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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

SALITA A MONTECITORIO (1878-1882)

DAI FRATELLI BANDIERA ALLA DISSIDENZA

CRONACA DI CIMBRO 

TORINO

ROUX E FAVALE

1883

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PARTE QUARTA

Conquista patriottica

Nel principiare a discorrere del Nicotera, sale in mente la considerazione, che dei dieci presidenti del Consiglio avuti nel nuovo Regno d’Italia dal 1861 al 1882 (Cavour, Ricasoli, Rattazzi, Luigi Carlo Farini, Minghetti, Lamarmora, Menabrea, Lanza, Depretis e Cairoli), niuno fu delle provincie meridionali. La ragione della prevalenza nordica e della mancanza meridionale nel direttorio italiano in questo periodo storico venne riposta da taluno nel fatto che la parte del sud, benché principale e feracissima di forze (pure d’ingegno), passò all’unità italiana quasi per virtù di conquista. Spiaceva a Garibaldi, che Marco Monnier intitolasse Storia della conquista delle due Sicilie la Cronaca della più fortunata impresa garibaldina e gli scriveva da Torino il 15 aprile 1861: «Io non ho conquistato le due Sicilie. Non ho fatto altro che dar mano alle virtù civili, onde questa contrada è stata fertile in ogni tempo e mostrarle al sole della libertà.» Pure da certo carattere di conquista non andò esente la Rivoluzione dell’Italia Meridionale.

Non fu certo conquista normanna, sveva, francese, aragonese, o in un altro modo straniera. Solo per celia fragorosa, come narra Giuseppe Cesare Abba nelle sue gemmee note d’uno dei Mille, il 17 giugno 1860 a Palermo un Giusti astigiano suonava la diana a' suoi eroici compagni Garibaldini, colla frottola che Vittorio Emanuele aveva fondato l’ordine dello sbarco e li aveva creati tutti cavalieri, donando loro i castelli incontrati nelle marcie vittoriose.

Quella compiuta dai Garibaldini fu conquista nazionale, patriottica, morale; ma pur fu conquista; e, se venne aiutata di molto da Vittorio Emanuele, da Cavour e dagli altri elementi del Governo nazionale, fu opera precipua del partito d’azione, che si era educato necessariamente nelle congiure e nelle ribellioni, insomma nello spirito e nel metodo più alieno dalla posa di Governo. Quindi accadde che nelle altre provincie, le quali crebbero fortunate in nucleo spontaneo o ratificato di libertà nazionale, o furono acquistate per guerra regolare, o per matura e incontrastata dedizione, gli uomini vecchi e giovani vennero stimati immediatamente opportuni alla direzione del nuovo ordine di cose; ma

dalle provincie meridionali appena si raccolsero finora ottimi guardasigilli o finanzieri, o altri ministri specialisti: che il metodo storico esige una lunga prova e una dura disciplina governativa e parlamentare, prima di preporre all’assetto del recente Stato gli ufficiali dell’antico governo borbonico, o i motori principi delle antiche rivolte.

Questa prova governativa e parlamentare, che si accorciò pel lombardo Cairoli (primo del partito d’azione pervenuto alla presidenza del Consiglio, forse per la sua rassicurante e placida bonomia), non venne ancora ultimata per l’eumenide Nicotera, come lo chiama il Bovio, eumenide dal soffio vulcanico.

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Nicotera è il tipo più vivido e più pregno di moto dell’antico congiurato patriottico e ribelle eroico.

Quanto diverso questo tipo poetico di congiurato e ribelle patriottico, scaturito nei tempi eroici, quanto diverso dal tipo prosaico del congiurato parlamentare e dell’avventuriero politico, che cresce nella gioventù meschina e faccendiera dei bassi tempi! Forse lo vedremo altrove.

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E quanto diversi i tempi! Una volta nelle anime nobili si piantava un ideale eroico ed evangelico: la redenzione della nazione schiava. Si inarcava sugli intelletti, come un raggiante arcobaleno, la bandiera tricolore. Per quell’ideale, per quella bandiera, si diventava pazzi, si diventava santi, si diventava martiri.

Ed ora certi scrittori e certe scrittrici, anche uscendo dal popolo, servono come gli schiavi romani di lenocinio ai gaudenti: non pensano alla educazione ed alla elevazione della plebe: si sentono inferiori a ciò che eravamo nel mondo cicisbeo del settecento: divertono e fomentano ruffianescamente ciò che l’austero Parini bollava di ridicolo.

Oh! usciamo dalle corrotte piccinerie del nostro tempo, in cui si chiama gentilezza italiana la frollaggine della fibra sfatta; usciamo dai nostri tempi.

Giovanni Nicotera è nato in San Biase, provincia di Catanzaro, nel 1831.

Nel collegio di Catanzaro, fu a scuola del Settembrini, professore stoicamente evangelico di libertà italiana, pj martire nel carcere di Santa Maria Apparente e nell’Ergastolo di Santo Stefano, e conservatosi ingenuamente, quasi fanciullescamente, patriota anche nel Senato del Regno.

Oltre alle lezioni del Settembrini, quale impronta deve avere lasciato nell’animo del Nicotera la notizia della tragica impresa dei fratelli Bandiera!

Di lì gli venne certamente il proposito di emularli con un parallelismo di gesta!

Attilio ed Emilio Bandiera, veneti, figli di un barone contrammiraglio dell’Austria, l’uno di essi già alfiere di vascello, l’altro alfiere di fregata nella marina austriaca, quantunque avviati ad una carriera accarezzata dal mondo pratico e brillante e dalla famiglia, sentivano il peso delle assise straniere, come gramaglia della patria. E fermarono di svestirsene sull’altare d’Italia, il cui culto per loro era una religione. Imperocché, lo ricordino i neo patrioti atei, ricordino che i principali autori del riscatto nazionale si dichiararono mossi dallo spirito di Dio. Scriveva nel 1842 Attilio Bandiera a Giuseppe Mazzini: «Sono italiano... Studiomi quanto più posso di seguitare le massime stoiche. Credo in Dio, in una vita futura e nell’umano progresso: accostumo nei miei pensieri di progressivamente riguardare all'umanità, alla patria, alla famiglia ed all’individuo; fermamente ritengo che la giustizia è base d’ogni diritto; e quindi conchiusi, è già gran tempo, che la causa italiana non è che una dipendenza dell’umanitaria...»

I Bandiera, votatisi alla patria, e cospirando per essa, si accomunarono col Mazzini; e l’uno dopo l’altro i due fratelli nel 1844 disertarono le insegne dell’Austria e si ricongiunsero a Corfù, dove vennero raggiunti da Nicola Ricciotti, maturo soldato della libertà, insorto del 21, già prigione a Civita Castellana, esule in Corsica e in Francia, e valoroso capitano in Ispagna, e da Domenico Moro, pur esso già ufficiale nella marina austriaca, giovanissimo, biondo, gentile e bello, un vero angelo della Risurrezione italiana.

