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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

SULLA LEGALITÀ DELLA CATTURA DEL CAGLIARI

RISPOSTA DELL'AVVOCATO FERDINANDO STARACE

ALLA CONSULTAZIONE DEL SIGNOR ROBERTO PHILLIMORE

Nos re b ellere sine pertinacia et re b elli sine

iracundia parati sumus.

CICERO. Tusculan. Lib. I.

NAPOLI

REALE TIPOGRAFIA MILITARE

1858

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AVVERTENZA

Nel punto che distendevamo un secondo lavoro a difesa dei predatori del Cagliari, udimmo che l’onorevole giureconsulto inglese signor Roberto Phillimore aveva pubblicato una memoria sulla cattura di quel piroscafo.

La cercammo con ansia e la scorremmo con avidità propria di ehi spera di rinvenire un appoggio autorevole alla propria opinione.

Ma rimanemmo delusi e sorpresi: delusi perche quel grande uomo si è pronunziato in contrario: sorpresi perché egli, o à creduto di non pregiare i fatti certi della causa, o li à ritenuti per rovescio.

Rinvigorimmo d’animo allora, e concepimmo la sicura spe¬ranza di una generosa ritrattazione, tosto che fossero restituiti alla verità i suoi diritti imprescrittibili.

Ed affinché i lettori di queste carte possano essere in grado di portare sulla controversia un sano giudizio, abbiamo divisato di porre a stampa il consulto del signor Phillimore e la nostra risposta.

I

CONSULTAZIONE DEL SIGNOR PHILLIMORE

L’alta importanza della quistione ed i voluminosi documenti scritti e stampati che mi vennero dati ad esaminare sono stati cagione del ritardo necessariamente avvenuto nel concepire e nell'esprimere la mia opinione.

Ma dopo un’attenta disamina di questi documenti, e dopo che io ebbi ponderato colla massima cura i principi di diritto applicabili ai fatti che vi sono riferiti, io son venuto a conchiudere che la cattura del bastimento sardo il Cagliari, operatasi dalle navi da guerra della Corona delle Due Sicilie, fu del tutto illegale e che la domanda di restituzione del bastimento, del carico e dell'equipaggio fatta dalla Sardegna, è pienamente fondata sul diritto delle Nazioni.

Andrò a stabilire le premesse, dalle quali fui tratto a questa conclusione.

Debbo però osservare dapprima che vi sono due fatti, che è di una inestimabile importanza il recare sul terreno del diritto, pei quali è di massima importanza lo appoggiarsi al diritto, e che non sono contrastati dal Governo delle Due Sicilie.

1. ° Cioè, che il Cagliari fu catturato, non già nelle acque di Napoli, ma in alto mare.

2. ° Che ciò nullameno, nelle sue prime informative il Governo Siciliano asseverò al Governo Sardo che il Cagliari era stato preso nelle acque di Napoli, e che la verità intorno a questo punto non potè essere chiarita dal Governo Sardo, se non quando gli furono conosciute le deposizioni dei catturanti.

L’ultimo di questi fatti è perciò importante, che spiega il ritardo frapposto dalla Sardegna in chiedere la restituzione.

L’importanza del primo in ciò consiste, che trasporta tutta la quistione della legalità od illegalità della presa dal terreno del diritto privato o municipale, sul terreno del diritto internazionale.

Su questa osservazione si raggira la massima parte delle cose esposte nel volume in foglio che il Governo Siciliano à stimato opportuno di dare alla luce in difesa della sua condotta in questa congiuntura.

Allo stato di tali fatti, la prima quistione che emerge si è: in quali circostanze uno Stato abbia facoltà di impadronirsi della nave di un altro Stato, mentre essa sta percorrendo la via comune a tutte le nazioni.

La risposta in cui convengono tutti i pubblicisti e colla quale si è sempre tenuta in perfetta armonia la teoria e la pratica degli Stati è la seguente:

In tempo di pace, quando la nave è ragionevolmente sospettata di pirateria:

In tempo di guerra, quando una nave è ragionevolmente sospet tata essere di spettanza di una delle parti guerreggianti.

E per cominciare dalla quistione della cattura di una nave piratica in tempo di pace:

Le opinioni de' pubblicisti, come il diritto interno degli Stati non differiscono essenzialmente intorno alla definizione ed ai segni caratteristici del pirata.

In sostanza, si tiene per nave di pirata quella che naviga senza l’autorità di uno Stato riconosciuto, senza che sia autorizzata ad avere una bandiera o carte di bordo, senza che questa autorizzazione risulti da un documento generalmente riconosciuto, e che di più navighi coll'«animo furandi et depraedandi».

Ciò premesso, ne viene il quesito: questa definizione può ella applicarsi al Cagliari, ed in caso affermativo, per quale momento del suo viaggio?

Non v'à sfoggio di ragionamenti, non v'à farragine di fogli stampati, non apparato di vana erudizione che possa far cadere il Cagliari sotto ai termini della suesposta definizione, al momento ch'esso lasciò Genova.

Esso era di fatti una nav e sarda e munita di carte più che sufficienti per soddisfare ai requisiti voluti dalle leggi internazionali, ed a quanto pare, dalle leggi sarde eziandio. Questa nave faceva il consueto suo viaggio, sulla via abitualmente battuta, era ins omma un piroscafo sardo postale e per viaggiatori, e come tale universalmente conosciuto.

Non vi esiste pur ombra di prova per imputare al proprietario della nave una intenzione qualunque di far navigare la nave con uno scopo colpevole od illegale.

Il secondo quesito che si presenta è questo: benché il Cagliari, quando salpò da Genova fosse una nave mercantile in legittime condizioni, non gli sarebbe forse stato impresso il carattere di nave piratica, durante il suo viaggio, contro alla volontà de' suoi proprietari, ed in tal caso, quando e come ciò sarebbe succeduto?

Ecco i fatti, quali si presentano nella loro semplicità.

Una mano considerevole di cospiratori armati, che avevano preso imbarco sotto all’aspetto di legittimi passaggieri, dopo che il bastimento fu in alto mare, con atti di violenza e con minacce di morte costrinsero il capitano, o per la paura lo indussero (il che vale lo stesso) a deporre il suo comando; s’impossessarono totalmente della condotta della nave, la diressero a Ponza; vi fecero montare numerosa banda di altri cospiratori, e cambiandone l a direzione, navigarono a Sapri. Là i cospiratori sbarcarono, il capitano riebbe la sua autorità, e partissi immediatamente per Napoli per riferirvi al governo quanto era avvenuto.

Navigando a quella volta e giunto a non grande distanza dalla sua destinazione, viene assalito dal fuoco di un bastimento da guerra Siciliano, gli si intima di fermarsi, ed avendo tostamente obbedito, senza far resistenza, vien preso e condotto a Napoli. Può egli dirsi che al momento in cui fu catturato il Cagliari fosse impiegato in atto di pirateria?

Io rispondo assolutamente, no — L’asserzione contraria si fonda su di un sospetto.

Sospetto non convalidato da veruna pruova, che io sappia, né orale, né scritta.

« Che cioè la nave stessa ritornava a Ponza per pigliarvi altri cospiratori e trasportarli a Sapri».

Ma contro questo vago sospetto stanno: il giuramento del capitano, la provata circostanza della violenza antecedentemente patita, e a cui egli si era poco prima di quel momento sottratto, la ragionevolezza del suo racconto, e tutti gli antecedenti relativi al carattere della nave mercantile da lui comandata.

N é si allega che in quel punto vi stesse a bordo anche un solo ribelle.

Ammettiamo, a modo di argomentazione (benché sia questa una quistione stata testé molto disputata fra la Gran Brettagna e gli Stati Uniti d’America), ammettiamo che, nelle circostanze del caso, i bastimenti da guerra Siciliani avessero il dritto di visitare (diritto distinto, come convien notarlo, dal diritto di perquisire) in alto mare ed in tempo di pace il Cagliari, col solo ed unico fine di costatare la sua nazionalità (1).

Io dico senza tema di errare, non sì tosto che si era chiarito, non solo dalla bandiera e dalle carte di bordo, ma eziandio per i noti antecedenti ed il carattere di quella nave, che la sua nazionalità era, bona fide, sarda (ciò che poteva subito verificarsi appena mandati a bordo), veniva sicuramente, evidentemente ad aver termine la ristrettiva e dubbia autorità del bastimento Siciliano (2).

I diritti di visita e di prigionia sono diritti di guerra. La Sardegna e le Due Sicilie non erano in guerra.

Se credevasi di avere qualche motivo di lagnanza contro il Cagliari, è manifesto, giusta ogni principio di gius internazionale, che in vece di catturare, come si fece, questa nave in piena pace ed in alto mare, la si doveva lasciare proseguire liberamente la sua strada, e poi proporre al Governo Sardo i gravami che contro di essa si avevano, oppure dame istanza innanti ai tribunali, ai quali solo spettava il giudicarne, cioè ai tribunali della potenza amica, e giova aggiungere, vicinissima, ai sudditi della quale ben si sapeva appartenere il Cagliari.

Prima di scostarmi da questa parte del nostro soggetto, io dovrei rispondere ad una obbiezione che venne fatta, rispetto all'allegata insufficienza delle carte di bordo del Cagliari. A questo proposito la memoria siciliana sostiene un errore madornale in punto ai precetti del diritto internazionale.

Non si appartiene, né come dovere, né come diritto agli Stati stranieri il vedere, se la nave di un altro Stato abbia tutte le carte che si richiedono dalla legislazione internazionale del paese, da cui essa dipende.

Purché sia sufficientemente chiarita la nazionalità della nave, la nazione forestiera non à diritto di cercar altro.

Nel caso nostro però il Cagliari aveva a bordo la «patente e ciò bastava per soddisfare ai requisiti della legislazione interna (1).

E qui non è per avventura fuor di luogo il notare che durante l’ultima guerra colla Russia, i tribunali delle prese della Gran Brettagna costantemente ricusarono di condannare, anche solo come buona preda, un bastimento legalmente catturato in alto mare, sul solo motivo che non avesse con sé le carte volute dalla legislazione del proprio paese.

La proposizione messa innanzi dall'uffizio d’Ammiragliato delle Due Sicilie, che cioè: «Esso mancava delle carte necessarie di bordo, pel difetto delle quali è da qualificare pirata» (2).

Proposizione che, interpetrata in correlazione colle circostanze del caso, viene a dire che «il Cagliari era un bastimento pirata, perché non aveva a bordo tutte quelle carte che sarebbonsi richieste dalla legislazione interna del suo paese».

È una proposizione affatto nuova e piena di pericoli per tutti gli Stati commerciali.

È dunque chiarissimamente provato che, né all’epoca in cui il Cagliari lasciò Genova, né al momento in cui venne preso, non era in atto, né per intenzione, o per destinazione, impiegato ad usi di pirateria.

Difatti non ci vuol fatica a scorgere che il Governo Siciliano capisce egli stesso che questa accusa di pirateria non può reggere, poiché, prevedendone il crollo, pone innanzi un’altra proposizione, proposizione che io ardirei dirglielo in faccia, pecca contro ai primi elementi e la pratica riconosciuta del diritto delle genti.

Questa proposizione suona, che «se il Cagliari non era egli stesso pirata, era diventato proprietà di pirati e come tale era stato catturato» (1).

Io non saprei esprimere lo stupore che ne cagiona argomento siffatto. Ed invero, la è una delle massime più trite e più certe della giurisprudenza internazionale, massima che scaturisce dallo stesso carattere e definizione della pirateria, che la cattura fatta da pirati non reca nessuna mutazione legale alla proprietà, la quale continua a spettare al primitivo proprietario. Idque, così osserva Bvukershoek, est juris communis, quod apud omnes gentes receptum est, piratas dominium non mutare (2).

N é fa tampoco duopo di notare, che non è nella competenza del Governo Siciliano, benché egli sembri supporre il contrario, di alterare, con una definizione della pirateria inserita ne’ suoi codici interni, la legge generale delle nazioni, in questo od in altro punto, su cui tutti gli Stati siano d’accordo, dato pure che tale modificazione possa aver forza per i sudditi di quel Governo.

Ma quando pure la legge Siciliana fosse di qualche autorità al caso (ciò che non è) sarebbe impossibile di stabilire, stando ai principi di una qualunque regola riconosciuta d’interpretazione, che il Cagliari fosse compreso nella categoria contemplata in quella legge, col titolo di bastimenti appartenenti ai nemici del regno (3).

Ci resta ora ad esaminare l'altro motivo, col quale venne legittimata la presa del Cagliari, motivo che occupa la seconda parte del volume in foglio sopra citato.

Questo motivo consiste in dire, che il Cagliari fu preso come legittima preda in tempo di guerra e nell'esercizio di diritti di propria difesa, spettanti alla Corona delle Due Sicilie, o come si allega, vim vi repellendo.

