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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO
MARTIRIO E LIBERTÀ

RACCONTI STORICI DI UN PARROCO DI CAMPAGNA AL SUO POPOLO

Per istruirlo di quanto ha sofferto Italia dal 1815 al 1860

PER LA SUA INDIPENDENZA E PER LA SUA LIBERTÀ
con l'aggiunta di alcuni cenni biografici
DE'nPRINCIPALI MARTIRI DELLA CAUSA ITALIANA
per
GIUSEPPE CASTIGLIONE
seguito delle Veglie del Villaggio dello stesso autore
NAPOLI
LIBRERIA NAZIONALE SCOLASTICA Toledo n. 331
1866
(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

RACCONTO XXVI

Un altro sguardo alla Sicilia-Reazione, persecuzioni e vendette.

Roma e Venezia, cadute sotto i colpi di stranieri oppressori; il Piemonte obbligato a far la pace con l’Austria, dopo il disastro di Novara; ogni idea d’indipendenza svanita, non restava che la Sicilia, la quale alzava superbamente il capo fra tante rovine, e forte dei suoi lunghi dolori, e del sangue de' suoi martiri, osava sfidare la potenza di un re, il cui nome aveva maledetto, e sconosciuto.

Il popolo siciliano, cui, dopo la prosa di Messina, eransi fatte molte proposizioni di pace, le aveva tutte rigettate, ed un sol grido erasi ascoltato in tutta Palermo, ripetuto nell’isola, guerra. Ed a guerra mortale e fratricida apparecchiaronsi.

Fu decretato che Palermo fosse cinta di ripari,. e tosto il popolo, diretto da abili ingegnieri, diè mano all'opera con tanta solerzia, che ben cinquantamila lavoratori dì e notte travagliavano; in ciò aiutali da gran numero di contadini, che dalle vicine campagne accorrevano. L’arcivescovo di Palermo, insieme al clero. si portò ad incoraggiare i lavoranti: i Deputati, i Pari, e molti altri della città assistevano all'opera, e con la parola, e con l’esempio eccitavano lutti.

Il Parlamento intanto aveva chiamato all’armi tutt’i Siciliani, dai diciotto a' trentanni, la Guardia Nazionale, gli studenti dell’Università. Una parte delle milizie regolari era affidata a Trobriand, veterano francese, e l’altra a Mieroslawki emigrato polacco. In qualunque luogo si combatte per la libertà voi vedrete un polacco, o un francese. Mieroslawki avendo radunato un settemila uomini di milizie regolari, oltre qualche centinaio di volontari, mosse verso Messina, mentre il Filangieri ne partiva per alla volta di Catania. Spesso incontrandosi gli esploratori de' due eserciti, ne avvennero delle avvisaglie, combattute con pari valore, ma senza vantaggio alcuno. I Napoletani segnavano il loro passaggio con l’incendio delle vette, e con la devastazione delle campagne. Giunti sotto Taormina, città forte ed inespugnabile per situazione, ma debolmente difesa, se ne impadronirono, e ne diedero buona parte alle fiamme. Questa troppo facile vittoria ispirò un tal quale scoraggiamento nelle truppe di Microslawki, che si disordinarono, ma presto riordinate dal loro generale, mossero verso Catania, per attendervi il Filangieri, che colà mirava. Vi giunse, ed aspra battaglia fu combattuta sotto le sue mura, e nell’interno delle sue strade. Vinsero i Napolitani, forti nel numero, e nella disciplina, e cominciarono a praticarvi quelle crudeltà istesse, che praticato avevano in Messina. Si saccheggiarono le case,

s’incendiarono, si scannarono a iosa vecchi, donne, fanciulli. Dovunque lasciarono un’orma di sangue, dovunque una memoria di ferocia satanica. Descrivervi quelle orrende scene è lo stesso che ripetere le cose da me dette, e ripetute: l’umanità rifugge dal contemplarle, e spaurita rivolge altrove lo sguardo.

Dopo l’occupazione di Catania, altre città furono occupate dai Napoletani, ed il Filangieri vincitore mosse verso Palermo, mentre la squadra, forte di undici bastimenti a vela, ed a vapore, vi si avvicinava per mare.

I Palermitani alla novella della caduta di 'Catania, e di altre città della Sicilia, si sgomentarono, ed ondeggiavano incerti tra cento opposti pensieri. La resistenza confessavasi impossibile, né avrebbe potuto produrre, se non un inutile spargimento di sangue. L’ammiraglio francese Baudin allora si profferse mediatore di pace, e. la sua mediazione accettata, portossi subito in Gaeta a trattare col re. Ferdinando mostrossi indulgente, dichiarando di sentire affetto per la Sicilia, luogo del suo nascimento, ma volle che gli si lasciasse la piena libertà di agire a suo modo, senza essere vincolato da promesse, e da condizioni. La volontà del re, potente e vincitore ebbe il suo pieno effetto; Palermo, come tutte le città della Sicilia, tornò alla sua obbedienza: non si parlò più di Costituzione, e quaranta de' più illustri Siciliani, esclusi dall'amnistia, partirono per la terra dell'esilio, tra i quali il venerando Ruggiero Settimo, che rifuggiossi in Malta per cansare la real vendetta.

La libertà era spenta, e re Ferdinando trionfava, a capo dell'infame schiera di quei vilissimi schiavi che amano di trascinar le catene di un servaggio ignominioso ed abbietto. La mano di Dio crasi ritirata dall’Italia, forse per punirla della sua improntitudine, della sua intemperanza, e di tutte le colpe che eransi commesse nel nome della libertà. Una reazione di sangue si preparava, e lunghi dolori, ed aspri tormenti espiar duramente dovevano le pure gioie di un libero reggimento. Napoli, e Sicilia han cangiato sembianza. La spada della legge, impugnata da carnefici minaccia ogni capo. Dappertutto il freddo sospetto agghiada i cuori, e voi rammentate quel sogguardar furtivo, quella parola pronunziala appena, quel palpitar frequente, quelli! mestizia universale che rivelavano l’oppressione dello spirito, lo spasimo del cuore. Fra tanto scoramento il pretume con la testa alta, con lo sguardo disdegnoso e superbo, con un ghigno beffardo sulle labbra, insultava il dolore altrui, e ne aumentava la forza e l’intensità con le più assurde calunnie, con le più infami delazioni. Giudici che venduto avevano alla vendetta regia coscienza ed onore, spaventavano tutti con le loro inique sentenze. Mancarono le prigioni ai condannati, tanto ne fu grande M numero; gli ergastoli» echeggiarono cupamente al grido di disperazione degl'infelici che vi furono seppelliti. La parola di un gendarme, la denunzia di una spia giustificavano una condanna.. Si voleva far pompa di clemenza commutando la pena di morte con l’ergastolo, ed era pena più atroce della morte istessa.. Si scrutavano i pensieri, si analizzavano le parole, si sorvegliavano scrupolosamente le più innocenti azioni. I retrivi nuotavano in un oceano db allegrezza, i vescovi mettevano da parte il pastorale, ed impugnavano la spada di ufficiali di gendarmeria; i magistrati deponevano la toga, per vestire la rossa assisa del carnefice. Tutto era spavento, desolazione, terrore, e fra tanto sovvertimento sociale le masse stupide alzavano illuse la voce, e gridavano: Evviva!

E la regia vendetta sempreppiù sbrigliata incedeva. Estorta all'ignorante volgo una petizione, con la quale chiedevasi l'abolizione degli ordini costituzionali, si diè principio all'istruzione de' processi contro i più illustri personaggi del regno. Non vi fu arte ingannatrice, non mezzo di terrore che adoperato non fosse per indurli a far quelle rivelazioni che si desideravano. S’imputavano di aver creato la setta per Punita d’Italia: il giudizio fu aperto nel giugno del 1850. Il processo era stato compilato con fina e sagace perfidia, ma pure nulla vi si trovava di chiaro, di assoluto, di provato perfettamente. Ma de' giudici che componevano il tribunale si era certi, e non dubbia quindi la condanna, specialmente perché presidente di quell’iniquo consesso era il Navarro.

Gli accusati comparvero innanzi al tribunale di sangue, e col loro volto sparuto, con gli occhi infossati, con la voce tremante e rantolosa mostravano quanto avevano sofferto di strazi, e di torture nel carcere. Antonio Lcipuecher, uno degl'imputati, preso da febbre ardentissima fu ricondotto in carcere, ove giunto, in brev’ora spirò. Tutti gli accusati ritrattarono le confessioni che erano state loro estorte dalle sevizie, e dagli strazi durali in carcere. Il Navarro diè sulle furie per tal ritrattazione, che rovesciava i suoi piani, e con ogni modo tentò di ricondurre gli accusati a riconfermarle: ma le sue astuzie non produssero il desiderato effetto, e tutti furono costanti nella ritrattazione. L’illustre Carlo Poerio, Nicola Nisco, Ferdinando Carafa, Michele Pironti parlarono con maschia eloquenza, evidentemente dimostrando la propria innocenza. Luigi Settembrini provò che le false accuse erano sostenute da falsi testimoni, capaci di vendere per poche monete onore, coscienza, anima. Il suo discorso cosi profondamente commosse i numerosi uditori, e tanto sdegno destò in essi il barbaro contegno del presidente Navarro, che ritornando in carrozza nella propria casa, fu dal popolo insultato, e percosso.

Dopo lunghi dibattimenti, finalmente la sentenza fu pronunziala nel primo di febbraio 1851. Agresti, Settembrini, e Faucitano furono condannati a morte; Barili, e Mazza all'ergastolo; Nisco, e Margherita a trent’anni di ferri; Catalani, Vellucci, e Braico a venticinque anni: Poerio, Pironti, e Romeo a ventiquattro; altri dieci a diciannove anni; due a sei di esilio; cinque a un anno di carcere; uno a quindici giorni di reclusione, ed un altro a cinquanta ducati di ammenda. Gli accusati in lutto erano quarantadue, due de' quali, durante il processo, erano morti. All’Agresti, al Settembrini, ed al Faucitano fu fatta grazia della vita, ma commutata la pena con l’ergastolo. Al Faucitano però con raffinata barbarie la grazia fu annunziata solamente dodici ore prima dell’esecuzione, e ciò per fargli assaporare tutto l'orrore della morte.

A questo primo processo l’altro successe, parimente famoso, contro i voluti autori della catastrofe del 15 maggio; e comunque ognuno fosse convinto che quel dramma di strage fosse stato rappresentato per ordine della Corte, pur se ne volle riversar la colpa sui liberali. I principali accusati furono Antonio Scialoia, Pietro Leopardi, Silvio Spaventa, Luigi Dragonetti, ed il venerabile sacerdote Samuele Cagnazzi, che vecchio ottuagenario imputavasi di aver impugnato le armi contro il Governo in quel fatalissimo giorno. La morte, commutala con l’ergastolo, la galera, il carcere, l’esilio furono le pene contro quelle vittime illustri pronunziate. Godeva il Navarro, ferocissimo satellite di tirannia, ma la giustizia di Dio lo colse, e dopo atrocissima infermità esalò lo spirito, forse non travagliato da rimorso alcuno.

Napoli però non era la sola città che fosse sgomentata da tante inique condanne, che le Corti

Speciali delle provincie, seguendo l’impulso che dalla capitale ricevevano, camminavano ratte sul sentiero delle punizioni, inflitte, non per colpe provate, ma per obbedire alla politica governativa. E fu tanta la rabbia del punire, che con le capricciose condanne molte volte si diè importanza ad esseri nulli, che niente contro il Governo operato avevano, perché molto al di sotto delle aspirazioni di libertà.

In quella che tali inique processure spaventavano tutti gli onesti cittadini, ed i più illustri uomini dello Stato, carichi di pesanti catene erano vivi sepolti nelle tombe di Santo Stefano, e di Nisita, un gran personaggio inglese, chiamato Guglielmo Gladstone, viaggiando pel continente napoletano, osservava attentamente il corso della barbara ferocia, spiegata contro i liberali. L’anima sua ne fu talmente conturbata, che scrisse due lettere ad un uomo di Stato in Inghilterra, nelle quali gli dava notizia di tutti gli orrori, di cui era stato testimone. Egli chiamava il Governo napoletano: niegazione di Dio, e vivo oltraggio alla religione, all’umanità, alla civiltà, alla verecondia.

Queste lettere menarono gran rumore: furono partecipate a tutte le Corti di Europa, furono largamente diffuse presso tutti i popoli, ma non furono tali però da arrestare i procedimenti del Governo, il quale, fermo ne’ suoi principii,. ed orgoglioso per la riportata vittoria, incedeva difilato verso la sua, meta la vendetta.

Né le sole Corti di Giustizia secondavano il vendicativo sistema del Governo, che prima ad incrudelire contro i liberali fu la Polizia, col mezzo' de' suoi agenti, qualunque ne fosse il grado. E molte volte avvenne che o per espiata pena, o per sentenza di tribunale un individuo dichiaravasi libero, eppure rimaner doveva in carcere per un tempo indeterminato, secondo il beneplacito di monna Polizia. Il malumore di un ispettore, il capriccio di un intendente, ed ecco un cittadino in carcere; e perché? è un mistero, che gl'imprigionati dalla Polizia dovevano ignorare le cagioni dell’arresto, e se insistevano per saperle si rispondeva con la tirannica frase, per misure di Polizia. Guai poi a chi osasse dolersi di tale ingiustizia; in tal caso le porte del carcere si ribadivano, né vi era più speranza di uscirne.

Ed ecco qual fu il contegno della reazione: non cosi la libertà ne’ suoi trionfi, la quale sempre generosa, perdonò, ed abbracciò i suoi nemici. Ma non ne fate le maraviglie: la libertà viene da Dio, e l’assolutismo è un’invenzione satanica.

RACCONTO XXVII

Le vittorie dell'Assolutismo non producono la quiete.

Avete udito in qual funesto modo in tutti gli Stati d’Italia fu dalla forza, e dagli intrighi dei re abbattuta la libertà. Il solo Piemonte serbava le sue libere istituzioni, e questa fu grand’opera del magnanimo Vittorio Emmanuele, il quale sempre sincero e leale, dopo la fatai battaglia di Novara, avrebbe potuto regnar da despota, come gli si suggeriva dall’Austria, e volle invece regnare per la volontà della nazione, ed esser fedele sostenitore dei diritti del popolo.