L’uno dei Bandiera aveva lasciata una tenera sposa, che soccombette allo strazio del suo abbandono, tutti e due un’amatissima madre, che si recò precipitosa a Corfù come un’aquila per ghermire, salvare i suoi aquilotti. Abbracciato Emilio, promise perdono, restituzione di onori, gioie di famiglia; imprecò persino disperata allo snaturato suo sangue. Tutto invano. I Bandiera, pur adorando la loro mammina, non vollero mancare alla grande madre patria. All’auditore austriaco, che li citava come felloni, risposero: «la nostra scelta è determinata fra il tradire la patria e l’umanità, o l’abbandonare lo straniero e l’oppressore.»

Invano Nicola Fabrizi e lo stesso Mazzini cercavano di dissuaderli dalla impresa.

Emilio Bandiera e Ricciotti scrivevano al Mazzini l'11 giugno 1844: «Se soccombiamo, dite a' nostri concittadini che imitino l’esempio, poiché la vita ci venne data per utilmente e nobilmente impiegarla, e la causa, per la quale avremo combattuto e saremo morti, è la più pura, la più santa che mai abbia scaldato i petti degli uomini; essa è quella della libertà, dell’eguaglianza, dell’umanità, dell’indipendenza e dell’unità italiana.»

Salparono da Corfù la notte del 12 al 13 giugno 1844, sbarcarono nella sera del 16 sulla spiaggia di Cotrone presso la foce del fiume Neto.

Come il povero Giovacchino Murat, agli 8 di ottobre del 1815, in un giorno di festa, era sceso al Pizzo con l'animo teatralmente festoso pel riconquisto del Regno; e si trovò solo col suo drappello di venticinque seguaci, eccitando dapprima una sospettosa curiosità degna di una compagnia istrionica; e poi una tempesta di brutali scherani; e invano tese le braccia al mare; che dal lido si dilungava a scherno il suo infame battelliere, il maltese Barbara; — così i Bandiera, Moro, Ricciotti e i quindici seguaci appena discesi in terra italiana e baciatala, videro il loro barcaiuolo prendere traditorescamente il largo.

Avere nell’anima un programma di compiuta redenzione: «Italia indipendente, libera ed unita, democraticamente costituita in repubblica con Roma per capitale»; sentire nella testa una vampa di luminoso incendio e nel cuore una musica rivelatrice di un paradiso di gloria, e trovare sorda, mutola, refrattaria la terra che si vuol redimere... quale tormento!

Eppure gli eroi vanno avanti... Loro si squaglia un compagno, il corso Boccheciampe e poi una per fida guida calabrese, il bandito Nivara. Questo malandrina li addita ai compaesani come turchi predoni.

Gli eroi si salvano valorosamente da una imboscata di gendarmi e urbani loro tesa al bosco di San Benedetto; ma presso San Giovanni in Fiore vengono assaltati dalle turbe imbestialite, che li credono marrani, cani infedeli. Indarno sotto una pioggia di fuoco fratricida gridano: Siamo vostri fratelli! Perché ci assassinate? Noi veniamo a spendere la nostra vita per farvi liberi.

Sono presi come belve e malmenati davanti alla Corte marziale di Cosenza.

L’avvocato fiscale Dalia, già macchiatosi nel sangue dei martiri cosentini, domanda ad Emilio Bandiera:

— Come vi chiamate?

— Emilio Bandiera.

— Siete barone?

— Non me ne curo.

— Donde siete?

— D’Italia.

— Ma di che parte?

— D’Italia.

— Ma dove nato?

— In Italia.

Fissi in questa superba, meravigliosa italianità, come aquile nel sole — accolgono la sentenza di morte al grido di Viva l'Italia! Viva la libertà!

Ai preti, che volevano confortarli religiosamente, risposero: «avendo praticatala legge del Vangelo e cercato di propagarla anche a prezzo del nostro sangue fra i redenti da Cristo, speriamo di essere raccomandati a Dio meglio dalle nostre opere, che dalle vostre parole, e vi esortiamo di serbarle nel predicare ai vostri oppressi fratelli in Cristo la religione della libertà e dell’eguaglianza.»

Dissero ai soldati presti a fucilarli, che non tirassero alla testa fatta ad immagine di Dio, e tendendo ad abbracciarsi, caddero col grido di Viva l'Italia! Viva la libertà! Viva la patria!

Il Settembrini nelle sue Ricordanze rammenta l’intrepida morte di tutti quei martiri, e segnala il bellissimo di anima e di corpo Domenico Moro, che ricusò di domandare la grazia, quantunque ne venisse eccitato dal presidente della commissione, che quasi innamoratosene avrebbe voluto salvarlo: ma il Settembrini soggiunge di aver letto lettere non belle di. Attilio Bandiera a re Ferdinando e al ministro Delcaretto, le quali stanno nell’Archivio di Napoli, e a lui furono mostrate e fatte leggere dal direttore Francesco Trincherà.

Eppure il Settembrini, quando non fosse stato ingenuamente smemorato, avrebbe dovuto, nella sua qualità di moderato, gioire di quelle lettere, anche se fossero state, quali già le aveva rivelate il visconte d’Arlincourt citato nelle storie degli ultimi rivolgimenti, scritte dal marchese Gualterio.

Si ricava da quelle lettere che Attilio Bandiera, rimanendo unitario italiano, avrebbe pur sacrificate sinceramente le idee repubblicane all’indipendenza della patria, alla quale si offriva in olocausto. Secondo il visconte d’Arlincourt, scriveva Attilio Bandiera precisamente così al Borbone: «Il vero scopo proclamando l’indipendenza in Calabria era di servire la causa dell’unità italiana. Se voi volete diventare il sovrano costituzionale di tutta la penisola, io mi dichiaro corpo ed anima a V. M.»

Questa, anziché lettera non bella, come parve al Settembrini che, secondo lo stesso De Sanctis maestro competentissimo in smemorataggine, aveva qualche volta l’aspetto di scemo, questa di un condannato al patibolo pare celeste visione, suprema invocazione per redimere l’Italia, come quella di Dante ad Alberto Tedesco, del Macchiavello al Valentino, del Mazzini a Carlo Alberto e del condannato Orsini a Napoleone III.

Ci siamo dilungati nell’impresa di Cotrone, perché essa fu la genitrice dell’impresa di Sapri.