Qui in primo luogo mi giova notare che sembrami cosa senza precedenti, che si cerchi giustificar la cattura di un bastimento straniero, con due argomenti affatto disparati e contraddittori, cioè, allegando, in un luogo, virtualmente uno stato di pace e facendo un’accusa di pirateria, e nell'altro, allegando uno stato di guerra e ponendo innanzi un diritto di preda.

Non so, se sia maggiore la novità o la sconvenienza di questo modo di procedura, poiché col pretesto di una doppia difesa o di un doppio attacco, che lo si voglia chiamare, gli argomenti che si riferiscono ad uno stato di cose, vengono perpetuamente ad intralciarsi con altri che non vi ànno nulla che fare.

Ma in qual guerra mai era impegnata la Corona delle Due Sicilie?

Non per certo in u n a guerra con un altro Stato: ma ci si dice, in quel tal genere di guerra coi propri sudditi che GROZIO chiama bellum mixtum (1).

É questa una quistione gravissima e che sommamente importa a tutti gli stati.

Bisogna, cred'io, concedere come cosa di fatto e di diritto, che vi esiste una specie di conflitto civile fra un governo de jure ed un governo de facto, quale conflitto assume le proporzioni e va collocato nel novero delle guerre regolari, e seco trae tutte le conseguenze di una guerra ne’ suoi effetti, rispetto a Stati stranieri.

Tale fu la guerra sorta dalle dissensioni civili che travagliarono l’Inghilterra nel 17.° secolo; tale la guerra accesasi tra la Spagna ed i Paesi Bassi, che fu il fondamento della libertà della Repubblica Olandese (avvenimento, lo noterò di passaggio, che il Governo Siciliano nei documenti da me esaminati considera, come la sorgente di tutte le calamità che dappoi afflissero l’Europa (2).

Tale fu pure la guerra combattutasi fra l’Inghilterra e le sue Colonie dell'America settentrionale sullo scorcio del secolo passato. Tale la guerra fra la Spagna e le sue Colonie dell’America del Sud nel presente secolo; tale la guerra cagionata dalla recente ribellione della Sicilia al Governo Napolitano, ribellione a cui più di una volta si allude in questi documenti.

Ma la ragione delle cose e l’usanza, queste due grandi fonti del gius internazionale, rendono manifesto corrervi una enorme differenza fra casi come quelli da noi citati, dove ebbervi giuste battaglie ed impiego di forze regolari da ambe le parti, ed una avventura isolata di una mano di ribelli, come la fu quella di che presentemente si tratta, dei cospiratori di Ponza su di Sapri.

Confondere questi due stati di cose tanto distinti egli è un voler introdurre la massima confusione nelle relazioni internazionali, poiché se ad ambidue si attribuiscono quegli effetti nelle relazioni internazionali che nascono da una guerra, sia per rispetto ai neutri come per rispetto alle parti guerreggianti, allora sarà in potere di pochissimi disperati, i quali colla violenza opprimono la ciurma di una nave mercantile ed aggrediscono il proprio loro paese, e benché poi siano ridotti alla ragione dagli agenti della polizia sarà, dico, in loro potere il mettere a repentaglio le relazioni commerciali e la marineria mercantile di qualsiesi Stato neutrale.

Arr o ge che ove si ammetta questa nuova dottrina, allora si farà pur luogo alla dottrina delle intervenzioni e delle alleanze fra tali avventurieri e Stati esteri, saranno poste sullo stesso piede che l’alleanza della Francia cogli Stati insorti dell'America Settentrionale contro la Gran Brettagna, e con la quadruplice alleanza che intervenne negli affari della Spagna nel 1834.

Non v'è scrittore di vaglia, niun esempio giudiziario, nessun giurista, niuna usanza fra gli Stati che sancisca una estensione siffatta del bellum mixtum, la quale tornerebbe fatale, non meno ai danni de' neutrali che ai diritti dei guerreggianti.

Dif f a t ti si concede quasi nel volume in foglio da me esaminato, che questo è un primo esperimento sui diritti delle nazioni (1).

Si fa forza per provare che il crescere dell'ateismo e della democrazia, durante gli ultimi dieci anni, rende assolutamente necessaria per la protezione del Governo Siciliano una modificazione della dottrina del bellum mixtum. Questo è in fatti il fondamento su cui arditamente si sostiene la legalità della cattura del Cagliari, come preda di guerra. Ma sembra sia sfuggito all'attenzione del Governo Napolitano che una sola nazione non è competente per fare una mutazione più o meno grave nel diritto delle genti.

Narra Wicquefort che il ministero svedese avendo allegato le leggi di Svezia contro una domanda del ministro francese Chamet (che cosi chiamavasi il ministro di Francia) «repondit que la l oi de Suède ne pouvait pas abolir le droit dcs gens e soggiunge il detto scrittore ce qu’il faut bien remarquer contre le nouveaux politiques » (2).

E tale è pure l’opinione di un altro pubblicista ancor più grande, lord Stowel, il quale trattandosi di un caso in cui uno stato cercava d’introdurre novazioni negli usi internazionali a pregiudizio di altri Stati, così si esprimeva «È mio dovere di non ammettere, che perché una nazione avrà creduto opportuno di scostarsi dall'uso generale del mondo e di farsi contro alle massime del genere umano con un procedere nuovo e senza esempio, io sia per ciò obbligato riconoscere la efficacia di tal nuova istituzione, per la sola ragione che potrebbe avere un certo grado di appoggio nella pura teoria, astrazione fatta da ogni pratica seguita dai primi tempi che ricordi la storia. La istituzione de b b’essere conforme al testo delle leggi non meno che all'uso costante in quella materia. E se mi si accorda che prima dell'attuale guerra non si vide mai negli annali del genere umano massima di questa fatta e che viene messa fuori per la prima volta in questa guerra da una sola nazione, io non cerco altro per dichiarare che è debito della Corte il respingere tale massima come inammessibile » (1).

Ci si viene a dire però che il procedere del Governo Siciliano verso il Cagliari non è nuovo, né senza precedenti, in quanto che la condotta della Francia (condotta a cui tributa molti elogi la memoria Siciliana) nel 1832, nel caso del Carlo Alberto, presenta un esempio affatto analogo.

Per buona ventura i fatti di questi precedenti stanno stampati ed ognuno li può verificare.

Il Carlo Alberto, bastimento sardo, trasportò la duchessa di Berr y ed un certo numero de' suoi partigiani sulle coste presso Marsiglia, per lo scopo di susci t are una guerra civile in Francia. Il Carlo Alberto aveva carte false a bordo; contravvenne formalmente alle leggi di sanità e di polizia vigenti nelle acque giurisdizionali in cui fu incontrato.

Ma quale fu la decisione pronunciata dalla Corte di Cassazione?

Che la cattura del Carlo Alberto fosse legittima come preda, o come bastimento pirata? Né l’una cosa, né l’altra. Quel gran tribunale, presieduto (( (2) ) dal signor Dupin, decise, e con tutta ragione che la polizia francese aveva avuto il diritto di arrestare le persone che si trovavano a bordo di quella nave mercantile in territorio francese; in altri termini, che il diritto delle genti non affrancava una nave mercantile dalla visita della polizia, né impediva l'arresto dei cospiratori che vi stanno a bordo, ma la Corte espressamente rifiutò di condannare il Carlo Alberto come preda.

Questa semplice esposizione di fatti dimostra che l’invocato caso del Carlo Alberto, questo precedente isolalo, non è assolutamente di niuna autorità per la cattura del Cagliari; anzi viene per contrario a condannarla.

S’insinua in qualche parte che il capitano del Cagliari si è rivolto al tribunale napolitano e vi patrocina la sua causa; ma e ovvio il notare che i diritti sostenuti dal Governo Sardo sono internazionali, fondati su ragioni di ordine pubblico e che non possono venire per nulla invalidati dalle pratiche fatte da un individuo suo suddito in una circostanza qualunque, e molto meno poi in circostanze come le presenti.

Il Cagliari non poteva essere legittimamente catturato come preda, fuorché in tempo di guerra aperta e riconosciuta; il diritto di preda e tutti gli accessori ben noti che ne dipendono, appartengono alla parte guerreggiante, e non già ad un governo in pace.

Il Cagliari non era meglio passibile di condanna in virtù del diritto di preda che in virtù delle leggi di pirateria.

Ma vi sono altre circostanze nelle quali il Governo Siciliano non à tenuto verun conto delle norme del diritto internazionale.

Non parlerò della costituzione della così detta Corte delle prede; del modo in cui si procede agli esami; dell'ingiusta ed insostenibile proibizione con la quale s’impedì per lungo tempo al capitano di una nave straniera, presa in alto mare, di farsi assistere da un cons ul ente legale. Ma io no n posso a meno di notare che questa così detta preda di guerra è stata, come costa in modo positivo, ad un tempo medesimo il soggetto di un procedimento penale e di un procedimento politico: metodo questo affatto inconsistente col diritto internazionale intorno alle prede.

Leggo poi con non minore meraviglia nel dispaccio del ministro di Napoli, che il bastimento da guerra spettante alla Corona delle Due Sicilie abbia il diritto di procedere, come lo farebbe un attore privato, per la condanna di un bastimento di un altro stato, senza il consenso del suo governo.

La verità che chiara emerge si è, che tutta questa anormale innovazione al prescritto dal gius delle genti è la necessaria conseguenza del sistema adottato di applicare ad uno stato di pace le dure massime che una inesorabile necessità costringe a seguire nello stato passaggiero di guerra, e che il diritto internazionale limita strettamente a questo stato.

Ma è d’una importanza capitale per tutti gli Stati neutrali ed indipendenti lo star bene in guardia, perché questi straordinari diritti dei guerreggianti non vengano ad invadere il campo delle ordinarie loro pacifiche relazioni.

Il caso del Cagliari è il primo tentativo di questa specie, ed io punto non mi meraviglio che il ministro britannico a Torino nel suo dispaccio del 5 Gennaio 1858, abbia espresso come una speranza del governo britannico che la Sardegna si opporrebbe ad una ingiustificabile violazione dei diritti delle genti, chiedendo la restituzione del Cagliari, del suo carico e dell'equipaggio.

E per vero la Sardegna può aspettarsi a buon diritto di ottenere alla sua opposizione l’appoggio e la cooperazione di ogni Stato indipendente, e specialmente di ogni Stato marittimo.


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II

RISPOSTA AL SIGNOR PHILLIMORE

Come prima ci pervenne alle mani la consultazione del giureconsulto Inglese, signor Roberto Phillimore, relativa alla quistione della legalità della cattura del battello a vapore, il Cagliari, inserita sulla Gazzetta Piemontese (1), fummo preoccupati dal pensiero d’incontrare in quello scritto, la esposizione fedele de' fatti avvenuti, i quali formar dovevano l'unico sostrato alle risoluzioni di diritto, che ci aspettavamo di scorgere rigorosamente trattate.

E tanto più predominava in noi quella ben giusta aspettativa, da che l'onorevole scrittore pretesseva, che f alla importanza della quistione ed i voluminosi documenti scritti che mi vennero dati ad esaminare, sono stati cagione del ritardo necessariamente avvenuto nel concepire e nello esprimere la mia opinione.

Ma nello scorrere e ponderare il consulto, sparì quasi di repente dal nostro animo la preconcetta speranza, comunque il signor Phillimore asserisca di aver fatta un' attenta disamina de' documenti, ed una seria discussione de' principi di dritto, applicabili alla quistione che gli si offriva a risolvere.

Noi possiamo bene e veramente conchiudere, che egli fugacemente toccò il volume ed i documenti che intendeva di confutare; dappoiché serbata in più luoghi non si scorge la schietta verità de' fatti semplici, ritenuti dagli stessi Rubattino e Sitzia, e si appalesa surrogata ad essa, o un’assertiva, o un concetto, entrambe) inesatti; donde è derivata la erronea disputazione de' pronunziati di dritto, la quale non poteva riescire altramente, per la osservanza del generico postulato, che la buona ragione non nasce che dal fatto.

La prima pruova della trascuranza dello scrittor del consulto la porge di aver egli ripetutamente asserito, che il Governo delle Due Sicilie aveva creduto di pubblicare per le stampe quella difesa che gli fu data ad esaminare.

Se il signor Phillimore avesse, innanzi tutto, badato al tessuto dei ragionari, avrebbe facilmente scorto, che quella difesa messa a stampa col titolo di discorso, lo era nello interesse privato de' catturanti, ai quali spetta il prodotto del legno predato.

Questo principio sta sancito presso tutte le Nazioni, e predomina anche nel reame delle Due Sicilie (1), ed in quello di Sardegna (2).

Ed è così vero in tutta la sua forza, che se il legno predato fosse da guerra, questo s’incorporerebbe alle flotte Regie, ma il Governo ne pagherebbe il prezzo per compenso all’equipaggio predatore (3).

Ci à fatto poi mal senso incontrare nel consulto più volte ripetute (per non dir altro) frasi irriverenti contro il nostro Governo.

Cotesto contegno sensibilmente affievolisce il vigor legale della opinione manifestata dall’inglese giureconsulto. Egli il primo ben sa che si sfibra e poco impone una critica passionata; come per contrario, riman salda e molto predomina la censura che si mostra figlia della impassibile ragione.