Caduta la libertà, e trionfando una riazione crudelissima, non per questo dai loro progetti desistevano i liberali, ed il più ardente, il più operoso di tutti, Giuseppe Mazzini, dal luogo del suo rifugio, cercava con un proclama di far novellamente insorgere gl’Italiani. In esso tracciava il piano dell'insurrezione, cioè, assalire il nemico su tutta la linea da lui occupata; impedirgli di riunire le sue forze, uccidendo i soldati, distruggendo strade, e ponti; perseguitare senza riposo coloro che fuggissero; servirsi di qualunque arma atta ad uccidere; mantenere fuochi accesi sulle alture, come segnale ai vicini paesi. In somma si voleva che tutto il popolo italiano insorgesse per dare addosso ai tedeschi.

Comunque dubbia fosse l’autenticità di un tal proclama, pure alcuni giovani milanesi, imprevidenti, e di cervello troppo esaltato, ne furono commossi, e senza punto badare alle assurdità che conteneva, ed all’impossibilità dell’esecuzione, disperatamente tentar vollero la stoltissima impresa. Armali solamente di chiodi bene aguzzati, e fortemente contini in cima dei bastoni, e di qualche pugnale, nel di 6 febbraio 1853 divisi in drappelli, assalirono nell'ora stessa alcuni posti ov’erano a guardia gli Austriaci, e cominciarono a barricar qualche strada. Ne nacque subito una zuffa, nella quale perirono qualche soldato, e qualche uffiziale, ma in un momento furono circondati dalla truppa, dalla quale furono arrestati, dopo lunga e gagliarda resistenza.

In tal modo fu sventato e schiacciato un folle tentativo, che produsse amarissimi frutti per Io straordinario rigore spiegato da Radetzky; che immediatamente dichiarò Milano posta in stato di assedio e ne peggiorò in cento modi le condizioni, specialmente per le gravose tasse per questo fatto imposte sulla città.

Intanto i tribunali militari non stettero inerti e neghittosi. Il giorno 8 febbraio furono tratti in giudizio sette incolpati, che furono condannati a morte, ed impiccati: il 10 se ne impiccarono altri quattro, il 13 altri due, e tre il 11.

Ai rigori esercitali dal Radetzkv in Lombardia, ben risposero i rigori del Governo napoletano. La Sicilia era irrequieta, e quei popoli fremevano rabbiosamente nel sentirsi il giogo sul collo. Il generale Filangieri, che la governava, sapeva ben destreggiarsi tra gli opposti partiti, ma non potè giungere al desiato punto di stabilire una tranquillità perfetta, ed una non dubbia divozione al re. Quindi mentre in Milano tentavasi da pochi una insurrezione, che fu soppressa dalla forca, parlossi in Sicilia di una cospirazione, il cui scopo era di avvelenare i soldati svizzeri, dimoranti nell’isola, e d’incendiare il palazzo abitato dal generale Filangieri. Immediatamente furono arrestati molti individui, che vennero condannati a diverse pene; tre di essi come capi della cospirazione furono dannati alla morte, pena che fu loro commutata per le istanze del re di Baviera. E siccome, mentre tai movimenti avvenivano in Sicilia, anche sul continente napoletano notossi un’agitazione insolita, da tutti si credette, e forse non s’ingannarono, che tali turbolenze erano opera della setta mazziniana, istancabile nel creare impacci ai Governi. Ma un fatto gravissimo avveniva in Parma.

Regnava in quel paese il duca Carlo III, giovane scostumato, di licenziose abitudini, vero scapestrato, privo di ogni pregio, anche di quella personale dignità, che ogni principe ha cura di serbare. Era quindi giustamente disprezzato ed odiato da tutti, come sovrano, indegno di governare i popoli, e come uomo da fuggirsi dalle società degli onesti. Nel 24 marzo 1854, verso le quattro della sera, passeggiava in compagnia di un suo aiutante di campo per una delle più frequentate vie di Parma. Ad un tratto videsi vacillare, e cadere, essendo stato ferito nel basso ventre da un colpo di pugnale, per cui dopo poche ore mori.

La Polizia non fu lenta a dare i provvedimenti opportuni appena avvenuto il fatto: furono chiuse le porte della città, si arrestarono molti individui sospetti, si compilarono processore. Ma per quanto rovello si dasse la giustizia per la scoperta del reo, non potè venirne mai a capo, ed egli rimase ostinatamente ignoto a tutte le investigazioni. Credettesi però che l’assassinio del duca fosse stato ordinato ed eseguito per deliberazione di qualche segreta società, perché il giudice Gabbi, incaricalo della compilazione del processo, fu di notte tempo aggredito, e ferito da un colpo di pugnale. Superato il dolore della ferita, insegui il suo feritore, ed era sul punto di raggiungerlo, quando un altro assassino, compagno del primo, lo assali alle spalle, lo rovesciò sulla via, ed alla prima ferita altre ne aggiunse percuotendolo contro la terra, e ferendolo col suo stiletto. Questo avvenimento ben mostrava qual fosse lo spirito dei popoli, e come i prepotenti camminassero su di un suolo minato, pronto a saltare in aria alla prima scintilla.

Né per la tragica morte del duca cessavano le perturbazioni in Parma, che il popolo togliendo pretesto dal caro de' viveri, si mosse a tumulto, s’impegnò un combattimento tra cittadini, e soldati, vi furono morti e feriti da una parte, e dall’altra, e quindi imprigionamenti, processi, e condanne. Il maresciallo Radetzkv accorse sollecitamente con molte truppe, spiegò 11 suo solito rigore per prevenire qualunque altro tentativo di sedizione, e pose la città in stato di assedio.

Questi fatti parziali che qua e colà avvenivano, tenevano vigilanti i despoti, sempre paurosi dell’azione rivoluzionaria, che indefessa ed irrequieta si affaticava pel trionfo della libertà. E stoltamente credendo che il rigore fosse il gran mezzo per reprimere qualsivoglia tentativo, al rigore, con tristo consiglio, si abbandonarono. E più di qualunque altro fedele a questo sistema mostrossi il re di Napoli, il quale a tal punto pervenne con la sua severità, da meritar che gli ambasciatori di Francia e d’Inghilterra gli consigliassero più mite reggimento.

Lungi dall’accettare di buon grado la sapienza di tali consigli, il re, per mezzo del suo ministro, rispose: — Che nessun Governo ha diritto d'immischiarsi negli affari di altro Stato; che i consigli che gli si davano erano atti, non a frenare i movimenti rivoluzionari, ma a vieppiù eccitarli; che egli erasi sempre mostrato clemente co' suoi popoli, ma esser dovere la giustizia; che non essendosi giammai ingerito negli affari altrui, aveva diritto di pretendere, che ninno dei suoi s’ingerisse — E per far seguire alle parole i fatti, diè molti provvedimenti di guerra, muni validamente le due fortezze di Capua, e di Gaeta, fè costruire parecchie navi da guerra, preparare le artiglierie, e riunire intorno a Napoli cinquantamila soldati, sempre pronti ad accorrere al minimo suo cenno.

Frattanto Inghilterra e Francia, giustamente irritate dalla risposta data loro dal re, e dalla guerriera attitudine che prendeva, in segno di scontento richiamarono i loro ambasciatori, i quali, abbassando i loro stemmi abbandonarono Napoli, restando in tal modo interrotte le relazioni di amicizia tra quei Governi, ed il regno delle Due Sicilie.

Gioirono esultanti i liberali alla novella di questo fatto, e le più belle speranze risorsero nel loro cuore; ma Ferdinando imperterrito rimase, e la Polizia, secondandone le intenzioni, mostrassi sempre eguale a sé stessa, sempre, cioè, intenta ad opprimere, come sei seppe un tal Mignogna, presso il quale fu rinvenuto un proclama di Mazzini. Arrestato, e tradotto innanzi ai tribunali, si diè corso alla processura, nella quale furono implicati due preti, ed una monaca. Dai pubblici dibattimenti si apprese, che per ottener confessioni dagl’imputati, la Polizia adoperava la tortura delle bastonate. Questi fatti, non essendo né contradetti, né smentiti, eccitarono lo sdegno universale, e P odio contro di un re, sotto la cui amministrazione, tanta barbarie commettersi.

Ed il germe rivoluzionario rinverdiva sotto la funesta pressione, la quale ne favoriva lo sviluppo, e l’incremento. La prudenza consigliava invano di attendere l'occasione propizia per agire, ma la forza della persecuzione era tale da non potersi più tollerare da uomini, ed i più impazienti di tutti, come sempre, mostraronsi i Siciliani.

Il barone Francesco Bentivegna di Corleone, Salvatore Spinimi di Cefalù, ed altri eletti patriotti inalberarono la bandiera dell’insurrezione in Taormina. All'appello della libertà non risposero che Mezzoiuso, Giminna, Villafrate, Ventimiglia, e Cefalù. Erano quindi ben pochi all’ardua impresa, ma infinito ed indomabile il loro coraggio. I tenenti-colonnelli Marra, e Ghio con buon polso di truppe, ed il sindaco di Belfrate con molte guardie campestri si diedero ad inseguirli, ed a circondarli. Per alcuni giorni si difesero come leoni, e molti soldati furono da loro uccisi, ma finalmente oppressi dal numero, cadevano in mano dei regi Bentivegna, Spinuzzi, Luigi Pellegrino di Messina, i fratelli Botta di Cefalù, Francesco Bonafede di Gratteri. I palermitani Luigi la Porta, e Francesco Riso, il trapanese Mario Palizzolo, e Vittorio Guarnacci di Mezzoiuso fuggirono e salvaronsi all'estero.

Bentivegna, e Spinuzzi furono tosto fucilati per giudizio sommario; altri furono condannati a morte; ma raccomandati alla sovrana clemenza venivano sepolti nella tomba della Favignana per espiarvi la pena di diciotto anni di ferri. Gli altri furono rinchiusi in carcere per tutto quel tempo che piacerebbe ritenerveli alla tigre di faccia umana, il famoso Maniscalco direttore di Polizia.

Il Bentivegna apparteneva ad illustre famiglia, ma era popolano per principii, e per cuore. Odiava con furore la dominazione borbonica, e per saziare tal odio cospirò, e combatté sempre a prò della libertà. Nella prigione abbracciò la sua vecchia madre, ed i suoi amici, serbando sempre l’anima serena e tranquilla. Prima di morire bevve una tazza di caffè, non volle essere bendato, e cadde morto gridando: viva Italia.

Salvatore Spinuzza, era ricco di mente, e ricchissimo di cuore, per cui 'gli sventurati lo trovarono sempre pronto a soccorrerli. Amò immensamente la libertà, né tale amore fu mai nel cuor suo indebolito dalle persecuzioni, dal carcere, dalle vessazioni di ogni genere. Visse da forte, e mori da eroe. Quando il re apprendeva questi fatti disse lieto: la diplomazia ammirerà ancora una fiata la sagacia e la fortezza del mio governo.

Verso quel tempo istesso, altri due fatti avvennero, che servir potevano di salutare avvertimento al Governo, se non fosse stato acciecato dalla rabbia della persecuzione. Un grosso bastimento da guerra doveasi ristaurare; quindi sbarcar doveansi tutti gli oggetti che erano sul suo bordo. Nello scaricar le polveri, la polveriera prese fuoco, e saltò in aria, cagionando la morte di un venti persone, e gravissimi danni. E poco dopo, mentre la fregala a vapore il Carlo III era sul punto di partire, s’incendiò, e molte morti, e moltissime ferite di persone innocenti fecero deplorare quel tristo avvenimento.

Non mancò il Governo di attribuire al caso tali sventure, ma il maggior rigore mostrato contro i liberali, dimostrò chiaramente, che non al caso, ma all’universale malcontento attribuir dovevasi il fatto. E fu in quella circostanza che allontanaronsi da Napoli migliaia di studenti, ivi riuniti per coltivare gli studi, che mancavano affatto nelle provincie. Ed eran molti, e sempre pronti ai movimenti sediziosi, perché la bollente gioventù poco cura i suggerimenti della prudenza. In colai modo agendo il re dannava all’ignoranza molti gagliardi ingegni, i quali avrebbero potuto rendersi utili a sé stessi, alla società, sempreppiù illustrando la gloria della più bella parte d’Italia. Ma l’ignoranza era appunto il gran mezzo di oppressione, di cui servivasi il Governo, poiché un popolo ignorante, « serve a mo’ degli asini e tace, mentre un popolo istruito sa conoscere il suo diritto, ne sente tutta la forza, ed impiega tutti i suoi sforzi per farlo prevalere.

Ora apparecchiatevi ad ascoltar la narrazione di due fatti notabilissimi, la cui cagione fu l'oppressione nella quale vivevano i popoli; e siate certi che l’oppresso, quando ha esaurito la misura della sua pazienza, spezza il freno, ed anzicché soffrire affronta impavido la morte. A domani quindi l’importante narrazione.

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RACCONTO XXVIII

Agesilao Milano — Carlo Pisacane

Era pio costume di re Ferdinando di passare una gran rassegna militare in ogni anno nell’ottavo giorno di dicembre, sacro a Maria Immacolata. Fedele a tal costume nel detto giorno dell’anno 1856 ordinò la consueta rassegna, e meglio di ventimila uomini, comandati dal tenente-generale del Carretto, schieraronsi sul campo di Marte. Le truppe in bell'ordine passarono innanzi al re, accompagnato da un brillante Stato Maggiore; le bande suonavano armoniosamente inni di guerra; tutto era gioia, ed orgoglio, quando ecco un soldato della settima compagnia del terzo battaglione cacciatori, esce dalla sua fila, e marciando con passo franco e. sicuro, giunge vicino al re, abbassa il suo moschetto, e concentrando tutte le sue forze in un punto solo, gli vibra un tremendo colpo con la baionetta fermata in cima del fucile, e che ne avrebbe attraversato il corpo se non avesse colpito, invece del fianco, la custodia di una pistola. Non atterrito del cattivo esito di quel suo primo colpo, pel quale ripiegata erasi la punta della baionetta, torna furiosamente a ferire, quando il conte la Tour, tenente-colonnello degli usseri della Guardia, gli spinse sopra il cavallo, e lo rovesciò per terra, dove sarebbe stato fatto a brani dai soldati accorsi, se il re non avesse gridato: lasciatelo stare.

Quel giovane ardimentoso, quell’audace soldato, che volle trafiggere un re in mezzo a ventimila soldati, votandosi in tal modo ad infallibile morte, era Agesilao Milano, nato nel 1830 da civile famiglia in S. Benedetto Ullano nella Calabria citra, villaggio appartenente alle antiche colonie greche. Giovane di spiriti ardenti, di cuor generoso, e di alta intelligenza; versato nello studio delle lingue e della storia antica, amava la patria, e la libertà d’immenso amore, ed odiava cordialmente il re, che opprimeva l’una, e rendeva schiava l’altra. Nella sua mente spaziavano sempre l’ombre degli eroi che eransi sacrificati per la gloria, e per l’indipendenza della patria, e la sua memoria riteneva tutt'i fatti illustri, tutte le magnanime parole di quei grandi uomini. Studiando nel collegio Italo-Greco, senti crescere in lui l’odio ai tiranni, e l’amore alla libertà, e questi sensi cercò sempre d’ispirar nel cuore de' suoi compagni, per la qual cosa fu espulso dal collegio nel 1848, come diffonditore di massime sovversive.

