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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

RAPIDO CENNO SUGLI ULTIMI AVVENIMENTI DI ROMA

DALLA SALITA DELLA BRECCIA AL DI’ 15 LUGLIO 1849

PER CARLO PISACANE

CAPO DELLO STATO-MAGGIORE GENERALE DELL ESERCITO DELLA REPUBBLICA ROMANA

Dio e il Popolo.
LOSANNA

SOCIETÀ’ EDITRICE L’UNIONE

1849

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

AL LETTORE

I fatti avvenuti in Roma, di somma gloria tornando al popolo italiano ed all'armata romana, e di vergogna eterna al nemico, come italiano e come soldato, m’impongono il dovere di esporli al pubblico, onde controbattere le calunnie che da per tutto circolano a giustifica dell'infamia altrui.

Una sì interessante relazione è attesa, son sicuro, da Italia tutta e da Francia. Io mi accingo a tale impresa, benché, interessato troppo in tali avvenimenti, il cuore potrebbe tradire la penna. Ma i fatti che io narro sono convalidati da documenti, ed essi sono tanto brillanti per la Repubblica romana, che la sola verità bastando a soddisfare il cuore di ogni caldo italiano mi assicura l’imparzialità delle mie pagine.

Traccio a lunghi tratti solamente gli ultimi avvenimenti; giacché è troppo interessante farli apparire alla luce nel più breve tempo possibile.

Costretto in questo opuscolo a parlare di persone che io stimo ed amo moltissimo, ho dovuto solo in quel punto soffocare i sentimenti del cuore e le presento al pubblico tali quali sono: influendo moltissimo i foro caratteri sullo sviluppo particolare di alcuni fatti, e facendo sempre più risaltare la virtù del popolo romano. E di più, considerando io basso ed immorale il culto delle persone, sacrifico le mille volte l’individuo alla gloria di un popolo ed alla verità.

Losanna li 12 agosto 1849.

C. PISACANE.

RAPIDO CENNO SUGLI ULTIMI AVVENIMENTI DI ROMA

I

Il Tevere divide Roma in due parti disegualissime; quella che resta sulla sponda destra del fiume è quasi considerata come staccata dalla città, e prende il nome speciale di Trastevere.

Dall'alto Tevere (rapporto alla città) le mura di cinta di Roma partono dal forte S. Angelo, e circondano la porzione di Trastevere che comprende l’immensa mole del Vaticano, la quale si avanza in modo pronunziatissimo nella campagna. Le mura vanno ad unirsi col Tevere al bastione S. Spirito, e formano così quasi un corpo isolato, il cui sviluppo è poco più dell'ottava parte dell'intera cinta di Roma. Questa parte della città poco faticosa a difendersi per la sua breve estensione, ed ove l’immensa fabbrica di S. Pietro offre un ricovero alle truppe, ha il nome di città Leonina. — Il forte S. Angelo è il ridotto di questa cittadella.

Dalla Porta Cavalleggieri segue la cinta bastionata intorno all'altra parte di Trastevere, formando quasi angolo retto con quella della città Leonina, e lasciando il bastione S. Spirito nell'interno, compreso fra il Tevere, ed il punto di partenza delle mura in discorso. — Questa cinta comprende undici bastioni, fra cui i più salienti sono i bastioni 6 e 7, i quali fanno parte delle mura urbane, che seguono la cresta del Gianicolo, altura che domina completamente Roma. — Dal punto ove questa cinta bastionata si lega al basso Tevere, propriamente a Porta Portese,

Roma per lo spazio di circa 3,000 metri è difesa dal solo fiume. Quindi una debole, irregolare ed estesissima cinta, che forma quasi i 8dell'intero circuito di Roma, chiude la parte della città sita sulla sponda sinistra del Tevere, e va ad unirsi a tale fiume dal punto donde siamo partiti.

Questa succinta descrizione basta per comprendere le località che verranno in seguilo nominate.

II

Dopo 20 giorni di trincea aperta, l’armata francese compiva la breccia. La difesa del fronte attaccato era affidata al generale Garibaldi. Erano tre giorni che la breccia resa praticabile mostrava al nemico aperta la strada onde penetrare nello mura della città. Ma il generale francese temporeggiava, e sperava evitare l’assalto, cercando intimidire col bombardamento Roma, atto barbarissimo da lui in seguito vilmente negato, asserendo che le bombe erano dirette sui bastioni; mentre oltre le bombe, una gran copia di granate era scagliata nella città dalle batterie poste fuori porta del Popolo, fronte tutto diverso dall'attaccato, ed ove tali batterie non potevano assolutamente avere altro oggetto, che quello di tirare sulle dimore dei cittadini. — Errore gravissimo era il postergare l’assalto, giacché se i Romani avessero cercato costruire dei trinceramenti interni, preziosissimo tempo avrebbe perduto il nemico.

In tutto il lungo periodo dell’assedio di Roma, nell’armata francese ammirabilissime furono sempre la disciplina, e le capacità subalterne; ma ad onta di questa esattezza nell'esecuzione dei dettagli, le operazioni dell'assediante non erano mai spinte più in là una spanna di quel tanto il di cui successo era assicurato; — conseguenza della nullità del generale in capo, e dei suo stato maggiore. L’armata francese agiva coi né uomo di membra robustissime e di buona volontà, che per mancanza di testa, muove incerti e lenti i suoi passi come un deboi bambino.

Se tutte le immense risorse che offre l'arma del genio, fossero state messe in uso per la difesa di quel fronte, i Francesi per lungo tempo avrebbero vissuto sotterra come talpe. Ma invece nei bastioni, ai trinceramenti interni regolari, erano sostituiti degli inutili ed insignificanti parapetti di terra senza fossato. La breccia, invece di aver pronte delle profonde colonne d’attacco, non era guardata il giorno che da pochi bersaglieri, la notte da rare sentinelle. — Tanti errori condussero il nemico la notte del 24 giugno nell’interno delle mura senza incontrare ostacolo veruno, dappoiché le stesse sentinelle rare ed isolate, prese da panico terrore, abbandonarono il posto. Fedeli i Francesi a) loro metodo di paura, benché niuno ostacolo si opponesse al proseguimento della loro marcia, si arrestarono, e principiarono i lavori di terra. In quella notte, era dovere del generale assediarne spingere oltre l’attacco, onde riconoscere le posizioni del nemico nell’interno dei bastioni; e se l’avesse fatto, quella notte stessa, sarebbe stato padrone delle batterie di seconda linea.

Il generale Garibaldi è avvertito; riunisce le truppe e marcia alla loro testa alla gola del bastione, e credendo. (falsamente) che all’alba i Francesi avessero definitivamente attaccato, inoperoso resta la notte, con la truppa disordinata, e dispersa su di una lunga linea. 11 più bel momento di attaccare la piccola colonna francese, che titubante ancora alla cima della breccia, incerta del proprio successo, senza fallo sarebbe stata rovesciata, e rispinta da qual piccolo spazio ove si era arrestata, è perduto: di più, per una inconcepibile fatalità, l'artiglieria non essendo avvertita, le batterie di seconda linea tacciono tutta notte, mentre avrebbero potuto almeno travagliare il nemico con una pioggia di projettili.

La dimane il generale in capo Roselli, essendosi portato sopra il luogo, ordina di attaccare i trinceramenti nemici con forti e profonde colonne; la campana chiama il popolo alle armi che numeroso vi accorre; ma il generale Garibaldi, non sicuro del morale della sua truppa, contromanda l’ordine, ed invece attacca i lavori nemici con mezza compagnia, impegna una fucilata insignificante, il cui risultato é nullo. — L’artiglieria solamente cerca ritardare i lavori dell'assediarne, i quali procedono con alacrità.