Che che sia di ciò, occorre chiarire dapprima un fatto che crede l'autore della consultazione di una inestimabile importanza, cioè dire, che prima si assicurò dal nostro Governo, che il Cagliari fu catturato, non già nelle acque di Napoli, ma in alto mare; e che ciò nullameno nelle sue prime informative il Governo Siciliano osservò al Governo Sardo, che il Cagliari era stato preso nelle acque di Napoli.

Cosiffatta contraddizione è senza fondamento; imperciocché dai primi albori della causa si è sempre ritenuto, come punto di fatto inconcusso, che l’arresto del Cagliari avvenne, non già nelle acque territoriali del reame delle due Sicilie, ma fuori di esse, cioè alla distanza di sei miglia circa al sud-ovest dell'isola di Capri (1).

Procedendo innanzi, il signor Phillimore, trasportando la quistione dal terreno del diritto privato e municipale sul terreno del diritto inte rn azionale, propone a sé medesimo due quistioni: la prima concepita in questi termini:

In quali circostanze uno Stato abbia facoltà D’IMPADRONIRSI della nave di un altro Stato, mentre essa sta percorrendo L A VIA COMUNE A TUTTE LE NAZIONI?

La seconda:

Benché il Cagliari quando salpò da Genova fosse una nave mercantile in legittime condizioni, gli sarebbe forse stato impresso il carattere di nave piratica, durante il suo viaggio, contro la volontà dei suoi proprietari: ed in tal caso, quando, e come ciò sarebbe succeduto?

Lo stesso scrittore stabilisce due principi, che assicura uniformi alla univoca sentenza de' pubblicisti, con la quale si son sempre tenute in perfetta armonia, la teoria e la pratica degli Stati, cioè dire:

In tempo di pace uno Stato può impadronirsi della nave di un altro Stato, quando la nave è ragionevolmente sospettata di pirateria.

In tempo di guerra, quando una nave è ragionevolmente sospettala essere di spettanza di una delle parti guerreggianti.

Ecco i fatti, prosegue lo scrittore, quali si presentano nella loro semplicità.

Cotesti fatti, egli dice, sono: la patita forza maggiore dal capitano del battello, la chiarita nazionalità del legno, e la sufficiente regolarità delle carte di bordo.

Di riscontro, il signor Phillimore definisce qual sia la nave pirata, e la rinviene in quella che naviga senza l’autorità di uno Stato riconosciuto; senza che sia autorizzata ad avere una bandiera o carte di bordo, senza che questa autorizzazione risulti da un documento generalmente riconosciuto; e che di più navighi, animo furandi et depraedandi.

Prosegue lo scrittore, nel suo sistema, a negare qualunque carattere piratico al Cagliari, e dice che non si allega nemmeno, che nel punto dell’arresto vi stesse ancora sopra il suo bordo, né anche un solo ribelle.

Innanzi tutto, lo scrittore ritiene come pruovato il momentoso fatto della forza maggiore, patita dal capitano e dall'equipaggio, nel punto che, non solo cotesta pruova non esiste, ma sta pruovato il contrario.

È dovere imprescindibile del capitano di un legno mercantile di pruovare la forza maggiore, in virtù delle stesse leggi del suo paese (1), e di tutti gli Stati.

Questa pruova manca del tutto; dappoiché mancano i testimoni che avrebbero dovuto deporre di essere stati presenti al fatto della sorpresa e della violenza commessa al capitano Antioco Sitzia: in somma, manca la pruova del fatto della ipsa vis illata, che si richiede per legge.

Non vi è altro a vantaggio del capitano, che la deposizione del passaggiero Francesco Mascarò, di sua moglie Rosa, e di alcuni altri che furono degli otto rimasi indifferenti, e che di sotto coperta (dove alcuni di essi cenavano) salivano sul ponte. Il Mascarò e gli altri stavano a poppa del piroscafo, mentre la violenza si asserisce avvenuta a prua, dove il capitano si era recato per porre la buona guardia del legno. Era tempo di notte, cioè le 9 ½ pomeridiane del 25 giugno 1857: il battello era di gran portata, e quindi lungo di molto: il tubo della caldaia, gli alberi delle vele, il sarziame ed altri intoppi impedivano naturalmente a quelli che stavano a poppa, spensierati e tranquilli, di vedere tuttociò che di repente poteva avvenire in prua. Ecco perché i deposti di Mascarò, degli altri passaggieri e dell'intero equipaggio (che pienamente si uniforma al primo) altro non assicurano che di aver veduto ritornare da prua il capitano in mezzo a quattro persone armate di stile. Ma non dicono (perché assicurar noi potevano) di aver veduto l'aggressione commessa, da questi quattro o dai più, sulla persona del capitano Sitzia (2).

Che anzi è notevolissimo, nel fine di rifermare sempre più questa verità di fatto e di suprema influenza, che lo stesso Mascar ò depone, che nel vedere il ritorno del capitano in quel modo, domandò a lui ed a coloro che lo circondavano: DI CHE SI TRATTA? e che non ebbe alcuna risposta. Se dunque gli stessi testimoni erano curiosi di conoscere che fosse accaduto, riesce evidentissimo che niente sapevano e niente videro di essere accaduto prima, cioè, nel momento dell’asserto esercizio della forza maggiore.

Tanto meno può influire la spontanea dichiarazione de' ribelli, Pisacane, Nicotera e Falcone, perché evidentemente concertata, e fatta dai più segnalati rivoltosi.

Ma questo non è tutto; imperciocché esiste la pruova contraria, a giustificar la quale rammenteremo, tra i molti, pochi fatti ed i più importanti.

1. ° Il capitano e l'equipaggio componevano 33 persone, usate ai pericoli, destre, sicure, come in propria casa, e quasi più del doppio in numero di coloro che si suppongono autori della violenza (10 o 15, o al più 2 5 ).

2. ° Se prima delle ore pomeridiane del giorno 27 giugno (momento del prossimo disbarco nell'isola di Ponza), quei ribelli non avevano ancora perquisito il legno, né si erano impadroniti delle armi e delle munizioni da guerra, che stavano in luogo riposto del bordo, ne consegue che i soli che potevano adoperare le armi da fuoco e facilmente atterrare i pochi e male armati rivoltosi, erano il capitano Sitzia, o in sua vece il suo secondo, Vincenzo Rocci ed il resto dello equipaggio, sempre rimaso libero, durante due interi giorni, quanti appunto se ne contano dal 23 al 27 giugno.

3. ° È poi un fatto confessato, e non contraddetto, che l’intero equipaggio, ad eccezione de' soli macchinisti, scese armato in Ponza, dove combatté le truppe Regie, dove furono feriti alcuni che lo componevano. Il che, mentre esclude l’avvenimento della patita forza maggiore, include la volontà decisa della ciurma del Cagliari di voler commettere l'aggressione ostile a danno del reame delle Due Sicilie (1).

Lo stesso capitano Sitzia, nella sua formale domanda del 20 ottobre 1857, diretta alla Commissione delle prede e dei naufragi, nel punto medesimo che dichiarò di essere stato trasportato e guardato a vista sotto coperta da guardie armate, al di sopra ed al di sotto del boccaporto: e quale stato di violenza (egli assicura) non cessò che dopo lo sbarco a Sapri (la sera del 28 giugno), confessò nello stesso tempo di essersi prestato a COOPERARE ALLO SBARCO IN PONZA (2).

Che di più. Egli era così libero che dopo il disbarco in Ponza, uscì dal porto e si pose in rada; donde ritornò nel porto, affine di rimbarcare i suoi,i rivoltosi ed i rilegati evasi dai luoghi di pena. Il capitano adunque poteva, ma non volle recarsi alla vicina Gaeta, o altrove per ragguagliare il Governo di quei casi funesti.

Vegga e si persuada chi à fior di senno, se il capitano Sitzia, mentre era violentemente guardato sotto coperta fino alla sera del 28 giugno, poteva trovarsi alle quattro e mezzo p. m. del giorno innanzi sul ponte, ordinando e provvedendo allo sbarco de' passaggieri e dell'equipaggio al numero di 53 persone, e delle armi e di ogni altra cosa occorrente, senza involgersi nella più patente contraddizione, che da un lato rende incredibile il suo detto, e dall'altro lo condanna irrimediabilmente.

Ciò premesso: riassumendo fino a questo punto il ragionare del signor Phillimore, in virtù del quale conchiude non stare nel Cagliari, neppure il sospetto di nave piratica, asseveriamo essere irreplicabili le seguenti proposizioni da lui stesso ammesse:

1. ° Che in alto mare, cioè nella via comune a tutte le nazioni, è permesso l’arresto e la preda, in tesi generali.

2. ° Che la nave pirata può essere di natura e palese, o può divenirla, abbenché d’indole pacifica e mercantile.

3. ° Che il Cagliari, avendo nazionalità, carte in regola, e sopportato la forza maggiore, non poteva dirsi convertito in legno pirata.

Sulla prima proposizione osserviamo, che se lo scrittor del consulto avesse voluto dubitare della legalità dell’arresto o della preda del legno, sol perché avvenute in alto mare, si sarebbe messo in aperto contrasto con la sentenza unanime sostenuta da tutti i pubblicisti, e con la teoria e con l’usanza invalse nella stessa Inghilterra e negli stessi Stati Sardi (1).

L’articolo 2 0 del trattato del 1794, tra la Gran Brettagna e gli Stati Uniti di America, porta:

Nessuna delle dette parti contraenti permetterà, che alla portata del cannone delle coste, né nelle baie, porti o riviere dipendenti dal suo territorio, le navi o i beni appartenenti ai cittadini o ai sudditi siano catturati dalle navi da guerra, o altre che abbiano commissione da qualche principe, repubblica, o stato qualunque (2). Sono dunque permesse le catture in pieno mare.

Sulla seconda proposizione notiamo, che non vi à distinzione tra il pirata vero e l’occulto: e tale sentenza, non solo è della dottrina, ma pure delle leggi positive di tutt'i popoli, e della stessa Inghilterra e degli Stati Sardi.

Le leggi particolari dell'Inghilterra e degli Stati Uniti di America assimilano ai pirati gli individui che si abbandonano alla tratta de' negri: è lo stesso in Russia dopo il trattato del mese di dicembre 1841 conchiuso da queste tre potenze con l’Inghilterra per l’abolizione della tratta (3).

La legge per la sicurtà della navigazione e del commercio marittimo della Francia del 10 aprile 1825, pareggia ai pirati coloro che commettono violenze in tempo di pace, o che non abbiano in regola le carte di bordo, o che sono conniventi coi nemici.

La legge penale della marina mercantile del regno di Sardegna del 13 gennaio 1827, diversa dall’altra sulla marina mercantile della stessa data, da noi più volte memorata, agguaglia ai pirati le navi che commettessero violenze o depredazioni contro bastimenti o sudditi di potenza amica, ed in altri casi simili (4).

Cosicché, se un bastimento da guerra inglese incontrasse in alto mare un bastimento mercantile, di chiarita nazionalità, e con le carte di bordo in regola, ma che fosse sospettato di far la tratta de' negri, dopo di averlo arrestato e visitato, lo catturerebbe e se ne impadronirebbe; non già perché fosse pirata vero e di origine, ma perché tale divenuto per causa della deviazione dal suo scopo commerciale. Come pure in Francia, o in Sardegna, sarebbero riputati pirati quei legni ai quali mancasse qualche carta interessante di bordo richiesta dalle leggi, o che avessero commesso depredazioni ed atti di ostilità contro sudditi di una Potenza amica.

In queste condizioni non pure, ma in peggiori di queste si trova costituito il Cagliari a fronte del reame delle Due Sicilie.

In vero, sulla terza proposizione avvertiamo una serie di fatti pruovati e non contraddetti dalla stessa Compagnia Ruhattino, ed i quali, non pure sono stati trascurati pienamente dal signor Phillimore, ma sono stati svolti e surrogati da altri che non esistono (1), né punto, né poco.


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I

PARTENZA DEL CAGLIARI DA GENOVA

Il Cagliari non aveva, tra le carte di bordo, i verbali di visita, il passavanti, l’atto di proprietà del bastimento (1).

Esso portava armi in gran copia, non già da lusso, ma da guerra, quali erano i moltissimi boccacci, non denunziati alla Dogana di Genova e che confessò lo stesso Capitano Antioco Sitzia di essere rinchiusi nelle casse (2).

Aveva imbarcato il Cagliari anche munizioni da guerra, che servirono pei fatti ostili consumati in Ponza ed in terra ferma dallo stesso suo equipaggio, dai passaggieri e dai rilegati di Ponza da esso liberati: coteste munizioni da guerra non si leggono descritte sul ruolo dell'equipaggio dall'autorità che glielo à rilasciato (3).

Mancavano le matricole a nove de' 33 individui, che componevano l’equipaggio del Cagliari (4). Ed erano questi le persone più cospicue di un legno qualunque, cioè dire, il nostromo, il pilota, i camerieri, ed i macchinisti del battello.