Indignato per tale insulto, e perché vedeva interrotto il corso de suoi studi si ascrisse alle società segrete, e prese parte attiva in tutte le cospirazioni ordite per

rovesciar la dinastia borbonica. Né soddisfatto di aver consacrato a tal causa, il cuore, e la mente, volle anche offrire alla patria il soccorso del suo braccio, ed unendosi alle bande insorte, ebbe più d’una volta l'occasione di battersi con le truppe regie. Finalmente convinto dell’inutilità degli sforzi dei liberali, e visto l’infausto termine di lutte le loro imprese, infiammato d’inusitato sdegno, volle e giurò di uccidere il re, per liberare in tal modo la patria oppressa. Ma come realizzare un tal progetto: Se ogni volta che il re mostravasi in pubblico, era cinto di armati, e quasi impossibile era di trovar accesso presso di lui? Risolvé allora di rendersi soldato, e nel maggio del 1856 si presentò come volontario, ed accettato, fu iscritto tra i cacciatori, e destinato a servire nella settima compagnia del terzo battaglione. Non vi fu giammai soldato così rigido osservatore de' propri doveri come il Milano, talché meritò l’amore e la stima de' suoi superiori. La sera del giorno sette gli si disse che egli non avrebbe fatto parte della rassegna del dimane, per la qual cosa pertossi dal capitano della sua compagnia, e tanto seppe dire, e pregare che finalmente gli fu accordato di marciar coi compagni.

Fallitogli il colpo, non avendo cagionato al re che una lievissima ferita, e posto in mezzo de' gendarmi, gli fu chiesto per qual causa avesse tentato di commettere si grave misfatto: per liberare la terra di quel mostro, rispose. Tradotto innanzi al Consiglio di Guerra, e domandato de' suoi complici, sempre rispose: — Io non ho altri complici che i delitti del Borbone. Fu interrogato perché non avesse tentato il colpo nella rassegna che il re passava nel giorno otto di settembre, al che rispose: Egli in quel giorno si fa vedere tra i soldati in carrozza, quindi avrei dovuto trargli una fucilata, ed uccidere un altro in sua vece, mentre con la baionetta era sicuro del fatto mio. Gli fu chiesto se fosse pentito della malvagia azione, e fieramente rispose, che farebbe lo stesso, se ne avrebbe l'agio. Fu condannato ad essere impiccalo col quarto grado di pubblico esempio.

Nel giorno 13 dicembre, verso le dieci e mezzo del mattino, Agesilao Milano, vestito di luridi panni, a piè scalzi, e con un cartello sul petto che lo dichiarava parricida, fu condotto al patibolo, eretto nel luogo detto Cavalcatolo, fuori porta Capuana. Durante il cammino parlò sempre di religione con i due frati cappuccini che lo assistevano, e che restarono commossi dalle sue parole. "Mori intrepido qual visse, gridando: viva Italia! Nel giorno della sua esecuzione, come impone una religiosa costumanza, i fratelli di Verticoeli si posero in giro raccogliendo limosine per far celebrare il maggior numero di messe in suffragio dell'anima del condannato. Non vi fu mai esempio di tanto danaro raccolto, che ciascuno versava nella borsa dell’elemosina quanto trovavasi in tasca. Fu questa una tacita manifestazione de' sentimenti de' Napoletani per tale avvenimento: Agesilao Milano erasi sacrificato volontariamente per liberare un popolo, ed il popolo lo retribuiva piangendo sulla sua tomba, e pregando pel riposo dell’anima sua. E lo piansero ancora i suoi compagni d'armi, perché egli fu sempre con essoloro gentile, cortese, e pronto ad accorrere a qualsivoglia loro desiderio, ed a prestar servizio a lutti.

Ora però udirete cose che vi sorprenderanno davvero.

Avvi in Napoli un cimitero, nel quale sono scavate trecento sessantacinque fosse, dove si seppelliscono i poveri, ed i giustiziati. Ogni giorno se ne apre una, e si chiude quella del giorno antecedente, ed in tal modo in un anno si fa il giro di tutte. Il cadavere strozzato di Milano fu sepolto in una di quelle fosse, che, venuta la sera, si chiuse. Nella seguente mattina, mentre i becchini aprivano la tomba vicina, si addarono con maraviglia, che il sepolcro, chiuso nell’antecedente sera, era aperto. Stupefatti per cosa inaspettata, e che non comprendevano, entrarono in quella fossa ma, oh sorpresa! più non vi videro il cadavere di Milano. Cerca fruga, rovista, tutto fu inutile perché il cadavere era scomparso. Gente ignorante e superstiziosa, con la mente infarcita di ubbie, non sapevano che pensare, ed eran sul punto di gridare al miracolo, quando presero la risoluzione di partecipare lo strano evento alla Polizia, la quale fu sollecita a sguinzagliare i suoi cagnotti per iscoprire la strana sparizione di quel cadavere. Ma inutili prove tentaronsi, il cadavere aveva ricevuto più onorata sepoltura, e per quanto si cercasse di penetrar nel mistero, rimase sempre incomprensibile.

Ma un fatto più straordinario in tale circostanza avvenne.

In una delle più frequentate chiese di Napoli, un giorno presentossi un signore vestito a bruno, sul cui volto apparivano i segni di profonda mestizia. Chiese del parroco amministratore della chiesa, e gli disse, che essendogli stata rapita dalla morte persona a lui carissima, era suo intendimento far celebrare in quella chiesa un sontuoso e magnifico funerale. Chiedeva quindi che la chiesa fosse parata di bruni veli, che nulla si risparmiasse per l’acquisto de' ceri che dovevano accendersi nel maggior numero possibile, che vi fosse musica, e gran messa: pel catafalco sarebbesi egli incaricato, ed avrebbe mandato i suoi artefici. Quindi consegnando al parroco una borsa ben gonfia di monete parti.

Nel dimane la chiesa era addobbata secondo le prescrizioni di quell'incognito signore, e gli artefici da lui mandati, nel bel mezzo di essa avevano innalzato un catafalco di semplice architettura.

Giunta l’ora destinala alla sacra cerimonia,, incominciò la gran messa, ma appena dai cantanti intonavansi le prime note del De profundis, le pareti del catafalco addivennero trasparenti per un lume interno misteriosamente acceso, e sui quattro lati di esso, leggevansi queste parole, scritte a grossi caratteri

AD AGESILAO MILANO SOLENNI ESEQUIE

Immaginate, figli miei, il terrore, lo scompiglio, il disordine cagionati da tal fatto: la cerimonia fu interrotta; preti, ed astanti fuggirono: accorse la Polizia, ma come nulla erasi saputo del rapimento del cadavere, così nulla si seppe del misterioso personaggio che ordinato aveva il funerale, né degli artefici costruttori del catafalco.

Quando Garibaldi, sulle ali della vittoria, venne dittatore in queste provincie, accordò a Maddalena Russo, madre di Agesilao Milano, una pensione vitalizia di trenta ducati al mese, ed a ciascuna delle sue sorelle una dote di ducati duemila. Il Governo abolì pensione e dote, e, checche se ne dica dagli esaltati, saggiamente operava, perché l’assassinio, qualunque ne sia la causa, è sempre un misfatto che dev'essere punito, anzicché premiato, né permetter si deve il male nell’intendimento di trarne un bene. Ed io vi ripeto ciò che altra volta vi dissi: il regicidio, lungi dal favorire la libertà, ribadisce le catene della schiavitù; e ciò è provato con l'esperienza dei secoli.

Ma proseguiamo nella nostra narrazione, ed udirete caso stupendo di patriottismo.

Carlo Pisacane è un nome illustre nei fasti dell’indipendenza italiana. Uomo di gran mente, e di gran cuore, egli acquistò molta gloria, pubblicando dotte opere sulle condizioni d’Italia, e consacrando tutto sé stesso per la liberazione della patria. Combatté tutte le battaglie italiane, prese parte in tutte le cospirazioni, vagò qua e là per l’Europa mettendosi in relazione con tutt’i Comitati rivoluzionari, ed acquistando l’amicizia dei grandi Italiani, profughi in terra straniera. Considerando le triste sorti di Napoli sua patria, e della Sicilia fu profondamente commosso a sdegno contro quel principe che n’era cagione: ed a confermarlo in tali sentimenti venne Terenzio Mamiani, che diceva: — un tiranno che opprime il suo popolo, le Sacre Carte confermano il popolo nel sacro diritto di spegnerlo. E Vincenzo Gioberti favellando dei Bandiera, diceva: — invidio meglio la loro sorte, che la potenza di Ferdinando.

Le opinioni di questi grandi uomini lo determinarono a gettarsi nel partito di azione, e nello slancio del suo entusiasmo credette facile impresa il far insorgere i popoli delle Due Sicilie, e il condurli all'acquisto della libertà.

Per conseguire lo scopo generoso erasi posto in relazione co’ più risoluti liberali di Napoli, e con loro formato aveva il disegno della sua impresa, meditando una spedizione, di cui egli sarebbe stato il condottiero, per la sua nota prudenza non solo, ma eziandio per essere un gran maestro nell'arte della guerra. Prima però di mandare ad esecuzione il suo progetto, volle da sé stesso chiarirsi del vero stato delle cose. Munito di un passaporto inglese, e parlando perfettamente la lingua di quella nazione, osò portarsi in Napoli nel maggio dei 1851, ove giunto, si abboccò con Teodoro Pateras, Luigi Dragone, e Giuseppe Fanelli, dai quali fu assicurato essere il popolo pronto ad insorgere al minimo impulso. Gli furono offerti soccorsi d’uomini, e di denaro, ma gli si consigliò di attendere ancora per breve tempo, non essendo matura la occasione propizia all'impresa. Egli però non volle udir parola di procrastinare l'azione, certo quale era, che sbarcato appena sulle coste del regno, tutto il popolo sarebbe accorso sotto la bandiera italiana. Illusione fatale!

Determinato ad agir senza ritardo, pensava di dar principio all'azione nel Cilento, dove i liberali erano stati più crudelmente martirizzati, per la qual cosa volentieri quei popoli sarebbero sorti a vendetta. In Sapri effettuar dovevasi lo sbarco, ed il giorno 13 giugno dello stesso anno 1857 partir doveva la spedizione da Genova. Mazzini avrebbe secondato il suo tentativo con altri tentativi su Genova, e nella Toscana.

Nel giorno 9 Rosolino Pilo da Palermo, di cui avrò occasione di parlarvi, partiva dalla spiaggia di Genova con una barca carica d’armi, e con venti congiurati. Era sua missione l’attendere in alto mare il vapore su cui sarebbe imbarcato Pisacane, al quale, consegnate le armi, doveva Unirsi co’ compagni. Una forte tempesta però obbligo il Pilo a gettare in mare le armi, e a ritornare in Genova. Per tale avvenimento la spedizione non parti nel giorno stabilito, ma fu procrastinata pel giorno 25 del mese istesso. Verso le ore sei pomeridiane di quel giorno, Carlo Pisacane, Battistino Falcone, Giovanni Nicotera, seguiti da ventidue prodi, privi di tutto, ma ardenti di patriottismo, imbarcaronsi come passaggieri sul battello a vapore il Cagliari, che era destinato per Tunisi. Salpate le ancore, ed inoltrati nel mare, costrinsero con la forza il capitano, ed i marinai a ceder loro la direzione del vapore, ed ascendere sotto il ponte. Ciò felicemente eseguito, posero in panna per attendere Rosolino Pilo, il quale con un altra barca, carica di polvere e di armi, doveva raggiungerli. Ma anche questa volta andò fallito il disegno, che una densa nebbia, sorta dal mare, impedì al Pilo di vedere il Cagliari, e perciò fu costretto a riprender terra.

Era la seconda volta che tal disgrazia avveniva ma non per questo smarrì il coraggio l’animoso Pisacane. Egli decise di andare innanzi, dicendo: Impareranno i moderati come poche anime generose sappiano iniziare grandi fatti, armate di un pugnale soltanto.

Mentre continuavano a navigare venne in mente ad un congiurato di rovistare il bastimento in cerca di qualche arma, e dopo varie ricerche fu gratamente sorpreso ritrovando sette casse con centocinquanta fucili che portar si dovevano in Tunisi, ed una certa quantità di polvere. Partecipata ai compagni la lieta novella dieronsi allegramente a fabbricar cartucce, e proseguirono con maggior ardire il loro avventuroso viaggio.

Gettarono l’ancora innanzi l’isola di Ponza, ove sbarcato Pisacane con quattordici compagni, poneva in fuga i doganieri, ed i veterani che occupavano due posti per custodire il lido, e difilato correva verso il forte, ove gemevano tra i ferri parecchie centinaia di condannati politici. Trecento soldati di linea, che vi stavano a guardia, non opposero resistenza di sorta, credendo che quei pochi armati fossero l’antiguardo di numerosa schiera, e chiesero di esser trattati con gli onori di guerra. Il vecchio comandante, anche spaurito, alla prima intimazione cedé le armi, e le chiavi delle prigioni. Tutto prosperamente procedeva, ma un traditore si opponeva alla fausta fortuna. Un. tal de Leo, dopo di aver sedotto la maggior parte dei condannati liberali a non seguir Pisacane, prese una barca, e corse di tutta fretta a Gaeta per avvertire il re di quanto avveniva in Ponza, e di quanto medita vasi operare sul continente. Per le inique pratiche del traditore, dei mille condannati posti in libertà, soli trecento seguir vollero la fortuna di Pisacane, e con essolui imbarcaronsi verso la mezza notte, volgendo la prora alte rive del Cilento,

Dopo breve traversata, i congiurati sbarcarono vicino al piccolo villaggio di Sapri. Stettero, origliarono, avanzaronsi alla scoperta, ma non un volto amico, non un suono di voce umana: niuno gli aspettava, il luogo era deserto. E che cosa era avvenuto delle solenni promesse fatte a Pisacane dal Comitato rivoluzionario di Napoli(? Intanto, dopo tenuto un consiglio tra i capi della spedizione, su ciò che operar doveasi, deliberarono di procedere innanzi, e disposti in battaglia addentraronsi nel paese: ma il paese pareva deserto, e dapertutto lo stesso silenzio. Arrivati a Padula, trovarono un popolo atterrito dai rigori borbonici, che non seppe rispondere al grido di libertà, al cui echeggiare invece fuggivano spauriti e tremanti. A Padula Pisacane rinvenne alcuni amici, ai quali faceva conoscere quanto fosse urgente il riunirsi, l'armarsi, l’operare: promisero quanto da loro si volle, ma tosto scomparvero, e non più si videro.