*

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Cresciuto a quegli insegnamenti ed esempi sublimi di amor patrio, Giovanni Nicotera nel 1847 diede il suo nome alla Giovine Italia, e s’immischiò tosto nella tentata insurrezione di Reggio, onde fu preso di mira dalla polizia del ministro Delcaretto.

Dopo il 15 maggio del 1848, con una schiera di valorosi insorti attaccò i manipoli borbonici ad Afragola. Cadute appresso Napoli le città di Nicastro, Cosenza e Catanzaro, furono debellati e sentenziati ai ferri od a morte Nicotera, Ricciardi, Rocco, Susanna, Miceli, De Riso, Caruso, Sarda, Lupinacci, Mele, Vocatello, Musolino, La Macchia e Mauro.

Su una picciola barca scamparono a Corfù, che già era stato suolo di leva pei fratelli Bandiera.

Da Corfù si slanciano su Ancona, e da Ancona a Roma, dove la libertà è assaltata da eserciti tirannici e forestieri. Nicotera come semplice volontario si batté fieramente nella difesa di Porta San Pancrazio ed altrove; il 30 aprile 1849 è nominato tenente sul campo di battaglia; la domenica 3 giugno è promosso capitano con la medaglia d’argento, e cade ferito a fianco di Goffredo Mameli; viene trasportato con esso nell’ospedale della Trinità dei Pellegrini, e chiude gli occhi al bardo d’Italia.

A mala pena guarito, ritorna alla pugna.

Spenta la Repubblica, violata Roma, egli ripara in Piemonte, nell’unico asilo del pensiero liberale e nazionale. Lo si vede a Torino, a Genova ed a Nizza. Per salvarsi l’anima e campare il corpo, fa un po’ di tutto: il correttore di stamperia, il copista e lo spedizioniere nell’ufficio legale del Mancini, l’assistente ai lavori di costruzione di ponti sotto l’ingegnere Francesco Giordano.

«Però, dice il Petruccelli, sempre pulito, elegante, avventuroso, giovane e calabrese nell’estensione del termine, con qualche scalata amorosa notturna, qualche incontro pericoloso, e sempre egualmente mischiato a qualunque cospirazione potesse affrettare il movimento unitario.»


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L’impresa di Sapri

Ed allora si organizzava la spedizione di Sapri, la figliale di quella di Cotrone; la madre di quella di Marsala.

Il periodo gestatorio di quella spedizione è ampiamente narrato e documentato nella cronaca scritta da Luigi De Monte, che fu sindaco di Napoli nel 1871.

Il suo libro porta per titolo: Cronaca del Comitato segreto di Napoli nella spedizione di Sapri, accompagnata da tutti i documenti autografi e dalla corrispondenza di Giuseppe Mazzini, Nicola Fabrizi, Carlo Pisacane, Giuseppe Fanelli e L. Dragone, pel Comitato di Napoli e Capi delle Provincie (Napoli, stamperia del Fibreno, 1877).

V’era molto del marcio nel Regno delle due Sicilie, che nelle lettere dei politici inglesi e specialmente del Gladstone, nei Parlamenti esteri e nelle rimostranze fatte dal Conte di Cavour al Congresso di Parigi prendeva fattezze mostruose come di una negazione di Dio.

Ma non tutti si acconciavano ai palliativi morali, alle promesse parlamentari e ai gomitoli diplomatici.

Serpeggiava un malumore eziandio nell’esercito napoletano, perché il Governo borbonico, anziché emulare il nazionale Piemonte unendosi ad esso nella guerra di Crimea, si era accostato oziosamente all’Austria per mostrare stolidamente i denti malfermi contra le potenze alleate.

Avendo un colonnello Pucci ordinato fiere battiture ai soldati, un reggimento gridò abbasso e costrinse a fuggire il colonnello, minacciando un pronunziamento.

Agesilao Milano congiurava contro la vita del re; nel mattino dell’otto dicembre 1856 aveva palesato agli amici la sua disperazione del riuscire; pure alla rivista militare passando il Borbone davanti a lui, che presentava le armi, fu un luccichio, una battaglia

d’occhi; un’irruzione di proposito sanguigno vinse Agesilao Milano. Questi vibrò la baionetta, essa trascorse a vuoto sopra una maglia d’acciaio che copriva il re.

Il 25 gennaio 1857 Agesilao Milano venne tratto al supplizio; e sul terreno spruzzato del suo sangue il giorno dopo si vide piantata una bandiera tricolore.

Per tutta l’Italia Agesilao Milano fu una secreta poesia popolare od un dramma patriottico di delirio da teatro diurno.

La baionetta, che non aveva trapassato il re, pareva aiutasse a sgretolarne il trono.

Niuno dei complici di Agesilao venne scoperto.

Continuava per l’Italia il fuoco mazziniano. Lo attizzava da Malta il modenese Nicola Fabrizi, condottiere e pontefice del patriottismo segnalatosi nella congiura modenese del 31, nelle guerre di Spagna e Portogallo, e in tutte le guerre e spedizioni italiane.

Se il Fabrizi era un ciclope della fucina nazionale, il Mazzini, a Londra era la somma Vestale del fuoco sacro.

Giuseppe Fanelli, combattente in Lombardia nel 1848, poi col Medici al Vascello in Roma, allacciatosi sotto lo pseudonimo di Wilson o Tilburn in carteggio con Mazzini e Fabrizi, fondava il Comitato segreto di Napoli, in cui erano principali cooperatori l’operoso Luigi Dragone, l’inspirato Falcone, il Mignogna, il Matina, Antonietta Pace, Giacinto Albini, ecc.; alcuni vennero imprigionati; altri dovettero esulare, altri nascondersi, ma senza rompere le fila della cospirazione patriottica.

Nel 1856 si era pure tentata anticipatamente in Sicilia l’insurrezione da Salvatore Spinazzi e dal barone Francesco Bentivegna, martiri.

L’esempio era stato di nuova esca rivoluzionaria.

Il Comitato di Napoli ricavava maggior fiamma da Carlo Pisacane, esule a Genova.

Questo napoletano, di fusione eroica ed artistica, già allievo del collegio della Nunziatella, ufficiale nella Legione straniera in Algeria, poi capitano nell’esercito piemontese, dopo avere sostenuta la libertà italiana sui campi lombardi, ed essere stato con bravura il capo dello stato maggiore nella difesa di Roma repubblicana, pubblicava scritture di polemica e di strategia militare, che erano battaglie nazionali in tempo di pace; si trovava in carteggio di letteratura battagliera con Francesco Dall’Ongaro; e a un tempo entrava fitto nell’azione delle congiure.