Il nemico construì sui bastioni le sue batterie onde spegnere il fuoco delle nostre, e per dieci giorni (fedele al suo metodo) non ardì attaccare i nostri deboli trinceramenti. Finalmente la notte del 29 al 30, notte burrascosa ed oscura, fu tentato dai Francesi l’attacco. Un’errore, una fatalità, pari a quella che condusse il nemico sulla breccia, fa retrocedere le nostre giovini truppe. Il sole illumina questa scena, non dico di stragi, giacché appena due o tre cadaveri sono sul campo, ma scena incomprensibile all'occhio di un militare. Sgombra dalle truppe romane è la linea del trinceramento interno, ed abbandonata una batteria; questa linea però, questa batteria non è occupata dal nemico, che mantiene il fuoco dalle sue posizioni di poco avanzate sulla nostra dritta. — Le truppe romane nei casini, e nell’estrema sinistra dell’abbandonato trinceramento, sostengono il fuoco dell'avversario. La truppa in tale posizione non poteva più tenersi in Trastevere.

III

Era retta la romana Repubblica da un triumvirato investito di pieni poteri, ed eletto dall'assemblea nel momento che la battaglia di Novara ci mostrò chiaramente dovere esser soli a reggere il peso delle masse austriache.

Svolgendo le pagine dell’istoria, si troverà nella moderna Roma il primo esempio dell'accordo perfetto, fra popolo e governanti.

Il  Triumvirato assume il potere nel momento che nell'interno la mancanza del numerario obbliga a porre in circolazione nuova carta monetata, che poco o nessun credito poteva ottenere, attesi i numerosi nemici che minacciavano la Repubblica. — I sei Ministeri, erano stati lasciali dal caduto potere in un disordine ed in un tale abbandono amministrativo, che mostrava chiaro le tracce di quella casta staccata afTallodagr interessi sociali. All’esterno, l’Austria, la Francia, la Spagna, Napoli, minacciavano la Repubblica. La forza armata, poco numerosa, non per mancanza di uomini, ma di armi, e questa poca formata di corpi staccati, fra i quali la diversità di nome e di organizzazione imposta dal capriccio degl'individui, e la diversità del soldo si opponevano a qualunque adesione e ne attaccavano le radici; arrogela mancanza assoluta di teste organizzatrici militari.

In tale stato di cose, non vi erano che due metodi per far muovere con vantaggio questa macchina governativa guasta affatto nelle sue basi. Uno: calpestare tutti i pregiudizii popolari, calpestare le tante suscettibilità individuali, assegnare ad ogni uomo senza veruno riguardo il posto che meritava la sua intelligenza, e nella scelta delle persone, nelle operazioni governative, seguire il solo dettame della propria coscienza, e reggere con mano di ferro la Repubblica. L’altro: giovarsi nelle persone più del prestigio, che del merito, onde contentare il popolo, amalgamare le suscettibilità individuali, allentare il freno governativo per renderlo dolce, ed ottenere per amore i sacrifizii necessarii al bene della patria. — Per procedere a grandi cose non vi è che il primo di questi due metodi. — L’altro per tanto, scelto dal governo, avea prodotto in Roma un’armonia sì perfetta, che, le leggi, i decreti, il volere del Triumvirato erano eseguiti senza aver bisogno di alcun mezzo coercitivo. Il popolo era persuaso delle rette intenzioni del governo; il governo, dotato di un’abnegazione personale senza limite, era animato del solo desiderio di fare il bene pubblico. Il popolo avea fiducia nelle idee del Triumvirato, come nelle proprie concezioni, e considerava un tale governo, assolutamente come sua emanazione. La divisa di Dio e Popolo, esprimeva perfettamente la molla che dirigeva il Triumvirato.

Giuseppe Mazzini, — Aurelio Saffi, — Carlo Armellini, — erano i Triumviri: — l’ultimo di questi, onestissimo cittadino, era specialmente dedicato al ramo giudiziario, e veruna parte prendeva nelle cose governative. — Troppo conosciuto nel mondo Giuseppe Mazzini perché io ne parli, si elevava sugli altri con le ali del genio: in tutti i rami la sua opinione prevaleva, mostrandosi chiara a tutti la intelligenza, proprietà assoluta dei grandi concepimenti. Nessuno negava la sua superiorità, come la massa degli uomini non nega al gigante la superiorità della mole. —Saffi, legato al Mazzini di amicizia fraterna, lo secondava, e divideva con esso i travagli; ed in perfetto accordo erano questi due esseri, che la Natura avea privato affa Ito di ambizione ed interesse personali; sostituendo invece a questi due potenti motori un eccessivo amor di patria, ed il desiderio di voler sacrificare sé stessi al bene dell'universale.

Alle ore 40 del giorno 30, il triumviro Mazzini, riunì i capi dei Corpi, ed i generali tutti nel palazzo Corsini, onde conoscere qual'era l’opinione dell'armata, prima che il governo avesse deciso sul partito a prendersi. Dopo una breve allocuzione poneva a voti le seguenti quistioni.

1° Capitolare.

2° Difendersi in città all’estremo.

3° Uscire da Roma e portar la guerra altrove.

Ad unanimità era risoluta la prima, e la seconda avea la maggioranza di pochi voti, atteso lo stato in cui si trovava l’armata. Le marcie rendono robusto il soldato, la varietà dei luoghi lo rallegra, il paese straniero lo obbliga a tenersi sempre più unito e compatto, infine un’armata all'aperto acquista l’appiombo, l’adesione e la forza che la rendono invincibile. — Il contrario di un assedio. — Difatti la vicinanza delle proprie case in Roma, in un’armala formata di Romani, il servizio faticoso (giacché l’estensione della cinta, e il poco numero della truppa obbligava il soldato ad essere sempre esposto al fuoco, e non aver mai un momento di respiro), aveano ridotta l’armata quasi nell'impossibilità d’intraprendere un’ardita operazione con quella esattezza che esigeva il momento; aggiungi che scarse erano le munizioni, e che in pessimo stato ritrovavasi il soldato. — Questo però di nulla cambiava l’opinione del Triumviro.

La parte militare era finita. La breccia salita, i trinceramenti interni guadagnati. Non restava che difendere palmo a palmo, casa per casa la città, guerra di popolo assolutamente; questo fu consultato, e rispose con quella energia che era figlia dell amore al suo governo, dell'odio allo straniero ed all'infame regime chiericale. — Vi era anche un altro mezzo: ritirarsi sulla sponda sinistra del fiume, e far saltare i ponti; ma non potendo abbandonare al nemico la generosa popolazione di Trastevere le si propose di passare tutta nell'altra parte della città, al che essa rispose voler difendere invece col pugnale la soglia delle proprie abitazioni.

Intanto questa ostinata difesa, questa guerra di pugnale che tanto ambivano il popolo e l’armata era un’illusione. 11 nemico, timido sempre, non avanzava di un passo; alloggiato sul Giani-colo, avrebbe proseguito il bombardamento. — Il Triumviro, e una parte dei capi dell'armata vedevano chiaro che difendersi ostinatamente in città, non era altro che sottoporsi a soffrire con pazienza un lungo bombardamento, di cui vittime sarebbero stati gli esseri i più inoffensivi.

Respinta con orrore qualunque idea di capitolazione, inutile l’ostinarsi ad una difesa interna, il solo partito giusto ed ardito, era quello che proponeva il Triumviro Mazzini, cioè sortire di Roma, assemblea, governo, armata e tutti i cittadini che volevano seguirci, traversar la Toscana, piombare in Romagna nel mezzo della linea austriaca, e ristabilire il legittimo governo repubblicano. — Oltre a questo altri due progetti si offrirono. — Invadere l’Italia meridionale e rendere italiana la guerra con la propaganda, o infine chiudersi in Albano o in Vellelri ed ivi sostenere un secondo assedio.