Intanto l’Aiossa, intendente di Salerno, appena saputo dello sbarco, diè gli ordini più energici per arrestare i congiurati. Tutte le forze, di cui al momento poteva disporre, furono poste in moto, cacciatori, gendarmi, guardie urbane; mentre per le notizie date dal de Leo, le fregate a vapore Amalia, Roberto, Ruggiero, e Vesuvio, sbarcavano sui lidi salernitani l’undecimo battaglione de' cacciatori, ed incrociavano per quei paraggi per custodire le coste. E per gli ordini di Aiossa, le guardie urbane di Sapri, Torraca, Sala, e di altri paesi, forti di ottocento uomini in tutto, e sostenute da dugento gendarmi, venivano a battaglia col Pisacane nell’alba del primo giorno di luglio. Comunque inferiori di numero, e non tutti provveduti di buone armi, i congiurati combatterono con maraviglioso coraggio, ed uccisero molti regi, tra i quali parecchi uffiziali. Il resto diessi a fuga precipitosa, seguendo i passi del regio giudice di Torchiara, che gli aveva riuniti.

Dopo il combattimento i bravi soldati della libertà, trafelati dalla fatica, bruciati dai raggi ardenti del sole, cercarono invano di che rinfrancare le forze affrante; non trovarono un pietoso che offrisse loro, almeno un sorso di acqua per estinguere la sete d’inferno che gli divorava. Svigoriti per fame, e per sete, eransi gettati appiè degli alberi, quando si avvidero di essere minacciati da un novello assalto. Erano otto compagnie del set timo battaglione dei cacciatori, che venivano a rinforzare i gendarmi, e le guardie urbane; e con queste imponenti forze si veniva per ischiacciare un pugno di generosi, agonizzanti per lungo travaglio. Il tenente-colonnello Ghio comandava quel grosso di truppa.

Non si scorarono i figli della libertà, ma unanimi deliberarono di morire con le armi in mano. La zuffa s’impegnò su tutta la linea, e di presente il terreno fu coperto di cadaveri d’ambo le parti. Si battevano uno contro otto, ma i pochi erano eroi, che lieti, offrivano la loro vita alla patria. Infine, dopo due ore di accanito combattimento, consumate tutte le munizioni, era impossibile il continuare nella lotta disuguale. Pisacane ripiegossi verso il suo fido Nicotera, irremovibile nel concetto di attendere a piè fermo il nemico, e di morire all’ombra della bandiera nazionale italiana: — Noi morremo da uomini — egli diceva — abbiamo fatto quello che umanamente far si poteva per aiutare questo disgraziato paese. Maledetti coloro che ci lasciano soli, ai quali non basta nemmeno l’esempio per riscuotersi dal vergognoso sonno di nove anni.

Il bravo Nicotera propose allora la ritirata sui monti, e v’indusse il Pisacane, che ordinatamente incominciò la ritirata. Ma nell’attraversare Padula un miserando caso avvenne. Tutta la popolazione affollata sui balconi, sulle finestre, sui terrazzi, sui tetti cominciò a scagliar sulla generosa legione sassi, mobili, e qualunque oggetto atto ad uccidere, cacciando grida di gioia quando vedevasi un milite cader morto. A tale inumana barbarie nacque lo scompiglio: un terzo di quei bravi si sperperò fuggendo qua e là, altri caddero prigionieri, altri morti. Trentacinque prigionieri furono immediatamente fucilati per ordine del ferocissimo Ghio. Novantasei raggrupparonsi intorno a Pisacane, a Nicotera, ed a Falcone, e cominciarono a ritirarsi fieri nell'aspetto, perché irrevocabilmente decisi di morire. Pisacane andava ripetendo: — abbiam compiuto il nostro dovere; ora cerchiamo di penetrar nel Cilento: se anderà fallito questo secondo tentativo morremo da forti.

Vagarono per tutta la notte nel folto di un bosco; ma all’alba del due luglio giunsero a Sanza villaggio di cinquemila abitanti. I miserandi avanzi della legione della libertà spiegarono allora la bandiera tricolore, gridando: viva l'Italia, viva la libertà, sperando che quelle grida avessero destato il patriottismo di quella popolazione; ma avvenne il contrario. Tutti gli abitanti di qualunque età, e di qualunque condizione, e specialmente i preti, e i monaci, armati di fucili, di coltelli, di spiedi, di bastoni, di sassi, si scagliarono contro il piccolo drappello, che niuna resistenza oppor poteva con pochi fucili scarichi. Gli sventurati, dannati a crudelissima morte, con voce lamentosa andavan dicendo: — siamo fratelli, perché ci assassinate? Noi siamo venuti a spendere la nostra vita per togliervi dalla tirannia. Non furono ascoltati: e quelle tigri, vieppiù inferocite dall'esortazione dei preti, e dei frati, non respiravano che strage, e sangue.

La morte, e morte atroce mieteva i generosi. Carlo Pisacane, mentre sforzavasi a passare un torrente, cadde orrendamente mutilato da molti colpi di scure. Nicotera, comunque ferito in una mano, pure cercava di prendere sulle spalle il cadavere del suo nobile amico, quando, ferito alle spalle dalla scure fratricida, cadde prigione, e con altri ventotto compagni, tutti nudi e grondanti sangue, fu trascinato dentro Sanza, ove tutti legati mani e piedi furono chiusi in un convento. Verso il vespro dai soldati dell’undecimo cacciatori furono trascinati a Buonavitacolo, ove furono rinchiusi in un porcile.

Io non vi parlerò di loro: furono condannati a varie pene, ed il Nicotera a quella della morte, che gli venne commutata con l’ergastolo. Furono gettati in quelle profonde fosse che dicevano carceri, poveri, nudi, privi di qualsivoglia ristoro, e dannali a mangiare il nero pane dei bagni. Il Mazzini da Londra mandò loro un sollievo di denaro e di biancheria, e fu forse quell'aiuto che salvò loro la vita.

Fu questa la patriottica impresa di Carlo Pisacane. Preghiamo pel riposo di quella grand'anima, e badiamo ad imitarne la virtù. Lo esercizio di maschia e soda virtù è la sola base duratura della libertà; senza virtù l'edilizio crolla al minimo spiro di vento. Che vale il gridar tuttodì — viva la libertà, se in cento modi bistrattasi dalle nostre ignobili passioni? Figli miei, preghiamo, preghiamo sempre per l’Italia, la quale, dopo sì lunghe ed atroci sofferenze, ha diritto, acquistato dal suo genio, e sancito dal suo sangue, di mostrare altera la sua nobile fronte, e di esclamare al cospetto di tutti i popoli dell'universo: io son regina.

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RACCONTO XXIX

Spunta il Sole

Il glorioso, ma sventurato tentativo di Pisacane, con altri simili era coordinato. L’infaticabile Mazzini, sempre intento al suo scopo, e fermo ne’ suoi progetti, per mezzo dei suoi fidi aveva tentato un movimento in Genova, ed in Livorno. I Governi però stavano in guardia, e facilmente soppressero gl’insignificanti tumulti, che ne seguirono. Anche in Massa e Carrara avvenne qualche torbido, ma il duca di Modena lo represse con la fucilazione di alcuni, e con la condanna alle galere di altri. Tutto quindi pareva ritornato ad una calma sepolcrale, quando un’improvvisa ed inaspettata novella scosse tutti gli animi, e riaccese le spente speranze.

Nel primo giorno dell’anno 1859, mentre gli ambasciatori esteri, residenti in Parigi, presentavano l’omaggio dei loro auguri all'imperatore Luigi Napoleone, questi rivolto al legato di Austria, gli disse:—Sono dispiacente che le nostre relazioni col vostro Governo non sieno tanto buone, quanto lo furono per lo passato, ma vi prego che diciate all'imperatore che i miei sentimenti personali rispetto a lui non sono mutati.

Queste parole con la rapidità del fulmine si diffusero per l’Europa, e colpirono tutti di maraviglia, mentre il senso che racchiudevano non pareva punto misterioso, e lasciava intravedere gli eventi futuri. Ed alle parole dell’imperatore fecero eco quelle pronunziate dal nostro re Vittorio Emanuele nell'apertura del Parlamento, tra le quali notarono le seguenti: — Non siamo insensibili al grido di dolore che da tutte le parti d'Italia s'innalza verso di noi. Forti per la concordia, fidenti nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della Provvidenza.

A confermare viemaggiormente le speranze destate dalle parole de' due potentati, venne il matrimonio del principe Girolamo Napoleone, cugino dell'imperatore, con la principessa Clotilde, che con gran pompa fu celebrato in Torino nel dì 30 gennaio.

L’Austria, presentendo prossima la guerra, vi si preparava, aumentando il suo esercito in Italia, e le guarnigioni delle sue fortezze, specialmente Pavia, e Piacenza furono validamente fortificate. Né fu negligente ed inoperoso il Piemonte, dove fu mobilizzata la Guardia Nazionale per essere ausiliaria

dell’esercito, contraendosi per le spese della guerra un prestito di cinquanta milioni.

Queste novelle, congiunte a tanti preparativi di guerra, fecero esultare di gioia i Lombardi, e i Veneziani, i quali per affrancarsi dall’esecrato giogo austriaco, non più speravano che nella forza dell’armi. Qualche! manifestazione della pubblica gioia ebbe luogo in Milano, ove le signore abbigliaronsi in modo da far spiccare i colori nazionali; ed essendo in quei giorni morto il giovane Emilio Dandolo, a tutti caro pel suo patriottismo, per la squisita gentilezza delle sue maniere, e per aver combattuto intrepidamente negli anni 48 e 49, immensa folla di popolo lo accompagnò alla tomba, dimostrando quanto la perdita di un libero cittadino fosse a tutti dolorosa.

Le speranze di una guerra liberatrice, sempreppiù rinforzandosi, traevano la gioventù italiana ad ingrossar le file dell'esercito piemontese. In ogni città organizzaronsi Comitati per raccogliere il denaro, destinato all'abbigliamento, ed all’armamento dei volontari. L’entusiasmo era giunto al colmo; voci di guerra risuonavano in ogni luogo. Giovani appartenenti a famiglie illustri, di cui erano la speranza, abbandonavano gli agi del tetto paterno per vivere la faticosa vita dei campi, e per affrontar cento e cento pericoli. Gli stessi genitori incoraggiavano i figli alla difesa, ed alla liberazione della patria; e le madri soffocando ogni materno affetto, parlavano di gloria, e di libertà, e stringendo al seno i loro cari promettevano di benedirli al cospetto della patria libera.

Di tanti volontari accorsi al primo grido di guerra, alcuni s’incorporavano nell’esercito, altri ponevansi sotto il comando di Garibaldi, che aveva sollecitamente abbandonato Caprera, e veniva ad offrire la sua spada a Vittorio Emanuele. Il solo nome di questo audace condottiero valeva un esercito, e questa volta non si commise il fallo, in cui cadde Carlo Alberto: i servigi del grande Italiano furono accettati c«n riconoscenza.

Questo formidabile apparato di guerra determinò l’Austria ad intimare al Piemonte che prontamente disarmasse, altrimenti h guerra intendevasi dichiarata. All'imperiosa domanda, il conte di Cavour rispose con modi convenienti alla dignità nazionale, che costrinsero 8 tacere il legato austriaco. La risposta del Cavour portò all’ultimo grado il pubblico entusiasmo, e le camere conferirono al re la dittatura per tutto il tempo che sarebbe durata la guerra.

Intanto mentre tutte in Italia preparavasi alla guerra, la gentile Toscana commovevasi, e prendeva parte sincera all'esultanza, ed alle speranze italiane. Non più i Toscani mostravansi affezionati al loro principe, perché i fatti del 48 avevan dimostrato esser egli più austriaco che italiano, e tale animadversione del popolo egli aumentava con aver adottato il falso e pernicioso principio che la forza regge gli Stati.

All'annunzio della guerra contro l'Austria tutti i Toscani agitaronsi, e si mostrarono desiosi di contribuire all'indipendenza della patria. Giovani volontari partivano in ogni giorno per accrescere il numero dei combattenti. Si raccoglieva (tartaro per fornirne coloro che partivano; dovunque pubblicamente ragionavasi dei fatti del giorno, e non avevasi più paura della sorveglianza della Polizia. Illuso il Governo non prestava fede alla direzione che prendeva lo spirito pubblico, e credeva che quegl'insoliti moti fossero l’opera dei settari, che con false speranze ingannavano il popolo, moti fatui che ispirar non potevano nessun serio timore. L’accecamento del granduca lo trasse a disprezzare le rimostranze ed i consigli di ragguardevoli personaggi, che avevano studiato profondamente il vero carattere di quelle agitazioni, e che avevano appreso essere la truppa unita al popolo: quindi tolta al Governo ogni speranza di repressione, se mai vi si affidasse.

A disingannare il granduca, e i suoi ministri, giunse la notizia che le truppe di presidio in Lucca avevano abbandonato quella città per andarsene a servire in Piemonte; e per soprasello una gran riunione di popolo e di soldati fuori la porta di S. Gallo di Firenze, diessi ad acclamar fragorosamente Vittorio Emanuele; e tutto ciò con quella calma, e quella dignità peculiari del popolo toscano.

Non era più tempo; la rivoluzione non poteva più evitarsi, e già nella gran piazza detta di Barbano, ed oggidì dell'Indipendenza, tutto il popolo trovossi riunito. Il granduca fu ammonito che per salvare la sua dinastia, conveniva che abdicasse a favore del figlio, e che questo si unisse lealmente al Piemonte per la guerra contro l’Austria. Il principe aderir non volle a tal proposta, e dichiarò che sarebbési piuttosto allontanato dallo Stato con tutta la sua famiglia.

La folla ingrossava: primi i soldati avevano innalzato la bandiera tricolore sui merli di una fortezza. 11 popolo la salutò con grida lietissime: piangendo di gioia tutti vicendevolmente abbracciavansi alla vista della bandiera della patria. Quindi il popolo, dividendosi in schiere, e preceduto da una banda musicale, diessi a girar per la città, e giunto alla casa dell'ambasciatore piemontese, proruppe in fragorosi evviva a Vittorio Emanuele. Fatto il giro di Firenze si sciolse con quell’ordine, e con quella compostezza, con cui erasi ordinato. Verso la sera il granduca Leopoldo, con la sua famiglia, e i suoi familiari, in carrozze chiuse, e scortati da un drappello di cavalleria, abbandonarono Firenze, e con lui l'abbandonarono tutti quei ministri, che erano venuti in uggia al popolo. Mancando il capo supremo dello Stato ed essendosi allontanati i suoi ministri, il popolo unanimemente offerse a Vittorio Emanuele la dittatura della Toscana.

