prese pel comandante, gli si pose di fronte colla spada sguainata e gl’impedì il passo. Il momento era decisivo: uno dei due doveva restare lì: non v'era da retrocedere: Nicotera in un subito vide e misurò tutta la posizione in cui si trovava: se il passo falliva ogni cosa era perduta, audace dunque quale egli era non si atterrì davanti alla spada di un ufficiale del Borbone e con un pugnale che aveva, e che mai si pensava di doversene servire in quel rincontro, uccise quell’uomo e ritornò in istrada. Quivi Pisacane gli ripeté che bisognava andare dal comandante dell'isola per farsi dare l’ordine di resa le armi e le chiavi delle prigioni. Nicotera gli rispose Che il comandante l’aveva ucciso. Uno dei soldati presenti disse allora a Nicotera che l'ucciso non era che un ufficiale e che il comandante era ancora nella sua abitazione. Nicotera allora coi suoi compagni risalì la casa del comandante. Quel vecchio impaurito gli si fece innanzi accompagnato dalla moglie e dalle figlie piangenti, impetrando la vita. Il Nicotera gli rispose, consegnasse le armi e le chiavi delle prigioni, nulla avesse a temere, che non assassini, ma Italiani, venuti a combattere per l’indipendenza della patria si trovavano a lui davanti.

I soldati, non ostante l’ordine scritto, intendevano di resistere ad ogni costo. Allora Pisacane fece dai suoi scortare il comandante dell’isola alla torre, perché personalmente ordinasse la resa e la consegna delle armi e munizioni da guerra.

I soldati consegnarono le armi, il comandante le chiavi delle prigioni e così un pugno impercettibile di uomini non armati d’altro che di audacia e di fede nella causa per la quale avevano dato l’ardito passo, divenivano padroni dell’isola.

Immantinenti i relegati politici e non politici, vennero messi in libertà. Non tutti però presero le armi per la patria, che anzi molti di quelli che non partirono più che giovare nocquero, perché di fucili, con tutti quelli presi nell'isola, a bordo se ne trovarono meno di quelli che già vi erano.

Imbarcatosi sul «Cagliari» un 200 di quei detenuti ed un centinaio di quei militi in punizione, ad un’ora dopo mezzanotte si salpò da Ponza.

In questo frattempo un tal De Leo, murattista, avversando una spedizione animata da spirito nazionale, non contento di aver insinuato a molti di non partire, anima vile e codarda qual'era, ebbe un pensiero triste: si mise in una barca e difilato corse a Gaeta, ove era il re per riferirgli l’accaduto. Ebbe in compenso del tradimento: condono di pena e licenza da farmacista. Ecco un murattista convertito in spia; quante spie non facevano i murattisti?

Durante il tragitto da Ponza a Sapri tutti gli uomini imbarcati sul «Cagliari» erano stati ordinati in tre compagnie di dieci squadre, generale Pisacane, Nicotera colonnello.

Intanto il Governo borbonico avvertito del fatto di Ponza prese subito le disposizioni le più sollecite e per mare e per terra. Se sbarcano neppure uno ne scamperà dalle forze di terra; se non sbarcano tutti saranno catturati dalle forze di mare. La sera del 28 giugno a Gaeta furono imbarcate quattro compagnie dell'undecimo cacciatori sulle fregate «Ettore» e «Tancredi» che partirono alle prime ore del 29 per dar la caccia al «Cagliari».

Anche per terra furono prese tutte le disposizioni necessarie. Si avvertirono le autorità civili e militari della provincia di Salerno dell’intendimento dei rivoltosi; di sbarcare cioè in quelle spiagge, sollevare i paesi che percorrevano, far capo a Potenza, e erescendo di numero e di forza, dirigersi a Napoli e portarvi la rivolta.

I congiurati però dovevano, una volta sbarcati, passare lo stretto di Sala, e qui si concentrarono le forze regie, e la mattina del 29 giugno già v'erano riunite diverse brigate di gendarmi a piedi, un buon numero di gendarmi a cavallo, le guardie urbane dei vicini comuni, ed il 7.°battaglione cacciatori che vi si era recato da Salerno.

Intanto la notte tra il 27 ed il 28 giugno il «Cagliari» si avvicinava intrepido verso il basso Cilento, dove portava tanto tesoro di patriottismo e di abnegazione: nuova falange delle Termopili eubee, destinata anch’essa ad empire la storia dell’eco dell’ultimo suo sospiro. Prima però che quei coraggiosi abbandonassero il battello del quale si erano impadroniti colla forza per tentare l’eroica impresa, scrissero la seguente dichiarazione che venne sequestrata a bordo dalla più esosa delle polizie, la polizia napoletana.

Noi qui sottoscritti, dichiariamo altamente che avendo tutti congiurato d’impossessarci del vapore il «Cagliari,» ci siamo imbarcati come passeggierà Dopo che eravamo due ore lontani da Genova, abbiamo impugnato le armi, e forzato il capitano e tutto l'equipaggio a cedere il comando del vapore. Il capitano e tutti i suoi, vedendoci decisi piuttosto di perire che di cedere, hanno fatto quanto era in loro per potere evitare lo spargimento del sangue e tutelare gli interessi dell'amministrazione. Eravi a bordo come passeggieroper Cagliari, il capitano marittimo Daneri; avendolo saputo, l’abbiamo costretto a prendere il comando: egli ha ceduto alla forza,né poteva fare altrimenti sprezzando le calunnie del volgo, stretto dalla giustizia della causa e dalla gagliardia delle nostre armi, ed operiamo da iniziatori della rivoluzione italiana.

VII

A Sapri era allora giudice un tal Gaetano Fischietti, il quale ricevuto le istruzioni dal suo Governo, sorvegliava la spiaggia in compagnia d'un capitano marittimo, che doveva riconoscere da lontano la nazionalità dei navigli che passavano per quelle acque, dacché ritenevasi per fermo che lo sbarco si sarebbe tentato con legni inglesi.

Un bel giorno venne segnalato un vapore sospetto. Il giudice si recò sopra un’altura col suo capitano a fianco per sapere di che si trattava. Il capitano giudicò che il legno era inglese, perché lo scafo presentava certe particolarità caratteristiche di costruzione, quali non ne presentava nessuno della marina napoletana. Subito il giudice dispose ogni cosa sia perché un possibile sbarco di ribelli fosse accolto a fucilate, sia perché nello stesso tempo si fossero potuto uccidere o arrestare i componenti la spedizione.

Fra il giudice a terra e Pisacane a mare cominciò una logomachia di astuzie, di espedienti, di finte, l’uno per riuscire a tendere il laccio nel luogo opportuno, l’altro per arrivare a compiere lo sbarco senza pericolo dei suoi uomini.

D giudice fece mettere sotto le armi le truppe, chiamò le guardie urbane, sginzagliò tutti i poliziotti vestiti e travestiti, sparse le spie per tutto e sorvegliò la costa. Il «Cagliari» durò un pezzo a bordeggiare poi spari, e quando meno se lo aspettavano quei di Sapri, venne effettuito rapidamente lo sbarco nel luogo meno guardato, cioè tra Policastro e Sapri, in contrada Oliveto nel tenimento di Vibonati. E cosi nella notte tra il 28 e 29 giugno Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera si trovarono su quella spiaggia, seguiti da quel pugno di generosi, con coraggio più unico che raro, ed innalzarono lo stendardo dell’insurrezione al grido di «Viva l’Italia!». Cosi essi si spinsero in un’impresa, della quale nel loro patriottismo non si curavano neppure di misurare il temerario ardimento: era ardimento eroico dinanzi al quale chiunque ama il suo paese deve inchinarsi. Approdata che fu quella coorte sul lido di Sapri, Pisacane e Nicotera sparsero per quei luoghi il seguente proclama:

Cittadini! — È tempo di porre un termine alla sfrenata tirannide di Ferdinando II; a voi basta volerlo. La Capitale aspetta dalle provincie il segnale della ribellione per troncare la questione in un colpo solo. Per noi il Governo di Ferdinando ha cessato di esistere, ancora un passo e avremo il tempo, facciamo massa e cominciamo dove i fratelli ci aspettano; noi abbiamo lasciato le famiglie e gli agi della vita, per gittarci in una intrapresa che sarà il segnale della rivoluzione, e voi ci guardate freddamente come se la causa non fosse la vostra? Vergogna a chi potendo combattere non si unisce a noi. La vittoria non sarà dubbia; il vostro esempio sarà seguito dai paesi vicini, il nostro numero crescerà ogni giorno più, e in breve tempo saremo un esercito di libertà.

Gli abitanti però non risposero all'appello dei rivoltosi, gli uni perché pensavano che quel manipolo di uomini non potevano avere probabilità di riuscita, gli altri perché affidandosi alle voci sparse dagli agenti del Borbone, li credettero forzati evasi venuti a saccheggiare si nascosero aspettando l'arrivo delle guardie urbane e dei battaglioni dei cacciatori. Intanto i sollevati si diedero alla ricerca di quella gente armata promessa dal Comitato nazionale di Napoli a Pisacane, mossero verso il fortino col disegno di prendere la volta di Potenza, che era stata destinata come punto centrale della rivoluzione, ove dovevano riunirsi gli affiliati di tutti i punti, per guisa da concentrarsi trenta mila uomini e marciare sulla Capitale, dove sebbene il partito nazionale era poco esteso, pure era audace e contavasi di impadronirsi per sorpresa di S. Elmo e del Castelnuovo.

Questo moto non essendo isolato doveva produrre il suo effetto, dacché contemporaneamente doveva avere un’eco a Genova, a Livorno, a Roma ed a Firenze. Ed in vero a Genova che per la sera del 29 giugno v'era il progetto di impadronirsi dei forti e dell'arsenale per inviare armi e gente a Napoli, onde appoggiarvi il movimento, venne fatta una sommossa e si aggredì il forte Diamante. Questo però non fu eseguito a tempo perché un ordine contrario che era stato mandato ai capi, dopo che era stato preparato qualche cosa di più serio, non giunse. Gli esecutori del disegno non essendo avvertiti scoppiò quel piccolo movimento, che restò circoscritto al Diamante e che venne ben presto represso, restandone parecchi arrestati. A Livorno la sollevazione avvenne il 30 giugno; anch’essa venne repressa e tanto più facilmente in quantoché il Governo del Granduca era in sull'avviso e fin dalla metà di giugno popolavano le vie di Livorno di pattuglie di 90 uomini.

Dunque il momento della riscossa doveva essere contemporaneo in parecchie parti della Penisola, meno la Lombardia, le Calabrie e gli Abruzzi, tra cui non erano state rannodate ancora le opportune corrispondenze. Ed in vero il Comitato napoletano aveva già commesso a Pisacane di mandar corrieri nelle Calabrie e stabilire nessi di relazione con quelle contrade, per poter così fra P altro ripiegare colà in caso di rovescio.

Pisacane ed i suoi seguaci nella sicurezza di trovare simpatie nei paesi che dovevano percorrere, giunsero a Torraca, ove incontrarono alcuni Padulesi dai quali furono invitati a recarsi a Padula, dove cinque o sei cento armati si sarebbero a loro riuniti. Accettato l'invito, i rivoltosi si recarono a quella volta, spintivi ancora dal bisogno di provvedersi di viveri di cui assolutamente difettavono. A Padula però non trovarono amici né segni di rivoluzione; ma un paese atterrito. E come la voce della vendetta gridava: «all'armi», gli uomini o fuggivano spaventati, o si nascondevano. I popoli più bellicosi, i più devoti alla libertà, quegli stessi che due volte in vent'anni, nel 1820 e nel 1848, avevano osato iniziare la rivoluzione, si mostravano allora imbelli e timidi schiavi della paura. Le sante ossa dei De Luca, dei De Mattia, dei De Dominicis e dei Carducci fremettero certo di sdegno. Pisacane e Nicotera si accorsero dell'inganno in cui erano caduti, poiché non vi rivennero appoggio alcuno, che anzi venne loro consigliato da alcuni Padulesi di partirsene subito, perché a Sala era riunita una forza imponente e già si disponevano per altrove.