L’assemblea, unione di onestissimi cittadini, per amor patrio e sentimenti di onore commendevoli, mancava di una voce, la quale nei momenti difficili dominando, avesse presa l’iniziativa. — Gli avvenimenti della notte l’aveano troppo scossa; essa subiva la legge della fatalità. Mancava del coraggio del guerriero che muove colle armi alla mano; avea invece quello del giusto, che intrepido espone il petto ai colpi dei suoi assassini. Mazzini, lo stesso Mazzini, le cui parole erano seguite dagli applausi in quella sala, come il baleno dal tuono, non fu capace strappare da essa la risoluzione di sortire della città. Invece questa nobile adunanza, tenendo quasi a vile l’abbandono della città eterna, era invasa dall'idea di morire sui banchi della sala. — Il generale Garibaldi sali alla tribuna, e dichiarò potersi continuare un’ostinata difesa, ma la sera le truppe dover passare il Tevere. — L’idea dell’emigrazione dell’intera popolazione di Trastevere, che si eleva a trenta mila anime, i molini che rimanevano tutti nella parte della città che si abbandonava, i viveri che cominciavano a difettare, le munizioni di guerra che quasi mancavano, accrescevano nel cuore dei rappresentanti del popolo la tristezza del quadro della nostra posizione. Ma discendere a patti col nemico essi non lo volevano a qualunque costo. — Dopo breve discussione, l’Assemblea emanò il seguente decreto:

IN NOME DI DIO E DEL POPOLO

«L’Assemblea costituente romana cessa da una difesa resa impossibile e resta al suo posto.»

Il Triumvirato è incaricato dell'esecuzione del presente decreto.

Firmato:

Il Presidente.

IV

Il decreto dell'Assemblea legava le braccia all'armata, ordinandole desistere da qualunque difesa. Un nemico meno timido, appena avuto conoscenza di ciò, poteva entrare in Roma senza trar colpo, ed avere a sua discrezione la città e l’armata tutta. — Il Triumvirato inviava tale decreto al comando generale e si dimetteva immediatamente: giacché il mandato essendo quello di salvar la Repubblica, esso cessava dal momento che questa era abbandonata al nemico, e per nulla piegavasi alle insistenze che fece l’Assemblea acciò rimanesse al suo posto. Altri tre individui furono nominati, ed affidato ad essi il potere esecutivo.

Il Municipio annunziava una deputazione pronta a recarsi al campo, onde proteggere e tutelare le persone e le proprietà.

Il generale in capo, intanto dovè suo malgrado comunicare al nemico il decreto dell'Assemblea e lo accompagnava con la seguente lettera:

«Generale,

Mi pregio comunicarvi il qui accluso decreto dell'assemblea costituente romana, in conseguenza del quale, io farò immediatamente per parte mia cessare le ostilità, come spero farete anche voi Generale.

Vi annunzio intanto che questa sera una deputazione del Municipio, avrà l’onore di recarsi al vostro quartiere generale.

Pregandovi di un riscontro, vi auguro salute.

Firmato:

ROSELLI.

Il Francese rispondeva:

«Generale,

Voi mi fate l’onore di prevenirmi che una deputazione del Municipio di Roma deve presentarsi questa sera da me; io la riceverò con tutti i riguardi che le son dovuti.

Appena avrò conosciuto di una maniera precisa il suo scopo, giudicherò se vi è luogo a sospendere le-ostilità. — Ho prescritto agli avamposti messi sulla strada di porta Portese (strada portuense) di recevere la deputazione che mi annunziate.

Ricevete, Signor generale in capo, l’assicurazione della mia alta considerazione.

Il generale in capo dell'armata francese del Mediterraneo.

Firmato,

OUDINOT DI REGGIO.

Le ostilità cessarono immediatamente da una parte e dall’altra.

L’armata intanto, capiva benissimo in quale trista situazione si trovava. Essa rimaneva a discrezione del nemico, che ben presto sarebbe entrato in città, e chiedeva che il proprio onore fosse salvato.

L’assemblea conferiva ai nuovi Triumviri pieni poteri onde provvedere all’onore dell’armata; il governo dal canto suo invece di riconcentrare l’azione, conferì a Garibaldi i medesimi poteri di Roselli, e commettè ai due generali la soluzione di questo difficile problema.

Per giudicare quanto impossibile era che due generali agissero con pari poteri, ed in pieno accordo, bisogna assolutamente tratteggiare il carattere di questi due individui, cosa molto interessante per la spiegazione dei fatti che seguono, e che influirà moltissimo sulla spiegazione di cose già narrate, ove sembra nulla l’autorità del Generale supremo.

Il generale in capo dell’armala repubblicana era il cittadino Pietro Roselli, romano; il quale avea principiato la sua carriera nelle truppe papaline, e si era poi ritirato nella vita privata pel disgusto che gl'inspirava il pretesco regime. — Caldissimo ed onesto cittadino, era fornito di molte cognizioni militari. Roselli concepiva sulla carta un piano di campagna, indicava i progressi di un’assedio con la precisione di un trattato. Ma all'aperto, ove alle regole di tradizione bisogna sostituire i propri concepimenti, benché intrepido al fuoco, diventava un uomo incapace di dare la benché minima disposizione, ed accettava i consigli ed i suggerimenti di qualunque individuo. Le cognizioni acquistate nella solitudine della camera, la vita ritirata dalla società nella quale era sempre vissuto, lo rendevano sì novizio nel conoscere gli uomini, davano tanta poca fermezza al suo carattere, ed era dominato da un tale spirito conciliativo, che sacrificava le sue cognizioni, il suo amor proprio, il decoro della carica alla tema di dispiacere, odi urtare le altrui suscettibilità. L’assieme della sua persona, il modo di esprimersi riservato, che indicava timidezza e moderazione, il suo volto mancante affatto di energia, il vestire negletto, infine, tutto concorreva a negargli quel prestigio e quell'aureola indispensabile ad un generale in capo.

Il generale Garibaldi già si trovava al servizio della repubblica, col grado di colonnello, e stanziava in Rieti. Il non volersi uniformare ai regolamenti, a cui l’armata tutta si sottoponeva, lo rendeva d’impaccio ai partigiani del vecchio sistema, ed era considerato più dannoso che utile. — Ma, uno di quei pochi dotati del genio per dirigere nelle circostanze difficili, e che sanno giovarsi di qualunque elemento, il generale Garibaldi era considerato come un essere esclusivo, ed utile, adoperandolo in modo da non sortire della sua sfera. La commissione di guerra, convinta di questa verità, nel decretare la formazione dell'esercito, e nel dividerlo in due campi, dichiarava il corpo di Garibaldi corpo di partigiani indipendente dell’armata. Ma richiamato in Roma nell'avvicinarsi del nemico, ed avendo il 30 aprile con la sua legione sostenuto il forte del combattimento, Avezzana, allora ministro di guerra, lo promosse generale.

Prode di persona Garibaldi, e di carattere dolcissimo, sempre sul sito del combattimento, dando le disposizioni con la massima calma, era perciò caro ai suoi soldati. 11 suo bello aspetto, il suo modo esclusivo di vestire, le sue abitudini l'aveano circondato di un tale prestigio da far credere a lui stesso di avere le capacità di gran generale, mentre egli non avea che il genio del guerrigliero, il quale impegna gli uomini quasi individualmente, senza fare uso delle masse, solo mezzo deciso in guerra; credeva poter condurre un’armata di 30 mila bajonette nel modo stesso che si conducono 300 uomini.

Questi due individui, d’indole tanto diversa, erano alla testa dell’armata. Garibaldi mal soffriva essere subalterno di Roselli, e cercava sempre di emanciparsi, e guadagnare il freno; Roselli cedeva in tutto. Il governo, col suo metodo di dolcezza, cercando amalgamare, non faceva che sempre più favorire l’indipendenza del primo. In tal modo Roselli non era più capace di dare un’ordine, né era ubbidito ove comandava Garibaldi.