Il motto della sua bandiera era vittoria immediata o martirio. Egli non si acquetava alle salmodie parlamentari, agli inni sacri, recitati con religioso atticismo da Terenzio Mamiani nella Camera Sarda; si impazientiva delle arringhe diplomatiche del Cavour e della politica del carciofo di Casa Savoia; non si commoveva se Francia ed Inghilterra ritiravano gli ambasciatori dal regno di Napoli, per dimostrargli il loro malcontento; notava con sarcasmo, che la maggior concessione strappata al Borbone dalle rimostranze inglesi era stata la promessa di migliorare le condizioni dei detenuti politici trasportandoli in America ed esclamava: «Quale più solenne smentita alle previsioni ed alle speranze del signor Mamiani!»

Esponendo queste cose al Comitato di Napoli nella lettera del 10 febbraio 1857, egli opponeva all’abbassamento dei governi un’elevazione di tutti i popoli in santa lega. «L’Italia, egli scriveva, non è che una mina, alla quale abbisognerebbe appiccare il fuoco.» E in fine: «La diplomazia non crea i fatti, ma non può far altro che riconoscerli dopo che hanno avuto luogo.»

Non si confondeva pel murattismo.

Il Comitato di Napoli, ridesto da quella agitazione, mandava nel marzo 1857 una circolare ai corrispondenti delle provincie: «Che facciamo noi? L’Italia sanguinosa ci vibra coi suoi fulminei occhi sguardi ferali. L’Europa ci attende, Iddio ci comanda, Agesilao Milano ci dà il magnanimo esempio, i Parlamenti trascinano il mondo sul nostro terreno...»

Con lettera del 5 aprile Pisacane ricordava al Comitato di Napoli le parole del Mazzini: «Le insurrezioni non si fanno coll’oriuolo alla mano. Né il loro successo dipende da un preparativo di più o di meno. Vi è un calcolo morale che vale molti calcoli materiali. Questo calcolo mi fa debito di tentare d’applicare la scintilla.»

Lo stesso Mazzini aveva scritto direttamente al Comitato di Napoli il 6 marzo: «è una scintilla; il farne incendio dipende dal vostro agire.»

Ed il 7 aprile: «Noi individui, qualunque sia la nostra attività, non possiamo creare l’insurrezione di un popolo; noi non possiamo crearne che l’occasione. O il popolo fa, e sta bene; o non fa, e non siamo mallevadori che davanti a Dio e alla nostra coscienza. Unico debito che ci corre è quello di studiare coscienziosamente le opportunità del momento; coglierlo e offrire con una mossa audace l’iniziativa alla Nazione; è il genio della Rivoluzione... Quanto all'interno, il malcontento esiste tra voi e per tutta Italia. Le vertenze, nulle in sé, tra l’Austria e il Piemonte, accrescono il fremito. Da quel fremito, i moderati non trarranno cosa alcuna da per sé; credete a me, seguiranno.»

Fabrizi da Tunisi il 7 aprile richiedeva al Comitato tutta la maturità realizzabile dell'affare.

E Mazzini il 13 aprile rincalzava: «la missione di una minorità organizzata è quella di studiare il terreno; di calcolare, se un fatto energico di audacia e di successo può suscitare a vita la maggioranza e crearla. Le minorità non fanno rivoluzioni; le provocano.»

Il 19 maggio: «L’Italia intera ha doveri tremendi; ma più specialmente il sud. Il sud ha sul collo una di quelle tirannidi che degradano chi le sopporta

«Voi avete un partito moderato potente; dove hon è? Ma il partito moderato che un lavoro qualunque non conquisterà mai, dacché ciò che lo costituisce è una mancanza di fede che gli vieta l’iniziativa, seguiterà inevitabilmente il moto, quando altri lo inizi. Lo seguirà in parte, perché il fatto, privandogli la possibilità dell’iniziativa, lo tramuterà in parte a cercare d’impossessarsi del moto e dirigerlo a posta sua.»

Il programma del moto era essenzialmente nazionale, quindi non diverso da quello delle più fortunate imprese della nostra redenzione.

Fin dal 6 marzo 1857 il Mazzini scriveva al Fanelli: «Non ho bisogno di dirvi che l’azione sul vostro punto riuscendo sulle prime è il sorgere di una Nazione: della risposta sovr’altri punti mi reco io mallevadore, se la bandiera sarà di nazione. forma penserà il paese, ma quella condizione è essenziale.» Ed il 21 maggio ribadiva lo stesso concetto al Comitato di Napoli: «Il colore del moto deve astenersi da manifestazioni esclusive. Bandiera nazionale; unità nazionale: indipendenza, crociata contra lo straniero. Il paese eserciterà poi dopo la sua sovranità. Questo ci basta.»

Richiesto di ammanire proclami, egli rispose: «I proclami si scrivono fra le barricate, non prima a sangue posato.» Pur ne mandava uno specimen:

«Italiani di Napoli! Voi non siete codardi. Sorgete dunque con noi. Sorgete rapidi; sorgete tutti...

«Sorgete in nome d’Italia. Santificate il vostro moto con la proclamazione di un grande principio, la vita di una nazione...

«Sorgete a rivendicarvi a dignità d’uomini e dritti di cittadini. Il paese salvi il paese. La patria comune decida onnipotente, sola e libera de' suoi destini. Non intolleranza, non programmi esclusivi...»

Il miglior programma era per lui la designazione di Carlo Pisacane a capo dell’impresa:

«Seguite quanto più potete l’impulso e la direzione che vi verranno da Carlo. Miglior uomo non potreste avere ad inspiratore: principio radicalissimo, assenza di ambizione di potere pericolosa nell’avvenire, concetto strategico nella guerra d’insurrezione, energia nell’esecuzione. Troverete tutto in lui. Non posso abbastanza raccomandarlo a voi e ai vostri.»

*

**

Molti erano i progetti di rivoluzione che si erano affollati e ventilati: impadronirsi del Castel-Nuovo a Napoli; minare il quartiere degli Svizzeri; tentare un colpo su Castel Sant’Elmo.

Mazzini vi mischiava le sue larghe irradiazioni conquistare un vapore e sbarcarne la rivoluzione a. Livorno, farla risalire in su, poi precipitarla in giù.

Giovanni Matina aveva esposto lui per il primo il disegno che venne poi eseguito: liberare dall’isola Ponza i relegati politici, e con essi appiccare la rivoluzione nella parte più incendiabile del Regno.

Per eseguire quel disegno, Mazzini proponeva di comperare il vapore a Londra; Pisacane voleva' conquistarlo a Genova, donde trarlo fino a Costantinopoli; là imbarcarvi 200 armati e condurli a Catanzaro e poi a Cosenza.

Intanto domandava premurosi particolari sul progetto del Matina: Lui e il Coseni apparecchiati pel momento d’azione, inutili nei preparativi di Napoli.