In questo frattempo furono circondati dalla truppa; che incominciò a combatterli, coadiuvata dall’intera popolazione, la quale sparando e gittando per le finestre pietre e ciò che meglio le veniva fra le mani cooperava efficacemente a scacciarli. Il conflitto fu lungo ed ostinato, perché per circa tre ore le guardie urbane con i gendarmi si batterono contro i rivoltosi, i quali solo quando sopragiunsero i cacciatori furono obbligati a ritirarsi.

Pisacane e Nicotera avrebbero voluto eseguire la ritirata verso il Vallo, con la speranza di trovarvi simpatie. Essi avevano fede che le contrade del Cilento sempre pronte e sempre prime a muoversi per spezzare le catene della tirannide, ricche di memorie e di sventure, avrebbero assecondato i lori disegni. I Cilentani che per la libertà nondu avevano risparmiato né a pene, né a fatiche, né a perigli; che per la libertà avevano sofferto carceri, ergastoli, esili e capestri, che i Borboni per quegli uomini avevano avuto sempre in pronto, onde spegnere nel loro cuore ogni scintilla di libertà, i Cilentani erano quelli che non sarebbero mancati all’appello. E Pisacane e Nicotera innanzi a tante tradizioni non potevano non pensare ad un potente ed efficace aiuto che loro sarebbe dovuto venire in quelle contrade.

E stavano per dirizzarsi a quella volta tanto più che erano restati profondamente meravigliati della resistenza sperimentata in Padula, ma non poterono che attraversare la pianura e guadagnare le montagnedi Sanza. E là ebbe luogo un altro accanito combattimento tra le guardie urbane ed i villici dei paesi circonvicini, che come fiere si scagliarono contro quella generosa coorte. I ribelli comandati da Pisacane e da Nicotera, fecero prodigi di abilità e di valore. Scivolavono di mano alle truppe, guizzavano come pesci, sparivano, ricomparivano. Bisognò ricorrere agli stratagemmi per attirarli su di un terreno per vincerli.

Molti caddero! Carlo Pisacane colpito da una palla di fucile, rivolse le proprie armi contro se stesso e si uccise.

Oh! diciamo anche noi col poeta:

Finché pugnar vid'io, per lor pregai

Ma un tratto venni men, ne più guardai,

Io non vedeva più fra mezzo a loro

Quegli occhi azzurri e que’ capelli d'oro. (5)

E Battistino Falcone, anch'egli non vide più gli azzurri occhi ed i capelli d’oro del suo capo e ne seguì l’esempio rivolgendo contro se stesso le proprie armi.

Giovanni Nicotera, colpito da una palla di fucile alla mano, da forti colpi di clave in testa non volendo sopravvivere alla vista degli esanimi suoi compagni si raccomandava perché lo avessero finito non potendo egli servirsi della sua mano inerte per la ferita ricevuta!...

VIII

La lotta era finita. Sui monti di Sanza le tenebre della notte covrivano feriti, morenti e morti di quella eroica falange di coraggiosi, che avevano nei domini del più triste fra' tiranni innalzato il grido di «Viva l’Italia!»

Ogni speranza era perduta! Le ecatombe di Padula e Sanza passavano nel dominio della storia per appartenere alla libera coscienza d’Italia, per esser patrimonio sacro, retaggio inviolabile di quanti amano la libertà e sanno immolarsi per essa!

Un guardiano del campo s’aggirava tra le vittime per constatarne la morte. Una di essa, gli parve desse segno di vita. Ordinò ai suoi di raccogliere l’infelice uomo e consegnarlo nelle mani della giustizia. Spogliatolo nudo lo deposero su d’una barella e s’avviarono per Sanza. Quell’uomo morente, privo di sensi, che veniva trasportato come un cadavere era Giovanni Nicotera.

Lungo il tragitto, turbe d’infuriate megere muovevano incontro al convoglio in cerca «delli briganti che volevano ammazzàu re». La prima volta il guardiano giunse in tempo per salvare il Nicotera da quelle virago che lo avrebbero fatto peggio che le donne di Traecia non fecero ad Orfeo.

La stanchezza s’impadroni dei portatori della barella, e vollero riposarsi. Mentre il guardiano si allontanò alcuni passi, sopraggiunse un nuovo drappello di donne, armate di forche e di picconi, le quali si affollarono intorno al prigioniero e scaricarono sul suo corpo ignudo colpi spietati. Uno di questi colpi lo feri al ventre e gli fece uscir 1 ombelico, né sarebbe stato l'ultimo, se il guardiano, scosso dal rumore, non fosse corso a salvare una seconda volta la vita del prigioniero.

Il dolore della nuova ferita aveva richiamato ai sensi il coraggioso avventuriero, svelandogli tutto l’orrore della sua posizione. Ma la triste storia non era finita. All’ingresso del paese altre donne infuriate affrontano il convoglio, e vogliono costringere il prigioniero a gridare: «Viva u Re!». Il ferito raccoglie un supremo sforzo d’energia, e lieto d’aver occasione di finirla una volta, grida con quanta forza si sente ancora in gola: «Morte aire!».

D’un tratto le megere armate di coltella gli si precipitano addosso, e la sua vita è salva a stento, per la terza volta. Appena deposto sulla nuda terra del convento dei Minori Osservanti, convertito in carcere, il guardiano che gli aveva per tre volte salvata la vita gli strinse la mano, gli fece il segno dei carbonari domandandogli se qualche cosa poteva fare ancora per lui. E Giovanni Nicotera, anche in quello stato, più pensoso degli altri che di se stesso, gli disse:

—Vai sul campo; cerca vicino al posto ove io mi trovavo, un uomo basso, biondo, col cappello uguale al mio. Al fianco porta una borsa, dentro la borsa delle carte. Prendi tutte le carte e mettile al sicuro.

I primi conforti furono apprestati al Nicotera da un frate di quel monastero il quale gli somministrò dei calzari, un calzone vecchio e lacero ed una camicia di lana per covrirsi le spalle ed il petto.

Poco dopo, e sempre di notte, il guardiano torna. Ha trovato l’uomo, Pisacane, ma la borsa era vuota. I saccheggiatori del campo ne avevano tolto i danari e sparpagliate le carte. Delle carte il guardiano aveva raccolte tutte quelle che gli fu dato vedere.

E tra le carte raccolte eravi tutto’ intero il piano della spedizione e della rivoluzione ed un foglio nel quale si contenevano i nomi dei cospiratori, la prova più terribile che potesse cadere nelle mani del Governo borbonico. Ben presto venne dato tutto alle fiamme, prima che il Nicotera si trovasse a contatto dei giudici.

Le prime notizie intanto della spedizione Pisacane-Nicotera si diffusero e sollevarono un grido unanime di ammirazione. Ma all’ammirazione era accoppiato il compianto per le vittime generose, fra le quali, si diceva, eravi stato Giovanni Nicotera, caduto sui monti di Sanza a fianco di Carlo Pisacane. La dolorosa e falsa novella fece prendere la penna a quell’anima pura, a quello scrittore insigne che era Domenico Mauro, il quale cosi scrisse nel «Diritto» del 21 luglio 1857, sulla creduta morte di Giovanni Nicotera:

Pensando alla falange sacra di napoletani morti non ha guari presso la Certosa di Padula, io non fo differenza di nomi; perché tutti quelli che la componevano sono eroi, avendo combattuto come si combatté solo nelle Termopoli, si che non salvossene un solo, se è da credere alle voci che corrono. Di un fatto cosi mirabile solo una colonna con questa iscrizione: I quattrocento caduti per la patria, può tramandare la grandezza ai futuri. Ma è pur vero che un solo concepì da prima quell'impresa arditissima ed apri la via, nella quale tanti generosi lo seguirono. Ed è giusto e santo ufficio della storia sceverar dagli altri il nome di Carlo Pisacane e locarlo in luogo più cospicuo e sublime. Se non che come gli antichi poeti davano a ciascuno dei loro eroi un compagno indivisibile, così io m’ardisco porre al fianco del Pisacane un altro, che è Giovanni Nicotera.

Giovanni, del ramo cadetto dei baroni Nicotera, nacque in Nicastro della seconda Calabria, e giovinetto fu educato nel collegio di Catanzaro, ove conobbe Settembrini che ivi insegnava belle lettere e da quello apprese dapprima ad amare l’Italia. Ma a lui non mancavano anche domestici esempi; poiché Benedetto Musolino, suo zio, che ora trovasi emigrato in Parigi, in quel torno erasi fatto capo della giovine Italia nel reame di Napoli, e in poco tempo si ebbe parecchie migliaia di seguaci in tutte le provincie. In quest'opera ebbe compagno lo stesso Settembrini, onde non andò molto che furono posti in prigione ambedue; e cosi il giovinetto Nicotera nel maestro e nello zio vide il primo esempio di quel martirio, incontro, a cui doveva poi correre per tutta la sua breve vita.

Néi semi della virtù e del sacrificio potevano cadere in anima che più della sua fosse atta a riceverli; poiché il giovinetto Giovanni avea sortito dalla natura una di quelle indole nobilissime ed operose che sogliono prodursi nella sua terra natale, alle quali l'amare, il desiare senza il fare è nulla. Quell'anima ardentissima concepiva con la rapidità del lampo ed eseguiva coll’impeto della folgore; ed io che scrivo queste linee fui spesso maravigliato nel vedere come la subitanea apparizione di una idea in lui prendesse fattezze vive e divenisse persona.

E tale qualio lo descrivo egli si mostrò ancora giovanissimo. Fu nella cospirazione e nella rivoluzione, in cui perdettero la vita Domenico Romeo, Pietro Mazzoni, Gaetano Ruffa ed altri molti, nel settembre del 1847. Dopo il 15 maggio fu nella rivoluzione calabra uno dei più ardimentosi ed intrepidi combattenti, e tentò cose, in compagnia di Pasquale Musolino, suo zio, ora emigrato in Piemonte, e di altri, che sarebbero degnissime di storia, se la storia volesse darsi alcun pensiero delle Calabrie, sempre prime al combattimento e sempre obliate.

Caduta la rivoluzione nel reame, il Nicotera recossi in Roma, ove sotto la repubblica fu luogotenente e riportò una non leggiera ferita nel braccio, combattendo contro i Francesi nella giornata del 30 aprile. In questa occasione, essendo curato nell’ospedale militare, ivi vide morire accanto a lui Goffredo Mameli; e un di che mi raccontava questo incontro io non mi tratteneva di dirgli: il ligure poeta era l’immagine più schietta dell’idea italiana, e tu l’immagine più ardita dell'italiana azione, poste l'una accanto all'altra. Egli sorrise alle mie parole e divenne pensoso.

Caduta la repubblica romana e recatosi in Piemonte, nel lungo e tedioso ozio dell'esilio, senti quella pena che mai non aveva provato fra i pericoli delle armi e gli indugi per lunghi anni del cospirare. Onde iva spiando, se gli venisse fatto di scorgere alcun’anima ancor viva, che lo confortasse e levasse a nuove speranze. E in questo ardentissimo desiderio conobbe Carlo Pisacane e si strinse con lui in nodo d'amicizia, che sol morte ha spezzato. Difficilmente si trovano due anime cosi fatte l'una per l'altra, come eran le loro. La fronte ampia e serena di Pisacane era l’irradiazione perenne e copiosa del pensiero; l'anima profonda di Nicotera come una lente l'accoglieva e la condensava in un fuoco.