Ora, dando pari autorità ai due generali, non si faceva che? dichiarare Garibaldi generale in capo, dappoiché Roselli, incapace di lottare contro di lui, sebbene superiore, non poteva certamente conservare la sua indipendenza come uguale. L'armata tutta sentiva ciò. La legione formata dal generale Garibaldi, avea inaffiato le mura di Roma del suo sangue patriottico, ed un tal corpo per valore e per travagli durati era al certo il più benemerito della Repubblica. Ma disgraziatamente nella generalità di questo corpo regnavano dei pregiudizi nati dalla mancanza di cognizioni militari dei capi, che facevano disprezzare tutto ciò che era regolare e tradizionale. Ed i militi della legione non aveano rispetto veruno per gli uffiziali di altri corpi, e però l’armata temeva l’immediato contatto della Legione. Garibaldi conosceva ciò e cercò ottenere individualmente quello che non poteva ottenere dalla massa, e difatti moltissimi individui abbandonarono il corpo per arrotarsi nella sua legione, e la sera del 2 luglio al cader del sole sortì da Roma da porta S. Giovanni, con 3000 fanti e 500 cavalli.

Rimanevano in Roma circa 11mila uomini di tutt’armi; affranti da un lungo e penoso assedio, mal forniti: ed i magazzini vuoti, scarse le munizioni. I generali ed i capi dei corpi di quest'armata la notte del 2, si riunivano in Trastevere onde provvedere al proprio onore.

Lo stato in cui era l’armata rendeva difficile l’uscire della città; più, l'uscire senza il Governo, era porsi in una falsa posizione in faccia al mondo. Fu deciso: chiudersi nella città Leonina (vedi cap.

I.) ed ivi sostenere un secondo assedio, o ottenere dal nemico una capitolazione la quale avesse almeno garantita la libertà individuale ai componenti dell’armata, decisa di sciogliersi al cadere delta Repubblica. La truppa fu riunita, gli uomini dispersi raccozzati, e forse principiava per l’armata un nuovo periodo di gloria; ma la mattina del 3 e per tempissimo, un uomo invaso da terrore, abusa delta debolezza di Roselli, lo persuade a uscire da Roma, e carpisce l'ordine di far ritirare la truppa delta piazza del Vaticano che marcia dritto alle caserme, onde decidere sul partire o rimanere! —Il mal fatto era rimediabile, vi era ancora il tempo di ritornare al Vaticano; ma un’ufficiale dello stato-maggiore francese, si presenta al generale in nome di Oudinot (che principiava la guerra delle viltà e delle menzogne), e gli propone di far partire l’armata il giorno seguente per prendere legalmente degli accantonamenti esterni. A questa proposta aggiungasi l’idea generale sparsa dal francese, che pel momento non avrebbe portato alcun cambiamento politico; ciò era bastante per rassicurare l’armata, e vagheggiare questo nuovo stato, in cui avrebbe potuto rinfrancarsi, ed organizzarsi, e così esistendo insieme col governo, si avrebbe avuto sempre un nucleo di bajonette amiche, utili in qualunque circostanza.

In tale stato erano le cose allorché i Francesi entrarono in Roma.

V

Il 3 luglio fecero ingresso i Francesi nell’eterna città, e per dare un ragguaglio esatto della loro entrata non posso fare che trascrivere la relazione pubblicata dal Monitore romano il giorno stesso, parola per parola:

«Ore 9 a. m. Qualche pattuglia di giandarmeria, ed altra di cavalleria francese, entra in città. Il popolo non se ne cura, o mostra sul viso il dispetto.

«Ore 10 a. m. Si vede qualque uffiziale di stato-maggiore, dirigersi all'ambasciata di Francia. Continua la stessa attitudine sino alle 5 m. Due battaglioni di truppa francese en

trano in Roma, e prendono diversi posti, quasi tutti al passo di carica, e bajonetta calata senza che ostacolo di sorta lor si opponga da alcuno, essendo quei posti sguarniti. Il popolo leva qualche urlo sempre incalzante: Morte a Pio IX. Viva la Re pubblica romana. Via gli stranieri.

«Ore 5 p. m. Traversa il corso una batteria della nostra arti glieria, che si ritira al quartiere. Applausi fragorosi; le donne dalle finestre sventolano i fazzoletti, ed applaudiscono i nostri prodi giovani. In mezzo a Piazza Colonna è una scena la più imponente. Sulla piazza gremita di popolo si grida: Viva la Repubblica romana. Piva la nostra artiglieria. Morte agli stranieri; cappelli in alto, applausi; al chiudersi della marcia una voce dice: Via tutti. La piazza rimane vuota. I Francesi da sopra il loggiato della posta veggono lutto, e si mostrano stupiti.

«Ore 6 p. m. Entrano le truppe francesi con Oudinote statoli maggiore. Le vie solitarie, le finestre tutte chiuse: la marcia procede mollo scomposta, molti cavalieri cadono da cavallo.

«All'entrare di Oudinot nel corso la folla del popolo, che là è molta, grida tra fischi i più strepitosi: Morte a Pio IX. Morte ai preti. Viva la Repubblica romana. Viva la povera Italia. Morte al cardinale Oudinote. Alcune compagnie francesi si spiegano e si avanzano a passo di carica i bersaglieri. Gli urli continuano: Via gli stranieri. Morte ai croati della Francia. Morte ai soldati del papa. Oudinot giunto al a caffè delle belle arti si ferma e fa strappare la bandiera italiana a dalla scorta. Giunto a Piazza Colonna, la folla è immensa, alcuni a del seguito, pare esortino Oudinot di arrestarsi, e fan segno a ad un picchetto della scorta di venire a far largo; ma Oudinot a si avanza, sembra che metta sotto qualcuno, cerca egli stesso a sperdere la folla caricandola; le grida sono immense.

«Ore 7. Un numeroso assembramento prende la bandiera a del caffè nuovo, e tra le solite grida si avanza pel corso sino a a Piazza Colonna. Un distaccamento francese, carica con molto a ardore alla bajonetta il popolo inerme; gli uffiziali tirano piat-a tonate, dieci o dodici soldati s’impossessano della bandiera. La folla retrocede fra i soliti gridi.

«Nessuna bottega si vede aperta. Al venir della sera la città è a molto oscura, in qualunque caffè entri un Francese tutti si alzano a e l’abbandonano.

«Si passeggia liberamente, tranne in alcuni punti, come alla a Trinità dei Monti, ed al Foro Trajano ove sono picchetti francesi che impediscono il passaggio.»

Roma è deserta!!! Ed i maestosi edificii della città eterna, bastano per atterrire il Francese. La sola banda militare del 13 leggero, provò suonare, ma un timor panico s’impadronisce di essa immediatamente e della colonna che marciava con passi incertissimi. La musica cessa, tutti al passo di carica guadagnano Piazza Colonna, senza che anima viva fosse comparsa.

L’armata francese sembrava perseguitata dal rimorso. Come l’assassino atterrito del proprio misfatto, che trema sulla vittima spirante, che anche vinta lo guarda con disprezzo e l’insulta.

I preti, quest’infamissima casta che pesa così crudelmente sul popolo romano, veruna molestia aveano sofferto durante la Repubblica. Un’armata di 30 mila Francesi viene per proteggerli, e bene? il primo, che il giorno 3 sortendo dalla sua tana, pronunzia l’abbonito nome di Pio IX, è massacrato dal popolo. 1 Francesi in Roma, il pugnale principia a lavorare. Era l’ordine che si ristabiliva.

Ren lungi dal voler tare l’apologia dell'assassinio, io mi credo in dovere prendere la difesa del più gran popolo del Mondo quale è il Romano. Se un Atleta dopo lunga lotta vince un’uomo ed entra senza ragione e di forza nella sua casa, l’uomo vinto, sicuro della sua inferiorità, che vede crudelmente tiranneggiare le sue più care affezioni, è esso nel dritto di pugnalare l’Atleta? io credo di sì. Questo dritto è quello stesso che ha il viaggiatore di pugnalare il brigante, il cittadino il ladro di strada.