Anche i popoli di Massa e Carrara, indignati dalla mala signoria di Francesco I duca di Modena, vollero aggregarsi al Piemonte, ed aiutati da una schiera di Guardie Nazionali, venute da Sarzana, cffettuirono il loro disegno. Il duca aveva ordinato che si minasse il castello, cui è sottoposta Massa, ma il maggiore Messori, che aveva ricevuto il comando di far scoppiare la mina, non obbedì per salvare da irreparabile rovina quella città.

All'appressarsi della procella rivoluzionaria, la duchessa di Parma abbandonò volontariamente lo Stato, e la sola presenza di un forte presidio austriaco potè contenere le popolazioni del ducato di Modena, impazienti di cacciare il tiranno, figlio di tiranni, che per sì lunga stagione oppressi gli avevano.

Finalmente l’imperatore dei Francesi fè manifesto il suo intendimento di voler fare la guerra all’Austria per l’indipendenza d’Italia. Questa novella fu con entusiasmo accolta dai Francesi, e ben quarantamila volontari corsero a schierarsi sotto le patrie bandiere. Fu votalo un prestito di cinquecento milioni, si radunarono le truppe, e l’imperatore, mettendosi alla testa di esse, abbandonò Parigi.

Non è possibile il descrivere le acclamazioni dei Francesi, e degl’Italiani al passaggio dell’esercito liberatore. L’entusiasmo universale lo salutava con amore infinito, e quando l’imperatore giunse a Genova, ebbe festeggiamenti, ed accoglienze che non avrebbe mai sperato. La riconoscenza del popolo, manifestata in cento modi, era infallibile argomento del suo amore per la nazionale indipendenza, e del suo odio contro l’oppressore straniero.

Gli eserciti francese e piemontese riuniti sommavano a trecentomila uomini, oltre una forte divisione di volontari, che col nome di Cacciatori Delle Alpi era comandata da Giuseppe Garibaldi: duce supremo era l’imperatore dei Francesi. Lo esercito austriaco contava trecentoquarantamila soldati, di cui metà marciavano per invadere il Piemonte, e l’altra metà restava a guardia della Lombardia, e della Veneria: erano comandati in capo dal conte Giulav. Marciavano a grandi giornate verso il Piemonte, ed era tale la loro fidanza di impadronirsene presto, che alcuni ufficiali avevano ordinato che le lettere a loro dirette si spedissero a Torino. Nella loro marcia però non è a dirsi quante incredibili atrocità commisero, lasciando sempre dietro di loro il saccheggio, la devastazione, l’incendio, lo stupro, la strage. Ed in tali opere d’inferno trista fama acquistava il generale Urban, il quale forse preso aveva a modello il ferocissimo Haynau.

Le truppe nemiche cominciarono ad incontrarsi, e ad azzuffarsi dovunque s’incontravano. Furono combattute avvisaglie infinite, nelle quali riportarono sempre la vittoria le armate alleate. A Montebello però l’affare fu più importante, e fu quasi una battaglia, nella quale furono sconfitti gli Austriaci. In questo combattimento gl’Italiani mostraronsi degni della loro antica rinomanza, e meritarono gli encomi del generale francese Forev, il quale disse mirabili le cariche della cavalleria piemontese. Il capitano Piola, scrivendo dal campo di battaglia alla moglie, dicevate: — Sono coperto di gloria, e di ferite; dò basti per dirti che vivo alla patria, ed al tuo amore.

Mentre in tal modo, e sempre con la fortuna istessa pugnavasi, l’intrepido generale Garibaldi entrava in Lombardia, molestando il nemico, e togliendogli ogni di molti prigionieri. Egli era entrato in Varese tra le grida di gioia del popolo festante, che acclamava Vittorio Emanuele, ma nel bel mezzo di tal trionfo, gli Austriaci forti di seimila uomini, lo assalirono per iscacciarlo da quella posizione. Dopo un combattimento che durò tre ore, Garibaldi gli respinse con gravi perdite, e si diè ad inseguirli senza posa, raccogliendo dovunque numerosi drappelli di volontari, che da tutti i luoghi accorrevano per combattere sotto le sue bandiere. Non contento poi di aver battuto gli Austriaci a Varese, marciò sopra Como, dove novellamente incontratili, tornò a batterli, liberando quella città della loro odiosa presenza. Quindi ritornò a Varese, dove il nemico era ritornato, profittando della sua lontananza; ma i Cacciatori delle Alpi, già adusati alla vittoria, lo assalirono, lo sgominarono, lo volsero a precipitosa fuga.

Intanto gli avvenimenti si succedevano con foga dirotta. Non più parziali combattimenti, non più scaramucce, ma una vera battaglia combattevasi in Palestre. Ivi gli Austriaci provarono quanto possa il valore italiano, e quanto eroico sia il valore del re eletto dal popolo. Vittorio Emanueie si espose al fuoco come un audace gregario, sfidando impavidamente tutti i perigli della battaglia. I Zuavi francesi, che son riputati i più intrepidi soldati del mondo, lo guardavano maravigliando, e più volte lo strapparono dalla mischia, nella quale egli valorosamente sempre ritornava. Gli Austriaci battuti in tutt’i punti, si ritirarono rotti e sanguinosi, mentre nel giorno istesso, e durante la battaglia di Palestro., in altri luoghi erano battuti e fugati. '

Dopo la battaglia di Palestro, avanzando l’esercito alleato per la Lombardia, scontrossi col nemico, che grosso, e ben collocato volle novellamente tentar la sorte dell'armi. Qui fii combattuta la gloriosa e micidiale battaglia di Magenta, gara di onore tra Francesi ed Italiani. Il ritardo di alcune divisioni dell’esercito alleato per impreveduti ostacoli, che impedirono una rapida marcia, diè sul principio della battaglia qualche vantaggio al nemico, ma a misura che le divisioni arrivavano, ed entravano in linea, questo vantaggio scompariva. I Francesi combatterono, come sogliono sempre combattere; gl’Italiani non furono loro secondi. Alcuni battaglioni di bersaglieri, giunti sul. campo, mentre il nemico ancora resisteva, gettaron via gli zaini, e prendendo il passo di corsa lo caricarono con tale impeto, che lo costrinsero ad indietreggiare sbaragliato. I valorosi ammirano» il valore altrui, ed i Francesi applaudirono quei bravi bersaglieri. Gravi furono le perdite degli alleali in questa battaglia, ma gravissime quelle degli Austriaci, i quali perdettero settemila prigionieri, ventimila tra morti e feriti, tre bandiere, quattro cannoni, e trentamila sacchi. Magenta liberò la Lombardia, ed il nemico sgombrò immediatamente da Milano, i cui deputati, presentatisi a Vittorio Emanuele, rinnovarono con esso lui il patto fermato nel 1848 con Carlo Alberto. Il re accettava la dedizione dei Milanesi, e di tutta la Lombardia, in presenza dell'imperatore Napoleone, col quale, alla testa dell’esercito vincitore, entrava in Milano, accolto dall’indescrivibile gioia del popolo, che dopo lunghe sventure, tornava a salutare la bandiera nazionale.

Tra le festive acclamazioni dei liberati Lombardi, udivasi il rimbombo del cannone, perché non si dava un istante di riposo agli Austriaci incalzandoli vivamente con la spada alle reni. Essendosi fortificati in Melegnano, i Francesi gli assalirono per iscacciarneli. Fu tremendo l’assalto, valida e vigorosa la difesa: gli Austriaci si batterono come leoni, e bisogna render loro questa giustizia; ma non potevano resistere all’impeto francese, che con la baionetta cacciandoli di casa in casa, gli costringeva a fuggire intieramente sconfitti. Fu micidiale il combattimento: i Francesi ebbero novecento quarantatre soldati tra morti, e feriti, tredici ufficiali morti, e cinquantasei feriti. Gli Austriaci fecero più gravi perdite, poiché, oltre un gran numero di morti, ebbero mille feriti, e novecento prigionieri.

Rotti in tutti i luoghi gli Austriaci, il barone Hess, succeduto al conte Giulay, come generale in capo, pensò di concentrarli sul Mincio; quindi furono liberate della loro presenza le città di Piacenza, e di Pavia, il ducato di Modena, le Romagne, ed il ducato di Parma, paesi che immediatamente acclamarono la dittatura di Vittorio Emanuele. Il re accettava, e mandava sollecitamente suoi delegati per governarli.

Intanto avvenne caso miserando, la cui narrazione vi farà inorridire.

La città di Perugia, soggetta al papa, volle esser libera, a dispetto degli Austriaci che allora occupavano lo Stato pontificio. Troppo debole però per resistere all’ire nemiche, chiese aiuti che non ottenne, ma di ciò non fu scoraggiata, che anzi baldanzosa gridò libertà. A tal novella il Governo romano volle richiamarla all’obbedienza, e punirla severamente della sua ribellione, per la qual cosa il colonnello svizzero Smith, con duemila soldati, e quattro cannoni, marciò verso la malarrivata città. I Perugini non vollero cedere vilmente, e comunque sforniti fossero di armi, pure deliberarono di resistere ad oltranza, ed il combattimento incominciò disperato. Ma non durò molto, che il numero, le armi, e la disciplina superarono in brev'ora gli ostacoli, e le truppe papaline trionfanti entrarono nella città. Or qui incomincia una serie di orrori che non mi regge l’animo di narrarvi con tutte le loro particolarità. Si scannarono vecchi cadenti, infermi agonizzanti, donne, fanciulli, bambini da latte. Si scannarono nelle case, nelle vie, nelle piazze, nelle chiese. Vergini, e spose stuprate e violate, e poscia scannate. Fu profanato, e saccheggiato il tempio di Dio; saccheggiate ed incendiate le case. Perugia addivenne una gora di sangue, che bolliva al fuoco dell’incendio. L’Europa restò stupefalla, e inorridita alla novella di tanti orrori, non cosi il papa che premiò largamente il ferocissimo Smith autore di essi. Il fato di Perugia fu eguale a quello di Brescia, ma Brescia almeno fu devastata da' Croati, stranieri, e nemici d’Italia; ma Perugia fu martorizzata da' suoi fratelli, e per ordine del vicario di un Dio tutto misericordia e carità: di quel giustissimo Dio, che forse un giorno circonderà il suo letto di morfè con l'ombre dei Perugini si barbaramente scannati. Ma torniamo al racconto di men tristi fatti.

Un’altra gran battaglia fu combattuta dagli eserciti alleati contro gli Austriaci, battaglia che prende due diverse denominazioni, comunque fosse la stessa. Nel punto dove combatterono i Francesi chiamossi di Solferino, dove pugnarono gl’Italiani si disse di S. Martino. La battaglia fu micidiale, poiché gli Austriaci, comandati dal loro imperatore, 24 occupavano lo alture, dove si erano ben fortificati, protetti da numerosa artiglieria. Conveniva scacciameli, e le colonne francesi, ed italiane inerpicandosi pel dirotto sentiero, ed attraversando impavide un torrente di fuoco, gettaronsi sul nemico, che non potendo reggere a tanto impeto, dovette abbandonar la formidabile posizione, e darsi a precipitosa ritirata. Degno di altissimo encomio. fu il coraggio dei Francesi., e dei nostri, e non mica dispregevole quello del nemico. Luigi Napoleone e Vittorio Emanuele furono sempre presenti in quei luoghi dove maggiore era il pericolo. Per un tratto di circa quindici miglia, quanto estendevasi la linea di battaglia, il terreno era ingombro di morti, di mal vivi, e di mille e mille impedimenti di guerra. Immensi furono i danni provati dall’esercito austriaco. L’imperatore Napoleone,: visto il brillante coraggio spiegato dalle nostre truppe, dichiarò che erano degne di combattere a fianco delle sue. E già gli alleati preparavansi ad oppugnare le formidabili fortezze, occupate dagli Austriaci; già Venezia impazientemente attendeva l’ora della sua liberazione, quando con istraordinaria maraviglia si apprese, che gl’imperatori dei Francesi e di Austria avevano fermato in Villafranca le condizioni di una pace, per la quale la Lombardia restava unita al Piemonte, mentre l’Austria serbava la. Venezia.

Non è a dire il dolore universale, e specialmente quello che provarono i Veneziani a questa fatale novella. Questa pace malaugurata fermava a mezzo il cammino trionfale della vittoria, e distruggeva molte speranze. Ma chi può leggere nel misterioso libro della politica dei re? è un arcano che a pochi è dato di penetrare. Può solamente congetturarsi che Napoleone abbia agitò in tal guisa, o per non trarsi sulle spalle il peso di una guerra europea, o per non poter tollerare alle sue porte una gran nazione come l’Italia, la quale, sebbene ora sia unita, in Venezia, ed in Roma serba sempre il germe della divisione. Però, o figli miei, confidiamo in Dio: il bisogno dell’indipendenza, e dell’unità nazionale è troppo sentito dai popoli, né si può soffocare per pratiche, per' trattati, per forza. Verrà tempo in cui Dio, anche dal seno delle tenebre farà risplendere la luce: siamo costanti nel volere; proseguiamo nella grand’opera senza stancarci, e quando il tempo della prova sarà passato, la bandiera italiana sventolerà orgogliosa sulle torri di Venezia, e sulla vetta del Campidoglio.

In quel tempo, consumato da lunga malattia moriva il re Ferdinando II, cui successe il duca di Calabria, suo figlio, e della regina Maria Cristina di Savoia, per le sue rare virtù denominata la Santa, il quale prese il nome di Francesco II. I popoli attendevano qualche larghezza dal giovane re; ma egli seguì la politica paterna, che produsse infine i tristi effetti, di cui vi parlerò domani.

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RACCONTO XL

Garibaldi, e le Due Sicilie

Dopo i preliminari di pace di Villafranca, sanzionati poscia dal trattato di Zurigo, molte cose avvennero in Italia, che reputo superfluo il narrarvi. Le grandi potenze di Europa furono in movimento, ciascuna attentamente guardando il novello ordinamento italiano, senza però prendervi parte attiva. Gli Stati diversi, nei quali fu divisa e suddivisa la patria nostra, ad eccezione della sventurata Venezia, di un breve spazio di territorio restato al papa, e del regno delle due Sicilie, chiesero la loro annessione al Piemonte, a ciò determinati dal concetto dell'unità nazionale, dalla proverbiale lealtà del re Vittorio Emmanuele, e dall’odio indomabile, che nudrivasi contro gli antichi dominatori.