E cosi compenetrate tra loro quelle due anime vigorose presero tale nuova fiducia a ben operare che forse ciascuna separata dall'altra non avrebbe avuto. Siffatto è il mistero della vita e dell'amore, che un’anima sol bel conosce se stessa nell'eco chele risponde un’altr’anima, e il proprio pensiero nel riflesso che le rimanda un pensiero non suo.

Non è la sola spedizione di Napoli in cui Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera vollero essere compagni; ma oggi è inutile parlare di tutte le belle gesta che meditassero insieme. In questa ultima poi morirono l'uno al fianco dell'altro. Chi più dei due meritò dell'Italia? Lascio questa dimanda ai sofisti che han cuore di farsela; io sol qui dico, che se la spedizione napolitana avesse avuto il suo svolgimento cosi felice come ebbe gli inizii, non piccola parte di essa sarebbe stato il giovane Calabrese. L’anima sua ricchissima di una forza, che i suoi più intimi non ponno aver tutta misurata, avrebbe preso un elaterio di far meravigliar di sé. Io sento ancora quelle vibrazioni metalliche che in me scendevano con la sua voce, quando parlava di alti propositi e svolgeva le profondità del suo pensiero. Il mio spirito ne rimaneva tutto penetrato e ripieno. Natura fusa come una palla di bronzo, chi ha troncato il fervido tuo corso?

Egli era snello e franco della persona, manifestando in essa pienamente l'anima interna; bruno del volto; di un guardo ineffabile quando era sereno e amorevole; terribile nell'ira; chiaro ed eloquente parlatore; in ogni atto sciolto e spontaneo. Aveva il cuore grande; e molti che forse oggi che ancora è incerta la sua morte lo hanno già obliato, ne usarono ed abusarono. Era tutto amore, amore di patria, di parenti, di amici e dell'eletta che anelava far sua innanzi agli altari, ma sopra tutti l'amore di patria signoreggiava.

Avevi non compiuto il trentesimo anno della tua vita, o mio diletto amico, e più non ti vedrò! Ricevi I’ ultimo vale, o dolcissimo, e il mio pianto che scorrerà perenne finché duri la tua memoria, poiché questa è la volontà dell'Eterno.

Il giorno seguente alla catastrofe di Sanza il Nicotera ebbe un primo interrogatorio dal giudice supplente del Circondario.

Fin dal primo momento che egli si trovò a contatto coi suoi carnefici, che tali erano i giudici del Borbone, non ismenti se stesso. È memorabile questo dialogo fiero e dignitoso, che rivela la convinzione profonda dei sentimenti che tanto lo animavano:

Come vi trovate in questi luoghi?

Mi rattrovo in questi luoghi con gli altri miei compagni, per abbattere e distruggere la tirannide dei Borboni.

Sono queste le parole d’un valoroso che ferito nella mischia ineguale, circondato da armati e da sgherri, sfuggito per miracolo al massacro dei pochi e generosi suoi compagni, col cuore straziato d’avere raccolto l’ultimo sospiro del trucidato amico Pisacane, disprezza quelli che possono finirlo in un momento. Egli in mezzo ad una popolazione ignorante, scatenata contro di lui e dei suoi, nudo ed incatenato non pensa che ad affermare solennemente i suoi principii, a giustificare un’impresa che il mondo civile avrebbe potuto leggermente chiamare folle temerità, a protestare anche una volta, come aveva fatto un anno prima nel «Diritto» contro le mene e le cospirazioni dei murattisti.

Pur troppo senza la spedizione di Sapri il movimento murattista avrebbe continuato il suo corso e S. Martino e Marsala non ci avrebbero più conquistata la nostra politica unità.

Dopo le esplicite dichiarazioni del Nicotera una immediata esecuzione non poteva mancare. Un telegramma però annunziò che le fregate napoletane «Tancredi» ed «Ettore Fieramosca» avevano catturato il «Cagliari» e questo rendeva necessario un processo. Nicotera, unico capo superstite della spedizione, non poteva più essere giustiziato sommariamente e doveva essere tradotto a Salerno.

IX

Ed il viaggio, questa nuova «via crucis» venne intrapreso. A Buonabitacolo Giovanni Nicotera fu interrogato nuovamente ed egli affermò non solo il suo principio «unitario» ed allora francamente «repubblicano»; ma confessò che per «ottenere il trionfo delle sue idee» si era spinto a «liberare la sua patria» dalla «bruttura» del murattismo che l’avrebbe «coperta di eterno obbrobrio».

E questa obbrobriosa bruttura aveva il suo covo in Francia.

Erano a Parigi i nefandi cospiratori che nella longanimità del suo animo Nicotera non volle rivelare: ed era quella cospirazione, cui egli «era avverso» e «l’odiava» e «voleva combatterla» e per la quale si era lanciato in quella dolorosa impresa!.

In questa dichiarazione di Buonabitacolo, come in tutte le altre, il Nicotera, per quanto lo riguardava, anziché nascondere la sua vita, sin dai primi anni votata alla rivoluzione per il risorgimento d’Italia, ebbe il coraggio di rivelarla nei suoi più minuti particolari. Era il patriota, che aspettando la morte dettava una storia nelle pagine di un processo criminale! Era il patriota che facilitava al giudice il compito per pronunziare una condanna capitale!

Il Nicotera coi suoi compagni giunse in Salerno e vi entrò in mezzo a numero sterminato di soldati e di birri. Era seminudo, lacero, deformato da colpi e ferite. Tutti gli animi restarono esterefatti e tutti i cuori fortemente commossi a quella vista miseranda. Egli solo, a fronte alta, collo sguardo fiero e in atto di sfida dominava soldati e popolo, come se fosse andato non incontro al patibolo, ma al trionfo.

Il popolo Salernitano si mostrò muto, ma commosso a tanta infelice vista.

Appena giunse a Salerno ebbe luogo un nuovo esame, davanti all’intendente Aiossa, assistito da un cancelliere.

Il Nicotera venne condotto loro davanti, ravvolto in una coperta di lana, il capo bendato per le ferite, e la mano destra abbandonata al lavoro di sessanta mignatte non avendo egli tollerato che se gliene facesse l'amputazione.

Gli si fecero le stesse domande ed egli fece le stesse risposte.

Se non che il guardiano non avendo potuto raccogliere tutte le carte del Pisacane, nello sparpagliamento, alcune altre erano rimaste sul campo e cadute nelle mani dei commissarii borbonici. Queste carte vennero presentate al Nicotera, il quale le guardò, le scorse e potè convincersi d’essere appena a metà strada.

Fra quei documenti ve n’era uno, intitolato «Nota campioni». Era un foglio grande di carta grossissima; portava una lunga lista di nomi insignificanti; nomi di merci, di commestibili. Accanto di ciascun nome era segnato un numero.

La «Nota campioni» era la chiave del cifrario. Se di quella carta si rilevava l’importanza, tutte le lettere cifrate di Pisacane sarebbero state interpetrate, tutte i coinvolti nella cospirazione inevitabilmente perduti.

Il Nicotera a tale vista disse:

—Riconosco queste carte. Appartenevano a Pisacane.

—A Pisacane?

—Sì, e domando che si eriga verbale della mia ricognizione.

Ciò detto e mentre le mignatte si venivan staccando, una ad una, dalla mano destra minacciata di amputazione, colla sinistra numerò i documenti, tra quali c’erano parecchie lettere cifrate, e li contrassegnò tutti con una sigla, non potendo firmare colla mano sinistra.

Venne fatto un verbale, nel quale ogni documento venne numerato e descritto per quello che conteneva.

Giunti alla «Nota campioni», il Nicotera la riprese con la sinistra, la guardò con indifferenza e disse:

—Questa non credo che appartenesse a Pisacane. 'Contiene una seria di nomi di generi di commercio: l'avrà smarrita qualcuno dei nostri compagni, o tutto al più si riferirà alle operazioni commerciali che il Pisacane voleva fare in Sardegna.

Il verbale tenne conto della «Nota campioni» come d’una cosa insignificante, tacendo dei numeri che si trovavano accanto a ciascun nome.

Un giorno l’Intendente Aiossa fece subire al Nicotera un nuovo interrogatorio, inteso ad appurare se la spedizione di Sapri, fosse o no un movimento murattista, come se tutto quello deposto per dimostrare il contrario non fosse bastato. Il Nicotera, indignato rispose:

—Il movimento è stato assolutamente nazionale, ed io avrei piuttosto combattuto nelle file dell'esercito borbonico contro un tentativo simile, anziché coadiuvare una restaurazione straniera in Napoli.

Questa franca risposta dell'animoso giovine, diè sui nervi a qualche murattista del 1857, divenuto poi nel 1860 unitario!

Le autorità borboniche prima ancora del 2 luglio avevano arrestato il Matina, il Libertini, l’Agresti, il Magnone e perecchi altri. Sul loro conto si avevano sospetti, mancavano le prove. Ma quelle prove sarebbero state indubbiamente raggiunte se le lettere del Pisacane si decifravano.

Il 9 luglio, l’istruttoria era molto innanzi. Dalle mani dell’Intendente Ajossa, l’affare era passato in quelle del procuratore generale. Ed il procuratore generale non si accontentava di foggiare verbali: voleva interpetrare documenti.

Nuovo interrogatorio quindi del Nicotera.

Ed il Nicotera, meno tormentato dalle ferite, venne interpellato sul modo con cui i documenti cifrati potevano essere interpetrati dall'autorità.

La chiave delle cifre era consegnata negli atti del processo ed il Nicotera rispose con calma e con serenità:

—La lettera al n. 13 era lettera scritta dallo stesso Comitato, ma con cifre che non si possono interpetrare altrimenti, se non avendo sott'occhio una copia del «Libro a riscontro», di cui uno era presso lo stesso Pisacane, e l’altro presso il presidente del Comitato di Napoli. Négli ebbecedarii numerici sono bastevoli per riuscire alla spiegazione delle cifre che vi si contengono.

Il procuratore generale si diede attorno per ritrovare il famoso «Libro a riscontro» di Pisacane. La polizia piemontese con molta compiacenza andò a perquisire a Genova, in compagnia del console napoletano, la casa di Carlo Pisacane il giorno 11 luglio. Questa perquisizione venne fatta poco dopo il mezzogiorno. La signora Pisacane era in quel mentre a parlare con due sue amiche, sulle incerte notizie che correvano circa la spedizione, e sulle speranze che ancora rimanevano dell'esito e della vita del Pisacane. Picchiato l’uscio ella disse d’improvviso quasi come se n’avesse avuto intuito:

—Questa dev'essere la polizia.

Aprì e vide di fatti entrare il viceconsole di Napoli accompagnato da uscieri e da un giudice, con aria insolente e burbera. Appena entrato questi prese a dire:

— Essendo morto Carlo Pisacane, siamo venuti in questa casa per mettere al sicuro la roba sua.

A tale annunzio la signora Pisacane, ricevé un’impressione che si può sentire, ma esprimere giammai. Nervosamente commossa, tra l’ira e il dolore che non ha nome, si avvicinò al giudice malaugurato:

—E morto? E dà a me questa notizia? A me?...

E il giudice rispose;

—Si, a lei: non se ne dovrebbe meravigliare, perché questa era la fine che doveva fare, e che faranno tutti i pazzi come egli era.

La signora si volse al viceconsole di Napoli domandandogli se fosse vera la triste nuova della morte. E costui umanamente le rispose:

—Ne sono dolente, signora, di compiere questo ingrato ufficio; ma egli è morto.

Fino gli uscieri erano visibilmente commossi, gli astanti versavano lagrime; un solo stava imperterrito, il giudice del Rattazzi. Rifrugarono tutto e sequestrarono molte carte e libri che inviarono alla Gran Corte Speciale di Salerno.