Dei 32 passaggieri, 22 mancavano di passaporto. Tra questi vi eran molti di mentito nome.

I l registro di navigazione, nel quale era inserito il ruolo dell’equipaggio, e che è il documento massimo di un bastimento, era in più luoghi interpolalo per molte lacune (5).

Il capitano difettava delle carte autentiche a lui bisognevoli, e conservava invece nello astuccio di latta, le antiche carte di soggiorno ed i passaporti di non pochi ribelli, tra i quali di Giovanni Nicotera, uno degl'imbarcati sul Cagliari!

Giunto il Cagliari a Ponza, sotto pretesto di avarie avvenute alla caldaia, entrò nel porto, rompendo le leggi sanitarie: arrestò le autorità di Marina, disbarcò nell'isola, non solo i passaggieri, ma lo stesso suo equipaggio; tutti armati di schioppi, di boccacci, e provveduti di munizioni da guerra, che in contrabbando trasportava: i discesi recaron pure gran copia di armi per rifornirne coloro che seguissero la rivolta.

I passaggieri e l'equipaggio, arrestarono le autorità militari dell'isola; pugnarono con le truppe Regie che ne formavano la guarnigione, nella quale zuffa morì il comandante, tenente Balzamo; fu ferito l'aiutante Ranza; mille altre enormità ed atti più che ostili furono commessi, e che tutti sono descritti e pruovati nel volume e nei documenti, che dice il signor Phillimore di avere profondamente consultato; ma che nel vero, o sono sfuggiti alla sua attenzione, o li à precipitosamente percorsi (1).

E conchiuse la serie di tante enormità l’avere i ribelli e l’equipaggio proclamalo in Ponza la repubblica italiana con vesti rosse e con bandiere tricolori, bruciando e disfacendo gli stemmi e gli emblemi della Potestà legittima e le immagini dei nostri Sovrani; disserrando i luoghi di pena, incendiando gli archivi dell’autorità giudiziarie, militari, amministrative e municipali; finalmente chiodando i cannoni delle batterie ed affondando la Reale scorridoia che stava a guardia del porto, dopo di averla depredata.


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II

PARTENZA DEL CAGLIARI DA PONZA

Sono pruovati del pari i seguenti fatti avvenuti nei viaggio, che il Cagliari muoveva dall'isola di Ponza per Sapri e per la terraferma del regno: Il capitano Sitzia dispensava le armi agli evasi

da Ponza, incoraggiava tutti alla guerra ed alla ribellione: egli stesso riduceva la polvere da sparo in cartucce; ed era finalmente in perfetto accordo ed amistà con Carlo Pisacane, capo superiore di quelle bande (2).


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III

RITORNO DEL CAGLIARI DA SAPRI

Nel momento della cattura, evidentemente il Cagliari non navigava per Napoli. Per arrivare a questa città la via diritta ed usitata comunemente per chi viaggia, partendosi dal mezzogiorno, ossia dal golfo di Policastro è quella delle bocche piccole di Capri. Per contrario; il Cagliari batteva la rotta nel gran mare e fu incontrato a sei miglia di distanza da quell'isola a sud-ovest; il che significa che su quel rombo navigando, si dirigeva difilato, o a Ponza o a Genova.

Le Regie fregate, immediatamente spedite alla caccia di quel piroscafo, che già si conosceva essere di bandiera sarda, e dopo la piena cognizione degli avvenimenti di Ponza, benissimo avevano il diritto di visitare, perquisire ed arrestare quel piroscafo, meno per sospetto di pirateria, che meglio per la certezza di molti esercizi di tal natura, misti ad ostili aggressioni contro una parte del reame delle due Sicilie.

Ed il verbale di cattura di quel legno, ed i rapporti del comandante superiore delle Regie fregate, non contraddetti, descrivono di aver rappresentato il ponte del Cagliari, al momento dello arresto, lo stato di un campo di battaglia, qual rimane in esito di una sanguinosa giornata.

Vi si rinvennero le casse di armi vuotate: boccacci, fucili a due colpi, la carabina del capitano, e pistole tuttora carichi, qua e là dispersi: due fucili dell'esercito napolitano, anche carichi (quelli tolti alla guarnigione di Ponza): una spada nuda di modello per gli uffiziali dello stesso esercito (quella tolta all’infelice tenente Balzamo, morto nel combattimento di Ponza): due baionette anche dell’esercito suddetto nascose trai sacchi di frumento: feriti confusi con l’equipaggio, dei quali due erano passaggieri ribelli, a nome Cesare Cori ed Amilcare Buonomo, ed il terzo appartenente all’equipaggio del Cagliari, in qualità di uno dei camerieri, a nome Lorenzo Acquarone (1).

Or qui ritorna opportuno rammentare, con quanta leggerezza Io scrittore del consulto non à riscontrato in tutti i fatti commessi dal Cagliari, niss u n carattere di pirata, fino ad asseverare, in aria di sorpresa, che non si allegava dai catturanti che nel punto della catturata, esisteva ancora a bordo anche un solo ribelle!

E qui cade pure in taglio segnalare un altro estremo mo m entosissimo.

L’incontro delle Reali fregate, il Tan c redi e l’Ettore Fieraraosca col Cagliari avveniva alle 9 Va antimeridiane del giorno 29 giugno 1857.

Si sapeva allora, che l’assalto di Ponza aveva progredito, per aver riversato quel piroscafo sul continente del regno grosse squadre di ribelli, ma s’ignoravano tuttavia gli eventi della ribellione, i quali non f u ron noti che dopo il 3 luglio, ed in esito delle due fazioni militari di Padula e di Sanza.

Ferveva la rivolta e la guerra intestina in quel giorno, che sta di mezzo al 27 giugno ed al 3 luglio. Ed era pure possibile che la rivoltura avesse divampato, o potesse divampare nel regno, e levarsi a quell'altezza formidabile, cui vorrebbe che giungesse il signor Phillimore. Dunque l’arresto, la visita, e la cattura avvennero, non solo sopra un legno sicuramente pirata, ma nel tempo in cui si combatteva tra il Governo costituito ed i ribelli, ed erano tuttavia incerte le sorti delle battaglie, e perciò si verificarono sopra un legno, anche riguardato ragionevolmente nemico, in tempo di guerra di dubbio risultamento.

Dopo tutti gli elementi di fatto assembrati i n larga copia, precisi e positivi, non sapremmo giustificare la opinione del signor Phillimore, che se mai avevasi QUALCHE MOTIVO DI LAGNANZA contro il Cagliari, era manifesto, giusta ogni principio di gius intemazionale; che invece di catturare, come si fece, questa nave in piena pace ed in alto mare, la si doveva lasciar proseguire LIBERAMENTE la sua strada, e poi proporre al Governo sardo i gravami che contro di essa si avevano, oppure farne istanza innanti ai Tribunali, ai quali solo spettava il giudicarne, cioè ai Tribunali della potenza amica.

In altri termini; il vizio del ragionamento contrario dipende da due evidenti trascorsi:

Il primo, di volere, ad ogni costo, invertire i tempi, e supporre il Cagliari costituito nello stato di mero sospetto di pirateria.

Il secondo, di non voler tener presenti i fatti da lui compiuti.

Se il Cagliari, prima di arrivare a Ponza, e prima di consumare tutte le enormità che consumò in quell'isola, fosse stato incontrato dai legni da guerra napolitani, soltanto prevenuti del suo disegno; di fermo, che rimanendo circoscritto il dubbio al solo sospetto sfornito del corredo dei fatti; dopo la visita del legno non vi poteva esser luogo alla cattura.

Ma quando quel piroscafo fu incontrato, dopo la consumazione dei fatti, che lo svestirono del semplice sospetto e lo rivestirono della certezza dei caratteri di pirata e d’inimico, la visita, la perquisizione e la cattura del medesimo sono state legalmente eseguite.

Né qui si rimane il signor Phillimore, ma ritiene che non era un capo di accusa da dover far ritenere pirata il Cagliari, il difetto delle carte necessarie di bordo.

Procede innanzi anche di più ed asserisce, che nel discorso pubblicato pei catturanti si contenga la proposizione: se il Cagliari non era egli stesso pirata, era divenuto proprietà di pirati, e come tale era stato catturato. Cita il signor Phillimore la pagina 114 di quel discorso. Cotesto rimando sempre più ci riferma nella persuasione, che egli non abbia degnato quel discorso, neppure di una occhiata fuggitiva.

In quel luogo, che forma il compimento del capo quinto (1), non si parla, né punto, né poco de' caratteri piratici del Cagliari, ma invece si discute l'altra tesi, indipendente dalla prima, cioè dei caratteri distintivi dell’inimico del regno, e si conchiude la disputazione con le seguenti parole: un dilemma atterra l'effimero ragionare del convenuto, o è stato consensiente il capitano Sitzia e l'equipaggio; o àn patito la forza maggiore. Nel primo caso il capitano e l'equipaggio sono nemici del regno: nel secondo caso il possesso di fatto del legno è stato preso dai ribelli, ed anche di questo legno ne sarà sempre legittima la preda, salvo al Rubattino, o a chi per lui il regresso per la indennità.

È manifesto adunque che l’autore della consultazione non à voluto distinguere la quistione di pirateria dall’altra ugualmente efficace e feconda di effetti, cioè, della inimicizia al regno, per virtù dell'aggressione ostile praticata dal Cagliari.

Ecco come torna inopportuna la dottrina del B Y NKERSHOEK, che i pirati non mutano di dominio, recata in mezzo dal signor Phillimore.

Di questo principio non ne facciamo contrasto, abbenché sia male invocato al nostro proposito; che anzi aggiungiamo, che i pirati non anno alcuna nazionalità, e sono i nemici comuni di tutto l'uman genere, al dire di FRANCESCO BACONE DA VER Y LAMAIO (2) : che di conseguente non ànno diritto ad acquistare, né bastimenti, né robe che essi furano ai legittimi proprietari.

Ma sappiamo ancora che, comunque per osservanza di tali assiomi, coloro che riprendono dai pirati, o veri o divenuti tali, le proprietà dei derubati, dovrebbero a costoro restituirle; nullameno, pel grave pericolo che corrono e per un guiderdone al loro valore, ne divengono legittimi proprietari, rimanendone i veri, spogliati di ogni dominio su di quelle cose. Questo è il sentimento di GROZIO (1), di CASAREGIS (2), di D HARREU (3).

E sappiamo pure che, tra molte nazioni, la Inglese à adottato questa opinione, formandone un punto di regolamento generale.

L’Inghilterra à stabilito: che se qualcheduno commette qualche pirateria contro i sudditi di qualche principe o repubblica, comunque in pace con l'Inghilterra, e che le mercanzie fieno vendute in pubblica piazza, esse resteranno a coloro che le ànno comperate, ed i proprietarii saranno delusi nelle loro pretensioni (4).

Noi conchiuderemo questa prima trattazione compiuta dal signor Phillimore, con ritenere per certo, che il Cagliari viaggiava, non bona, sed mala et pessima fide: e che non solo per la mancanza delle sole carte di bordo, ma per tutti i su notati avvenimenti, giustamente i catturanti ne domandavano la buona preda. Come ancora diciamo di essere mal fondato lo stupore, di che fu preoccupato l’autore del consulto, tosto che si è dimostrato, che quella proposizione non si assunse mai, e che tanto meno il Governo di S. M. il Re del Regno delle Due Sicilie, abbia mai sognato di alterare, nei suoi codici, la definizione della pirateria da quella che ritengono le leggi generali delle Nazioni.

Il Signor Phillimore passa ad esaminare l’altro motivo, pel quale venne legittimata la preda del Cagliari dalla Commissione, cioè di essere stato preso in tempo di guerra e nell'esercizio de' dritti di propria difesa, spettanti alla Corona delle due Sicilie.

A quel che sembra, se i fatti consumati dal Cagliari possono rivestire il carattere di guerra mista, lo scrittor del consulto ammetterebbe la legittima preda del Cagliari.

Egli però s’impegna a pruovare che gli avvenimenti operati da quel piroscafo non possono rientrare nella dottrina della guerra mista.

Ed è pur curioso incontrare a questo proposito un’altra maraviglia del signor Phillimore, e che egli fa consistere nel vedere che si cerchi giustificare la cattura di un bastimento straniero con due argomenti affatto disparati e contraddittori, cioè allegando, in un luogo virtualmente uno stato di pace, e facendo un’accusa di pirateria, e nell’altro allegando uno stato di guerra, e ponendo innanzi un diritto di preda.

Ben si apporrebbe l’autore della consultazione, se fosse un domina di fede il suo divisamento, cioè dire che la pirateria vera, o divenuta per occasione e per ragionevole sospetto, esista nel solo tempo di pace. Ma il suo credere è distrutto radicalmente dall’esperienza, la quale grandemente ne ammaestra, che i pirati, o veri, o tali divenuti maggiormente corrono i mari e si abbandonano ai ladronecci, alle depredazioni ed alle offese in tempo di guerra, quando cioè l’incertezza, la concitazione e l’inseparabile scompiglio delle relazioni e dei rapporti tra i belligeranti, alleati, e Governi amici e neutrali, prestano più sicura e favorevole occasione di commettere, quasi impunemente, soprusi, rubamenti e ribalderie di ogni specie.