Il giovane re Francesco II, vittima di pravi consigli, seguiva ciecamente la politica paterna, e vedendo che la Sicilia fremeva per spezzare il giogo, e che Napoli agitavasi intollerante di servaggio, credeva trionfare col mezzo del rigore. Quindi in grande attività lo spionaggio, e la polizia, e frequenti gli incarceramenti, e l’esilio di tutti coloro, sui quali posar poteva un sospetto. Il trono di Francesco II in quel tempo sorgeva sul cratere di un vulcano, che in ogni istante poteva ridurlo in cenere. Salutari consigli egli ebbesi dal Piemonte, e dalla Francia,. ma inretito nelle scaltre mene, e nelle artifiziose perfidie dei tristi, non volle udir nulla, e continuò ad incedere costante nel suo sistema di repressione. Affidavasi alla divozione del suo fiorente esercito, ed alle congiure che ordivansi in Roma per una fatua riazione. Intanto precipitavano gli eventi, e scoppiò finalmente quel fulmine che doveva spezzar le catene dell’antica schiavitù.

Alla novella delle vittorie italiane, la Sicilia, facile sempre ad esaltarsi nelle aspirazioni della libertà, si mosse. Vasta congiura erasi ordita, le cui fila raggruppavansi in mano di Francesco Riso, uomo del popolo, di quel popolo tanto potente, che solo con mano robusta può scuotere, e far crollare il più saldo trono. Egli era un semplice fontaniere, ma aveva un gran cuore, consacrato tutto alla patria. Povero d’istruzione, agiva secondo i moti del cuor suo, che non lo ingannava giammai; e sempre intento alla redenzione della patria, unico suo affetto, aveva impiegato tutto il frutto delle sue oneste fatiche nell’acquisto di armi, che con gran mistero da Ade persone erano introdotte in Palermo, e depositate in luogo sicuro.

Compagni di Riso nell’opera generosa erano Gaetano La Loggia, Giambattista Marinuzzi, Domenico Corteggiani, Giuseppe Bruno, e Pietro Piediscalzi. A

dispetto dell’instancabile sorveglianza del ferocissimo Direttore di Polizia Salvatore Maniscalco, di esecrabile memoria, erano costoro bene informati di quanto avveniva in Italia da Nicola Fabrizi il modenese, amico di Giro Menotti, e di Giuseppe Mazzini: il quale, esule in Malta, osava attraversare il mare su fragile navicello, e sbarcar segretamente in Sicilia per aver lunghi colloqui co’ congiurati. E già la congiura era talmente estesa, e pervenuta a tale stato di perfezionamento, da esser pronta all’esecuzione de' suoi piani,quando un frate traditore, che simulando sensi patriottici aveva acquistato conoscenza di tutti i progetti dei cospiratori, gli denunziò al Maniscalco. È necessario offrire all’esecrazione, ed alla maledizione di tutte l’età il nome di questo vile ed indegno monaco: egli chiamavasi fra Michele da Sant’Antonino.

Il Maniscalco colse con gioia infernale l’occasione di saziar la sua carnivora ferocia, e diè i necessari provvedimenti per isventar la congiura,. avendosi ad ausiliario il generale Salzano, comandante militare. Ordini tremendi furono quindi dati alle truppe, e si attese il principio del sanguinoso dramma, che rapppresentar si doveva.

L’istante dell'azione è giunto. Cinque giovani, ardenti del fuoco della libertà, s’incamminano verso il convento di S. Francesco, ove Riso, e gli altri congiurati gli attendono. Incontrano un drappello di soldati, i quali prendendoli di mira co’ loro moschetti, chiedono con voce imperiosa: chi viva. — Italia e Libertà, rispondono gli animosi. A tal risposta odesi una forte detonazione, e dileguatosi appena il fumo, si veggono i cadaveri di quei giovani rotolandosi nel proprio sangue.

Allo scoppio delle armi, quelli che attendevano nel convento della Gancia, appresero che il tradimento aveva svelato i loro progetti, ma non ismarriscono il coraggio. Di presente spiegano la bandiera tricolore in cima dei campanile, e le campane suonando a stormo annunziano la guerra del popolo. I drappelli rivoluzionari si slanciano sulle vie, il cannone tuona, le milizie accorrono da ogni punto; il popolo spaventato resta inerte, ed i pochissimi ardimentosi, che alla propria vita la patria antepongono, sono abbandonati a sé stessi.

I regi assaltano il convento con la gioia feroce del lupo, che s’inerpica su per le mura dell’ovile, ma Francesco Riso oppone resistenza gagliarda, dicendo ai suoi: aliarmi diamo almeno a questi servi del tiranno una prova di valore. Dal campanile, dalle finestre, dagli abbaini si fa un fuoco d’inferno contro i soldati, che avanzano sempre, calpestando i cadaveri dei loro compagni. I frati robusti prendon parte alla difesa, i vecchi e gl’infermi cercano un rifugio nella chiesa, sperando di aver salva la vita pel rispetto dovuto al luogo santo.

Un battaglione del 6.° reggimento, attraversando un turbine di palle, raggiunge la porta della chiesa, ed a colpi di scure l’atterra. Entrarono furitondi nella casa di Dio, come si entra in una città presa d’assalto. Tutto vi fu profanato, e devastato; insultati e feriti i frati, protestanti invano la loro innocenza. Commisero atrocità inaudite, e — inorridisco in dirlo! — per impadronirsi della pisside d’oro, gettarono, e calpestarono Cristo in sacramento. Sono queste le opere gloriose dei difensori del trono, e dell’altare.

Dopo l’empia e sacrilega devastazione della chiesa, i soldati irruppero nel convento, ma ivi disperata resistenza trovarono. Chiusi nelle cellette dai monaci, i congiurati dirigevano a bruciapelo i loro colpi contro i soldati, e ne facevano strage. Si combatteva col furore della disperazione, non più per vincere, ma per morir vendicati: uno contro dieci, ma un eroe contro dieci sgherri: il celeste pensiero della libertà, contro l’abbietta e brutale obbedienza della schiavitù. Le grida, il tumulto, i lamenti dei feriti, la feroce gioia dei vincitori, la rabbia della strage, la sete del sangue confondevansi con lo scoppio dei moschetti, con lo scricchiolar delle baionette, col fracasso delle porte atterrate, e con l’incessante martellar delle campane, che chiedevano il. soccorso del popolo.

La resistenza non poteva più durare: i pochi superstiti gettaronsi giù dalle finestre, e scavalcando le mura del giardino salvaronsi fuori Palermo. Ma pur non si cessava di combattere, e contro chi? contro di un solo, contro di un leone, contro di un gigante, contro Francesco Riso. Questo eroe degno dell’ammirazione universale, rimasto solo, e con varie ferite, lotta furiosamente contro le schiere regie. Solo vai cento, ché ogni suo colpo è una ferita, ogni ferita è morte. In quell’ora tanto gloriosa pei figli della libertà parca che fosse addivenuto onnipotente. Sublimalo dal maraviglioso combattimento, il suo sguardo, il suo volto, le movenze tutte del suo corpo erculeo, non ad uomo pareva che appartenessero, ma ad un genio. Tremavano al suo aspetto i regi, ma spinti dagli uffiziali, ritornavano ad assalirlo. Finalmente una palla gli spezza una gamba, e cade rovescio al suolo: non potendo più difendersi si chiude gli occhi con le mani, e muore benedicendo e salutando l'Italia.

Il trionfo riportato nell’assalto del convento della Gancia aveva destato la gioia dei regi, i quali nascondevano a sé stessi le gravi perdite patite. E per prevenire fatti consimili, posero Palermo in stato di assedio, e senza formalità di processo fucilarono tredici patriotti sulla piazza Castellammare. Si voleva sangue, sangue, e poi sangue! E di sangue ancora se ne verserà a ufo.

Alla notizia dei fatti di Palermo la Sicilia restò muta e costernata, ma non si mosse: solamente Piana, Misilmeri, Carini, Alcamo, Corleone, Altavilla, e Ventimiglia insorsero, e presero le armi, formandosi quelle popolazioni in guerriglie, e guidate a battaglia da Piedescalzi, Bennici, Corteggiani, Tontù, Sant’Anna, Firmaluri, Paternostro, La Porta. In diversi combattimenti sempre trionfarono i Siciliani, i quali mostrarono un coraggio indomabile, ed un irresistibile slancio.

I regi, battuti dovunque, concentrarono le loro masse, e guidati dai generali Cataldo, Bosco, e Torrebruna mossero contro Carini, che era occupala dagl’insorti. Erano dieci contro uno, ma non s’invilirono i nostri, i quali attesero a piè fermo il nemico, ed impegnarono un combattimento maraviglioso per insolite prove di maraviglioso coraggio. Ma i pochi dovettero cedere ai molti, e dopo( )una lunga e gloriosa lotta si ritirarono sui monti vicini. I regi allora entrarono nella malarrivata Carini, e vi commisero fatti tali da degradarne i Croati. Profanarono chiese, e le spogliarono, saccheggiarono case, e le incendiarono, uccisero vecchi, ed inermi, violarono donne, e solo per vezzo, e per trastullo scannarono bambini da latte, i cui corpicciuoli palpitanti e sanguinosi portavano sulla punta delle baionette.

La rivoluzione pareva soffocata sul nascere, tutto tornava all'obbedienza, e la forza borbonica gravitava sulla nobile e sventurata Sicilia. Gli stessi autori, e capi della rivolta credevano perduta la causa, ed attendevano, senza molla speranza, gli eventi futuri per rannodare le spezzale fila della cospirazione.

Viveva però un grand’uomo, l’eroe della Sicilia, quel Rosolino Pilo, cui un destino avverso tenne lontano dall’infausta impresa di Carlo Pisacane, e che non disperava delle sorti della sua cara patria, la generosa Sicilia. Esule in Genova, chiedeva a tutti gli esuli suoi compagni qualche soccorso per riaccendere le faci della guerra, ma da tutti fu respinto come pazzo. E fu questo sempre il destino degli uomini privilegiati, i quali son derisi ed insultati, mentre cangiano la faccia dell’universo.

Rosolino Pilo era figlio di Girolamo conte di Capaci, e di Antonia Gioeni de' duchi d’Angiò, edera nato in Palermo nel 12 luglio 1820. Studiò in Roma presso i padri Teatini, ed ebbesi a precettore il famoso padre Ventura, sotto la direzione del quale fece rapidi progressi negli studi. I disordini della Corte di Roma, e le borboniche oppressioni veemente destarono in lui il sentimento di libertà al quale consacrossi intieramente. Nel 1841 portavasi in Napoli, ove si legò in intima amicizia con tutti i più famosi liberali, e specialmente con Francesco Crispi, vecchio cospiratore suo compatriotta. Insieme prepararono la cospirazione che scoppiò in Palermo nel 12 gennaio 1848. Egli fu il più intrepido soldato che combatté in tutte le occasioni contro le truppe regie; e con la parola, e con l’esempio, seppe talmente trasfondere il fuoco, da cui era riarso, nel petto dei Siciliani, che le stesse donne pugnarono strenuamente, come videsi in Palermo Maria Testa di Lana, ed in Messina Rosa Donato.

Cadute le sorti della rivoluzione, dopo il fatale 5 maggio, Rosolino Pilo esulò in Genova, ove si strinse in amicizia con Carlo Pisacane. Vagò errante per vari paesi, allargò il cerchio della propaganda rivoluzionaria, fu imprigionato, restò privo d’ogni suo avere per averlo tutto impiegato a beneficio della rivoluzione. Per procurare i mezzi di ridestarla nell’isola, vi ritornò segretamente, ma. il Maniscalco, informato subito del suo arrivo, sguinzagliò contro di lui le sue spie, e i suoi scherani, e promise largo guiderdone a chi lo avesse catturato. Ma Pilo, sempre ardito dispregiatore dei pericoli, perseverò nell’opera intrapresa, e conferendo co’ più costanti liberali dell’isola, infiammandoli con la speranza del prossimo arrivo di Garibaldi, cominciò ad organizzare qualche banda, che faceva concentrare sulla montagna della Cometa. Egli, e l’altro animoso Siciliano Giovanni Corrao ebbero il contento di ved r coronati di esito felice i loro sforzi per chiamare all'armi i loro compatriotti, perché in brev'ora mollissimi accorsero alla chiamata, talché le bande moltiplicandosi continuamente, si potè incominciare a molestar le truppe regie.

Il coraggio de' Siciliani si rialzava, le cose erano bene ordinate, i tempi maturi, quando la notizia della rivoluzione di Palermo giunse a Genova. Lieto Francesco Crispi ne parlò con Bixio, e dilatati entrambi corsero a Torino per conferire con Garibaldi, il quale nel 15 aprile giungeva nella villa Spinola, e vi dimorava attendendo le armi, le munizioni, e il denaro necessario per la spedizione, e per chiamare all’armi i volontari.

Raggranellato l'occorrente, riuniti i volontari, che alla magica voce di Garibaldi accorsero giulivi, la spedizione siciliana fu irrevocabilmente decisa, perché già preparata dall'operosità di Pilo, e di Corrao. In una bella sera di maggio, i volontari, divisi in piccoli drappelli, arrivavano sulla spiaggia di Quarto, ameno paesello a quattro miglia da Genova, ed entrando in piccole barchette, salivano a bordo di due vapori, il Piemonte, e il Lombardo, che alcuni audaci preso avevano nel porto. Quella schiera di bravi riprendeva il suo antico nome di Cacciatori dell’Alpi, e scioglieva il suo grido di guerra, che era: — Viva Vittorio Emmanuele re d’Italia. Erano mille, ma da tali generosi sensi animati, da sì gran condottiero guidati, che erano pur bastanti all'arrischiata impresa. La traversata fu felice, furono inutili gli sforzi della crociera napoletana che voleva impedire lo sbarco. I mille sbarcarono nel giorno 11 maggio verso le quattro pomeridiane, e furono lietamente accolti dalla popolazione di Marsala, per opera di Crispi, e di La Masa, che rassicuraron tutti, spiegando quali fossero le intenzioni dei generosi, venuti per liberar la Sicilia dal giogo oppressivo.