Qualcuno ha scritto che quando la spedizione di Sapri stava per partire, la polizia piemontese non poteva ignorare ciò che già si sapeva dal consolato napoletano, e che Cavour poco tempo innanzi aveva scritto a tutti i rappresentanti della Sardegna all’estero, che una delle basi del Governo di Vittorio Emanuele era: «flatter les senti mentes d’indépendance des États italiens».Stante ciò dovrebbe ritenersi che la spedizione venne eseguita liberamente per fare omaggio al: «flatter les sentimentes d’indépendance». Questo però, per quanto possa esser certo quello che scrisse il Cavour ai rappresentanti italiani all'estero, non distrugge il fatto che il contegno del giudice del Rattazzi, in casa Pisacane, dimostrava tutto il contrario. E se esso non bastasse potremmo ricordare le parole adoperate dallo stesso conte di Cavour, nel dispaccio al conte Groppello, ministro Sardo presso la Corte di Napoli, in data 16 giugno 1858 che sono le seguenti:

Signor Conte —Appena seppi l'affare di Ponza e Sapri, mi feci premura di scriverle, onde manifestasse al Gabinetto napoletano la profonda indignazione del Governo del re, relativamente ad un attentato contro la sicurezza di uno Stato amico.

Dicendo dello scopo della cattura del «Cagliari», lo chiama il Cavour «una criminosa aggressione di ribelli».

E parlando «del pazzo tentativo di Ponza e Sapri» come egli lo definiva, diceva che non poteva perciò il Governo napoletano fondare sopra di esso il diritto di presa. E continuava:

Questa sarebbe la prima volta in cui una banda di cospiratori o di briganti sarebbe stata riconosciuta come investita delle prerogative di una potenza belligerante.

L’attentato di Ponza e Sapri è stato un delitto di ribellione e di latrocinio.

E la nota finiva così:

Voi leggete e consegnerete, signor conte, una copia di questo dispaccio al commendatore Carafa — Firmato Cavour.

Ma oltre questo, l'«Italia del Popolo» veniva continuamente sequestrata e per far cosa grata al re di Napoli, si sfrattavano i fuggiaschi che cercavano asilo nel libero regno, e per compiacere Napoleone gli si designavano le lettere dirette in Inghilterra, che egli faceva sequestrare alla posta di Parigi. Ma v'ha di più; l’insana voluttà di tenersi amico il Borbone traspare da tutti gli atti, e la requisitoria del pubblico ministero rappresentato dal sostituto vvocato fiscale generale, signor Galliani, nel processo di Genova, per il tentativo d’impossessarsi del forte Diamante, fatto il 29 giugno 1857, ne è un esempio.

Egli domandava la pena di morte per sei patrioti; quella dei lavori forzati a vita per tre; per gli altri, venti e dieci anni di prigionia, senza contare i contumaci.

E poi, caso nuovo nel Foro e per la Corte di Genova, cosi finiva quel fanatico avvocato l’esordio della sua requisitoria:

Nel pronunciare il savio vostro giudizio Eccellenze, rammentate il grave pericolo che sovrastò la notte del 29 giugno, a questa città e alla nazione, l'audacia di quell'orribileattentato, l'ostinazione degli uomini del partito che ne fu l'autore, e che anche oggidì non cessa d’inquietare l’Italia e l'Europa colle sue rivoluzionarie macchinazioni, e colla diffusione di selvaggi ed anarchici principii nelle meno istrutte classi del popolo, sulle quali esercita la contagiosa sua azione; pensate alla necessità che la giustizia dì ogni paese civile concorra a troncare colla sua spada la testa di questa velenosa idra che tanto nuoce alla quiete ed al civile progresso delle nazioni, e troverete che le nostre istanze sono ben meritevoli della vostra approvazione.

Questo era lo spirito di quel tempo; e se bene si studia il processo di Genova, si vede chiaro, che il Governo piemontese fece ogni suo sforzo per porgere al Governo napoletano i mezzi per condannare i superstiti di Sapri.

Ma torniamo al processo di Salerno. Non appena ivi giunsero le carte ed i libri sequestrati a Genova in casa di Pisacane, il procuratore generale fece richiamare Nicotera per fargli trovare il «Libro a riscontro». Ma il Nicotera, non trovò il famoso libro, che non era esistito mai, e che doveva dare la chiave dell'enigma; e per il procuratore generale si fece buio pesto più di prima.

Tra gli oggetti appartenenti a Pisacane, si trovò un foglietto sul quale era scritto a tutte lettere un nome. Questo nome era quello del De Mata del Comitato di Napoli.

Il De Mata, prima ancora che fosse interrogato il Nicotera era stato arrestato.

—E questo nome che significa? gli vien domandato.

—Ah! me nero scordato, risponde il Nicotera. Il De Mata è un bravo cappellaio di Napoli. Pisacane aveva comprato da lui un cappello, e siccome n’era stato contento, ne aveva notato il nome per fargli commissioni in seguito.

Pochi giorni dopo, il De Mata veniva rilasciato in libertà, per mancanza di prove.

Tra gli oggetti sequestrati al Nicotera, c’ era un portafoglio, un grosso portafoglio inglese. Il procuratore generale glielo presenta, ed egli lo riconosce per suo. L’apre, ne passa i fogli candidi come neve, ma da una divisione esce un involtino di carta contenente polvere bianca.

—E questa polvere che è?

—E un veleno. Avevo deciso d’ingoiarlo, se la spedizione andava a male. Ma caddi ferito, perdei i sensi, e non fui a tempo di sottrarmi alle vendette del Governo borbonico.

Il procuratore generale prende la cartolina, s’accosta alla finestra e sperde al vento la polvere.

Qnel portafoglio conteneva la lista di tutti i cospiratori, e di tutti i corrispondenti, scritta con inchiostro simpatico! La polvere bianca, sciolta in un bicchier d'acqua, avrebbe dato il mezzo di leggere tatti quei nomi scritti di pugno del Nicotera!

Il procuratore generale più furbo dell'intendente Aiossa, quando vide che il famoso «Libro a riscontro «non si trovava, rifrugò tra le carte del processo, trovò la «Nota campioni» e s’incaponì a crederla la chiave del cifrario. L’adoperò, e lesse i nomi interi del Matina, dell'Agresti, del Libertini, del Magnone e degli altri.

L’istruttoria poteva dirsi compiuta; l’atto di accusa era stato redatto, e gli accusati dovevano comparire innanzi ai giudici.

X

Nella prigione il Nicotera esercitava tale predominio, coraggio ed ardire, da rendere titubanti gli stessi satelliti del Borbone. Ben presto i custodi borghesi, che erano stati comprati, vennero cambiati in militari e questi in sulle prime si tennero duri, ma poi vedendo che avevano da fare con persone più dure di loro, si resero venali peggio dei borghesi.

I modi cortesi e gentili del Nicotera, la sua pratica di trattare benignamente gli attirarono da tutti i detenuti, ossequio e rispetto.

Il dibattimento doveva principiare. L’antica Corte essendo piccola per un dibattimento di alta importanza in cui gli accusati erano tanto numerosi, fu formata una nuova Corte nella caserma di S. Domenico. Verso la fine di gennaio del 1858 tutto era all'ordine e gli accusati comparvero innanzi alla Corte.

Assistevano alla pubblica discussione il Wrefort inviato di Inghilterra, essendo implicati nel processo due sudditi inglesi, gli inviati di Francia, di Austria ed il comm. Fasciotti console di Sardegna a Napoli, i quali tenevano avvertiti i rispettivi Governi di quanto si operava.

Miss White, che tanta parte aveva presa nel preparar la spedizione di Sapri, si recò a Salerno per assistere alla pubblica discussione, onde tenerne informato Giuseppe Mazzini ed altri cospiratori.

Il dibattimento durò sei mesi, e gli accusati ogni giorno dovendo percorrere la strada che dalle prigioni mena alla caserma di S. Domenico venivano condotti in mezzo ad un apparato straordinario di forza. Prima andavano innanzi i componenti dell'equipaggio del «Cagliari», i quali solo al primo giorno furono condotti a piedi, come tutti gli altri, e poi successivamente erano messi in tante carrozze da nolo. Allontanati essi si suonava una tromba, un gendarme a cavallo percorreva a galoppo la via, poi un ufficiale, poi un altro gendarme a cavallo e quindi si facevano passare i prigionieri in mezzo a due Ale di soldati, oltre quelli che già stavano per la strada, che erano in numero non indifferente. I prigionieri erano legati a due a due con manette ed uniti tutti con una corda lunga quanto era la fila.

Il Nicotera, in questo transito, attirava lo sguardo di tutti, e ciascuno ambiva di vederlo, salutarlo e dargli la mano. Le signore dai balconi qualche volta gli lanciavano dei mazzolini di fiori, ed il Nicotera volendo un giorno prenderne uno fu maltrattato da un ufficiale della truppa che l'accompagnava.

Iniziato il pubblico dibattimento, Giovanni Nicotera, il quale fino allora era stato ignaro delle inique calunnie, diffuse a suo carico dalla stampa borbonica, protestò con violentissimo ardore contro la parte istruttoria che lo concerneva. Di tale protesta egli chiese si desse lettura ai suoi giudici, ma la gran Corte lo vietò.

Però questo documento fu pubblicato nel «Diritto» del 12 marzo 1838. Con esso dopo di avere confutata l’istruttoria del processo, nella parte che tendeva a coinvolgere nell'accusa il capitano del «Cagliari» Antioco Sitzia, l'equipaggio, il capitano Daneri e i relegati marittimi di Ponza che si trovavono liberati dal corpo di spedizione, e dopo avere ricordato che Carlo Pisacane fu ucciso barbaramente dalle guardie urbane, prosegue così:

L’accusa vorrebbe far credere che Pisacane, Falcone, io e pochi altri, fra i quali quasi tutti gli esteri, dopo il conflitto di Padula, abbandonando i nostri compagni ci fossimo dati a precipitosa fuga per salvarci. Signori, è questa una gratuita assertiva foggiata non per mostrare al cospetto della legge la nostra reità, ma solo per affibbiarci la taccia di vili. Quando si giudicò da Pisacane impossibile protrarre la resistenza a Padula, perché, assaliti da circa 2000 uomini tra cacciatori, gendarmi e guardie urbane, si deliberò eseguire una ritirata sopra i monti di rincontro, per salvare cosi quanti più se ne potea dal massacro di Padula, ove dalle autorità militari, senza veruna formalità di legge, si fucilarono circa 38 di quei primi che ebbero la sventura di cadere in loro potere. Se avessimo avuto in mente la nostra salvezza, non avremmo portato con noi da circa 140 uomini, né saremmo stati assassinati a Sanza, non da pochi urbani, come asserisce l'accusa, ma da più di trecento, provvisti di ogni sorta di armi. Noi volemmo dividere fino all'ultimo la sorte dei nostri compagni, e più di essi ne rimanemmo vittime.

L’accusa si studia far credere che «oltre all’aver io riconosciuti varii documenti del Pisacane e del Comitato napolitano, ne abbia spiegato il senso e svelate le trame cospiratrici ed i precedenti progetti per eseguire la ribellione.» Signori, io potrei rispondere a questa maligna diffamazione facendo il confronto de' miei interrogatorii con le rivelazioni vantate dall’accusa: quello di cui si parla, piacemi ricordarvi di nuovo, essere stato foggiato senza il mio intervento su quanto avea detto il signor Intendente Aiossa, e quindi, dettato confusamente dal procuratore generale e senza far precedere le mie risposte d'analoghe interrogazioni, talché potrebbe dirsi che egli stesso avesse fatto parte della cospirazione. Ma trattandosi di cose che attaccano direttamente il mio onore ed in pari tempo riuscir potrebbero di danno ad altri, mi credo in debito di protestare solennemente contro l'arbitrario metodo usato dall'accusa per dare una spiegazione alle cifre numeriche, scritte nei documenti rinvenuti sul cadavere di Pisacane, ed istantemente sostengo, come sempre, che i veri nomi dei componenti il Comitato di Napoli erano sconosciuti non solo a me, ma anco a Pisacane, e che gli sforzi consumati dall'istruttore del processo in tradurre le cifre, non possono dare che conseguenze falsi ed improduttive di prove. A fronte di uno scritto di Pisacane, da me riconosciuto, ora si veggono delle cifre: queste sono senza dubbio apocrife, poiché non esistenti quando per la prima volta vennemi mostrato, ed io espressamente le impugno, e qualunque uso ne avesse fatto l'accusa per corroborare la sua vagheggiata cospirazione, è del tutto arbitrario ed illegale.