Molti soldati francesi cadevano sotto il pugnale dei cittadini; giacché la popolazione inasprita, vedeva un nemico in ogni soldato. Non erano questi assassini. Il Francese era assalito di fronte, pugnale contro sciabola, pugnale contro baionetta, uno contro uno.

Il giorno il generale in capo Roselli scrisse al generale Oudinot, onde mandare ad effetto l’accordo per la partenza dell'armata, che ansiosa ne attendeva il momento, per più non vedere l’odiosa presenza del nemico. Oudinot non si degna rispondere. Il giorno seguente 4 luglio. un capitano di stato-maggiore, scortalo da un plotone di cavalleria, si presenta al generale Roselli, e dichiara, che l’armata poteva partire, ma sarebbero rimasti in Roma, il 1°, 2°, 3° reggimenti di linea, un reggimento di cavalleria, i carabinieri, e tutto il materiale d’artiglieria.

Il Generale francese,-sempre avea detto di voler bensì occupare la città militarmente, ma che pel momento non vi sarebbe stato alcun cambiamento politico. Lo stesso generale che, per maggiormente ingannare, e nascondere le proprie intenzioni, avea sempre conservato a Civita-Vecchia la bandiera italiana, proclama sciolta l’assemblea, e decaduto il governo. E nel tempo stesso un battaglione invadeva a viva forza la sala dei rappresentanti del popolo.

VI

Caduto il governo, l’armata voleva morire con esso. Un uffiziale superiore dello stato-maggiore fu incaricato la sera del 4 luglio, di annunziare al generale Oudinot lo scioglimento dell'armata, ed ottenere il tempo onde procedere regolarmente a tale operazione, e far sì che tanta prode gioventù, ottenesse un soccorso per ristituirsi alle proprie famiglie; soccorso che Tarmata stessa prelevava da un fondo suo particolare. Oudinot non ricevé quest'uffiziale; per mezzo di un suo capitano di stato-maggiore insisté per far partire l'armata romana, frazionandola nei vari accantonamenti; strattagemma, che può chiamarsi il tipo della perfidia. — Cessato il governo, l’armata non aveva i mezzi di esistenza. Frazionata in vari siti, essi avrebbero avuto la faciltà di disarmarla a viva forza, oppure la penuria di tutto, ne avrebbe prodotta la dissoluzione, ed essa si sarebbe dispersa in bande per le campagne cadendo sotto gli artigli dell’Austriaco, e così il Francese avrebbe anche sacrificato il nostro onore, mostrandoci all’Europa in tale stato di avvilimento. Ciò non è tutto. Lo stesso capitano insisteva che la sera stessa tutti gli stranieri (un Francese che chiama straniero un italiano a Roma!!), tutti gli stranieri fossero disarmali e messi fuori le porte, abbandonando così, senza mezzi, senza direzione, di notte, una gran quantità di giovani che si erano valorosamente battuti, e che aveano veduto le loro calcagna.

Un offiziale di stato-maggiore francese portò al momento stesso al quartier generale romano, la lettera che si trascrive qui appresso, in cui sono espressi tutti questi nobilissimi e generosi sentimenti verso il nemico vinto.

La paura faceva cader nel ridicolo lo stato-maggiore di Ou-dinot. L'uffiziale mandatario venne scortato da una compagnia d’infanteria, di cui un picchetto l’accompagnò sino nella sala ove era il generale Roselli, il suo stato-maggiore, e tutti i capi dei corpi. Ad un atto sì vile e sì basso tutti protestarono a questa manifesta violazione di domicilio (Roselli dimorava in quel medesimo appartamento), e contro questa vergognosa diffidenza di un corpo di uffiziali. Il

Francese mortificato fece ritirare il picchetto, e consegnò la seguente lettera tradotta.

Generale,

«Cinque reggimenti dell'armata romana: cioè il reggimento dei carabinieri, il 4° dragoni, il 1°, 2° e 3° Reggimenti di linea, hanno dichiarato verbalmente e per iscritto, che si sottomettevano intieramente agli ordini, che il generale francese loro farebbe in tutte circostanze. Questa dichiarazione, assi

cura ad essi la nostra benevolente protezione.

«Gli altri corpi dell’armata romana conservano rispetto a noi un’attitudine che dobbiamo considerare come ostile: vari vostri soldati si sono portati contro i nostri a degli atti inde

gni, e reclamerebbero una vendetta immediata. Questa siluazione è intollerabile; bisogna finirla. Vi ho dichiarato che domani 5 luglio, a mezzo giorno, la piazza di Roma deve essere intieramente abbandonata dalle truppe che non ci hanno offerto il loro concorso assoluto.

«Vi ho detto che in niun caso noi avremmo permesso l’uscita da Roma di un sol pezzo d’artiglieria. Vi ho invialo infine un’ uffìziale, che vi fa abbastanza conoscere la volontà del governo francese. Bisogna ubbidirvi senza dilazione; bisogna che i corpi, reclutati nelle contrade straniere agli Stati romani, lascino im

mediatamente la città di Roma, e siano subito licenziati.

Nelle gravi circostanze in cui ci troviamo bisognano delle a azioni e non delle parole. Questa lettera sarà probabilmente l’ultima che riceverete da me.

«Se voi avete il pensiero di opporre la minima resistenza agli ordini che vi sono contenuti, sarà la guerra, ed una guerra terribile, la cui responsabilità deve cadere assolutamente su voi.»

il generale in capo dell'armata francete,Firmato:

Oudikot di Rbogio.

La lettura di questa lettera produsse l’indignazione generale, e siccome il mandatario pronto richiedeva il riscontro, il generale Roselli invia al Francese la seguente lettera:

Generale,

Vado a comunicare gli ordini, acciò domani prima del mez— zogiorno tutti i corpi partano da Roma, e quelli formati di strali nieri siano disciolti e disarmati. Io però non mi rendo punto responsabile delle opposizioni individuali che potrò trovare.

Firmato:

ROSELLI.

Gli ordini del generale Oudinot erano ineseguibili: tanto racchiudevano di assurdità ed infamia 1 Niuno pensava sottometter-visi. Questa breve risposta fu assolutamente necessaria onde liberarsi della presenza dell’uffiziale francese.

Partito il Francese si fece l’appello dei presenti. Nessuno mancava, ad eccezione di quei pochi vili che si erano sdttomessi al Francese. Il generale in capo fece leggere il decreto col quale Oudinot distruggeva, chiamandolo fazioso, il governo il più legittimo che abbia esistito al mondo. Il grido generale di questa riunione di uffiziali; i quali se non erano veterani, o di scuola, tutti aveano veduto le spalle del Francese, la mitraglia era loro soffiala sul volto, ed i loro cuori palpitavano al sacro nome di patria, fu che tutti unanimemente si dimettevano. Una seconda lettera fu inviata da Roselli al generale Oudinot.

«Generale,

«Ho riunito i capi dei corpi fed ho loro letto il proclama che mi avete inviato quest'oggi. Essi nel sentire abbattuto dalla forza brutale il legittimo governo a cui servirono, hanno deciso dimettersi, e con essi gli uffiziali tutti. I

soldati animali dallo stesso sentimento tutti lasciano il servizio. Quindi domani prima del mezzogiorno Tarmata sarà sciolta.

I capi dei corpi si sono compromessi di assicurarne il disarmo fconsegnando le armi al Municipio; ed essi faranno il possibile, acciò l’ordine della città si serbi puro come lo era prima dell'entrata degli stranieri.

«Io intanto rimetto con tutto lo stato-maggiore la mia dimissione al Ministero di guerra, e cesso da qualunque responsabilità ed attribuzione,

Firmato:

ROSELLI.