Tutta la disputazione tessuta dal Signor Phillimore si può riassumere in un solo concetto (sceverando dal suo dire la parte che riguarda i detti memorandi di uomini onorevoli), perché rigorosamente, non debbe figurare sul terreno della scienza, conforme al metodo da lui annunziato sul cominciare della consultazione:

«La sola guerra pubblica, esercitata tra due Potenze costituite, o quella che può chiamarsi mista ed intestina, ammettono gli usi di guerra ed i rigori della preda».

Ma per consentire e riconoscere il bellum mixtum è d’uopo che vi esista un conflitto civile fra un governo de jure ed un governo de facto, quale conflitto assume le proporzioni e va collocato nel novero delle guerre regolari, e che seco tragga tutte le conseguenze di una guerra nei suoi effetti rispetto a Stati stranieri.

Reca lo scrittore molti esempi, ed anche quello della Sicilia dell anno 1848, i quali, a ribocco, li avevamo pure annoverati nel nostro discorso.

Poscia egli osserva così: ma la ragione delle cose e l’usanza, questi due grandi fonti del gius internazionale,rendono manifesto corrervi una enorme differenza fra casi come quelli da noi citali, dove ebbervi giuste battaglie ed impiego di forze regolari da ambe le parti, ed una avventura isolata di una mano di ribelli, come la fu quella di che presentemente si tratta, dei cospiratori di Ponza e di Sapri.

Molte e possenti ragioni combattono e superano le riferite avvertenze del signor Phillimore.

1. L’inflessibile principio di dovere ammettersi gli usi di guerra ed il rigore delle prede, soltanto nelle guerre pubbliche e solenni, se venne meno, non Io fu per pronunziato razionale, ma meglio per effetto di fatti consumati, ed i quali però non cominciarono che da umili e tenui aggressioni. Dal primo esempio della separazione dei Paesi Bassi dalla Corona delle Spagne, cominciò Grozio a riconoscere il bellum mixtum, seu intextinum (1).

La scuola che gli successe considerò, che nel corpo del diritto romano, si riconobbe il caso della preda legittima, anche nella ipotesi di civile dissensione e senza l'estremo pericolo della repubblica. E la considerazione fu esatta, perché ammette ULPIANO la vendita dell'uomo libero catturato nelle discordie cittadine, e la manumissione che di lui ne abbia fatto il comperatore. Solo osserva che quella vendita non offendeva la ingenuità originaria dell’uomo libero, preso, venduto e poi manomesso (1).

Ripetendosi sempre più i funesti esempi delle ribellioni de' popoli contro delle legittime Sovranità, si fu di accordo per ammettere gli usi di guerra, anche quando, non tutto un regno, non la metà dello stesso, ma quando una sola parte, o una provincia si levasse contro l’antico Sovrano (2).

Sempre più, per impero dell'esperienza, Gaspare-Zieglero riconobbe il diritto di preda, sia nella guerra solenne, sia nelle mere dissensioni civili (3).

GIACOMO CENCIO, per modo di regola stabilì, che in generale, dove non più si poteva contenere la rivolta col diritto civile e coi magistrati, qualunque ne fosse la proporzione, era lecito usare della forza e delle armi; vale dire subentrava al jus imperii immediatamente l’altro che dicesi majestatis et gen t ium (4).

Da ultimo, ALBERICO GENTILE, precursore del GROZIO, pubblicista italiano, e che per la sua dottrina fu onorato in Inghilterra di una cattedra nella università di Oxford, elevò a pronunziato gerarchico ed universale, che vi è sempre guerra, tutte le volte che questa si eserciti con armi a modo ostile (5). Egli prefisse pure il canone di dritto pubblico, che non solo era lecita la guerra difensiva, ma pure la preventiva, all’intento d’impedire o spegnere i principi delle offese: canone che eminentemeute trova sede nelle guerre miste iniziate: nemo expectare debet, nisi sit fatuus. Obviam offensioni eundum, non modo quae est in actu, SED EI Q U OQ U E Q U AE EST IN POTENTI A AD ACT U K (6).

Ecco l’origine della dottrina dei tempi prossimi, vale dire di dover riguardarsi come guerra mista e dover applicarsi i rigori bellici, anche nella guerra iniziale e non ancora salita a forme gigantesche ed a formidabili proporzioni.

Ne abbiamo un esempio appunto nel caso della rivolta Siciliana, riferito dallo stesso signor Phillimore.

Nel 1849, era quasi interamente riconquistata la Sicilia alla legittima Sovranità: alcune parti di quel reame ed alcuni porti non erano stati ancora occupati dalle truppe Regie. Intanto, il Corpo diplomatico, nel quale figurava il Ministro Plenipotenziario della Gran Brettagna, pregò il nostro Sovrano di far comporre e pubblicare un regolamento pel blocco della Sicili a (1), ed il quale fu approvato nel 1.° aprile e fu inserito per tenore nel giornale uffiziale del 17 dello stesso mese ed anno.

In cotesto regolamento si assimilano i pochi resti dei siciliani ribelli agli inimici del regno e si mettono a confronto delle Potenze nemiche: si ritiene la guerra come pubblica: si ammettono legalmente le prede e le riprede (2).

Né reca meraviglia il contesto del regolamento del blocco ed i principi che vi si trovano stabiliti; dappoiché tutte le Potenze Europee riconobbero in quel rincontro una guerra mista, pari alla solenne, allorché richiesero per mezzo de' loro rappresentanti, che a tutela dei rispettivi sudditi e del loro commercio, si provvedesse al blocco del rimanente della Sicilia. Nel vero; blocco senza guerra non à legittima consistenza nel diritto pubblico delle genti. L'uno necessariamente include l’altra.

Egli è dunque un principio dettato dalla ragione e dall’usanza dovere considerarsi, anche il fatto isolato di un’aggressione ostile consumato da qualunque siesi, con legno per via di mare., come guerra mista, tutto che in quel punto iniziata, e non progredita al segno di veder costituito un Governo di fatto.

La ragione della eccezione, ossia dell'ampliato principio, risiede nella necessità di accorrere in tempo, e nel non permettere che la guerra iniziata progredisca al segno che divenga impossibile alla legittima Sovranità di opprimerla e spegnerla.

Di più, la ragione consiglia di non rendere la condizione dell’aggressore, in tempo di pace, migliore di quella, in cui si trovano i sudditi di una Potenza belligerante, in tempo di guerra pubblica; imperciocché, nelle guerre pubbliche, i bastimenti di qualunque suddito nemico, anche pacifico e tranquillo che si fosse, sono predati legittimamente.

Or, a parere del signor Phillimore, nelle repentine aggressioni in tempo di pace, il nemico aggressore dovrebbe godere della fatale indulgenza della restituzione del legno, servito di mezzo all’aggressione. E la quale indulgenza (una volta prefisso il principio) dovrebbe ripetersi, al secondo, al terzo, al quarto ed al centesimo insulto, e si dovrebbe tollerar del continuo fino a quando non venisse il momento, che la Sovranità offesa, già rifinita di forze, non soffrisse tale un empito nemico, che fosse valevole, o ad abbatterla interamente, o a porla in istato di difficile difesa.

E mentre così consiglia la ragione, fa rilevare nel tempo stesso, che nissun pericolo e nissun danno ne procederebbero alla tranquillità degli altri Stati; dappoiché la punizione, per via di preda, del legno offensore si limita ad esso solo, che si è costituito nella posizione eccezionale dell’arrecata violazione al diritto delle genti. Di conseguente, restano esclusi ed assicurati tutti coloro, che stando fedeli alla regola del rispetto a cotesto diritto, non ànno a temere pregiudizio di sorta alcuna.

Veramente poi c’ invade giusta sorpresa nel riflettere che l’estensor del consulto vegga nella quistione del Cagliari un tentativo per porre a repentaglio la marina mercantile degli stranieri; apportare disturbo nei rapporti delle Potenze amiche o neutrali ed ingenerare pericoli nei trattati, nelle intervenzioni e nelle alleanze.

Qui neppure, il signor Phillimore à voluto distinguere il fatto dal diritto, ed immagina spaventevoli timori propri, meglio di una fervida fantasia, che di un sano intelletto qual'è il suo.

Nissun pericolo, nissun disturbo, nissuna alterazione.

Nelle guerre miste, anche che un reame, o una considerevole parte del medesimo si levi all'altezza di un Governo di fatto ed osteggi l’antica Sovranità fino al punto di vincerla; cotesto Governo consiste sempre in fatto e niente rappresenta politicamente nelle relazioni internazionali con gli altri Stati.

Dopo che sarà esso stesso riconosciuto, acquista il diritto, perché comincerà a figurare tra gli Stati costituiti. Ed in questo caso, le faccende procederanno diversamente, perché il fatto si è tramutato in diritto.

Tanto avvenne nelle guerre intestine che travagliarono la Spagna coi Paesi Bassi; la Casa d’Austria con la Svizzera; la stessa Spagna col Portogallo; l'Inghilterra con le sue Colonie dell'America settentrionale; l'Olanda col Belgio; la Grecia con la Por t a Ottomana. E tanto sarebbe avvenuto al reame di Napoli con la Sicilia, nel 1848.

Ma tutte coteste separazioni, non uscirono dai confini del fatto per entrare nel campo del diritto, se non quando furono, a mano a mano riconosciute da tutte le Potenze. E durante l’aspra contesa, tra le province ribellate e le legittime Sovranità, cioè dire nell'intervallo tra il fatto ed il dritto, le prede che si esercitarono non misero mai, non diremo in pericolo, ma neppure in dubbio, ovvero in ansia coteste Potenze, e tanto meno alterarono i trattati, le alleanze, le intervenzioni, e la marina commerciale di alcuna di esse.

Se ciò avviene nel maggiore e nel massimo punto della guerra intestina; che si dirà nel punto minaccioso, ma primordiale di essa?

In questa ipotesi, che è la nostra, come fu quella della Francia pel Carlo-Alberto, tutti rimangono come si trovavano per lo innanzi, e vien represso l’unico infra t tor contumace del sacro diritto delle genti.

La ragione medesima efficacemente suggerisce quanto abbiamo finora avvertito, perché nei primordi delle guerre miste, mancano i rimedi e le pratiche preventive che facilmente possono attuarsi nelle guerre pubbliche. Le prime cominciano nel fitto buio e si mostrano di repente con l’impeto della rivolta. Le loro diramazioni, le loro risorse, i loro accordi, l’estensione delle loro forze sono, o del tutto ignote, o poco conosciute. Non v’à con chi trattare, discutere e fermare consigli. In cosiffatti perigliosi frangenti, il più fino avvedimento non sa prevedere il corso, le fasi, il termine e la riescita delle rivoluzioni. Esse perciò vanno spente nel loro primo istante di manifestazione in tutti i modi e con tutti i rigori.

L’usanza poi, porge anch'essa esempi illustri della dottrina della guerra mista nel caso della isolata aggressione ostile.

Qui torna a proposito l’esame della quistione del CARLO ALBERTO avvenuta in Francia, Panno 1832.

Non v’à dubbio che allora si trattava di legittimo arresto de' passaggieri imbarcati su quel piroscafo. Ma debbe avvertirsi che la Corte di Aix non si governò nei modi comuni, e tanto meno consultò le leggi penali imperanti in Francia, le quali formano una parte del suo dritto privato; ed invece si volse a disaminare il diritto pubblico internazionale, cioè delle genti, e ne trasse per conseguenza la liberazione degli arrestati, pei riguardi e per le franchigie dovuti, in tempo di pace, al bastimento ricoperto della bandiera di nazione amica.

Sul ricorso del Procurator Generale, s’impegnò gravissima controversia nella Corte di Cassazione; se cioè la Corte di merito avesse ben giudicato, applicando al caso le massime stabilite per diritto di natura e delle genti.

Nella discussione profonda di questi principi, il famoso DUPIN (Procuratore Generale, e non Presidente, come dice il Signor Phillimore, presso la Corte di Cassazione), dimostrò lucidissimamente, che per la esatta osservanza di quei principi, evidentemente il Carlo Alberto offriva il caso di BUONA PREDA, anche che fosse naufragato sulle coste di Marsiglia.

E ciò, ad occasione e per motivo delle ostilità commesse per suo mezzo a pregiudizio della Francia. Quindi il grande uomo censurava anche d’incompetenza la Corte giudicatrice, da che il giudice competente delle prede e de' naufragi era il Consiglio di Stato (1).