In ultimo non posso astenermi dal dare un lamento sulle accuse di furti e di rapine. Ognuno sa che, lungi dall’appropriarci l’altrui, pagammo generosamente i viveri in ogni paese per dove passammo, che Euschio Bucci fu sottoposto a giudizio per ordine del nostro capo Pisacane e fucilato per aver rubato pochi carlini ad una povera donna, dei quali per altro ne fu rivaluta al doppio da me stesso, che in niuna delle casse pubbliche si rinvenne danaro, e mi lusingo che voi stessi saprete farmi giustizia su di ciò, lavandomi di una macchia che mi sarebbe sommamente di peso.

Queste, o signori, sono le poche osservazioni che per onor del vero e per debito di coscienza io doveva sottomettervi, ed ora tranquillo e con la serenità di martire, staròad attendere l'esito finale del vostro giudizio.

Così parlava Nicotera di fronte ai giudici del Borbone, con un’accusa che implicava certamente la pena di morte. É una pagina degna del grande storico Pietro Colletta.

Il procuratore generale opponendo tutto ciò che il Nicotera diceva, sosteneva che quella coorte a capo di cui erano Pisacane e Nicotera (incoraggiato forse dal dispaccio di Cavour a Groppello) era scesa a Sapri per rapinare e saccheggiare. Dopo questi insulti, il Nicotera come una furia si rivolse contro il procuratore generale, e vi fu un battibecco assai violento, dimodoché il presidente dové sospendere la seduta.

Nel corso della causa il Nicotera si mostrò così fiero, imperterrito, indipendente, audace da farsi ammirare da tutti coloro che vi assistevano. Sfidava continuamente il Borbone, il suo Governo ed i suoi agenti. Era sollecito a rispondere per se, per ciascuno e per tutti. Usava una parola franca ed audace.

Un giorno alcuni giovani generosi, che non potevano tollerare di veder morire per le mani del tiranno un sì audace campione della libertà, pensarono di farlo fuggire. Acquistarono delle pistole e delle «serre mute», gliele mandarono facendogli sapere che quando egli voleva tentare il colpo li avesse tenuti avvertiti, che un numero di loro, pronti a tutto sarebbero stati messi nel giardino sottostante alle prigioni per dargli braccio forte. Il Nicotera in principio titubò, ma poi recisamente rispose che non voleva commettere un atto simile, che gli sembrava una vigliaccheria e che egli una sola grazia avrebbe chiesta al tiranno quando sarebbe stato condannato a morte, quella cioè di salire sul palco col sigaro in bocca, affinché il suo esempio fosse valso a far conoscere ai giovini come si moriva per la patria.

Ma qui non finisce. Il Nicotera nel dibattimento pubblico non faceva che aggredire vivamente il procuratore generale e con la sua parola di fuoco un giorno diceva:

—Protesto contro il modo iniquo con cui voi mi volete dare dei complici, che io non conosco e non ho mai conosciuto. Voi avete preso uno dei fogli del processo e vi avete scritto delle cifre arbitrarie, le quali interpetrate a modo vostro, vi dessero i nomi del Libertini, del Matina, del Magnone, dell’Agresti che voi avevate già arrestati prima. D vostro è artifizio infernale di polizia per colpire degli innocenti, mentre i veri, i soli rei siamo io ed i miei compagni, morti sul campo di battaglia.

Repliche vivissime del procuratore generale mettono in sodo che egli si è valso della «Nota campioni».

—Quella nota, risponde il Nicotera, conteneva dei nomi, non delle cifre. Le cifre vennero aggiunte dopo. Domando che si constati il fatto consultando il verbale di ricognizione.

Nasce un incidente, si consulta il verbale e la Corte è costretta a ritirarsi per deliberare. Non osando prendere da sola una decisione, consulta telegraficamente il Consiglio supremo di Napoli.

Finalmente esaminato il processo, viene riconosciuto che la «Nota campioni» conteneva dei. soli nomi e che non poteva venire considerata come mezzo di prova per le cifre «aggiunte in seguito».

Cosi scomparve la prova contro il Slatina, il Libertini e gli altri e la Corte li mandò assoluti! Così l’ingegnoso eroismo del Nicotera, riuscì a salvare i proprii compagni.

Moltissime scene vi furono tra il procuratore generale Pacifico e Nicotera. Il presidente lo ammonì di essere più temperato nel parlare, di ricordare la differenza che passav a tra un imputato ed il proprio giudice. Nicotera rispose che fra loro vi era questa differenza: «voi siete un ufficiale pubblico, io cittadino venuto qua ad esporre la vita per la patria».

Nel mentre il processo si agitava innanzi alla Corte speciale, i detenuti erano trattati con iniquità e barbarie impossibili ad immaginarsi. Quasi ignudi; poco e pessimo pane; zuppa impossibile ad ingoiarsi; un pugno di paglia per riposare lo stanco ed affralito corpo, questo era il loro trattamento.

Un giorno canticchiavano una canzone alla quale la Commissione delle legnate diede un significato tutto diverso da quello che in realtà conteneva, e giudicavala sovversiva. Parecchi di essi ebbero a sopportare la pena delle legnate, le quali venivano date dal boia tenendo ligato il paziente su di un cavalletto. Poco dopo altri tre detenuti con un pretesto vennero divisi dai compagni. Si fece allontanare Nicotera dal carcere, per tema che la sua presenza avesse potuto far nascere una viva opposizione, ed accresciuta di cento uomini la guardia, si dettero ad uno settantacinque legnate, perché i medici dichiararono di non poterne sopportare di più, e ad altri due cento per ciascuno. Questi erano i trattamenti del Borbone.

Intanto il dibattimento continuava ed il Nicotera interpellato se conoscesse un certo regolamento, vien fatto scendere presso il cancelliere. Lo guarda e risponde:

—Questo è il regolamento del convitto femminile di Vercelli.

—Voi mentite! esclama il procuratore generale.

—Signor presidente, replica freddo il Nicotera, la prego difendermi dagl'insulti del procuratore generale. Questo è il regolamento del convitto femminile di Vercelli.

—Vi ripeto che siete un mentitore!

A queste parole insolenti il Nicotera provocò tale un’agitazione, e tali vivissime parole egli rivolse al procuratore generale che il presidente fu costretto a sospendere nuovamente il dibattimento. E ripresosi dopo 15 giorni, d’ordine di Ferdinando II, si riaprì l’udienza con una dichiarazione del procuratore generale, colla quale disse che egli non aveva inteso di offendere la persona dell'accusato, barone Giovanni Nicotera.

Due compagni, generosi quanto lui, s’alzano e dichiarano che il barone Nicotera li sconsigliava dalla resistenza, e che l’assalto dei cacciatori li sorprese, mentre egli stava inalberando bandiera bianca e voleva indurli alla resa.

Quei signori mentono! interrompe Nicotera. Caddi tramortito ai colpi, e me vivo e padrone dei miei sensi, non avrei, come non ho mai parlato di resa, né innalzato bandiera bianca davanti alle truppe del Borbone.

Durante il pubblico dibattimento furono usati rigori straodinarii contro il Nicotera, perché si temeva che costui parlasse, accentuasse infamie commesse dal Governo. Sessanta uomini erano stati fucilati, carneficine vi erano state senza esempio, si temeva pubblico clamore. Nonpertanto si procedeva innanzi.

Un giorno Nicotera, mentre era nella prigione intese un rumore insolito nel terrazzo sottostante. Volle vedere che cosa fosse e pregò un compagno per farsi sollevare fino alla grata; e vide il boia che forbiva gli attrezzi del suo mestiere. Egli lo chiamò a nome e gli domandò:

—Che cosa fate?

—Appresto gli attrezzi che devono servire per voi e per i vostri compagni.

—Questo è uno scudo, comprati del vino ed affila a dovere le armi tue; fa in modo che cadano bene.

Quando questa scena avveniva il dibattimento non era chiuso ancora; v'era del tempo a finire per potersi pronunziare la condanna di morte!

Giovanni Nicotera però non piegò mai innanzi a quei lugubri apparecchi, che attendeva impavido non solo, ma provocava. Ma qui non finisce. Ogni giorno che egli era condotto coi suoi compagni alla Corte, il boia, per ordine ricevuto,' si faceva trovare innanzi al carcere onde farsi vedere. Nicotera si studiava di non fare incontrare i suoi occhi con quelli del degno agente del Borbone, ma quando rincontro era inevitabile gli gittava in faccia il fumo del suo sigaro per dimostrargli che egli sapeva disprezzare la morte ed i carnefici dal boia al re.

Il processo continuava sempre e Giovanni Nicotera, altero, imperterrito, sfidava la ghigliottina con isconfìnato'coraggio, dando spettacolo nuovo, non mai visto, né possibile a rivedersi, di eroismo, di fermezza, di splendida mostra di saper morire; ed il 6 luglio il procuratore generale presentava la sua requisitoria nella quale così discorre di Giovanni Nicotera:

La vita politica di undici anni di quest'uomo, che può dirsi l’intera sua vita, poiché gli anni precedenti erano troppo giovanili per preoccuparlo di questi affari, è tale che mi dispensa dall’intrattenermi a dimostrarlo cospiratore, e capace di qualsiasi temeraria ed ardimentosa impresa e poi egli stesso non ha taciuto la parte che si ebbe nei disordini del 1849 "in Calabria, ed in quelli di Roma, e son certo che se anche oggi gli chiedeste, se il disinganno che gli è 'toccato lo abbia reso pentito e lo farebbe esser cauto in avvenire, vi risponderebbe di no e che sarebbe pronto a fare lo stesso. Vedeste pure con quanta premura per discolpare gli altri, e segnatamente il capitano Daneri, attribuì a se molti dei fatti compiuti a Ponza. Sebbene abbia detto poi di non aver cospirato, d’ignorare i nomi dei componenti il Comitato di Napoli, e le corrispondenze che si avevano, non son queste cose da credersi, e quindi bisogna ritenerlo reo di cospirazione, promotore dell'attentato, ed uno dei capi della banda insurrezionale.

La requisitoria terminava chiedendo la morte per tre persone fra le quali primeggiava Giovanni Nicotera.

Finita la difesa, mentre la Gran Corte stava per emanare la sentenza, Giovanni Nicotera e i suoi compagni non hanno più pensieri per loro, ma pensano alla patria ed ai lori difensori e scrivono all'egregio avvocato Taiani queste nobilissime parole:

Quando noi qui sottoscritti ci affidavamo ai vostro patrocinio, sperammo non solo nella elevatezza dei vostri talenti, e nella conoscenza profonda delle cose legali, ma più di tutto nei vostro coraggio civile. Noi avvezzi a riguardar la vita come un dono ricevuto dalla natura coll'obbligo di spenderla tutta al servizio di questa per quanto bella, altrettanto disgraziata Italia, non curavamo, come non curiamo, la condanna del capo, dei ferri, che i nemici della libertà, del progresso, dell'umanità e della civiltà ci daranno. Pesavaci invece la calunnia che con la più scaltra malvagità ci si scagliava in diversi modi. Voi, nobile difensore, ci avete ammirabilmente compresi; e senza atterrirvi, dei pericoli che un’onesta e coraggiosa difesa poteva attirarvi, ci foste largo di giustificazioni e di lodi e come valente vi mostraste nello svolgere le più astruse quistioni di dritto penale, non meno sublime vi appalesaste nel sostenere il nostro carattere morale. Forse quattro di noi fra pochi giorni pagheremo il nostro tributo alla patria; ma se cosi sarà, vi sia compenso il sapere che soddisfatti appieno sapremo incontrar la morte, e colassi! nel cielo imploreremo per voi, e pel solo pegno che l’illustre fu vostra consorte vi lasciava.