In fine il Pisacane non si potè rattenere; e nel 13 giugno partì egli stesso da Genova per recarsi a Napoli. Si avviava ai più gravi pericoli.

«E nondimeno (scrisse il Mazzini) chi lo vide in quell’ora, avrebbe detto ch'e’ si avviava a diporto. Era tanta in lui la religione del dovere, che la coscienza di compierlo bastava ad infiorargli la vita.»

Comparve incognito ai più nella ragunata dei congiurati in casa Dragone la sera del 15 giugno, e il 16 scrisse al Fabrizi: «ho visto tutti, ho parlato con le cime.»

Partì il 18 da Napoli e ritornò tra il 20 e il 21 a Genova; donde risolse di compire immediatamente la spedizione: «io accetto sempre, quando si tratta di fare.»

Indarno il Dragone e il Fanelli scrissero da Napoli a lui e al Mazzini in Genova, perché temporeggiassero «esprimendo che la decisione della nuova partenza spezzava tutto il prestabilito con le necessità locali.»

Ma già l’ardente Pisacane aveva mandato dire: «domandatemi qualunque cosa, fuorché l’indugio.»

Egli non ricevette le ultime lettere, né gli ultimi telegrammi in stile commerciale dilatorii dell’impresa: ed il 25 giugno partì. Erano suoi compagni, quale capo in secondo della spedizione Giovanni Nicotera, allora fidanzato alla figlia di Carlo Poerio, e di seguito Giambattista Falcone, Barbieri Luigi, Gaetano Poggi, Achille Perucci, Cesare Fardoni, Poggi Felice, Galliani Giovanni, Rolla Domenico, Cesare Cori, Foschini Federico, Lodovico Negroni, Domenico Lerici, Moduscè Francesco, Lorenzo Giannoni, Giuseppe Palloni, Giovanni Cannellari di Ancona, Domenico Massoni e Pietro Rusconi.

Prima di partire firmarono questa dichiarazione, che sa di giuramento romano: «Sprezzando le calunnie del volgo, forti della giustizia della causa e della gagliardia dei nostri animi, ci dichiariamo iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non risponderà al nostro appello, noi, senza maledirlo, sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange dei martiri italiani.»

Questa dichiarazione fu trovata sul petto di uno dei combattenti caduti il 4 luglio; e venne unita al processo di Sapri.

Il piano della operazione da eseguirsi era il seguente.

Il 25 giugno 1857, alle sei pomeridiane il Pisacane e compagni si imbarcarono come semplici passeggieri sul Cagliari, vapore postale della Compagnia Rubattino, che faceva il giro da Genova per Portolongone a Cagliari. Appostarono sullo stesso vapore e nella stessa incognita di semplice passeggierò il capitano marittimo Daneri, destinato a prendere poi il comando della nave. A un certo punto di mare si dovevano incontrare alcune barche dirette da Rosolino Pilo, munite di uomini, di armi e di munizioni. A quell’incontro si doveva eseguire la presura della nave.

Ma Rosolino Pilo aspettò indarno in altre acque. Si possono immaginare i battiti cocenti nei cuori di quei forti, che anelavano di congiungersi e non si videro.

Superato il tratto di mare prefisso per l’incontro degli ausiliari e per il colpo di mano sul bastimento, Pisacane, Nicotera e Falcone si avvidero che il vapore trasportava armi e munizioni del Governo Sardo: deliberarono di compire da soli il gran fatto. Ne informarono i compagni che aderirono; e si accinsero ad impadronirsi del bastimento. Domenico Galati, nella biografia del Nicotera, racconta, che appena poche miglia lontani dal porto di Genova, i congiurati assalirono il capitano Sitzia ed i marinai del Cagliari: la lotta fu accanita; la vittoria rimase ai congiurati; il capitano e i marinai furono chiusi sotto coperta; Daneri assunse il comando della nave.

Questa fu la versione ufficiale per salvare il Cagliari dalle unghie borboniche, che lo catturarono poi e per salvare l’equipaggio piemontese coi macchinisti inglesi muniti di una lettera di Miss White che loro diceva: «non più resistenza, è inutile, obbedite.»

Il Demonte, nella citata cronaca del Comitato segreto, racconta invece che «il capitano e l’equipaggio. non solo non resistettero, ma essi stessi riscaldati a quel fuoco di libertà che dal Pisacane e dai suoi amici si diffondeva, se gli fecero volonterosamente compagni della eroica intrapresa.»

Così tutti fraternizzando nel contagio della libertà, lasciata in disparte la Sardegna, filarono verso Napoli, poggiando a Ponza, che è la maggiore delle isole Pontine, venticinque miglia dallo scoglio di S. Stefano, sul quale erano rinchiusi coi volgari malfattori Luigi Settembrini, Silvio Spaventa e Filippo Agresti.

Il Cagliari diede fondo davanti a Ponza alle quattro pomeridiane del 25 giugno. La monotona vita della relegazione isolata, quella vita vegetativa che rimbambisce le anime adulte e sega le intelligenze, non si aspettava certo quella visita subitanea; quantunque l’Agresti da Santo Stefano fosse in relazione con il Comitato di Napoli, ed il Settembrini fin dal 31 agosto 1855 avesse ricevute dal celebre dotto e patriota Antonio Panizzi le istruzioni per una fuga, in cui la parte dell’angelo di salvamento sarebbe stata sostenuta nientemeno che dal Garibaldi.

Ma il comandante e gli ergastolani comuni di Ponza, imbietoliti nell’assenzio, nel gioco, nel giro meccanico dei giorni caricati come un orologio, nell’osservazione del mare, del cielo, de' pesci e degli uccelli di passaggio, nei calcoli e nell’aspettazione delle grame refezioni, erano lungi dal pensiero di quell’improvvisata. Il presidio di Ponza era di cinquecento soldati, tra artiglieria e linea. I trenta congiurati scendono quatti quatti dalla nave; accaprettano il deputato di salute; il porto doganale è a loro; si slanciano sulla scorritoia reale; ammutiscono la guardia di due ufficiali e tre marinai; inchiodano il cannone; occupano la grande guardia; spogliano delle armi i custodi veterani, quindi muovono all’assalto dell’abitazione del comandante, per averne tutte le armi dell’Isola. Nicotera marcia alla testa di quel drappello di predoni patrioti. Sulla scala un ufficiale colla spada sguainata gli sbarra il passo. Nicotera lo ammazza con una revolverata, ed a Pisacane che gli dice: «bisogna andare dal comandante» risponde: «il comandante l'ho già finito io.» Invece non s’era apposto al vero. Un soldato presente ne rettifica l’osservazione, dicendo che l’ucciso è un semplice ufficiale. Si assalta la casa del comandante. Questi è un vecchio trepido. Avrà osservato dalla vedetta lo scatenamento di quell'invasione. Disse: «mamma mia!» staccò i santi; recitò giaculatorie; uscì con la moglie e le figliuole, in un coro piangente che impetrava pietà.