Quel supremo Magistrato annullò la decisione, ma proclamando nel mentre stesso un principio generale in punto di diritto delle genti, cioè dire che i bastimenti di bandiera amica sono esclusi dal privilegio del diritto delle genti, dal momento in cui commettono degli atti di ostilità contro de' Governi amici: e che in questo caso essi divengono inimici E DEBBONO RISENTIRE TUTTE LE CONSEGUENZE DELLO STATO D I AGGRESSIONE, NEL QUALE ESSI SI SONO PIAZZATI.

È dunque manifesto che ad occasione della causa dell'arresto de' cospiratori, fu sancita la massima di giure pubblico proclamata da quella grande nazione, ed invocata dai catturanti del Cagliari: come del pari è manifesto non esser vera l’asserzione dello scrittor del consulto, che la Corte si niegò di condannare il CARLO ALBERTO come preda.

Non poteva far questo quel Magistrato, precisamente perché la quistione della preda non era della competenza dei giudici penali, ma si bene del Consiglio di Stato. Di più ancora, la Corte di Cassazione, per sua sublime istituzione, non giudica, ma soltanto nel l’interesse della legge si limita a discutere della giustizia, o ingiustizia del giudicato profferito dai giudici di fatto sul ricorso delle parti.

In altri termini; non si può arrestare alcuno sul territorio straniero, ma nullameno si ritenne legale l’arresto dei cospiratori sul territorio sardo (sul Carlo Alberto). Perché questo? Perché si proclamò la massima da noi di sopra memorata, cioè della derogala garantia del diritto delle genti verso un bastimento che se n’era renduto indegno.

La cosa è così chiara, che sdegna e rifiuta qualunque ulteriore illustrazione.

E piace da ultimo osservare, come si è ritenuta in Francia la massima inculcata dal D UPIN e sancita dalla Corte di Cassazione.

FA E STIN HÉLIE la professa, sì come la sostengono i catturanti, ed aggiunge che conforme all'avviso del CONSIGLIO DI S TAT O, l’alleato o il neutrale, nel caso in cui il naviglio rispetta il diritto delle genti, gode della franchigia che questo gli accorda; ma che per gli atti di ostilità, cessa la franchigia e diviene quel legno sottoposto a tutte le conseguenze delle ostilità da lui commesse a fronte dello Stato attaccato, il quale si trova nella condizione di usare della legittima difesa per respingerle, e di esercitare tutt'i mezzi per assicurarsene (1).

ORTOLAN si uniforma al prelodato scrittore, ed aggiunge che lo Stato attaccalo à il diritto di prendere tutte le misure necessarie alla sua difesa contro del bastimento aggressore, tanto nelle acque territoriali che in pieno mare (2).

Il celebre ROVER COLLARD passa oltre e sostiene che cade nella preda il legno aggressore, anche nel caso che abbia fatto naufragio, e cita le requisitorie di D UPIN e l’arresto della Corte di Cassazione del 7 settembre 1832 (3).

Oltre a tutto questo, non è inutile richiamare l'attenzione dei pensatori sulla dottrina invalsa nel caso isolato dei fatti ostili, pei quali qualunque bastimento soggiace alla preda legale.

Tanto imponente è la ipotesi della guerra materiale, presa giustamente in grande considerazione dai Governi e dagli Stati, che anche il bastimento nazionale (ipotesi gravissima) che combatta contro i bastimenti Regi del proprio Stato è soggetto a preda legittima, oltre alla punizione del capitano (4).

Ed anche è principio riconosciuto dai pubblicisti antichi e moderni, che il bastimento amico o neutrale è passibile della buona preda, allorché senza far atto di ostilità e senza principio di giustizia dipendente dalla dichiarazione di guerra pubblica con la nazione cui esso appartiene, faccia commercio di contrabbando, o conduca merci, o si diriga ad un porto, al quale sia vietato l’accesso (1).

Adunque è dottrina antica, e che diremo inconcussa, l’ammissione degli usi di guerra e di legittima preda contro gli amici e neutrali, non solo pel caso della materiale aggressione ostile, ma pure per l'altro del semplice sospetto di recarsi aiuti o favori ai nemici.

Nel fatto poi è notevolissimo, che l'assalto di Ponza non segnò un avvenimento infecondo di effetti nocenti: non si arrestò all'offesa solitaria, come pel Carlo Alberto in Francia. Ma quel fatto di Ponza progredì per opera dello stesso Cagliari, che vomitò in altro luogo del territorio del regno (2) numerose squadre ordinate a guisa militare, dal bordo dello stesso piroscafo provvedute di armi e di munizioni da guerra. Durò il conflitto tra il legittimo Governo ed i ribelli, e lo stato di repubblica da questi proclamato in Ponza ed in terraferma, ben sette giorni, e non ebbe termine che con le pugne sanguinose di Padula e di Sanza. E fu Provvidenza di Dio, che non permise alcun raffreddore nella fedeltà dei popoli e sorti avverse al valore delle truppe, per non vedere riprodotte le funeste sovversioni dell’anno 1848.

Noi stessi non sappiamo immaginare che altro doveva attendere la Corona delle Due Sicilie, per darsi luogo alle teoriche delle guerre miste.

Il principio di conservazione delle legittime Sovranità, che include l’altro di preservazione delle medesime è gerarchico ed incrollabile, per sentenza del diritto pubblico internazionale. Di cotesto principio oggi accade di farne applicazione nella controversia del Cagliari.

Non doveva poi lo scrittore del consulto, notar con aria di sorpresa il contemporaneo procedimento, penale e di preda:

1. ° Perché le guerre miste che s’ingenerano dal fatto, a differenza delle guerre pubbliche che nascono dal diritto, includono essenzialmente due fatti: uno di violazione al diritto privato penale; l’altro di violazione al diritto delle genti. Questo porge argomento al giudizio di preda, quello presta occasione al giudizio penale, per punire gli autori del reato commesso contro la sicurezza esterna dello Stato.

2. ° I due giudizi sono tra loro indipendenti e distinti, per principi, per procedimenti, per gli effetti giuridici, pei Tribunali che sono chiamati a conoscerne, per le leggi che vi provvedono, e più di tutto, per la diversità della causa del domandare e della cosa che si domanda.

3. ° L’azione penale per misfatti è pubblica e mira alla conservazione della tranquillità pubblica; l'azione per le legittimità della preda è civile, privata, appartenente ai predatori e tende all’appropriazione del legno per virtù della occupazione bellica.

4. ° La causa prossima dell’azione pubblica è quello, o quell’altro reato commesso; la causa prossima del fatto della preda è la inimicizia contro il regno, la quale si risolve nella conservazione e preservazione della offesa Sovranità: fatto indefinibile dai giudici penali, perché sconfina dai limiti della loro competenza.

Diversificando la cosa e la causa dei due giudizi, questi ben possono amendue andar paralleli, senza scalciarsi a vicenda, perché il penale non può costituire mai pregiudicato al civile e creare la eccezione di litependenza (1).

Da ultimo, il signor Phillimore sostiene non essere competenti i Tribunali napolitani, comunque aditi dai convenuti in giudizio, perché i diritti sostenuti dal Governo Sardo, sono diritti internazionali fondati su ragioni di ordine pubblico, e perché non vi è il di lui consenso.

La ragione delle cose e l'usanza che, a parere dell’inglese giureconsulto, sono le due grandi fonti del gius internazionale, si pronunziano contro di lui.

1. ° La cattura del legno è il primo fatto iniziale del giudizio di preda: è il primo punto di partenza di quel procedimento. La sua legalità o illegalità è l'elemento primario, inerente ed immedesimato alla quistione di legittimità o d’illegittimità della preda del legno catturato. Se mai la quistione della legalità della cattura si distaccasse dal processo degli atti e volesse considerarsi isolatamente ed isolatamente decidersi, da un corpo si spiccherebbe il capo che lo anima ed informa. Ne discenderebbe la conseguenza contraddittoria ed inevitabile, quella cioè che la Diplomazia diverrebbe il giudice esclusivamente competente delle cause di preda; da che dessa si riterrebbe unico giudice competente dell’atto di cattura.

E questo assunto diviene verità innegabile, perché contro di qualunque cattura, considerata isolatamente, può elevarsi dubbio d’illegittimità, o pel luogo, o pel modo, o per le cagioni, per le quali è avvenuta. Laonde, ritenere diplomaticamente legittima, o illegittima la cattura di un bastimento, equivarrebbe a decidere virtualmente ed anticipatamente della legittimità o della illegittimità della preda. A questo modo, nell'un dei casi, niente rimarrebbe ai Tribunali istituiti per conoscere di tali quistioni, men che di essere passivi alla decisione fatta nelle alte regioni del Potere dintorno alle catture dei bastimenti.

2. ° Ma che la quistione succennata deve essenzialmente rientrare nella competenza dei Tribunali istituiti all'uopo, si giustifica per un altro principio.

La cattura può essere illegittima, indipendentemente dalla esistenza de' caratteri di pirateria o di guerra, cioè dire può essere nulla ed invalida, o perché si sono trascurati gli atti comandati dalle leggi in quel rincontro, o perché non si è assicurato il legno catturato nelle guise prescritte dalle stesse leggi.

Certo che di questi fatti non potendosi occupare la Diplomazia dei Governi, ne conseguita come corollario incontrastabile, che i Tribunali delle prede sono gli unici ed esclusivamente competenti a conoscere e statuire nei giudizi di prede, a cominciare dalla quistione della legittimità o della illegittimità della cattura del bastimento.

3. ° La stessa ragione delle cose à persuaso all’universale, che i Tribunali dello Stato del catturante sono i competenti. Se fosse il contrario, o non vi sarebbero Tribunali a poter pronunziare (se la cattura succedesse in pieno oceano, o distantissimo), o il Tribunale dell'offensore giudicherebbe sopra i fatti della offesa, commessi nel territorio dell'offeso! Sarebbe questo uno assurdo inconcepibile.

4. ° Di più, non essendosi ancora consentito da tutte le Sovranità e da tutte le Nazioni un codice internazionale comune, la ragione delle cose à suggerito il mezzo di far valere contemporaneamente tutte le leggi proprie di ciascuna Sovranità o Stato, ma come una composizione transattoria per la reciproca amicizia ed utilità. Di qui è surto il diritto internazionale privato, che non lascia di appartenere inerentemente ed essenzialmente al diritto pubblico generale.

5. ° La dottrina degli statuti, personale, reale, e misto, cioè degli atti e dei fatti e delle diverse regole che li governano, si rannoda; anzi prende origine dal diritto internazionale.

Nullameno, i Tribunali di ciascuna Sovranità, o di ciascuno S t ato, sono competenti a conoscere ed a giudicare di tali quistioni, applicando il diritto internazionale privato, sempre con la guida di rendere omaggio alle leggi estere, senza pregiudizio però delle nazionali e dei diritti di protezione della propria sudditanza.

Lo stesso metodo si pratica, tutte le volte che si tratta di eseguire un giudicato profferito in paese straniero.

Da PAOLO VOET (1) fino al FOELIX (2), che allega moltissimi scrittori inglesi, non si è mai pensato in contrario.

Se ciò è vero, come è verissimo, non sappiamo perché dei fatti e delle condizioni della cattura di un legno, che involge la possibile dichiarazione di buona preda, non ne debbano essere i Tribunali i soli giudici competenti per statuirne.

L’usanza poi à universalmente sancito, che i Tribunali del catturante e non del catturato debbano decidere della validità, o della invalidità delle prede, allorché questa succeda in alto mare, o nel mare territoriale dello Stato del catturante medesimo.

Sono univocamente di accordo su questo punto, MERLIN (1), FAVARD DE LANGLADE (2), MASSE ET DEVILLENEUVE (3), LOCCENIO (4), ORTOLAN (5), FOELIX (6), RA Y NEVAL (7), MARTENS (8), PIN H EIRO-FERREIRA (9), WHEATON (10). H U BNER (11), LAHPREDI (12), AZUNI (13).

Il VATTEL poi, ol t re che consente in tale opinione, solennemente dichiara di essere stata questa massima stabilita dalla Corte d’Inghilterra. (14)

Lo stesso signor Phillimore, senza avvedersene, lo confessa poco avanti al luogo dove lo nega apertamente.

Egli dice così: E qui non è per avventura fuor di luogo il notare, che durante l'ultima guerra con la Russia, i TRIBUNALI DELLE PREDE DELLA GRAN BRETTAG N A costantemente ricusarono di condannare anche solo come buona preda un bastimento legalmente catturato IN ALTO MARE sul solo motivo che non avesse con sé tutte le carte volute dalla legislazione interna del proprio paese.

Donde si ricava esplicitamente: che la cattura, pel luogo, è legale in pieno mare e fuori della portata del cannone delle batterie napolitane: e che della cattura sono competenti i Tribunali del regno.

Nel reame di Sardegna anche vi è un Tribunale competente per le prede marittime e pei naufragi, ed è il Magistrato Supremo dell'Ammiragliato, con l’intervento del Procurator generale Fiscale (15).

In mezzo alla universale accoglienza di tal principio, il solo reame delle due Sicilie dovrebbe esser privo dei Tribunali nazionali competenti nelle cause di preda, fatta dai suoi legni da guerra!