Quelli fra noi poi, che certo dovremmo chi sa per quanto, trascinar la catena, serberemo di voi grata e riconoscente memoria; e se un giorno ci sarà dato di vederci restituiti alla Società, vi mostreremo coi fatti il nostro affetto, e ci studieremo a sdchitarcene come meglio potremo.

Accogliete, ottimo avvocato ed amico, i nostri più distinti ossequi, ed un tenero bacio che parte dal fondo del cuore, e credeteci per sempre.

16 luglio 1858.

Vòstri obblig. ed offez. amici

Giovanni Nicotera — Giovanni Gagliani — Achille Perucci — Gaetano Poggi — Giovanni Camillucci— Domenico Mazzoni—Amilcare Bonomi—Giuseppe Santandrea—Pietro Rusconi — Domenico Porro — Carlo Rota — Cesare Cori — Felice Poggi — Giuseppe Faieli — Francesco Meduscè — Giuseppe Mercuri — Cesare Faridone.

La notte dal 19 al 20 luglio la gran. Corte ha pronunziata la sua sentenza. Nicotera, Valletta e Gagliani sono condannati a morte, altri a pene minori, altri prosciolti per mancanza di prove a loro carico.

Quella notte erano in letto; fu chiamato Giovanni Nicotera alla grata dalla prigione; si levarono tutti, Michele Magnoni stava a fianco di Nicotera; si videro innanzi due uscieri con grosse torce di pece accese ed il cancelliere del Tribunale. Nicotera gli chiese;

—Quante condanne di morte?

—Tre.

Per quanti è giunta!a sospensione?

Per nessuno.

Grazie a voi ed ai giudici.

E dato mano agli strumenti che avevano nel carcere, convertirono la prigione in sala da ballo! e Nicotera ballò tutto il resto della notte, e si inneggiò e si bevve alla libertà!

Tutto questo veniva fatto mentre la cappella di morte si spazzava, gli attrezzi del palco si allestivano, la bipenne si forbiva dal boia! Così Giovanni Nicotera, che aveva sfidato le palle dei battaglioni regi in Padula, la ferocia dei marrani e delle megere di Sanza, l’ira dei carnefici togati, sfidava ora imperterrito il boia e la sua mannaia con titanico ardimento.

In tutti regnava piena fiducia per la sospensione della sentenza, che quasi sempre è certezza 'di non esecuzione. Ad un tratto però la fiducia si mutò in amaro dubbio. Uomini, donne, adulti, giovani e fino i ragazzi atterriti e palpitanti si chiedevano se vere fossero le voci che circolavano per la città.

Il procuratore generale Pacifico era fermo nel proponimento che se per tutto il mezzogiorno non fosse giunta la grazia avrebbe fatto scendere nella cappella Nicotera, Vailetta e Gagliani. L’avvocato Taiani protestò e come un lampo rapido corse, inscienti i condannati, in compagnia di altri due colleghi, a Quisisana, ove era il re per presentargli domanda di grazia. Il re li ricevé molto freddamente e dopo avergli fatta fare un’anticamera di due o tre ore, udì il Taiani e nel riceversi la dimanda gli disse: «Va bene, va bene» ed a sua volta consegnò la dimanda al suo segretario particolare, maggiore Severino. Questoperò fu bastevole a far rinascere nell'animo di tutti la speranza.

In men che si dice si diffuse la notizia, forse prematura, della commutazione della pena. Le preghiere a Dio, le lagrime, i. palpiti si cangiarono in osanna ed in congratulazioni pei condannati. I quali, mentre impassibili erano restati a quella minaccia e con un sorriso di disprezzo avevano risposto agli spauracchi del Governo, con sentita tenerezza accolsero le dimostrazioni di tutto il paese.

Ma il Borbone aveva sete del sangue di queste altre vittime e le avrebbe sagrificate, se il Governo inglese, che per l’affare del «Cagliari»si era interposto tra il Piemonte e Napoli, non avesse usato ogni pressione, perché le condanne di morte fossero commutate.

La grazia giunse, e tutti compresero che non si era fatta giungere prima per obbligare gli avvocati ad una sottomissione.

Quando a Giovanni Nicotera, gli recarono l'annunzio, che per istanza del Governò inglese, il re gli aveva commutata la pena di morte nella galera a vita egli rispose con un motto rimasto celebre a Salerno:

—Sarà per un’altra volta!

Nel mattino del 27, i sedici condannati che ebbero 'commutata la pena, dovevano udire dinanzi alla Gran Corte la lettura del decreto. Il presidente prima che ciò fosse avvenuto chiamò a se il Nicotera ed ebbe con lui il seguente dialogo, che dimostra la vigliaccheria del Governo borbonico e la virtù del Nicotera:

—Ho fiducia, signor Nicotera, disse il presidente, che ella sarà soddisfatta della decisione della Corte, e della sua giustizia ed imparzialità, e che sarà grata della clemenza sovrana che le fu impartita. Io me ne rallegro di tutto cuore

—Voi non avete agito come giudici, ma come vili mercenari, ripeté il Nicotera; non avete fatto giustizia, ma solo firmati gli ordini venuti da Napoli, per assumere l’apparenza di clemenza...., vi hanno ordinato di condannare parecchi alla morte, mentre io solo, secondo la più stretta interpetrazione della legge, avrei dovuto essere condannato alla pena capitale.

—Ne abbiamo condannati più, disse il presidente, per assicurare la salvezza di tutti.

— Si, le fu ordinato di condannarne più, affinché si desse al mondo lo spettacolo di una fittizia clemenza risparmiando il sangue di tutti; ma ella ne risponderà innanzi al tribunale del popolo, e ciò fra non molto tempo. In quanto a noi nón ci spaventiamo del patibolo, né delle catene; abbiamo adempiuto ad, un sacro dovere, ascoltando il grido dell'umanità, e sopporteremo i nostri patimenti con intrepidezza e rassegnazione, confortandoci nella ferma speranza del trionfo di quella libertà, per la quale noi siamo ora sagrificati.

—Signor barone, replicò il presidente, io sono vecchio, ho un piede nella tomba. Io non so che dire, né voglio entrare in una discussione inutile per entrambi, ma il mio dovere, come presidente mi spinge ad esortarla di essere grato per la clemenza ottenuta. Perciò l’ho fatto chiamare per chiederle che uando sarà letto nella Corte il decreto di commutazione, quand’anch’egli non voglia gridare: «Viva il re!» almeno vorrà tentare d ’ indurre i suoi compagni a farlo.

—Parlerò con lei, rispose Nicotera con molta agitazione, come se fosse Domenico Dalia, non come presidente, perché come tale è schiavo, è strumento del Governo. Io dico a Dalia che non posso, né debbo ascoltare le sue insinuazioni. Pei miei compagni non vorrei commettere un simile atto di degradazione, domandando loro di soddisfare ai desiderii di lei. Hanno affrontato cattivi trattamenti e torture; guardarono al patibolo con indifferenza, e nello stesso modo sopporteranno le catene e l'ergastolo. Non possiamo fare quello che ella chiede, Gridare: «Viva il re!» sarebbe lo stesso che gridare: «Morte alla libertà!». Riservi per lei stesso una simile infamia, e ci abbandoni alla dignità del silenzio, dacché non ci vien data facoltà di parlare.

E quando il Dalia si permise continuare nelle sue insinuazioni, il Nicotera con piglio sdegnoso soggiunse:

—Presidente Dalia, incominciaste in Calabria con la causa dei fratelli Bandiera e finiste con la causa Nicotera. Néio, né i miei grideremo: «Viva il re!» che abborriamo e disprezziamo.

Appena pronunziata la sentenza i detenuti partirono pei diversi luoghi assegnati loro per l’espiazione della pena.

In quanto al Nicotera, siccome si voleva ad ogni costo dalle autorità locali, evitare che il popolo Salernitano gli facesse una dimostrazione, lo fecero uscire dalla città a notte avvanzata. Ciò non ostante molti lo attesero fuori le porte per salutarlo e dargli un ultimo addio!

XI

Il Nicotera in principio fu tradotto in Napoli, ove gli si fecero sperimentare le terribili segrete delle carceri della Vicaria e le novelle ire del Governo borbonico. Contuttociò il Nicotera «pulchrior evenit» era tenuto dai patrioti napoletani come novello Anassarco. L’aver egli detto al presidente Dalia: «Il grido viva il re importare morte alla libertà» lo collocò tra i sommi patrioti del «novantanove».

Il 25 agosto venne imbarcato sopra un piroscafo, per luogo peggiore e più romito. Il tempo cattivo costrinse il legno a rientrare nel porto e il Nicotera venne chiuso nel bagno vecchio della Darsena, ove lo si tenne fino a che il tempo non si rasserenò, e permise ai carnefici del Borbone di completare la loro opera trasportandolo alla Favignana con trenta libbre di ferro al piede.

Nell'isola della Favignana — la «Aegusa» degli antichi — moltissimi liberali vi furono trascinati dai Borboni a domicilio coatto, e vanno ricordati fra gli altri il generale Topputi, lo Angioletti, Cerentani, Curzio, Ricciadi, il principe di Castelnuovo, i due fratelli Gregorio e Francesco Ugdulena, l'uno insigne orientalesta e archeologo, l’altro profondo grecista.

Il carcere era uno di quei che il Gladstone dopo averli visitati denunziò dalla Camera inglese all'Europa civile, e stigmatizzando il Governo che li teneva, potè dire eh esso era la «negazione di Dio».

La fortezza è elevata sul livello del mare 344 metri a forma d’una piramide, coperta spessissimo da folta nebbia.

Passando attraverso un corridoio arcato vi si aprono ai lati due prigioni. A destra era quella del Nicotera alta poco più di quattro metri, la più orribile e solo santificata dalla sventura e dall'amore di patria. Egli venne rinchiuso in quella fossa che non aveva che due giacigli di pietra e dalla quale bisognava estrarre l’acqua continuamente, offrendoglisi non altro che solo due soldi di pane al giorno!

Mentre ciò avveniva ai superstiti di Sapri gl'iniziatori dei moti di Napoli, che dovevano essere aiutati da Genova e Livorno scampati alle ferocie del Borbone, presero la via di Londra, ove ebbero assai da fare per discolparsi dell'abbandono in cui lasciarono gli eroici pionieri morti e feriti, e tutti in mano del Borbone.

Pisacane e Falcone morirono credendosi abbandonati se non traditi. Nicotera, unico dei superstiti che conosceva gl'impegni presi, dové rattristarsi nella medesima tristissima convinzione, fino al giorno in cui libero potè convincersi di ciò di cui Mazzini stesso faticosamente si era persuaso, che cioè «non ci fu traditore fuorché il destino. »

Mazzini intanto, che i calunniatori dissero fuggito in seguito ai disastri avvenuti nel 1857, rimase invece in Genova, finché avanzò un filo di speranza nella riuscita, fino al 26 luglio, custodito dal solo amore del popolo. Egli in quell'epoca scrisse «La situazione», e da questo scritto risulta il suo scarso soddisfacimento dei cospiratori di Napoli. Ma allorquando questi cospiratori giunsero in Londra e dimostrarono che la mancanza di avvisi e il ritardato telegramma furono causa della mancata collaborazione, Mazzini, il 7 maggio 1858, nei «Ricordi su Pisacane», scrisse:

Io accennai altrove, e lo ridico oggi più esplicitamente provocato dalle menzogne degli avversi a noi, e dalle ingiuste accuse gittate contro ai nostri da uomini buoni, ma precipitosi nei giudizi ed incauti nel proferirli: Se Napoli non rispose, è dovuto alla frazione cosidetta dei moderati.