— Non siamo assassini, grida loro Nicotera; ma italiani venuti a combattere per la libertà.

Il comandante si affretta a rimettere loro le armi, le chiavi delle prigioni, e libera e regala agli invasori quelle gioie dei relegati.

Fin qui il racconto di Domenico Galati negli Uomini del suo tempo. Il Petruccelli aggiungene i Fattori e malfattori della politica contemporanea: il Nicotera «cadde in mare. Fu ripescato dopo aver trangugiato non poco d’acqua e ricondotto sul vapore, dove gli somministrarono i rimedi d’uso; Questo incidente diè luogo a conseguenze grandissime, perché inutilizzato così il Nicotera ed occupato Pisacane a curare l’imbarco dei relegati, ninno potè provvedere a che non si lasciassero a terra le armi e le munizioni prese ai soldati borbonici. E quando, il giorno dopo, si organizzarono sul vapore stesso, i relegati, più di cinquecento, si trovarono soli centotrentacinque fucili, con poca munizione.»

Ed ecco il Cagliari, questa nave portatrice di tanto ardimento patriottico, accresciuta di centurie di galeotti. Alcuni puristi della morale fecero le loro querimonie su questa liberazione dei relegati di Ponza, perché siansi adoperati volgari prigioni nell’opera purissima di affrancare la patria dalla tirannia.

Ma osserva il signor di Treitsche nel suo studio storico su Cavour, che nei grandi fatti vi è una morale propria, relativa, che non è la morale comune. «Non è lecito ad una testa politica con semplici luoghi comuni di moralità giudicare la terribile lotta dei doveri che si agitano nella coscienza di un fondatore di Stati... Creare la propria patria è il più grande atto di moralità che ad un mortale sia dato di compiere.»

Oltre a ciò la selvaggia crudeltà dei Borboni autorizzava qualsiasi par pari referre.

Dopo avere martoriato i patrioti fino a far strappar loro la barba a pelo a pelo, il Governo borbonico. li aveva percossi ed avviliti unendo insieme nelle oscene condanne gli amatori della roba altrui e quelli della patria, il fiero Spaventa, quell’angelo di bontà che fu il Settembrini, l’ex-ministro Poerio con coloro che dovevano lasciare in galera o sui patiboli i delitti.

Li aveva imbrancati insieme incatenandoli nella stessa lurida pubblica processione; poi li aveva ridotti negli stessi porcili, pascendoli di orride fave (fautrici di ernie), e di arenosa pasta, cui avrebbero sdegnato i maiali.

Aveva accomunato quegli ingegni eletti, educati ed eruditi, ad ignoranti assassini, che non avevano neppure imparato a distinguere le monete di rame, in loro vita non avevano mai conosciuto letto né mensa, tanto che uno di loro, avendo vista finalmente una tavola apparecchiata, si inginocchiò scambiandola per un altare. I borbonici avevano voluto abbrutire e contaminare anime di martiri, di eroi e di confessori della patria e della libertà nel brutale contatto di pastori, che avevano visto il lupo predare e sgozzare le pecore ed essi avevano imparato a predare e sgozzare i fratelli.

Quel Governo aveva voluto irridere e castigare i discepoli di Filangeri, di Mario Pagano e di Pietro Colletta, che studiavano con ingegno onesto e dotto i miglioramenti civili per la più umana legislazione, imprigionandoli con le monche o guaste cervella di scellerati che sapevano d’ogni chiodo foggiare industriosamente armi fratricide, e nasconderle, magari, nell’ano, e fabbricare carte da gioco false, e si frodavano, e si accoltellavano nella divisione della broda, e stupravano persino galline, ed eran tutto giorno in risse, libidini, battiture, ubbriachezze, vendette e bestemmie; imperocché, narra il Settembrini, i relegati politici erano i soli che andavano in chiesa, i soli che credevano nella virtù e però in Dio.

Oh! bisogna leggere le ricordanze del Settembrini, la sua cronaca di ergastolano, le sue preghiere al Signore, le sue lettere alla moglie, i suoi libera nos Domine, per comprendere che qualunque fosse arma era degna per rovesciare il Governo borbonico.

Senza che quello di Ponza era sovratutto un reclusorio militare.

*

**

Intanto il vascello indiavolato, cui la flotta borbonica non può raggiungere, carico di patrioti anelanti alla libertà politica e di galeotti scatenati, nelle cui fibre vibrava il desiderio unico e lungamente represso di correre soli, a perdifiato, nelle liberissime campagne — quel vascello, come il naviglio corinzio di Timoleone diretto alla liberazione di Siracusa, affrettava il puleggio a golfo lanciato.

Si accumulavano sul Cagliari l’audacia ed il programma di Timoleone, di re Giovacchino e dei fratelli Bandiera, si accumulavano con un crescendo di sinfonia orchestrale nel petto dei duci.

La sera del 28 giugno 1857 sbarcò Nicotera pel primo.

Si cercarono dei duemila insorti che si aspettavano. Nessuno.

Imprigionati il Magnone, il Matina, il prete Padula, ecc, il Comitato di Napoli era rimasto interdetto, paralitico, come un’orchestra quando si fischia e cade il melodramma.

Rinfrancando nei petti l’entusiasmo, che si trovava isolato da quella solitudine, gli sbarcati fugarono poi le guardie urbane capitanate dal famigerato Peluso, uccisore del patriota Carducci; e il Peluso a mala pena potè salvarsi buttandosi come un coccodrillo in mare.

La mattina del 29 si tenne un piccolo consiglio di guerra; e si deliberò di marciare alla volta di Lagonegro, dove, chi sa? si sarebbe veduto qualche capo di insurrezione.

Da Sapri al Fortino attraversano Torraca, un borgo in festa per i santi Pietro e Paolo, come era in festa il Pizzo per la Madonna del Rosario allo arrivo di re Giovacchino Murat.

Nessuno li segue.

Pernottano in una osteriuccia campestre e giungono loro notturni messaggieri, due giovanotti di Padula, che promettono per il giorno dopo l’improvvisata di cinquecento a seicento insorti. Adunque si parte per Padula. Nessun insorto.

Pisacane la mastica male; tutti comprendono il ghiaccio della situazione desolata.

Trovarono la foglietta da bere, l’allegria festaiuola, la stornellatrice, come cicala, gaiezza delle messi; ma non l’inno robusto di un popolo che si rivendica in libertà.