Ma compie vittoriosamente la dimostrazione e rimuove qualunque controversia, e fino l’esitanza nelle menti più schive, un fatto veramente classico ed importantissimo, a nostro avviso, quello cioè di avere il Governo di S. M. il Re di Sardegna solennemente e spontaneamente riconosciuto la competenza dei Tribunali napolitani nella causa della cattura del Cagliari. Ond’è che al fatto di Rubattino e di Sitzia si unisce il consenso del proprio Governo (vedi sopra faccia 19).

La Commissione delle prede, nel dì 28 novembre 1857, nel mentre stesso che dichiarò legittima la preda del Cagliari, ordinò il rilascio delle mercanzie e dei generi di commercio, che ne formavano il carico.

Nel 30 novembre, il Governo Sardo, per mezzo del cavaliere Eugenio Fasciotti, nella qualità di suo Console Generale, avanzò domanda diretta alla su cennata Commissione, presentata nel di 11 dicembre 1857 ed intimata ritualmente alla Intendenza Generale della Rea l Marina ed ai rappresentanti della compagnia Rubattino, affinché la Commissione, in esecuzione della sua precedente decisione, ordinasse il rilascio a di lui favore di 79 casse di tabacchi imbarcate sul Cagliari di proprietà e per conto di quel Governo, e che questo inviava a Cagliari pel consumo di quel genere che se ne fa in Sardegna. Le casse avevano impresso sul coperchio, lo Stemma di S. M. il Re di Sardegna, e si leggevano descritte nel manifesto rilasciato dalla Dogana di Genova.

La Commissione arrise alla domanda, con posteriore decisione del 27 febbraio 1858 (1), in seguito di altra decisione preparatoria del dì 19 dicembre 1857, con la quale si ordinò la comunicazione alle parti della suddetta domanda.

Chi vuole profittare degli effetti prodotti, non può rifiutare la causa produttrice, e chi à voluto giovarsi dei disponimenti della decisione profferita dalla Commissione delle prede, invitandola a profferirne un’altra di seguito della prima, à certamente riconosciuto, confessato e profittato della competenza giuridizionale della Commissione nella causa della cattura del Cagliari, e dopo che la stessa Commissione ne aveva già dichiarata legittima la preda. Dunque al riconoscimento di Rubattino e di Sitzia si unisce il consenso del Governo Sardo che spegne irrimediabilmente tutte le dicerie e tutte le disputazioni sulla competenza dei Tribunali napolitani.

E noi osserviamo nel contegno giudiziale serbato dal Governo Sardo la sua coscienziosa conformazione alle leggi vigenti in quel reame.

Se l’articolo 2.° della legge memorata in piè di pagina prescrive, che:

Al medesimo Magistrato Supremo (dell'Ammiragliato) spetterà pure il giudizio delle cause riguardanti LA LEGITTIMITÀ DELLE PREDE E DI TUTTO CIÒ C H E OCCORRA IN DIPENDENZA DELLE MEDESIME, il Governo Sardo sentì intimamente e fu persuaso, che pel rilascio dei tabacchi, che era una dipendenza del giudizio di preda del Cagliari, non ad altri doveva rivolgersi, che ai Tribunali che dovevano giudicarne, e che in vero ne avevano giudicato.

Che se poi, la decisione del 27 febbraio 4858 ritualmente spedita dal Console Generale Fasciotti, non si è finora eseguita ed i tabacchi non sono stati ancora ritirati dai luoghi di deposito, sarà non aver voluto il Governo Sardo finora usare della facoltà concessagli, ma il diritto e la verità decisivi del fatto consumato, non ne riceveranno mai e sotto qualunque aspetto, alcun pregiudizio.

Delle altre imputazioni lanciate dal signor Phillimore e che riguarderebbero i bruschi trattamenti di Sitzia, fino a vietargli di conferire con un consulente legale, non ce ne occuperemo, perché gratuitamente asserite e di più respinte dal fatto permanente; dappoiché fin dal nascimento del doppio giudizio, e poi nel suo corso e fino al presente, liberissimamente Sitzia e tutti àn conferito con tre avvocati, signori fratelli; Gennaro e Raffaele Damora e Federico Castriota, per guisa che àn pure proposto al bisogno le loro difese opportune.

Sembra dunque indubitata conchiusione che male siesi apposto lo scrittor del consulto, e che manifesta e patente sia la buona causa dei catturanti il Cagliari, qualora alla ragione non sottentri l’arbitrio; alla giustizia la prevenzione, ed alla verità la inclinazione del proprio animo.


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III

TESTO DELLA DECISIONE DELLA COMMISSIONE DELLE PREDE DEL 27 FEBBRAIO 1858

«Al SIGNORI PRESIDENTE E GIUDICI DELLA COMMISSIONE DELLE PREDE MARITTIME, E De’ NAUFRAGI
DI PRIMA ISTANZA DEL DISTRETTO DELLA MARINA DI NAPOLI.

«Il cavaliere Eugenio Fasciotti, NELLA QUALITÀ DI CONSOLE GENERALE DEGLI STATI SARDI IN NAPOLI, domiciliato strada cavallerizza a C hiaia numero 14, e rappresentato dal sottoscritto, domiciliato strada M agnocavallo numero 26, giusta la procura per atto a brevetto del 27 corrente mese di novembre per notar Giovanni Scotti di Uccio, espone che il 25 giugno 1 857 partiva da Genova per Cagliari e Tunisi il vapore il Cagliari, che sebbene di proprietà privata, era destinato pel Rea l servizio della posta e pel trasporto de' generi di privativa DEL DETTO GOVERNO SARDO. L’Amministrazione della Regia Dogana di Genova v imbarcava numero 79 casse di tabacchi ridotti a sigari del peso chilogrammi 3107 di SPETTANZA DEL DETTO REAL GOVERNO, per portarli in Cagliari per lo consumo della Sardegna.

« Intanto, per fatti criminosi consumati nel territorio di Sua i Maestà Siciliana da taluni passaggieri di nazioni diverse che trovavansi imbarcati NEL SUDDETTO PACCHETTO, IL MEDESIMO VENNE CATTURATO DA DUE VAPORI DELLA REAL MARINA NAPOLITANA, IL TANCREDI E L’ETTORE FIERAMOSCA.

«Bentosto furono dalla Intendenza Generale della Real Marina restituiti al Governo Sardo i pacchi postali rinvenuti in detto va pore, e furono ritenute le sopraddette casse di tabacchi.

«ESSENDOSI INTANTO DISPOSTO IL RILASCIO DEL CARICO COMMERCIALE AI RISPETTIVI PROPRIETARI, lo esponente NELLA DETTA QUALITÀ, PREGA LA PRELODATA COMMISSIONE DELLE PREDE MARITTIME ad ordinare alla Intendenza Generale della Rea l Marina di Napoli, la restituzione delle dette casse 79 di sigari a favore DELL’ESPONENTE NELLA CENNATA QUALITÀ.

«In appoggio di siffatta dimanda presenta il manifesto delle mercanzie ed oggetti imbarcati sopra il cennato vapore.

«La COMMISSIONE DI PRIMA ISTANZA DELLE PREDE MARITTIME e de' naufragi del distretto della Marina di Napoli ha resa la seguente decisione:

«Nella causa tra il cavaliere Eugenio Fasciotti, nella QUALITÀ DI CONSOLE GENERALE DEGLI STATI SARDI in Napoli domiciliato strada cavallerizza a C hiaia numero 14 rappresentato dal suo procuratore speciale Francesco Galiani domiciliato strada M agnocavallo num. 22.

«Contro l’Intendenza Generale della Real Marina rappresentata dal suo Intendente Generale Marchese Girolamo de Gregorio, domiciliato per ragione della sua carica coll’uffizio nella Regia Darsena di Napoli, rappresentato dal suo procuratore speciale Gaetano Starace, domiciliato presso l’avvocato Ferdinando Starace, strada ventaglieri numero 74, ed essa Real Marina rappresentante di diritto i predatori del piroscafo sardo denominato il Cagliari.

«Raffaele Rubattino, socio direttore ed amministratore della società e compagnia de' piroscafi sardi di Genova, domiciliato ivi con la Casa commerciale, rappresentato qui in Napoli dalla Casa di commercio, Giulio Bonnet e Federico Perret, e questa dal suo procuratore speciale Francesco Damora, domiciliato coll’avvocato Gennaro Damora, strada Portalba numero 30, esso signor Rubattino nella suddetta qualità domiciliato di dritto presso la sua procuratrice Casa di commercio Giulio Bonnet e Federico Perret, e questa presso il suo procuratore speciale signor Damora in quello di Gennaro Damora. Ed Antioco Sitzia capitano del piroscafo sardo il Cagliari, attualmente detenuto nelle prigioni penali di Salerno, rappresentato dal suo procuratore speciale Giuseppe Barbacci domiciliato strada sedile diporto numero 99. Esso capitano domiciliato di dritto in Napoli presso il suddetto suo procuratore signor Barbacci sito come sopra.


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FATTO

Il cavaliere Eugenio Fasciotti, IN QUALITÀ DI CONSOLE GENE SALE DEGLI STATI SARDI in Napoli, con suo ricorso ALLA COMMISSIONE DELLE PREDE MARITTIME, e per mezzo del suo procuratore speciale Francesco Galiani, espose essere DI SPETTANZA DEL GOVERNO SARDO numero 19 casse di tabacchi imbarcati in Genova sul battello a vapore il CAGLIARI di proprietà privata. Essendosi intanto consumato de' fatti criminosi nel territorio di Sua Maestà Siciliana, onde QUEL LEGNO FU CATTURATO DA QUELLA REAL MARINA: MA ESSERSI POSCIA DISPOSTO DALLA STESSA COMMISSIONE IL RILASCIO DEL CARICO COMMERCIALE ai rispettivi proprietari. Quindi conchiudeva che la PRELODATA COMMISSIONE ordinasse all'Intendenza Generale della Real Marina in Napoli la restituzione delle anzidette casse 79 di tabacchi, che disse ri dotti a sigari del peso chilogrammi 3107, ed in appoggio di questa sua domanda dichiarò esibire un così detto manifesto delle mercanzie ed oggetti imbarcati su quel piroscafo. Esibì in fatti un informe notamento senz’alcuna sottoscrizione, e senza alcun carattere di legalità, da cui risulta, tra l’altro, la indicazione di 79 colli di tabacchi della fabbrica di Genova.

«Ordinata ed eseguita la comunicazione a norma del rito, la Intendenza Generale della Real Marina con atto del 25 gennaio 1858 per l’usciere Zuardi, dedusse: Primo: Che rimettevasi alla giustizia della Commissione in quanto al carico commerciale, giusta la dimanda originaria da lei inoltrata: Secondo. Che quindi la Commissione si compiacerà rendere le analoghe provvidenze nel l’interesse de' veri proprietari delle merci reclamate, alla dimanda delle quali la Intendenza Generale non si oppone: con salvezza di ogni ampia ed illimitata riserva di diritti, ragioni ed azioni, nessuna esclusa ed eccettuata, da sperimentarla quando, contro di chi e come per legge.

« Per la compagnia Rubattino ed il signor Antioco Sitzia, con altro atto per l’usciere di Donato del dì 6 febbraio 1858, si dichiaro che essi prestavano il loro pieno assentimento, senza pregiudizio di ogni altra loro ragione esperibile contro chi e come di dritto.

«Con altro ricorso del cavaliere Fasciotti alla Commissione si dimandò destinarsi altro commissario in luogo di quello già destinato, e determinarsi il giorno in cui la Commissione potea riunirsi per dare i provvedimenti diffinitivi su la sua dimanda.

«Con ordinanza presidenziale del 17 febbraio 1858, fu surrogato il giudice cavaliere Raffaele Longobardi, e fu destinato il giorno 27 febbraio 1858 per la discussione e decisione del l a causa nel locale della Capitaria del Porlo. Quale ordinanza venne debitamente intimata.

«In tale stato fu portata la causa all'udienza.

«Napoli li 2 marzo 1858.

«Giuseppe Mollo.

«Antonio de Novellis Segretario.

«LA COMMISSIONE SUDDETTA.

«Vista la dimanda presentata dal cavaliere Eugenio Fasciotti, NELLA QUALITÀ SUDDETTA, il dì 11 dicembre 1857.

«Vista la decisione del dì 19 detto mese di dicembre colla quale si ordinava la comunicazione della suddetta dimanda.

«Vista la intimazione della stessa.

«Visti gli atti intimati da parte dell’Intendenza Generale della Real Marina, e de' signori Rubattino e Sitzia.

«Visti gli altri a t ti e documenti presentati.

«Visto il rapporto del giudice delegato cavalier Raffaele Longobardi.