La tattica dei moderati costituzionali, ha invariabilmente tre stadii: promettere, agitare, illudere a sperare a cose quiete — dissuadere, ingigantire i pericoli e le tristi conseguenze d'un moto inopportuno, diffondere sfiduciamenti e paure quand'altri s’appresta a fare — affratellarsi, frammettersi apparentemente a chi fa, quando il fare pare inevitabile, e strozzare in sul nascere o sviare lentamente il moto dalla via dritta.

E tattica siffatta fu adoperata in Napoli a tradire il concetto dei generosi.

All'annunzio della discesa su Sapri, fu deciso dai nostri d’agire in Napoli. Furono presi i concerti opportuni, fu determinato il giorno. I capipopolo aderivano tutti. Il momento era solenne; e dimenticate tutte le gare, i nostri chiesero agli influenti fra i moderati cooperazione ad un fatto già iniziato da Pisacane e da' suoi compagni. Gli influenti fra i moderati non solamente risposero con un rifiuto alla generosa proposta, ma s’adoprarono a tutt’uomo a infiacchire, sviare, dividere i capipopolo, e vi riuscirono; venne allora proposta una vasta manifestazione tra il pacifico e l'ostile che suscitasse fermento nelle moltitudini. I moderati aderirono e s’ assunsero l’ordinamento della dimostrazione: tradirono la promessa a non ne tentarono il compimento; poi, quando giunse l’infausta nuova della rotta di Padula e indovinarono diffuso lo sconforto nei ranghi, si ritrassero subitamente.

Più dopo s’avvilirono protestando anonimi contro il fatto di chi moriva per tutti.

Io non ho dunque accusa pei nostri, per gli uomini veduti da Pisacane, se non quest'una che in parte li onora: l’avere essi, uomini di puree generose intenzioni, sperato soverchiamente nell'altrui aiuto. E lo dico perché alcune parole scritte da me nell'Italia del Popolo potrebbero essere interpetrate a loro danno, e me ne dorrebbe.

Sia sprone ad essi nella santa impresa iniziata col sangue dall'amico, il dolore profondo che la delusione deve aver confitto nell'animo loro.

XII

Dopo gli avvenimenti di Sapri, il re di Napoli cadde sempre più in braccio agli assolutisti, e presso a morire ordinò che i prigionieri politici, tra cui Poerio, fossero trasportati in America. Costoro per via costrinsero il capitano del legno ad approdare in Irlanda, ove liberi ritornarono in Italia, prendendo parte, i più fra essi nell'esercito piemontese.

Gli emigrati intanto tutti raccolti nel Piemonte erano in un periodo di dubbi e d’incertezze. Manin aveva pronunziato una nuova formola: «Italia e Vittorio Emanuele». Molti fra gli emigrati più illustri, di fede unitaria, a Torino e a Parigi si erano riuniti intorno a questa nuova bandiera; molti esitavano ancora, chiedevano delle garenzie aspettavano i fatti! Un giorno del maggio 1858 tre lombardi, il conte Cesare Giulini, Emilio Dandolo ed Emilio Visconti Venosta si recarono dal conte di Cavour, il quale al vederli incominciò per dire:

—L’anno venturo daremo fuoco alle polveri. Posso essere io quello che dovrò principiare, ma potreste essere anche voi. Ho bisogno che la Lombardia fosse pronta per Vanno venturo.... anche a levarsi tutta in armi, se occorresse. Ho bisogno che mi si assecondi, che si abbia fede in me.... Mettiamoci a tavolino, vediamo la posizione, e carte in tavola.

—Carte in tavola, ripeté il Visconti. È di una alta importanza che si sappia non solo il programma dell'oggi, ma anche quello del domani. Se nel cuore di Casa Savoia, se nell'intimo del pensier vostro sta scritto: «Italia una e Roma capitale», tutte le forze giovani, operose, ardenti, saranno con voi, anche quelli che per ardente patriottismo ebbero aspirazioni diverse.... saranno con voi tutti quelli che mettono la patria al disopra di tutto.... saranno con voi gli antichi cospiratori.... gli antichi affiliati di numerose Società politiche...

—Sono questi, questi ch'io voglio! esclamò Cavour. La parola d’ordine del gran partilo nazionale che dobbiamo formare dev'essere: «Monarchia di Savoia, Italia una, Roma capitale». Questo programma non lo bandiremo fin d’ora, lo svolgeremo a poco a poco, ma esso sarà il patto tacito che l'Italia conchiude colla monarchia di Savoia.

—E voi sarete il nostro generale!....

Si parlò quindi a lungo delle forze sulle quali si poteva disporre in Lombardia; si discusse sull'organizzazione che ad esse si poteva dare; si stabili il lavoro da farsi e si convenne sui modi per mantenersi in corrispondenza continua.

Cavour, che vedeva dinanzi a se degli uomini onorandi a cui affidava la più pericolosa delle missioni, sentì il bisogno di dar loro una prova di tutta la sua fiducia, e li mise a parto degli accordi fatti con Napoleone. Di questi nulla trasparì in allora, e rimasero per molto tempo ancora un secreto.

—L’arciduca Massimiliano, disse Cavour, cerca appoggio presso le potenze per una soluzione a suo profitto della quistione Lombardo-Veneta. Ecco il primo punto dal quale bisogna cominciare. Bisogna che Milano reagisca prontamente che si faccia mettere di nuovo in istato d’assedio....

Dandolo, Emilio Visconti Venosta e Giulini stavano per congedarsi, quando Cavour che s’era messo a passeggiare per il gabinetto, come chi è preso da un pensiero che tutto l’assorbe e ne cerca la conclusione, fermandosi a un tratto esclamò:

—E se l’anno venturo, a primavera, quando l’Austria fa la leva, si facessero fuggire e venire in Piemonte tutti i coscritti lombardi?... Io li riceverei.... all’occorrenza li armerei.... li metterei nel nostro» esercito.... l’Austria li domanderebbe.... io non glieli darei.... Ecco il caso di guerra! Sarà l’Austria che attaccherà, e non noi! E con noi avremo più facilmente l’Europa! É possibile? Me lo dicano loro! È possibile?

Questa fu l’idea generatrice di quella vasta organizzazione, che ebbe poi luogo in Lombardia, con la quale si mandarono, non precisamente i coscritti, ma migliaia di volontarii. Il Piemonte si rifiutò e l’Austria invase. Napoleone, come si seppe più tardi, per giustificare in faccia all'Europa l’intervento francese, aveva messo per patto: «fatevi attaccare». Cavour era riuscito a farsi attaccare. Napoleone trasse partito dalla circostanza, che l’Austria aveva invaso il territorio del re di Piemonte alleato di Francia ed offrì il suo aiuto all'esercito piemontese. In una serie di battaglie gli eserciti alleati di Francia e d'Italia restarono vincitori dell'Austria, la quale dovette ritrarsi dalla Lombardia; e colla pace di Villafranca si pose fine alla guerra. Ma nell'animo degl'Italiani era radicato che solo l'unificazione poteva assicurare la prosperità e gli ordini costituzionali della Penisola e le forze nazionali e rivoluzionarie si tenevano in pronto.

Nell'Aprile del 1860 scoppiò la rivoluzione in Sicilia. Una mano di giovani animosi suonava a stormo le campane del monistero della Gancia, dove ben presto era assalita e vinta dopo fiero combattimento; ma il suono di quelle campane si era ripercosso nell'Isola intera e nella Penisola tutta. Ciò non pertanto la sollevazione venne ben presto soffocata, ma fatta creder viva dagli esuli dell'isola, e Cavour più degli altri sapeva che essa era spenta o poco meno. Pur tutta volta Garibaldi con mille ardimentosi salpò da Quarto per la Sicilia su due vapori il «Piemonte» e il «Lombardo», sbarcò a Marsala e vinse, vinse a Calatafimi, vinse a Palermo. I volontarii condotti da questo miracolo di guerra disperdevano dovunque i soldati del Borbone.

Le vittorie di Garibaldi fecero aprire le segrete «ve erano rinchiusi i martiri della patria, e quando mezzi cadaveri furono estratti dalla Favignana Giovanni Nicotera cogli altri superstiti della spedizione di Sapri, essi anziché ristorarsi vollero raggiungere il liberatore, presentandosi come militi sotto di lui. E quando Garibaldi li vide e seppe la loro intenzione, con occhio umido e con tremula voce disse:

—Ecco i nostri pionieri!

XIII

Nel mentre quella sublime epopea nazionale si svolgeva; nel mentre per opera di tre sommi italiani Mazzini, Cavour e Garibaldi, l’Italia attraversava la più sublime trasformazione, che rendeva attonita l’Europa; nel mentre questi tre illustri Italiani, che divisi tra loro innanzi alle masse, si univano in un pensiero tanto generoso quanto ardito, l’unificazione della patria; Giuseppe Garibaldi, che era l'anima della gloriosa triade, ed a cui stava a cuore sopra tutto di raggiungere presto la meta, quasi presago che la rivoluzione sarebbe proceduta veloce e spedita, e in poco d’ora avrebbe compiuta la redenzione delle province meridionali, passando di trionfo in trionfo per ogni città da attraversare; Giuseppe Garibaldi, ripetiamo, concepiva un’idea assai più ardita per rendere il trionfo completo. A realizzarla, a spazzare l’Italia dai tirannelli che ancora la dominavano, a far crollare presto il potere temporale del papa, e dare così all’Italia il suo cuore, Roma, ad infonder vita a tutto l’organismo della nazione, volte si fosse tentato un movimento nelle Marche nell’Umbria, per vendicare Perugia, avanzare l’unità d’Italia, incerta ancora fra le mene della diplomazia ed agevolare, scendendo dal centro al sud, l’ardua prova. Garibaldi prescelse, capi di questo movimento Nicotera e Pianciani.

Il Nicotera già provato in ogni impresa, cui fosse necessario cuore, fede nei destini della patria, ardimento e coraggio; il Nicotera, che a Sanza, a Sapri, innanzi al palco di morte, nelle prigioni, ovunque e sempre aveva addimostrato quanto potente fosse in lui 1 amor di patria, non si arrestò innanzi al volere di quel grande, che l’Italia redenta salutò col nome di primo soldato, ’e si gittò nella Toscana con pochi ardimentosi quanto lui. Era certo però, che egli avrebbe dovuto combattere non gli infingimenti di coloro da cui sperava aiuti, ma i sostenitori d’un vecchio e sfasciato sistema, i paladini d’un potere che già aveva ricevuto condanna di morte nella coscienza dei dotti. Egli pertanto aveva convinzione di ritrovare colà gli aiuti e le simpatie degli uomini che si dicevano amanti d’Italia, tanto più che egli, seguace sincero allora delle idee del Mazzini, a guisa del suo maestro, aveva fatto tacere le sue opinioni e le sue aspirazioni, per rendere meno difficile il conseguimento dell'unificazione italiana. Ma così non fu, ed egli ebbe ad accorgersi ben presto che coloro che posero sempre un bastone fra le ruote del progresso esistevano tuttora, e che tutte le sue sante abnegazioni si sarebbero disperse innanzi agli infingimenti ed alle subdole arti di coloro che da un lato volevano trovarsi in buon accordo colla rivoluzione e dall’altro con gli uomini del Governo.