Una protesta generale fu quindi redatta, coperta delle firme di tutti gli uffiziali dell’armata, ed inviata al Ministero di guerra:

IN NOME DI DIO E DEL POPOLO

«Noi sottoscritti protestiamo solennemente contro la violenza che ha abbattuto il governo della Repubblica Romana sorto dal libero voto del popolo, durato nel perfetto ordine civile, e fatto sacro dal sangue versato per difenderlo. La nostra spada, consacrata alla Repubblica, la deponiamo dichiarando non voler servire un governo dispotico imposto al sublime popolo Romano dalle armi francesi,

Seguono tutte le firme.

Ma il dimettersi non bastava; ognuno sentiva, come sacro dovere, il tutelare l'interesse del soldato per quanto era possibile, e proteggerlo in quei tristi momenti.

La notte stessa ogni capo di Corpo presentò al comando generale

il preventivo di un mese, e fu immediatamente saldato con un fondo di 400 mila scudi che possedeva l’armata. Rimaneva ancora una forte somma, che una commissione impiegò a pagare dei sussidi proporzionati al viaggio che ciascun militare emigrante era obbligato a fare.

Cinque reggimenti il Francese asseriva essersi ad esso sottomessi e perciò aver ottenuta la sua benevolente protezione.

Questi cinque reggimenti non formavano un assieme di 800 uomini. Di cavalleria non vi erano mai stati che i soli scheletri di due reggimenti, e questi soldati erano la più parte partiti con Garibaldi; altrettanto era avvenuto del 4°, 2° e 3° di linea. Non rimaneva al Francese di questa truppa, che una massa putrida di vilissimi uffiziali papalini, rimasti solo per conservare le spallette; e benché creda macchiare queste pagine scrivendo di tali esseri, pure per dare un saggio al pubblico non parlerò che di un solo. Il colonnello Depasqualis avea dalla Repubblica ottenuto un grado che mai poteva sperare. Esso, per rendersi benemerito del governo, affettava esagerato repubblicanismo, denunziava e puniva gli uffiziali del suo corpo che non pensavano in tal modo, ed una volta si affrettò ancora a indicare al governo una casa ove dei preti aveano nascosto alcuni oggetti, trovati poi insignificanti. E tali prove di zelo erano dal governo calcolate per quanto valevano.

Ebbene! costui fu il primo che si presentò al Francese, e che forma la più bella gemma della corona di gloria che cinse la fronte di Oudinot.

In un paese privo di tutti gli elementi, mancante di danaro, di armi, di materiale di guerra e di capacità militari, un’armata sorge ad un tratto figlia del solo patriottismo. Circondata da nemici, essa non vacilla un momento. I Francesi sono messi in completa fuga il giorno 30 aprile. I Napoletani volgono le spalle a Zagarolo e a Vellelri. Un assedio lungo e penoso è da essa sostenuto. Non desiste dalla difesa che per ordine dell’Assemblea, e finalmente di sua propria mano si distrugge, al morire della Repubblica, come l’amante sul corpo dell'amata. E bene, questa armata romana, che avea ben dritto a non esser lesa nell'onore, è oltraggiata dal vile Oudinot, che per soli ottocento rinnegati che ài danno ad esso, con impareggiabile impudenza, affìgge per le strade un proclama, in cui l’onorato guerriero della Repubblica avea l'onta di leggere: L’ armata romana ha fraternizzato, ed è divenuta alleata della francese!!!

VII

In Roma il generale Rostolan assume il governo; un uffiziale superiore, le funzioni di prefetto di polizia. Le povere teste generalizie ai veggono bene imbarazzate a condurre la macchina governativa; cercano da per tutto ajuto, ma non trovano intorno che il vuoto e l’isolamento il più assoluto. Ed era ben tempo che i loro protetti, liberati dalla fazione, sorgessero; ma niuno li avvicinava. Il generale Bartoiucci è invitato a comandare l’armata romana, ed esso risponde con assoluto rifiuto. Il generale dei carabinieri Galletti è invitato ad assumere il ministero dell'interno, e l’integerrimo cittadino risponde: Io non servo che i governi costituiti, e le leggi; fin ora non veggo né leggi, né governo, bisogna quindi indicarmi quale governo debbo servire, a quali leggi debbo sottomettermi, ed allora vi risponderò. Il solo Municipio resta in piedi, nobilissima parte della caduta Repubblica; ma esso resta per proteggere i cittadini, esso resta per far argine ai soprusi ed alle soverchierie del nemico, e fra i tanti proclami di cui sono imbrattate le mura di Roma, ed ove non si leggono che menzogne ed infamie, proclami bruttati d’immondizie dai Romani, uno se ne vede candido e rispettato; è il Municipio che parla al popolo. Numerosa la gente lo circonda per leggerlo, ed il cuore, affranto e disgustato dal bassissimo linguaggio francese, si rinfranca alquanto alla maschia e paterna voce della libertà; e la parola del Municipio sembra l’eco rimasto del passato governo, che ben presto doveva estinguersi come tutto ciò che era nobile e grande. Il governatore di Roma esordisce con un proclama, ove al solito si dichiara abbattuta la fazione, e ristabilito l’ordine; ma intanto (forse per semplice precauzione). dichiara Roma in ¡stato di assedio, ordina il disarmo della guardia nazionale e dei cittadini tutti, ed alle 9 della sera la circolazione è proibita. Dicasi lo stesso dei caffè chiusi, della stampa manomessa, dei Circoli soppressi.

Il Pincio, che domina Roma, è occupato militarmente; alla Piazza del Popolo due cannoni infilano la lunga via del Corso, la truppa è disposta sempre come per rispingere un’insurrezione. La sera la ritirata è scortata da un battaglione in colonna, che percorre le vie principali, e le altre sono perlustrate da numerose pattuglie di cavalleria e fanteria. Il battaglione che parte da Piazza Colonna e percorre il Corso, ò preceduto da una linea di bersaglieri a distanze marcate, i quali, occupando la larghezza tutta della strada, cercano con la bajonetta incrociata sgombrarla dalla folla. Il popolo fremente cammina a passo lento; le bajonette francesi gli toccano i fianchi, ed obbliga la colonna tutta a moderare il passo. Il disarmo, lo stato d’assedio, la disposizione delle truppe, l’isolamento in cui sono i Francesi, sono prove assai evidenti per mostrare all'impudente Oudinot chiara la sua menzogna nel dirsi ben ricevuto in Roma. Ma ciò non è tutto.

Restava ancora sull'obelisco di piazza del popolo il berretto frigio, che il cittadino mirava come una dolce memoria. Il Francese dichiara abbatterlo con le altre insegne repubblicane come emblemi del terrore, e col favor delle tenebre, con massimo silenzio, un distaccamento di pompieri, scortato da un battaglione, eseguisce la sentenza. Il solo berretto che dall’alto signoreggiava l’immensa città, atterriva il nemico; esso non ardiva stenderci la mano che nascosto nel bujo e circondato da una selva di bajonette.

Sbucavano intanto dalle loro tane pochi satelliti gregoriani, gente che all'Austria ed a Pio IX sembrò troppo perfida in epoche precedenti. Essi sono accolti dai Francesi come loro angioli tutelari. Un Caroselli, un Ferrini, un Moreschi, ed altri pessimi uomini infamati in tutta Roma, sono impiegati principali nell'ufficio di polizia.

Col berretto alla cima dell'obelisco, Roma era grande e tran quilla. Gli armati che percorrevano la città erano solamente quelli destinati a combattere lo straniero. Mai un disordine tur bava la quiete di un’onesto cittadino. Le prigioni erano vuote, lo attesti lo stesso Corcelles, se le sue labbra sono capaci di pronunziare la verità una volta sola. Egli che personalmente circondato da birri, andò per arrestare il T. Colonnello Galvagni nella propria dimora, dica quali prigionieri rinvenne per cause politiche? nessuno. Sparisce il berretto chiamato dal Francese legno del terrore, e cosa diventa Roma? Il pugnale lavora nelle strade, la città sempre fra una selva di bajonette, i cittadini disarmati. Le prigioni riboccano di arrestati, il cittadino non è più sicuro nel suo domicilio; l’inimicizia di un Caroselli, o di un De Rossi, basta per strapparlo dal seno della famiglia e gettarlo in un carcere. Il generale Rostolan passeggia intanto gravemente col suo stato-maggiore i sontuosi saloni del palazzo Torlonia, ed affetta il tuono dall'aristocrazia legittimista, di cui imita l’orgoglio, ma non è capace imitarne le grazie e la politezza, retaggio di una classe superiore al certo per nobiltà di pensare alla spregevole aristocrazia della moneta che governa la Franoia.