«Inteso il Sostituto Procuratore del Re del Tribunal e civile di Napoli signor Nunziante B arracano, funzionante da Procuratore del Re in luogo del signor Giacomo Winspeare infermo, nelle sue conclusioni scritte del tenor seguente:

«I l Pubblico Ministero osserva, che il cavaliere Eugenio Fascio t ti, IN QUALITÀ DI CONSOLE GENERALE DI SUA Maestà IL Re DI Sardegna ED A NOME DEL SUO GOVERNO, domanda la ricuperazione de' tabacchi DI PERTINENZA DELLO STESSO REAL GOVERNO rinvenuti sul pacchetto a vapore il CAGLIARI. E siccome la COMMISSIONE DELLE PREDE MARITTIME CON DECISIONE DIFFINITIVA DE’ 28 NOVEMBRE 1857 HA DICHIARATO ESCLUSO DALLA BUONA PREDA il carico commerciale, abilitando i rispettivi proprietari ad ottenere il rilascio degli effetti, de' quali dimostrino legalmente l’appartenenza a lor favore, così l'anzidetto Console Generale di Sardegna ha domandato ordinarsi all'Intendenza Generale della Real Marina di Napoli la restituzione di colli 79 di tabacchi DI PERTINENZA DELL’ ANZIDETTO REAL GOVERNO DI SUA MAESTÀ SARDA. Osserva che, comunicata la domanda dal Console Generale di Sardegna all’Intendenza Generale della Real Marina di Napoli, al Capitano Sitzia, ed alla Compagnia Rubattino per contraddirla, o consentirla, tutti han dichiarato non opporsi al chiesto rilascio, giusta gli atti de' 29 gennaio, e 6 febbraio 1858 per gli uscieri Zuardi e di Donato. Osserva che non può tenersi in conto veruno il colamento che ora soltanto si è esibito, perché senza firma e senza alcuna autenticità: ed infine perché si è prodotto dopo eseguita la preda. In conseguenza si può accogliere la domanda, sol perché LA DECISIONE DELLA COMMISSIONE CHE ORA SI ESEGUE, autorizza il riscatto del carico puramente commerciale, che siasi in realtà trovato a bordo, e l'appartenenza di esso AL GOVERNO PIEMONTESE È DAL CONSOLE GENERALE ATTESTATA.

«Osserva infine che si può restituire ciò che alla cattura del legno fu realmente rinvenuto e verifica t o, ed indi ritirato ed immesso nei locali di deposito di Napoli.

«Laonde, senza punto riconoscere i fatti esposti nel ricorso, e non essendo contraddetta la esistenza dei tabacchi. Il Pubblico Ministero, richiede che LA COMMISSIONE DELLE PREDE MARITTIME E NAUFRAGI ABILITI A CONSOLE GENERALE DI S. M. IL RE DI SARDEGNA a ritirare da' luoghi di legale deposito in Napoli i colli di tabacchi, che furono REALMENTE CATTURATI ed immessi ne’ mentovati luoghi di deposito, onde estrarli nuovamente dal Regno di Napoli per gli stati Sardi. Nunziante Barracano.

QUISTIONI

Si può accogliere la dimanda per la riconsegna de' tabacchi? Per la risoluzione di tale quistione la commissione RITIENE LE OSSERVAZIONI DEL PUBBLICO MINISTERO, senza riconoscere i fatti esposti nel ricorso del Console Generale, ECCETTO IL FATTO MATERIALE DELLA ESISTENZA DEL TABACCO. LA COMMISSIONE pronunziando di f finitivamente, intese le parti ed il Pubblico Ministero in persona del sostitu t ore Procuratore del Re signor Nunziante Barracano nelle sue uniforme scritte ed orali conclusioni, autorizza IL CONSOLE GENERALE DI S. M. IL RE DI SARDEGNA a ritirare dai luoghi di legale deposito in Napoli i colli di tabacchi CHE FURONO LEGALMENTE CATTURATI DICO INVENTARIATI SUL CAGLIARI ed immessi nei mentovati luoghi di deposito, onde estrarli nuovamente dal Regno di Napoli per gli Stati Sardi. Nulla per le spese — Giudicato pronunziato e pubblicato alla udienza del dì 27 febbraio 1858. Presenti i signori: Commendatore Giuseppe Mollo Presidente, Luigi Marriello capitano di vascello graduato, capitano del porto di Napoli, e cavaliere Raffaele Longobardi commissario di Marina, giudici. Giuseppe Mollo presidente, Antonio del Novellis segretario. Visto il procuratore del Re N. Barracano. Num. 6318 — registrato in Napoli li 16 marzo 1858 libro 3. voi. 1264 fol. 43 retto cas. 2 gr. 60 Minieri.


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NOTE

(1) Vedi Wheaton. Ricerche intorno alla legalità della pretesa dell'Inghilterra di aver diritto di visitare e perquisire navi americane sospette di fare il traffico degli schiavi. Londra 1842.

Phillimore. International l o w vol. 3 pag. 420.

(2) Il cancelliere Keut dice:

La visita reciproca dei bastimenti su mare si riferisce al diritto della propria difesa, ed in fatto è praticata dalle navi da guerra di tutte le nazioni, non escluse quelle degli Stati Uniti, quando il bastimento è sospetto di pirateria.

Il diritto di visita è ammesso unicamente allo scopo di certificare il vero. carattere nazionale della nave che naviga in circostanze sospette, ed è totalmente distinto dal diritto di perquisizione. Perciò la Suprema Corte degli Stati Uniti lo à chiamato diritto di approccio, e lo si ritiene fondato sui principi del dritto pubblico e sull'uso delle nazioni.

Keut. Comm. Voi. 1, pag. 154, nota 6. Phillimore International low vol. 3 pag. 423-4.

(1) Vedi pag. 191 della difesa del Cagliari dove questo punto è chiarissimamente accertato.

(2) Vedi il volume in foglio, per la Intendenza Generale della Rea l Marina, pag. 200.

(1) Volume in foglio, pag. 114.

(2) Quaest. Jur. pub. lib. 1 C. 13.

Vedi pure Grotius De jure belli ac pacis Lib. 3. Cap. IX §. XVI «Et quae piratae aut, latrones nobis cripuerunt non opus habent postliminio, ut Ulpianus et Javolenus responderunt; quia jus gentium illis non concessit ut jus dominii mutare possint.»

(3) Vedi volume in foglio p. 97 in cui si cita l’art. 1 della legge sulle prede marittime del 12 ottobre 1807.

(1) Grotius de jure belli ac pacis Lib. 1. cap. 3.

«Publicum bellum est quod auctore eo geritur qui jurisdictionem habet: privatum quod una ex porte est publicum, ex altera privatum».

(2) Pag. 90 e 108 del volume in foglio.

(1) Pag. 108 e 9 ma nei tempi posteriori nei quali sembra che lo spirito indomabile del secolo incessantemente si travagli a fondare un evito superstizioso al funesto consorzio dell'ateismo e della demagogia, le regole dottrinarie debbono, ammodernarsi, e piegare alle esigenze della imperiosa necessità che consiglia la legittimità della preda, anche nei gravi primordi della guerra mista (Per la Intendenza Generale pag. 109).

(2)Wicquefort.

L’ambassadeur et ses fonctions, tom. 1, pag. 416.

(1) The Fiad Oven 2. Robinson rap. p. 140.

(2) È più esatto dire sulle conchiusioni dei Sig. Dupin, poiché questi era procuratore generale e non presidente.

(1) Venerdì 19 marzo 1838, num. 67.

(1) Art. 29 e seg. delle Ordinanze generiche della Real Marina approvate con Real Decreto del 1 ottobre 1818.

(2) Art. 153 della Legge sulla Marina mercantile del 13 gennaio 1827.

(3) Art. 20 delle suddette Ordinanze, al titolo delle prede, ed art. 196 della citata legge.

(1) Foglio 1, 2, 3 e 68 dei documenti pubblicati dai predatori, e fog. 8 della Difesa del Cagliari.

(1) Art. 246 del codice di commercio per gli Stati di S. M. il Re di Sardegna.

(2) Pag. 6 e seg. dell'appendice al discorso de' predatori.

(1) Faccia 4. e seguenti de' documenti stampati in appendice.

(2) Faccia 200 a 202 del discorso dei predatori.

(1) VATTEL. droit des gens tom. l.° lib. l.° cap. 23, § 289, pag. 315, ed una moltitudine di pubblicisti.

(2) Wheaton. Elements of International low. to. 2, chap. 3, § 9 ed art. 188 e 192 della citata legge sulla marina mercantile del 13 gennaio 1827, per gli Stati di S. M. il Re di Sardegna.

(3) Ortolan—Regles internationales et diplomatie de la mer tom. 1. ° p. 257.

(4) Art. 74 e seguenti delle citata legge, e precisamente l'art. 102.

(1) Discorso de' predatori, appendice contenente i documenti dal foglio l.° in seguito.

(1) Contravvenzione agli articoli 210 e 211, del codice di commercio per gli stati di S. M. il Re di Sardegna.

(2)Vedi appendice suddetta, faccia 6 e seguenti.

(3) Contravvenzione all’art. 205 della citata legge sulla marina mercantile.

(4) Contravvenzione all'art. 21 della citata legge della marina' mercantile.

(5) Contravvenzione air art. 212 della citata legge sulla navigazione.

(1) Fac. 135 e seg. del discorso depredatori.

(2) Appendice, faccia 11 e seg.

(1) Faccia 1, 2 e 3“ dell'appendice, e foglio 2 e 3 della Difesa del Cagliari.

(1) Pagina 104 a 214 .

(2) De bello sacro pag. 34 6 .

(1) De jure belli ac pacis lib. 3 cap. 9 § 17.

(2) De commercio, discursus 24 n. 6.

(3) De las presas part. 2. ° cap. 6 § 4 e 6.

(4) Charles Johnson. Histoire des pirates anglais, in fine.

(1) De jure belli ac pacis, lib. 1. cap. 3 § 1.

(1) L. 21 ff. de captivis.

(2) BARBEYRACHIO, note a Grozio, del dritto della guerra e della pace tom. 1. lib. 3. cap. 6 nota 4. Puffendorfio . Elementa jurisprudentiae lib. 2. cap. 6., Burlamarlti principes du droit de nature et des gens tom. 8. pari. 4 eh. 7 n. 5 e 16 ed altri molti pubblicisti.

(3) De juribus majestatis lib. 1. cap. 33 § 78 e 79.

(4) Operum tom. 7 pag. 28 e 30 lit. E in fine.

(5) De jure belli lib. 1. in principio e lib. I. cap. I.

(6) Citata opera lib. 1 cap. 14. Questa dottrina è stata seguita dal Wattel, opera citata, tom. 2 § 28 pag. 93.

(1) Pag. 68 dell’Appendice.

(2) Faccia 192 e seguenti del discorso de' predatori.

(1) Moniteur universe L, sa m edì huit septembre 1832, n. 252 pag. 1663 e seg.

(1) Trait é de l'action publique n.° 843 ed 846.

(2) Regles internationaies et diplomatiques de la m er tom. 1. pag. 307.

(3) Bra y ord Ve y rières, manuel de droit commercial, pag. 491, n ot. 1.

(4) Ordonnance de la Marine de France da moi d’aùt 1681, tit. des prisés, art. 12.

VALIN, comment. tom. 2, pag. 218, CLEIBAC, jurisdiction de la marine, pag. 441, art. 23.

(1) GROTIUS, de jure bel. ac pac., lib. 3, cap. 3, §. 1 et cap. 17, § 3, HEINECCIUS, de navib. ob. vect, mere, commis. cap. 1, §. 9. SELDEN, mare claus. lib. 2, cap. 20. WATTEL, droit des gens liv. 3, cap. 7, §. 3. GALIANI, de' doveri dei Principi neutrali, cap. 9, §. 2. HUBNER, de la saisie des bàtim. neulr. tom. 1, par. 2, cap. 3, §. 5.

(2) In Principato Citeriore.

(1) L. 27 eff. tit. de exceptione rei iudicatae, V OET, in pandectas. Tit. de excepti o ne rei iudicatae, n. 7.

(1) Tract. de Statutis.

(2) Trait é du droit international priv é, per totam.

(1) Rep. et quaest. mot. prise maritime, § 7 art. 1.

(2) Rep. mot. prise maritime § 4 n. 1.

(3) Diction. de commerce, mot prises n. 98 e 99.

(4) De iure maritimo lib. 2 cap. 4 n. 6.

(5) Regles internationales titol. p. 256 e 257.

(6) Trait é du droit international privò n. 508, p. 5 33.

(7) De la libert é de la mer. p. 250 n. 2.

(8) Précis du droit des gens moderne de l'Europe § 322.

(9) Notes a Martens § 322.

(10) Elements of international low. to. 2 part. 4 chap. 2 § 13.

(11) De la Saisie des bàtiments to. 2 chap. 3 § 6.

(12) Du commerce des neutres, pag. 208.

(13) Diritto marittimo di Europa to. 2 p. 315 n. 7.

(14) Le droit des gens tom. 1 § 88 pag. 374.

(15) Art. 2 e 69 della legge penale per la marina mercantile del 13 di gennaio 1827.

(1) Questa decisione si trova stampata qui appresso nello intero suo tenore.





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Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le déloppement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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