In Toscana, ciò non ostante si organizzava la spedizione Nicotera; in Toscana perciò i Comitati di. provvedimento Garibaldi. Tutto questo si praticava, di concerto col barone Ricasoli, il quale dopo la decadenza dei Lorena, in seguito alla pace di Villafranca, era divenuto Governatore di quelle provincie.. Ricasoli fece assegnare ai volontari il locale di «Castel Pucci», un locale in Prato, fece somministrare da 25000 cartucce, delle armi, il vecchio equipaggio dei soldati, e tutti incoraggiava all’impresa.

Nicotera dal canto suo, che tutto aveva organizzato, e che non si muoveva per attendere gli ordini del

generale Garibaldi, s’acquistò col suo carattere franca, e leale la stima e 1 affettò dei suoi volontari ai quali, indirizzava il seguente ordine del giorno:

Ufficiali, sott'ufficiali e militi. — Eccovi il vostro stendardo, lo stendardo che da tanti anni è stato' sostenuto da centinaia di martiri, da migliaia di sepolti nelle più orribili segrete, lo stendardo. che fa battere ancora il cuore a più di 14 milioni di nostri fratelli e spaventa lo straniero e i tiranni interni.

Nel mezzo voi leggete due parole che sono il nostro programma Unità e Libertà — Unità per essere grandi, Libertà per compenso agli eroici sforzi di tutto un popolo, e per divenire uomini e cessare una volta di essere trattati a guisa di vilissimo gregge; e l’una e l’altra noi difenderemo finché ne rimane una stilla di sangue nelle vene; poiché sarebbe un trastullo da bambini l’aver l’una senza l’altra, una più. vasta prigione accordata a degli schiavi. Io do a tutta la brigata una sola bandiera, affinché sia più gelosa nel custodirla; voi ne son certo, la difenderete come un padre difenderebbe l'unico suo figlio: in essa sta la salvezza della patria, la vostra gloria.

Oggi la deposito nelle vostre mani,'domani o domani l’altro voi la mostrerete ai nemici atterriti ed al popolo che la sospira.

Viva il Re! — Viva l’Italia una e libera! — Viva Garibaldi! — Vivano i prodi che combattono per la patria!

Castel Pucci, li 22 agosto 1860.

Il Colonnello Brigadiere — G. Nicotera.

Stavano così le cose quando un bel giorno il Nicotera venne arrestato sulla piazza del Duomo di Firenze dai gendarmi del Governo. Questo arresto che poi si disse essere avvenuto per «isbaglio», produsse tale effetto nell'animo dei volontari, che ben presto presero le armi e domandarono di scendere in Firenze per liberare il loro capo. Fortunatamente questi venne messo in libertà, e si evitarono così scene, che in ogni caso sarebbero state deplorevoli.

Il Ricasoli intanto che aveva promesso al Nicotera di farlo entrare per la via di terra nello Stato romano, concedendogli il passaggio sulla strada ferrata fino a Sinalunga, non tenne la promessa, forse per non mettersi in opposizione col Governo di Torino.

In questo stato di cose, il Nicotera, aspettando sempre gli ordini di Garibaldi, indirizzò ai suoi un altro ordine del giorno, nel quale dopo d’aver porto alla brigata ringraziamenti per le non dubbie prove di affetto che gli aveva date, continuava così:

In compenso rinnovo il giuro di non deporre la. spada nella guaina fino a quando l’Italia nostra non sarà una e libera dall'Alpi al Faro. — I nemici della patria han tentato ai spargere fra noi il seme della discordia, la diffidenza: ma voi con un senno mirabile lo avete compreso, e sopportando con pazienza i disagi, e frenando i generosi impulsi del vostro cuore, avete dato la migliore delle risposte — Siete rimasti fermi al vostro posto, aspettando gli ordini del supremo duce, il prode dei prodi, Garibaldi. Questi ordini non tarderanno a giungere, ed io alla vostra testa li eseguirò scrupolosamente, dovessi pure passare nelle fiamme ed incontrare la morte ai piedi di questa collina.

Viva il Re! — Salute, amore e fede! — Viva l’Italia una e libera — Viva il nostro supremo duce Garibaldi — Vivano i volontarii!

Castel Pucci, li 22 agosto 1860.

Il Colonnello Brigadiere — G. Nicotera.

Nel giorno in cui il Nicotera s’imbarcò coi suoi nel porto di Livorno, impaziente di salpare, il Governo glielo impedì e fece puntare i cannoni contro dei due vapori, ove erano quei generosi volontarii, che animati da patrio affetto erano corsi a combattere per la libertà e per l'indipendenza d’Italia! E così anche questo tentativo generoso andè a vuoto. Ma quante cose non fece allora andare a vuoto la diplomazia?

E quei generosi, che non volevano che combattere e morire per quella patria e per quella unità, i cui benefìcii dovevano ricadere necessariamente nelle mani del Re, venivano additati appunto come nemici della patria e del Re.

XIV

Frattanto Garibaldi, debellati i soldati del Borbone in tutte le città della Sicilia, passava lo stretto, entrava nelle Calabrie e s’inoltrava celeramente nel continente, e l’impeto era sì potente, e l’ardore delle popolazioni sì grande, che i regi, comeché numerosi, deponevano le armi senza combattere, e prima il generale Ghio, a Soveria, con circa ottomila soldati, poi il generale Caldarelli, a Cosenza, con altra non poca truppa, cedevano il passo, talché trionfale era la marcia su Napoli del gran capitano. Il quale, il giorno 7 settembre 1860, precorrendo i suoi militi, faceva il suo ingresso pressoché solo nella prima città d’Italia, con i castelli e varii posti di guardia tuttora guerniti dai regii, in numero di circa ottomila. Giorno di festa solenne fu quello per Napoli: quel giorno segnava il principio d’un’era novella e l’entusiasmo fu straordinario.

Il Borbone si era ritratto colle sue truppe nelle due fortezze di Capua e Gaeta, ed i volontarii privi di artiglierie non potevano espugnarle da soli. Se nonché essi compresi dal desiderio grande dei popoli di raggiungere l’ultimo fine dell'unità nazionale, cedevano il posto d’allora in poi all'azione dell'esercito regio e del Governo di Torino, dopo di avere strenuamente combattuto, durante un mese circa, intorno alle mura di Capua, e salvato Napoli, il primo ottobre dall’eccidio e dalla rovina, che i borboniani le avrebbero senza fallo arrecati, se avessero superato il contrasto glorioso che le schiere di Garibaldi, a Santa Maria, e quelle di Bixio, ai ponti della Valle, avevano opposto loro. In frattanto scioltasi la brigata di Castel Pucci, Nicotera era tornato presso Garibaldi ed aveva preso parte alle diverse fazioni avvenute sotto Capua, salvando il 14 ottobre il battaglione di Stocco, a Caserta, circondato completamente dai regii.

La rivoluzione sequestrò durante il suo Governo le medaglie d’oro che i Borboni avevano destinate per coloro che avevano assassinato Pisacane e i compagni suoi. Quelle medaglie furono raccolte in buon numero, vennero fuse e per opera specialmente di Nicotera se ne coniò una gran medaglia per il generale Garibaldi.

Il giorno 21 ottobre le provincie meridionali pronunziavano il loro solenne Plebiscito. Il novembre Re Vittorio Emanuele al fianco di Garibaldi entrava in Napoli, ed il giorno dopo nella gran Sala del trono della Reggia, circondato dai grandi dignitarii della corona, dallo stato maggiore, dal ministro Farini e da tutto il Ministero, dal Sindaco di Napoli e da tutte le altre autorità, sempre presente Garibaldi, udiva pronunziare il seguente indirizzo dal ministro dell’interno Conforti:

Sire!

Il popolo napoletano, raccolto nei comizii ad immensa maggioranza vi ha proclamato suo Re. Nove milioni d’Italiani si uniscono alle altre provincie rette dalla Maestà Vostra con tanta sapienza, e verificano, la vostra solenne promessa, che l'Italia dev'essere degl'Italiani.

Al Governo della rivoluzione subentrava il Governo regolare. Un nuovo periodo del risorgimento italiano chiudeva il suo glorioso ciclo. Garibaldi prima di partire per la sua Caprera indirizzava ai bravi e valorosi volontarii le seguenti nobilissime parole, che sono, si può dire, la conclusione più nobile di quanto egli aveva operato:

Ai miei compagni d’arme

Penultima tappa del risorgimento nostro, noi dobbiamo considerare il periodo che sta per finire, e prepararci ad ultimare splendidamente lo stupendo concetto degli eletti di venti generazioni, il cui compimento assegnò la Provvidenza a questa generazione fortunata.

Si, giovani! L’Italia deve a voi un’impresa che meritò il plauso del mondo.

Voi vinceste; — e voi vincerete — perché voi siete ormai fatti alla tattica che decide delle battaglie!

Voi non siete degeneri da coloro che entravano nel fitto profondo delle falangi macedoniche e squarciavano il petto ai superbi vincitori dell’Asia.

A questa pagina stupenda della storia del nostro paese ne seguirà una più gloriosa ancora, e lo schiavo mostrerà finalmente al libero fratello un ferro arruotato che appartenne agli anelli delle sue catene.

All'armi tutti! — tutti: e gli oppressori — i prepotenti sfumeranno come la polvere.

Voi, donne, rigettate lontano i codardi — e voi figlie della terra della bellezza volete prole proda e generosa!

Che i paurosi dottrinarii se ne vadino a trascinare altrove il loro servilismo, le loro miserie.

Questo popolo è padrone di sé. Egli vuol essere fratello degli altri popoli, ma guardare i protervi colla fronte alta: non rampicarsi mendicando la sua libertà — egli non vuol essere a rimorchio d'uomini a cuore di fango. No! No! No!

La Provvidenza fece il dono all'Italia di Vittorio Emanuele. Ogni Italiano deve rannodarsi a Lui. Attorno al Re Galantuomo ogni gara deve sparire» ogni rancore dissiparsi! Anche una volta io vi ripeto il mio grido: all'armi tutti! tutti! Se il marzo del

61 non trova un milione d’italiani armati, povera libertà, povera vita italiana.... Oh! no: lungi da me un pensiero che mi ripugna come un veleno. Il marzo del 61, e se fa bisogno il febbraio, ci troverà lutti al nostro posto.

Italiani di Calatafimi, di Palermo, del Volturno, d’Ancona, di Castelfidardo, d’Isernia, e con noi ogni uomo di questa terra non codarda, non servile; tutti serrati intorno al glorioso soldato di Palestro, daremo l’ultima scossa, l'ultimo colpo alla crollante tirannide!

Accogliete, giovani volontarii, resto onorato di dieci battaglie, una parola d’addio! Io ve la mando commosso d'affetto dalla mia anima. Oggi io devo ritrarmi, ma per pochi giorni. L’ora della pugna mi ritroverà con voi ancora — accanto ai soldati della libertà italiana.

Che ritornino alle loro case quelli soltanto chiamati da doveri imperiosi di famiglia, e coloro che gloriosamente mutilati hanno meritato la gratitudine della patria. Essi la serviranno ancora nei loro focolari col consiglio e coll'aspetto delle nobili cicatrici che decorano la loro maschia fronte di venti anni. All'infuori di questi gli altri restino a custodire le gloriose bandiere.

Noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme al riscatto dei nostri fratelli, schiavi ancora dello straniero, noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme a nuovi trionfi.

Napoli 8 Novembre 1860.

G. Garibaldi.

NOTE

(1) Parole di F. De Sanctis sul feretro di Luigi Settembrini.

b> (2) Allude alla fallita spedizione del giorno 13; da questo si vede la fiducia che aveva il Pisacane nelle promesse fattegli.

b>(3) Nome convenzionale di Fanelli.

b>(4) Il Pisacane voleva, arrivato in Napoli, incominciare senz’altro la rivoluzione.

b>(5) Mercantini, La Spigolatrice di Sapri.







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Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)












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