Il cortile del palazzo Torlonia, giacché il governatore non sa neanche riceverle nell'appartamento, è pieno di mogli che chiedono dei mariti, di madri che chiedono il figlio, di sorelle il fratello, e le domande di tutte non si riducono che ad una sola, perché lo avete arrestatoi Inutilmente queste infelici reclamano giustizia; la loro voce non arriva. neanche all'orecchio dello straniero, che invisibile a tutti si rende.

Passerò alla citazione di alcuni fatti aociò servano di termometro per giudicare i rimanenti.

Il farmacista Rolli Giuseppe, mentre una sera è per chiudere il magazzino, si vede circondato da numerosi carabinieri. Gli viene assegnata una latrina per carcere, ed una minutissima perquisizione è fatta nella casa: nulla si rinviene. Il Rolli è tradotto al Castel S. -Angelo senza mai conoscere la causa di questa violenza. Passano molti giorni in tale incertezza; finalmente sa che la sua colpa gravissima era di aver permesso durante la Repubblica di parlare di libertà ai cittadini riuniti nella sua farmacia. Ma intanto nessun giudice di sorta si presenta al prigioniero, che soffre danni al suo fisico, al suo morale, ed ai propri abbandonati interessi, essendo rimasta la sua casa in balìa dei gendarmi.

L’ospedale delle croniche, istituzione caritatevole, era a S. Giovanni, luogo di aria pessima. Il governo della Repubblica lo avea trasferito in S. Sisto, occupando una piccola parte di quell'immenso locale, monistero di suore aristocratiche. Le suore ricorrono al generale Oudinot (il contatto delle povere malate lor recava danno), ed Oudinot ordina che in soli 15 giorni l’ospedale debba trasferirsi a S. Giovanni, locale che, occupato dalle truppe durante la Repubblica, neanche due mesi bastavano per renderlo solamente abitabile dalle ammalate. Il dottore Gentile, che non si occupa d’altro che di medicina, né mai si è mischiato in affari politici, perché si suppone che possa opinare diversamente, e disapprovare una tale disposizione, vede la sua casa, la notte, invasa da una numerosa pattuglia francese, resta tre giorni in una latrina, è tradotto quindi in Castel-S-Angelo e messo in segreta, ove invano attende di conoscere la causa del suo arresto.

Un Biaggio e sua moglie, chiusi in prigione, per aver servilo come portieri a Mazzini, allorché abitava alla strada dei due Macelli.

Lenzi avvocato, strappalo dal seno di sua famiglia, chiuso in carcere, perché avea, durante la Repubblica, parlato liberalmente nei caffè.

Oreste avvocato Raggi, difensore uffizioso dei poveri carcerati, senza titolo, senza ordine di alcun’autorità, è tradotto in carcere e vi resta lungamente senza neanche conoscerne la ragione.

I fratelli Castellani, aurei giovani, uno dei quali monco del braccio destro, l’altro appena di anni 4 9, sono strappati alle braccia delle famiglie e tradotti in un carcere ove lungo tempo gemono, ignorando la causa di così arbitrarie misure.

E moltissime pagine potrei riempire di simili arresti illegali ed arbitrari. Finalmente il giorno 15 luglio il cannone annunzia al popolo, che principia di nuovo a pesare su di lui il tirannico ed infame governo chiericale. Lo stemma papalino, sprezzato dal popolo, sventola sulle torri di Castel-S-Angelo, maledetto da quei prigionieri che passeggiano nel forte, primi a provare il peso della tirannia.

La truppa è sotto le armi; Oudinotascolta la messa in S. Pietro, ed ivi su quei visi sacerdotali vede per la prima volta un sogghigno amico. È il sogghigno e l’amicizia di due assassini sulle spoglie della vittima. 11 popolo accorre come sarebbe accorso al supplizio di un condannato; una trentina di mascalzoni gridano: Viva Pio IX, voce che i Francesi forse pagarono coll'oro. La folla mormora; freme ed agghiaccia il cuore dei vili prezzolati.

Pochi giorni dopo in Civita-Vecchia è celebrata la stessa funzione. Una ventina di monelli percorrono la città, portando la bandiera francese intrecciata con la papalina, e il busto di Pio IX. Un’ignobile masnada, degna scorta dei due vessilli e del busto, gridano a tutta gola viva Pio IX, senza incontrare né un’eco né un sorriso. Uno della masnada, per caso isolatosi in una strada, n’ebbe le sue spalle lavorate dal bastone di un onesto cittadino.

Il Municipio Romano intanto, prima anche della restaurazione pretesca, vedendo non poter fare argine agli abusi del Francese e perciò non più essere utile ai cittadini, in massa si dimette, e con esso muore l’ultimo ricordo repubblicano.

VIII

Soffri finalmente o lettore che in poche parole io riepiloghi il fin qui detto, onde presentare un quadro, in cui la bassa condotta del generale francese faccia sempre più risaltare la grandezza della Repubblica romana.

Durante un mese di durissimo assedio, tra le bombe che infinite cadono sulla città, tra il numerario che sparisce, nessun lamento si leva, tutti fanno a gara per odiare e molestare il nemico. La sola guardia nazionale non mobilizzata è in città; i carabinieri, la truppa, lutti sono alle mura, ed intanto la tranquillità più perfetta regna, il solo rimbombo del cannone, lo scroscio delle bombe avverte che il nemico è alle porte.

Il Triumvirato regge lo stato con dolcissima ed esperta mano.

L’Assemblea in questo tempo prosegue con calma i suoi lavori, e presenta una costituzione degna di Roma, la quale giunge a quel grado di perfezione di cui è capace la presente società. Il municipio veglia con cuore paterno sui bisogni della città.

Il nemico entra in Roma; il Triumvirato si dimette, appena la difesa è dichiarata impossibile. L’Assemblea è sciolta dalle bajonette nemiche, onde si verifica il detto di Mirabeau. Nout tommes telpar le pouvoir du peuple, et nota n’en sortiront que par la force des baionettes.L’armata volontariamente si scioglie. Il Municipio, dopo aver lottato per lunga pezza onde proteggere i cittadini, si dimette, appena vede inevitabile la ristorazione chiericale.

Il nemico è atterrito della stessa vittoria. Il partito che aveva sognato in Roma non esiste, e si vede in uno stato di completo isolamento. La città in ¡stato d’assedio, le strade gremite di soldati, le prigionie, le violenze, niente basta a rassicurarlo. Per coonestare le sue azioni è obbligato di scendere alla menzogna. Esso ne’ suoi editti, con impudenza senza pari, dichiara che il popolo l’ha ben ricevuto, che il passato governo era un governo di terrore, che l’Armata Romana ha fraternizzato colla francese, e chiama anarchia un governo formato dall'accordo più perfetto fra popolo, potere, assemblea, municipio ed armata.

Un’armata francese di trentamila uomini, la cui magnifica organizzazione, la cui lodevolissima ed ammirabile disciplina la rende giustamente la prima armata del mondo; quest'armata, accolta dalla simpatia dei popoli, avrebbe aggiunto brillanti vittorie agli allori francesi. Ma quest'armata, strumento di vilissimo governo, è confidata a vilissimi capi. Il soldato francese è obbligato, egli repubblicano, a punire chi grida viva la repubblica; il soldato francese si vede odiato da un popolo col quale simpatizza. Esso sparge il suo sangue senza guardare alla causa; difetto di quella disciplina tanto lodevole in sè, ma funestissima se messa a servizio d'una causa ingiusta.