Pure rattizzano il fuoco interno, il puro fuoco della patria, e si avanzano sicuri di riportarne lieta mancia e gloriosa, il martirio e la morte, che riusciranno esemplari all’Italia, perché l’Italia risorga e non soffra più stranieri né tiranni, ma possa eleggere liberamente i suoi legislatori, non certo perché alcuni di questi si impinguino di ben altre mancie ritratte dagli impresari di ferrovie e dalle società di navigazione. Intanto, checché abbiano poi ad operare i futuri rappresentanti di quell’Italia, cui gli eroi si dispongono a nobilitare e riscattare col loro sangue, gli eroi vogliono mantenersi forti, sdegnosi di mollezze e rigorosamente onesti.

Fissato il quartiere generale nella casa Romano di Padula, il vice condottiero Nicotera passa la notte in una stalla celiando d’imitare l’esempio del Bambino Redentore.

Gli agenti del Governo borbonico spargono fra i contadini la frottola paurosa, che il Pisacane e compagni siano tutti malfattori, ladri fuggiti di galera.

Per lo contrario quei liberatori, lungi dall’appropriarsi l’altrui, pagarono generosamente i viveri per ogni paese dove passarono: non levarono quattrini da casse pubbliche.

«Euschio Bucci fu sottoposto a giudizio sommario per ordine del nostro capo Pisacane, e fucilato per aver rubato pochi carlini ad una donna, dei quali per altro ne fu rivaluta al doppio da me stesso.» Lo narra il Nicotera in una delle sue numerose proteste, pubblicata a Torino dall'Opinione del mercoledì 10 marzo 1858.

*

**

All’aurora del primo luglio comparvero a Padula le prime truppe borboniche, rintuzzate dallo strenuo Falcone, che coll’opera di cento relegati, muniti di picche e di bastoni, più che di pistole, sgominava le guardie urbane dalle casette di campagna, come volpi dai pollai.

Sopraggiunti i cacciatori e i gendarmi, le forze borboniche salirono a 2000 uomini. I liberali erano cinquecento, di cui appena centotrentacinque armati di schioppi. Si combatté acremente, disperatamente dalle sette del mattino alle due pomeridiane.

Tuttavia sotto il tempestare dei proiettili il Pisacane e il Nicotera deliberarono la ritirata verso il patriottico Cilento: e fu ritirata ammirevole; ritirata leonina. Come leoni, che dilungandosi torcono di quando in quando la testa per minacciar nuovi morsi, traversarono fieramente il villaggio di Padula e la larga pianura che si stende fra i monti di Padula e quelli di Buonabitacolo. Ma parecchi degli ex-relegati, o stremati di forze, o scemi di coraggio patriottico, perché la liberazione di Ponza alle loro fibre significava soltanto il largo della campagna, erano restati a Padula, e di lì a poche ore cento e più di essi vennero passati per le armi dai Borbonici.

Soltanto centoventi accompagnavano Pisacane, Falcone e Nicotera.

Vagarono per tutta la notte nelle macchie della montagna, come anime dannate; ed ai primi albori del 2 luglio si affacciarono a Sanza. Erano laceri, affranti, portavano sulla fronte le cupe stimmati di una eroica disperazione; alcuni inermi, tutti santamente orrendi.

L’annunzio del loro arrivo fu come un dalli, dalli al lupo!

— Sono i ladri e gli assassini scappati dalle galere per rubarci le pecore nostre.

— Sono li briganti, che volevano ammazza il re.

— Sono l’Anticristo! Sono la Versiera.

Si risvegliano nel villaggio le paure, gli errori popolari; si scatenano le furie plebee; sorgono le vecchie streghe cispose ed adunche, saltellano le giovani, baldanzose schernitrici; si armano i padri vellosi, i lanuginosi mariti, i garzoni frementi; vengono con le picche, coi forconi, colle scuri; sono condotti da un birro, Sabino Loveglia.

A quell’orda selvaggia fanno di spalla cinque battaglioni di cacciatori.

Formano un nembo crudele, che piomba sul deserto stuolo dei patrioti, lo percote, lo ammucchia, lo insacca.

Allora da quella scura massa infernalmente battuta pare si elevi qualche cosa di bianco.

Sarà l’ala bianca dell’angelo del perdono. È la bandiera bianca del parlamentario.

Ma quegli efferati non sanno, non comprendono nulla di bandiera bianca.

Alla crudeltà si unisce la cupidigia.

Si scagliano, premono calci sui patrioti caduti, raspano i panni ai trucidati, e li derubano dell’oro, chiamandoli briganti.

Il bottino è di molte migliaia di lire in oro.

Pisacane era stato stramazzato da un colpo di fucile. Per cessare quel vilipendio, si sparò addosso il revolver. Il Falcone, visto spirare il suo capo, ne imitò l’esempio, si esplose pure il revolver nella testa. Nicotera, colla mano resa imbecille e spezzata dalle ferite, vibrava indarno il pugnale spietato, neroniano contro se stesso. Impaziente, supplicava gli astanti acciocché lo aiutassero a darsi la morte.

Era una pugna flegrea; un campo di morte, in cui si agitavano giganti suicidi rivolti al cielo.

Ma Naso di Cane, uno dei liberati dal forte di Ponza, strappò il pugnale dalle mani di Nicotera, e gli impedì la morte. Però lo lasciò esanime al suolo quasi cadavere. Nicotera aveva la destra forata da una palla; e la testa e il tergo tagliati da due colpi di scure.

Giaceva col suo gran cappellone calabrese. Lo sospettarono, lo riconobbero per un capoccia.

Intorno al suo corpo inferocì il vespaio degli assalitori; lo strapparono; lo denudarono, togliendogli persino le calze; lo schernirono, lo graffiarono, lo punzecchiarono, lo trafissero; poi legatolo piedi e mani lo avvolsero dentro una coperta di lana, lo abballottarono; quindi coricatolo su una barella, poi sopra un ciucciarello, lo condussero in deposito. Al suo passaggio le donne, le megere lo maledicono, e si avvicinano per infliggergli, profondargli pizzicotti come bottoni roventi.

Quando la rabbia e lo scherno annullano il cuor loro — le donne, i bambini e la plebe sono gli animali più feroci di questa terra.

Se un povero cane cade in sospetto di essere arrabbiato, i bambini e le donnicciuole si nascondono e tremano dalla paura; ma quando sanno che il robusto ammazzacani o la guardia campestre lo ha atterrato col calcio del fucile, escono, lo rincorrono, lo rincalciano coi bastoni e coi sassi, lo raccolgono a percosse nel rigagnolo della via; lo sbudellano a sassate in quella gora di fango e di sangue.