Nel giorno seguente la nobile schiera si pose in marcia, ingrossata da molti giovani di Marsala, che vollero correre i rischi delle battaglie per la libertà della patria. Giunti nelle vicinanze di Salemi incontrarono un monaco dell'ordine dei Riformali, che seguir gli volle come cappellano; a cui Garibaldi, stringendo la mano, rispose: venite, sarete il nostro Ugo Bassi. Quel monaco era nativo di Castelvetrano, e chiamavasi fra Giovanni Pantaleo. Appena i suoi servizi — e ne rese pur molti — furono accettati, corse in ogni luogo della provincia, chiamando all'armi le popolazioni, ed ispirando in tutti l’ardente brama della liberazione della patria. L’entusiasmo universale era giunto al colmo, né vi era persona che non accorresse per vedere le sembianze dell’uomo del destino, del liberatore dei popoli, del più grande degl’Italiani. Gli armati giungevano in folla, e da Monte S. Giuliano arrivarono settecento uomini, capitanati da Giuseppe Coppola, mentre fra Pantaleo altra numerosa schiera di volontari conduceva da Castelvetrano.

Intanto le popolazioni riunite offersero a Garibaldi la Dittatura, che accettò, dopo molte insistenze, nominando Segretario di Stato Francesco Crispi. Ciò compiuto, si marciò per alla volta di Calatafimi, ove trovavansi molte milizie borboniche.

E conveniva combattere, e vincere, ché dal primo successo dipendeva l’esito della guerra. Garibaldi spiega in battaglia i suoi Mille, ed i volontari, e si avanza intrepido per assalire il nemico nelle formidabili posizioni, da lui occupate. Doveva combattere soldati agguerriti, disciplinati, largamente forniti d’ogni argomento di guerra. Dovevansi scalare ripide ed aspre colline sulle quali il nemico crasi validamente fortificato; conveniva scacciamelo, e ciò pareva assurdo, visti i mezzi di azione, di cui dispor poteva Garibaldi. Ma ninno ostacolo può infrenar il suo slancio, e l’ardore de' suoi militi: fiero ed audace egli si avanza, e la battaglia e impegnata. Secondo il mio costume non vi farò una minuta descrizione di quella battaglia; le cui vicende furono molte. Garibaldi vi si mostrò audacissimo tra gli audaci; combatté sempre in prima linea, e dove più spessi erano i rischi. I regi lo riconobbero, e tutti i colpi furono diretti contro di lui, perché sapevano che, lui morto, sarebbe finita la guerra. I suoi amici con divozione sublime gli facevano scudo col proprio corpo, ma egli tranquillamente diceva loro: andiamo, mai ritroverò per morire un giorno si bello, e miglior compagnia di questa, ed allo squillo delle trombe dei Cacciatori dell’Alpi si rinfresca la pugna, e s’impegna una lotta corpo a corpo, ove la baionetta dei volontari, e l’infallibile carabina dei Mille fanno strage dei nemici. Giustizia però vuole che io, sulla fede di testimoni oculari, e per le parole dello stesso Garibaldi, vi dica, che i regi pugnarono da eroi, e che, perdute le armi, si difesero co’ sassi. Volti finalmente in fuga gl'inimici, i Garibaldini entrarono trionfanti in Calatafimi.

In questa gloriosa battaglia cadde, primo martire dei Mille, Clemente Martinelli di Milano. Giovane a 22 anni, bello della persona, ricco di anima nobile e generosa, soave cura, e delizia dei suoi genitori, aveva combattuto tutte le battaglie italiane, e nella pugna che vi ho narrata cadde trafitto dalle baionette regie. Quando i desolati suoi genitori offrirono a Garibaldi il suo ritratto, egli, ravvisatolo tosto, vi scrisse queste parole: Clemente Martinetti, uno dei Mille, morto da prode a Calatafimi: ricordo del suo compagno d'armi.

Prima che Garibaldi lasciasse Calatafimi per proseguire la sua marcia, mentre era circondato da molto popolo, gli si avvicinò frate Pantaleo col crocefisso in mano, e gli disse: Novello Costantino con questo segno hai vinto, ed in questo segno vincerai sempre. Garibaldi si scoperse il capo, e divotamente baciò il crocefisso. A quell’atto tutti s'inginocchiarono, e scorsero abbondanti lagrime di tenerezza.

Continuando la marcia trionfale, sempre salutato dall'entusiasmo del popolo, e battendo i regi dovunque gl'incontrava, egli giunse a veggente di Palermo. Ma in quella città era riunito il fiore delle milizie regie, e non era facile impresa l’entrarvi. Ma Garibaldi è gran maestro nella guerra dei stratagemmi, e mercé questi, e le sue marce e contromarce, comparendo dove non si attendeva, e scomparendo quando credevasi di averlo raggiunto, giunse ad allontanare dalla capitale della Sicilia la maggior parte de' suoi difensori. Allora con una marcia ardita improvvisamente presentossi a porta Termini, debolmente custodita, perché da quella parte riputavasi impossibile che egli giungesse. Fu tosto assalita dai Cacciatori delle Alpi, che furono accolti da vivissimo e micidial fuoco dei regi, mentre una fregata napoletana con la sua mitraglia spazzava lo stradone che a quella porta conduce. 1 Militi di Garibaldi, oppressi dal tempestar frequente di ferro e di fuoco, tentennarono un istante; ma l’intrepido duce rivolto al bravo Francesto Nullo, che perdè poi la vita fucilato dai Russi in Polonia, gli disse: Date l’esempio. Il coraggioso Italiano non se lo fece dir due volte; spronò il suo cavallo, e tra il grandinar delle palle attraversò lo stradone, e giunto alla barricata di porta Termini, la varcò di un salto. Allora i Garibaldini, divisi in manipoli, ne imitarono l’esempio, ed entrarono in Palermo, seguendo i passi del valoroso Nullo, il quale, spiegando la bandiera nazionale, andava gridando: Sono contento d'essere stato il primo a piantare in Palermo la bandiera italiana. Sono contento per Bergamo.

I Palermitani, destati dal rumore del combattimento, accorsero in fretta: fu un vero tumulto, fu una vera frenesia di gioia quando si diffuse la notizia dell’entrata di Garibaldi. Le campane tutte suonavano a stormo, le turbe gridavano deliranti: all’armi! viva la libertà! viva santa Rosalia! viva Garibaldi! Ciascuno armossi di qualunque arma, di qualunque strumento atto ad uccidere: i preti, e i frati, mostrando la croce, incitavano il popolo a spianare la via al liberatore della Sicilia; tutti correvano all’impazzata, impazienti di veder Garibaldi, di baciargli la mano, di toccarne almeno le,vesti. Era un delirio d’indefinibile entusiasmo.

Intanto, mentre Garibaldi trionfava in Palermo, Rosolino Pilo; nelle vicinanze della città battevasi ad oltranza con le sperperate milizie regie. Un giorno però scrivendo un dispaccio a Garibaldi, una palla nemica lo colpi in fronte, e lo uccise all’istante. Fu questa per la Siciiia gravissima perdita, perché tra i suoi difensori contar non poteva uno, che a somiglianza di Pilo, fosse ricco di tanto amor di patria, di tanta abnegazione, di tanto eroismo. Soffocando il dolore cagionatogli da si infausta perdita, Garibaldi, già padrone di Palermo, istituì un Governo Provvisorio, che con i suoi saggi provvedimenti, in tanta confusione di cose, salvar potesse dall'anarchia la città, e la Sicilia tutta.

Le truppe regie però non sono intieramente sconfitte e domate, ma in vari quartieri della città combattono ancora valorosamente. I Cacciatori dell’Alpi, seguiti da tutto il popolo in armi, le assalirono, e battendole sempre, le costrinsero a concentrarsi nel quartier generale, estendendo la loro linea da 8. Francesco di Paola sino ai Quattroventi. Il feroce Maniscalco, sacro alla vendetta del popolo, molti ispettori di Polizia, e gran numero di poliziotti, di birri, e di spie si unirono ad esse, temendo Tira dei Palermitani, per tanto tempo da loro si barbaramente oppressi. Gli oppressi però ora trionfavano, gli oppressori tremavano: giusta retribuzione della vendetta di Dio.

I regi intanto continuavano nell’inutile difesa, e facevan cadere sull’esultante città una gragnuola di palle, e di bombe, che cagionavano morte d'uomini, e devastazione di edifici. E la squadra napoletana faceva lo stesso dalla parte del mare, ed aggiungeva danni a danni, strage a strage. Questa barbarie senza scopo, anzicché invilirei Palermitani vieppiù ne esaltava il coraggio, poiché al sentimento di libertà Pire della vendetta accoppiando, corsero impavidi ad assalire le truppe, e le scacciarono dalle loro posizioni, facendone ampia strage. Per tre giorni continui Palermo fu bombardata, e meglio di novecento vittime caddero esangui, senza contare i guasti cagionati dagl’incendi, che qua e colà suscitavano le bombe. Stolta vendetta, degna degli scherani del dispotismo! La resistenza dei regi era assurda, ed essi medesimi il confessarono, inviando a Garibaldi un parlamentario per chiedere un armistizio che fu accordato, per trattare la resa in una conferenza, che sarebbesi tenuta a bordo di un vascello inglese. Le conferenze ebbero luogo, e le regie truppe abbandonarono Palermo, che finalmente, dopo tante sventure, poteva respirare Paure della libertà, senza tema che fossero avvelenate dal fiato degli oppressori.

Ma la Sicilia non è tutta in Palermo, e sebbene questa città fosse affatto libera della presenza delle truppe abborrite, pure esse occupavano ancora molti punti importanti dell’isola. I Garibaldini le inseguivano, e le combattevano, trionfandone sempre; ma Garibaldi attentamente osservando le minime mosse del nemico, ebbe il convincimento di dover combattere una gran battaglia sotto le mura di Melazzo per sconfiggerle intieramente. E la battaglia fu combattuta con estremo valore dalle due parti. Il generale Bosco comandava i regi, e vi spiegò tutta l’energia di un indomito coraggio, ma nulla potè resistere all’impeto dei figli della libertà. Pugnarono da eroi, fecero prodigi da credersi inverosimili, superarono ostacoli che pareano insormontabili. Nel più forte della mischia, Garibaldi corse rischio di essere ucciso da tre soldati a cavallo, che lo assalirono in una volta. Il bravo Missori corse in sua difesa, e ne uccise due col suo revolver, mentre il terzo moriva, colpito in testa da un fendente della sciabola del generale. Dopo lunga lotta, rotti e sconfitti rientravano i regi in Melazzo, donde subito partirono confusi ed umiliali. Messina fu anche da loro abbandonata senza colpo ferire.

I Garibaldini trionfavano, ma a prezzo di sangue comprato avevano il loro trionfo; ché settecento di loro, tra morti e feriti, mancavano al compimento della grande impresa. Entrarono in Messina festeggiati, come dovunque, ma Garibaldi non volle abbandonarsi al riposo, né addormentarsi sui mietuti allori. La Sicilia era libera; conveniva liberare il continente.

La marcia di Garibaldi verso Napoli fu una continuazione di trionfi. Le guarnigioni di Reggio, e di Monteleone cederono le armi. Francesco II che, stretto dall'incalzar degli eventi, aveva accordato ai popoli una Costituzione mal gradita, perché troppo tardiva, abbandonava la capitale, dove trionfatore entrava Garibaldi. Restavano al re caduto le due fortezze di Capua, e di Gaeta, ma la prima fu espugnata da Garibaldi, e la seconda dall'illustre generale Cialdini. Le due Sicilie allora cacciarono un alto grido di gioia, sentendosi libere una volta, e con affettuoso ossequio salutarono il re Galantuomo, che tanto aveva operato per la salvezza della patria. Il regno di Napoli cessò di esistere, ed addivenne Italia, e vieppiù rese compatta quell'unità, che quando piacerà a Dio, dirassi perfettamente compiuta con Roma, e Venezia.

Addio, o miei diletti figliuoli: nulla più mi rimane. a dirvi sull'argomento che finora ci ha occupati, ma domani vi attendo all'ora consueta, per far con me alcune importanti considerazioni. Che giova avere appreso un fatto senza trarne un morale vantaggio. A rivederci dunque: andate con la benedizione di Dio.

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CONCLUSIONE

I contadini sono già riuniti nel solito luogo, ma sui loro volti, riarsi dal sole, vedesi una nube di mestizia. Sapevano che erano compiuti quei serali racconti, di cui mostravansi tutti maravigliati ancora, e tra loro favellando, chi una cosa rammentava, e chi un’altra; chi compiangeva i martiri caduti sotto l’inesorabile scure dei tiranni, chi con entusiasmo di amore favellava del re Vittorio Emanuele, e del nobile, del generoso, dell’unico Giuseppe Garibaldi. Tutti però convenivano nel concetto che bisogna essere costanti nell'amar la libertà, e nell’odiar la tirannia.

Il parroco giunse tra loro. Sulla sua fronte pura e veneranda ri spi onde va l’aureola della virtù, di quella maschia ed inalterabile virtù, che giammai erasi smentita nel lungo corso della sua esistenza. Era bello della bellezza dei santi, ed il suo sorriso benevolo ed affettuoso era un vivo raggio di paradiso.

Adagiato sul rozzo sedile di pietra, solito luogo de' suoi riposi, con uno sguardo paterno, e con un sorriso di amore salutò i suoi uditori. Oh! in quello sguardo, in quel sorriso riepilogavasi tutta la religione di Cristo, che da un solo affetto deriva l’amore. E questa parola divina, bruttata dall’umana nequizia, si tradusse in oppressione, in tirannia, in strage! Oh! uomini, uomini., foste, e sarete sempre il grande errore della creazione!

Ma il venerabile parroco favella: ascoltiamolo.

Figli miei — diceva — dai miei rozzi Racconti avete appreso quanto sofferse Italia nostra per lo acquisto della sua indipendenza, e della sua libertà; avete appreso quanto sangue, e quante lagrime costano questi preziosissimi beni; gli uomini, questa maravigliosa fattura di Dio, si sono tratti al macello a mo’ di bestie irragionevoli; si è spento ogni senso di pietà, e vi è stata una gara funesta tra i potenti nel mostrarsi feroci e sanguinari. Ma gl'Italiani sono stati costanti nel volere, e dalle tombe insanguinate dei martiri della santa causa italiana si è sempre innalzato il grido della vendetta, e della libertà.

Iddio misericordioso, al cui cospetto ogni potenza e polvere, ascoltò finalmente la preghiera di questo popolo generoso, e rovesciando la ribollente coppa dell'ira sul capo degli oppressori d’Italia, ne incenerì i troni, e ne disperse le ceneri. Chi può resistere ad un popolo che vuole? Gl'Italiani vollero, ed ottennero, ed ora sono orgogliosi della loro nazionalità, e della loro indipendenza.