Quindi, a forza di menzogne e d’inganno, il Francese ottiene durante il tempo che aspettava rinforzi, l'inazione del Governo della Repubblica, impadronendosi delle migliori posizioni, prima di assalirci con nuovo tradimento il 3 Giugno. Principia l'assedio, e resta un mese con la trincea aperta sotto le mura di una città, che mancava del sufficiente numero di artiglieri, di artiglieria, di truppa; di una città la cui cinta era debolissima, e senza le masse occorrenti di terra; priva di fossato, priva di opere esterne, priva di fiancheggiamenti. Bombarda la città e lo nega. Lascia in Civita-Vecchia la bandiera italiana, fa credere di volere nei primi momenti rispettare il governo, e presenta un ultimatum il cui 2° articolo era così concepito:

La France ne conteste pas aux populations romaines le droit de se prononcer librement sur la forme de leur gouvernement.

La Francia non contende alle popolazioni romane il diritto di pronunciarsi liberamente sulla forma del loro governo.

Intanto entra a Roma, scioglie l'Assemblea, e restituisce il dominio assoluto dei preti!!

Il prezzo di tanti inganni, di tante bassezze, è il disprezzo del popolo. I suoi editti sono bruttati di schifose materie, il Francese non vede che volti ostili, che ira, ed incontra anche la morte.

Invece, i già triumviri Mazzini e Saffi passeggiano Roma tutta fra la folla dei cittadini. Non trovano che strette di mani amiche, sospiri per future speranze, ammirazione generale.

Il giusto è più grande nella sua caduta che nel suo potere. Oh! voi che diceste che erano i capi di una fazione, che governavano col terrore, ora che questa fazione è disciolta, perché non v'è uno che insulti a questi tiranni?

Il soldato comprende che trovandosi al servizio di un tristissimo governo 7è condannato ed essere qualche volta uomo senza principi, un’automa obbligato a compiere imprese ingiuste, l’esito delle quali gli è imposto dall'onore delle armi; ma che un Generale in Capo debba mentire, scendere ad un mezzo sì vile, è un esempio unico nei fasti della Storia. Per la prima volta la menzogna, retaggio della diplomazia, è stata adoperata dal guerriero.

In questa impresa la Francia ha guadagnato perfino il disprezzo dell'Austria, e in Italia ha perduto affatto la simpatia e l'influenza morale che voleva conservarsi.


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Pisacane e la spedizione di Sapri (1857) - Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito
1851 Carlo Pisacane Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49
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1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. I HTML ODT PDF
1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. II HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. III HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. IV HTML ODT PDF

1849

CARLO PISACANE Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma

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La quistione napolitana Ferdinando di Borbone e Luciano Murat

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ITALIA E POPOLO giornale politico Pisacane murattisti

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Italia e Popolo - Giornale Politico N. 223 Murat e i Borboni

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Situation politique de angleterre et sa conduite machiavelique

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ATTO DI ACCUSA proposta procuratore corte criminale 2023

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Documenti diplomatici relativi alla cattura del Cagliari - Camera dei Deputati - Sessione 1857-58

1858

Difesa del Cagliari presso la Commissione delle Prede e de' Naufragi

1858

Domenico Ventimiglia - La quistione del Cagliari e la stampa piemontese

1858

ANNUAIRE DES DEUX MONDES – Histoire générale des divers états

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1858

LA BILANCIA - Napoli e Piemonte

1858

Documenti ufficiali della corrispondenza di S. M. Siciliana con S. M. Britannica

1858

Esame ed esposizione de' pareri de' Consiglieri della corona inglese sullaquestione del Cagliari

1858

Ferdinando Starace - Esame critico della difesa del Cagliari

1858

Sulla legalità della cattura del Cagliari - Risposta dell'avvocato FerdinandoStarace al signor Roberto Phillimore

1858

The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

1858

Ricordi su Carlo Pisacane per Giuseppe Mazzini

1858

CARLO PISACANE - Saggi storici politici militari sull'Italia

1859

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POLITECNICO PISACANE esercito lombardo

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LOMBROSO 03 Storia di dodici anni narrata al popolo (Vol. 3)

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Raccolta dei trattati e delle convenzioni commerciali in vigore tra l'Italia egli stati stranieri

1863

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

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Giacomo Racioppi - La spedizione di Carlo Pisacane a Sapri con documenti inediti

1864

NICOLA FABRIZJ - La spedizione di Sapri e il comitato di Napoli (relazione a Garibaldi)

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Giuseppe Castiglione - Martirio e Libert࠭ Racconti storici di un parroco dicampagna (XXXVIII-XL)

1868

Vincenzo De Leo - Un episodio sullo sbarco di Carlo Pisacane in Ponza

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Leopoldo Perez De Vera - La Repubblica - Venti dialoghi politico-popolari

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BELVIGLIERI - Storia d'Italia dal 1814 al 1866 - CAP. XXVII

1873

Atti del ParlamentoItaliano - Sessionedel 1871-72

1876

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1876

Gazzetta d'Italia n.307 - Autobiografia di Giovanni Nicotera

1876

F. Palleschi - Giovanni Nicotera e i fatti Sapri - Risposta alla Gazzettad'Italia

1876

L. D. Foschini - Processo Nicotera-Gazzetta d'Italia

1877

Gaetano Fischetti - Cenno storico della invasione dei liberali in Sapri del 1857

1877

Luigi de Monte - Cronaca del comitato segreto di Napoli su la spedizione di Sapri

1877

AURELIO SAFFI Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini (Vol. 9)

1878

PISACANE vita discorsi parlamentari di Giovanni Nicotera

1880

Telesforo Sarti - Rappresentanti del Piemonte e d'Italia - Giovanni Nicotera

1883

Giovanni Faldella - Salita a Montecitorio - Dai fratelli Bandiera alladissidenza - Cronaca di Cinbro

1885

Antonio Pizzolorusso - I martiri per la libertࠩtaliana della provincia diSalerno dall'anno 1820 al 1857

1886

JESSIE WHITE MARIO Della vita di Giuseppe Mazzini

1886

MATTEO MAURO Biografia di Giovanni Nicotera

1888

LA REVUE SOCIALISTE - Charles Pisacane conjuré italien

1889

FRANCESCO BERTOLINI - Storia del Risorgimento – L’eccidio di Pisacane

1889

BERTOLINI MATANNA Storia risorgimento italiano PISACANE

1891

Decio Albini - La spedizione di Sapri e la provincia di Basilicata

1893

L'ILLUSTRAZIONE POPOLARE - Le memorie di Rosolino Pilo

1893

 MICHELE LACAVA nuova luce sullo sbarco di Sapri

1894

Napoleone Colajanni - Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane

1905

RIVISTA POPOLARE - Spedizione di Carlo Pisacane e i moti di Genova

1895

Carlo Tivaroni - Storia critica del risorgimento italiano (cap-VI)

1899

PAOLUCCI ROSOLINO PILO memorie e documenti archivio storico siciliano

1901

GIUSEPPE RENSI Introduzione PISACANE Ordinamento costituzione milizie italiane

1901

Rivista di Roma lettere inedite Pisacane Mazzini spedizione Sapri

1904

LUIGI FABBRI Carlo Pisacane vita opere azione rivoluzionaria

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Giudizi d’un esule su figure e fatti del Risorgimento

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Lettera di Carlo Cattaneo a Carlo Pisacane

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - I tentativi per far evadere Luigi Settembrini

1911

RISORGIMENTO ITALIANO - La spedizione di Sapri narrata dal capitano Daneri

1912

 MATTEO MAZZIOTTI reazione borbonica regno di Napoli

1914

RISORGIMENTO ITALIANO - Nuovi Documenti sulla spedizione di Sapri

1919

ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

1923

MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

1927

NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano





Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)















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