Per giungere però a tanto acquisto han dovuto penosamente percorrere l’aspra via dei dolori. Voi lo avete appreso. Videro devastati i loro campi, saccheggiate ed incendiate le loro case, tratti al patibolo gli uomini, facendoli prima assistere alla

strage dei vecchi e dei fanciulli, alla violazione delle vergini e delle spose. Giacquero altri per interminabili anni, sepolti vivi in orribili tombe, privi di pane, di aria, e di luce; provarono tutti i tormenti dell'inferno, ma nel fondo del loro nobile cuore palpitò sempre una fibra, che suonò, Italia! Ed Italia fu libera, e potè dire orgogliosamente ai tiranni della terra: Iddio diemmi la corona della vittoria: guai a chi la tocca.

Ora, o figli miei, questa indipendenza, questa libertà con tanti martirii acquistata, sono un preziosissimo bene, che bisogna gelosamente custodire. Come conservate voi quel gioiello, comprato con mille e mille privazioni per le vostre spose? Lo custodite nel fondo più rimoto di un armadio, e rare volte brillar lo fate sul seno delle vostre donne: voi temete che l’aria istessa possa degradarlo, oscurandone la lucentezza. Nel modo istesso conservar dovete il prezioso gioiello della libertà, ed ecco in qual modo. Non farò che ripetervi le cose già dette, e ridette nel corso dei nostri trattenimenti serali, ma viviamo in tempi di tanti inganni, e di tanti errori, che la verità non si predica mai abbastanza, né si dovrebbe cessare un istante dal dire ai nostri parenti, ai nostri amici: Badate. Badate.

Or la libertà si conserva, e si mantiene sempre illesa rinnegando sé stesso, e posponendo il proprio utile all’utile della patria. La patria sia tutto, noi nulla; e cosi saremo liberi e grandi. I martiri italiani, di cui vi ho parlato, provarono col loro eroico esempio questa verità.

Ma siamo noi tali da metterla in pratica? Oibò, oibò: noi siamo ancora schiavi, vili ed abbietti schiavi, se non dei tiranni, dei nostri pravi e disordinati affetti. Chi, più degli altri grida oggigiorno, viva la libertà? Chi la venderebbe domani al maggiore offerente. Più di una volta. vel dissi: per costoro la libertà è uno splendido velo per coprire schifose passioni. Amano la patria? Sì, come il nibbio ama la colomba, come il lupo ama l’agnello. La sola ambizione è in cima dei loro pensieri, e dei loro affetti, e mentre lodano l’eguaglianza voglion dominar su tutto e su tutti. Il gran Garibaldi cel disse nel congedarsi da noi: egli diceva: Da una vita consacrata intieramente alla causa della libertà; dal pensiero della nostra nazionalità, io null'altro voglio raccogliere che il diritto di dire la verità sempre, e di dirla ai potenti, ed al popolo. Ascoltami, o popolo, se io qualche cosa ho meritato da te, e credi alle mie parole: il cancro, e la rovina della nostra Italia è l’Ambizione.

E per far seguire l'esempio alle parole, per sancire col fatto le sue idee, egli nobilmente ricusò onori, e ricchezze, che dopo la conquista di un regno gli offriva la munificenza reale. Questi, uomini rendono grande e gloriosa la patria, e si fan grandi con essa; ma quanti sono? uno; dove sono? In Caprera. E gli altri? Sono sepolcri imbiancati; sono erbe parasite che succhiano l’umor vitale della pianta, e la fanno intristire, ed avvizzire.

Volgiamo uno sguardo alla piccola sfera in cui viviamo, che da essa poi facilmente si risale alla grande. In nome della libertà ognuno vuol farla da padrone, e da despota, ognuno vuol comandare, ognuno vuole il primato sugli altri. Vi è un grado, un impiego, una dignità da occupare? ed eccoli tutti gettarsi a corpo perduto gli uni sugli altri, gridando: tocca a me perché io ho faticato per la libertà: io fui un martire dei tiranni, io debbo essere preferito. Il tale è un retrivo, il tal altro è un clericale; tocca a me, tocca a me, tocca a me. E si arrabbattano e si arrovellano, e vengon fuori gli intimi segreti delle famiglie, e crescono gli odi, ed aumentano le inimicizie, la discordia agita giuliva la sua face, ed i retrivi, e i clericali ridono e soffiano nell’incendio.

Vi è poi speranza di lucro? Allora la bisogna addiviene più calda, e più clamorosa. Cominciano i ricorsi anonimi, le denunzie segrete, le infami calunnie; si dimentica ogni idea di giusto, e di onesto, si conculca ogni principio di equità. Ciascuno vuole il lucro per se, e più meritevole di ottenerlo è lo schiamazzatore più sfrenato. Le botteghe da caffè sono la lizza di tali combattimenti e guai a chi ci capita; sarebbe stato meglio per lui il non esser nato. Ed i retrivi, ed i clericali ridono, e soffiano nell’incendio.

Ma uno fra tanti ottiene ciò che desiderava; misericordia! allora può dirsi perduto. Allora diventa segno di tutte le contumelie, di tutte le calunnie, di tutti gl'insulti. Se il lucro viene dal ministero, dicesi che i ladri protegger debbono i ladri; se si ottiene pel voto dei Consigli Comunali, dicesi che il loro suffragio fu comprato, o almeno che furono sedotti. E mille sguardi si appuntano sulla vittima miseranda, si osservano i minimi suoi atti, si commentano le sue parole, si vuol penetrare nel suo pensiero. Tutto ciò che viene da lui è malvagio, tutto tende alla rovina universale, tutto volge in danno della patria. Una turba di oziosi segue sempre i suoi passi, simili ai vostri cani quando squittiscono sulla pesta della lepre; ed ogni suo passo definiscono errore, ogni atto dichiarano delitto. Meglio per lui se non fosse nato, perché per lui è spenta ogni misericordia, ed ogni, pietà. Ed i retrivi, ed i clericali ridono e soffiano nell'incendio, perché dalla sola scissura degli animi sperano il ritorno di quei funestissimi tempi, che saran sempre il loro sogno dorato. Si grida contro il Governo, come si grida contro gl’impiegati, si niegano verità e giustizia, si bistratta la religione, si rinnega Iddio, e perché? per acquistar rinomanza di liberalismo. Libri empi ed osceni, stampe luride e licenziose pubblicamente si espongono in vendita con gran detrimento del buon costume, e della morale, senza comprendere che un popolo senza morale non può esser libero. Ma io ve l’ho detto: per costoro la libertà è mezzo, non fine; né s’ingannava Garibaldi quando diceva essere l’ambizione il cancro, e la rovina d’Italia. Ed osiam chiamarci liberi? Noi in tal modo agendo, siam degni, non della libertà, ma del disprezzo de' buoni, e del bastone dei tiranni.

Questa figlia primogenita di Dio, questa libertà onore e dignità del popolo, diritto sacro ed imperscrittibile, che niegar non puossi senza calpestar nel fango le leggi divine ed umane, costa all’Italia di molti dolori, di molti martirii, di molto sangue. Deh! se tanto si e travaglialo, se tanto si è sofferto per ottenerla, sappiatela conservare, e la conserverete sempre, se sarete giusti, onesti, e disinteressati; se nell’universo non vedrete che la sola patria, se nel cuore non proverete altro palpito che per la patria, se tutt'i vostri pensieri, i vostri affetti, le vostre azioni non saranno consacrati che alla patria. Dedichiamoci tutti alla patria; rispettiamo la sapienza governativa, nei cui misteri non è dato a noi il penetrare: rispettiamo la rappresentanza nazionale, perché è opera nostra, e calunniandola, ed infamandola calunnieremo, ed infameremo noi stessi; rispettiamo quella religione in cui siamo nati, e ricordiamoci che non bisogna confondere l’asino con la soma; amiamo i nostri fratelli se buoni, e badiamo a convertirli se malvagi, ma che tal conversione avvenga per la irresistibile forza dell'esempio, non pel disprezzo, per l’odio, e per la persecuzione; sopratutto poi badiamo a mantenerci uniti perché è antico il proverbio che dice: dividi e comanda. La forza dei re sta nella divisione dei popoli. In tal modo, o figli miei, l’Italia ritornerà ad essere la regina delle nazioni, la terra della gloria, l’attrice degli eroi. Iddio benedica l’Italia, e la difenda sempre dall'ira de' suoi nemici non solo, ma dall'ambizione, dall'intemperanza, e dalla discordia degli stessi suoi figli.

Ed ora, o figli miei, andate, ma dall'imo del Vostro cuore, e con tutta la potenza dei vostri affetti con me gridate: Viva Italia! Viva Italia! con fragoroso grido risposero quei buoni contadini, ritornando nei loro abituri, per meditare su tutto ciò che avevano udito nei serali racconti del loro pievano.

FINE




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Pisacane e la spedizione di Sapri (1857) - Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito
1851 Carlo Pisacane Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49
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1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. I HTML ODT PDF
1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. II HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. III HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. IV HTML ODT PDF

1849

CARLO PISACANE Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma

1855

La quistione napolitana Ferdinando di Borbone e Luciano Murat

1855

ITALIA E POPOLO giornale politico Pisacane murattisti

1856

Italia e Popolo - Giornale Politico N. 223 Murat e i Borboni

1856

L'Unita italiana e Luciano Murat re di Napoli

1856

ITALIA E POPOLO - I 10 mila fucili

1856

Situation politique de angleterre et sa conduite machiavelique

1857

La Ragione - foglio ebdomadario - diretto da Ausonio Franchi

1857

GIUSEPPE MAZZINI La situazione Carlo Pisacane

1857

ATTO DI ACCUSA proposta procuratore corte criminale 2023

1857

INTENDENZA GENERALE Real Marina contro compagnia RUBATTINI

1858

Documenti diplomatici relativi alla cattura del Cagliari - Camera dei Deputati - Sessione 1857-58

1858

Difesa del Cagliari presso la Commissione delle Prede e de' Naufragi

1858

Domenico Ventimiglia - La quistione del Cagliari e la stampa piemontese

1858

ANNUAIRE DES DEUX MONDES – Histoire générale des divers états

1858

GAZZETTA LETTERARIA - L’impresa di Sapri

1858

LA BILANCIA - Napoli e Piemonte

1858

Documenti ufficiali della corrispondenza di S. M. Siciliana con S. M. Britannica

1858

Esame ed esposizione de' pareri de' Consiglieri della corona inglese sullaquestione del Cagliari

1858

Ferdinando Starace - Esame critico della difesa del Cagliari

1858

Sulla legalità della cattura del Cagliari - Risposta dell'avvocato FerdinandoStarace al signor Roberto Phillimore

1858

The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

1858

Ricordi su Carlo Pisacane per Giuseppe Mazzini

1858

CARLO PISACANE - Saggi storici politici militari sull'Italia

1859

RIVISTA CONTEMPORANEA - Carlo Pisacane e le sue opere postume

1860

POLITECNICO PISACANE esercito lombardo

1861

LOMBROSO 03 Storia di dodici anni narrata al popolo (Vol. 3)

1862

Raccolta dei trattati e delle convenzioni commerciali in vigore tra l'Italia egli stati stranieri

1863

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1863

Giacomo Racioppi - La spedizione di Carlo Pisacane a Sapri con documenti inediti

1864

NICOLA FABRIZJ - La spedizione di Sapri e il comitato di Napoli (relazione a Garibaldi)

1866

Giuseppe Castiglione - Martirio e Libert࠭ Racconti storici di un parroco dicampagna (XXXVIII-XL)

1868

Vincenzo De Leo - Un episodio sullo sbarco di Carlo Pisacane in Ponza

1869

Leopoldo Perez De Vera - La Repubblica - Venti dialoghi politico-popolari

1872

BELVIGLIERI - Storia d'Italia dal 1814 al 1866 - CAP. XXVII

1873

Atti del ParlamentoItaliano - Sessionedel 1871-72

1876

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1876

Gazzetta d'Italia n.307 - Autobiografia di Giovanni Nicotera

1876

F. Palleschi - Giovanni Nicotera e i fatti Sapri - Risposta alla Gazzettad'Italia

1876

L. D. Foschini - Processo Nicotera-Gazzetta d'Italia

1877

Gaetano Fischetti - Cenno storico della invasione dei liberali in Sapri del 1857

1877

Luigi de Monte - Cronaca del comitato segreto di Napoli su la spedizione di Sapri

1877

AURELIO SAFFI Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini (Vol. 9)

1878

PISACANE vita discorsi parlamentari di Giovanni Nicotera

1880

Telesforo Sarti - Rappresentanti del Piemonte e d'Italia - Giovanni Nicotera

1883

Giovanni Faldella - Salita a Montecitorio - Dai fratelli Bandiera alladissidenza - Cronaca di Cinbro

1885

Antonio Pizzolorusso - I martiri per la libertࠩtaliana della provincia diSalerno dall'anno 1820 al 1857

1886

JESSIE WHITE MARIO Della vita di Giuseppe Mazzini

1886

MATTEO MAURO Biografia di Giovanni Nicotera

1888

LA REVUE SOCIALISTE - Charles Pisacane conjuré italien

1889

FRANCESCO BERTOLINI - Storia del Risorgimento – L’eccidio di Pisacane

1889

BERTOLINI MATANNA Storia risorgimento italiano PISACANE

1891

Decio Albini - La spedizione di Sapri e la provincia di Basilicata

1893

L'ILLUSTRAZIONE POPOLARE - Le memorie di Rosolino Pilo

1893

 MICHELE LACAVA nuova luce sullo sbarco di Sapri

1894

Napoleone Colajanni - Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane

1905

RIVISTA POPOLARE - Spedizione di Carlo Pisacane e i moti di Genova

1895

Carlo Tivaroni - Storia critica del risorgimento italiano (cap-VI)

1899

PAOLUCCI ROSOLINO PILO memorie e documenti archivio storico siciliano

1901

GIUSEPPE RENSI Introduzione PISACANE Ordinamento costituzione milizie italiane

1901

Rivista di Roma lettere inedite Pisacane Mazzini spedizione Sapri

1904

LUIGI FABBRI Carlo Pisacane vita opere azione rivoluzionaria

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Giudizi d’un esule su figure e fatti del Risorgimento

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Lettera di Carlo Cattaneo a Carlo Pisacane

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - I tentativi per far evadere Luigi Settembrini

1911

RISORGIMENTO ITALIANO - La spedizione di Sapri narrata dal capitano Daneri

1912

 MATTEO MAZZIOTTI reazione borbonica regno di Napoli

1914

RISORGIMENTO ITALIANO - Nuovi Documenti sulla spedizione di Sapri

1919

ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

1923

MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

1927

NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano


























Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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