Il povero cane avrà scodinzolato per le feste di famiglia; avrà protetto quei bambini; avrà alzatole zampe per quelle donne; ma la ragazzaglia, la plebe e le donne, quando l’ira o lo scherno acciecano loro il cuore, sono gli animali più feroci di questa terra.

*

**

Il Nicotera, cacciato in un canile, venne interrogato nello stesso 2 luglio dal supplente al giudice di Sanza, ed egli rispose con coscienza altiera e netta: «emigrato dalla mia patria nel 1848 per affari politici, mi ero rifugiato a Torino; quindi passai a Genova donde mi sono imbarcato con vari compagni per recarmi sul Napoletano e promuovervi la rivoluzione a fine di liberare la mia patria dalla tirannia. Dei miei compagni non conobbi altri che il morto Pisacane; ignoro chi avesse noleggiato il vapore, dove togliemmo armi e munizioni.» Lasciato tuttavia colle ferite scoperte, venne trasportato sopra un carro a Sapri, e di lì imbarcato per Salerno; dove fu sottoposto al giudizio di quella Gran Corte criminale.

Egli incontrò l’alto onore storico di trovare a presidente della gran Corte giudicante quello stesso Domenico Dalia, che aveva funzionato da avvocato fiscale nel processo dei precursori Bandiera.

Il Governo borbonico, che si compiaceva non solo nel torturare i corpi, ma tentava altresì di contaminare le anime dei patrioti per denigrarli a sua posta, cercò di circuire ed allettare il Nicotera implorandone rivelazioni, e cominciò esso stesso a mettere per il primo in giro l’affibbiatagli calunnia di delatore.

Ma il Nicotera, bollente come un Achille e furbo come un serpente, seppe sventare le spire velenose della polizia borbonica; e spiccò in quel processo per luminosa audacia e per loquacità asseritrice del buon dritto, ma non danneggiatrice di nessun individuo, anzi salvatrice dei compagni.

Imbrogliò alla sua volta gli inquisitori; col cenno ad un misterioso carbonaro aveva già mandato a distruggere le carte più compromettenti sparpagliate dal frugato cadavere di Pisacane. Quando venne tradotto davanti all’intendente Aiossa, tuttavia col capo fasciato, con il corpo ravvolto in una coperta più da cavallo che da cristiano infermo, aveva la destra martirizzata dalla estrazione delle ossa infrante, operazione a cui si era sottoposto per salvarsi dall’amputazione.

Sessanta mignatte lavoravano, mordevano, in quella mano più linguettanti e più cocenti del braciere su cui arrostiva la destra di Muzio Scevola. Egli era obbligato a sceverare con l’altra mano le carte di Pisacane, e durante quel martirio trovò il sangue freddo per far saltare, come carta inutile, la Nota campione che conservava la chiave del cifrario, e sviò l’attenzione dell’istruttore spingendolo alla ricerca del libro a riscontro già distrutto.

Trovatogli un portafogli contenente una cartolina di polvere, che sciolta e passata sui fogli bianchi, avrebbe fatto sorgere pericolose note vergate coll’inchiostro simpatico, diede ad intendere al procuratore generale che era veleno, onde quegli, preso delicatamente il portafogli con due dita, lo scaricò miracolosamente giù dalla finestra.

Davanti al ricordato Aiossa, sentendo accusare il capitano marittimo Daneri per avere inveito contro un ufficiale di Ponza, Nicotera saltò su e disse: «sono io stesso che uccisi col revolver quell’ufficiale.»

Sbalordito a questa confessione un Condò, che faceva dei rapporti ufficiali su quegli interrogatorii, ebbe a dire: «ma questo barone è di bronzo.» Nel processo il Nicotera inveì contra i Murattiani residenti in Francia, senza pronunciare un sol nome di quegli altri Murattiani, che egli ben sapeva covarsela a Napoli; e diede la precisa ragione della sua catilinaria contro i fautori di un pretendente straniero; essa non era gelosia di mestiere cospiratorio, né intenzione di discaricare le sue gesta: «dichiaro che la mia vera intenzione nello svelare la cospirazione murattiana (preparata in Francia) è quella di liberare la mia patria da una bruttura che potrebbe rimanerle di eterno obbrobrio.»

Il Nicotera osò attribuire al suo giovane braccio ogni più violento fatto consumatosi.

In un’udienza egli è fatto scendere al banco del cancelliere per riconoscere un fascicoletto: «È il regolamento del convitto femminile di Vercelli» risponde placidamente.

— Voi mentite! — lo insulta il Procuratore generale.

— Prego — con calma e slanciata fierezza dice il Nicotera al Presidente — La prego, signor Presidente, a difendermi dagli insulti del Procuratore generale.

Questi ribadisce la parola mentitore.

Ed il Nicotera gliela strozza, brandendo il calamaio di bronzo del cancelliere.

Un altro giorno il Procuratore generale osò dire che la coorte dei pirati condotta da Pisacane e Nicotera era scesa in terraferma per rapinare, saccheggiare ed incendiare.

Il furiale Nicotera annunzia al Presidente: «se non modera e non mette a segno quella bestia feroce lì seduta, con la veste di Procuratore generale, sarò costretto a dare un salto dalla scranna ed a staccargli la testa dal busto.»

Questo contegno parve straordinario persino al suo difensore Diego Taiani, sovratutto preoccupato del compito della patriottica difesa, la quale secondo un ringraziamento fattogli poi dallo stesso Nicotera, riuscì migliore di quella pronunziata da Giulio Favre per Felice Orsini.

Sul finire del 1876, dopo il trascorso di 18 anni, nei quali erano passate fra l’antico condannato e il vecchio difensore voci di duelli, querele e polemiche per cagione di parti politiche — il Taiani ebbe a spiegarsi sul Nicotera, da lui definito come loquacissimo e pessimo cospiratore, dandone questo perché: perché in quei suoi eterni interrogatorii, invece di un vero cospiratore che si cuce le labbra, egli volle assumere la portata di uomo politico, ardente, passionato, il quale tenta abbattere tutti i partiti che non siano il suo, ma pregiudicando solo se stesso e non mai gli altri.

Così si spiegò il Taiani al processo intentato dal Nicotera alla Gazzetta d'Italia di Firenze.

Un altro testimone di quel processo, il consigliere d’appello Michele Carelli, che era stato parimenti difensore nel processo di Sapri, ebbe a sentenziare che il Nicotera «si tenne sul tipo di quegli uomini di Plutarco, i quali fino all’ultimo seguono la loro via, perché ci hanno fede.»

Ma il migliore elogio del contegno di Nicotera nel processo di Salerno, fu riferito il 30 gennaio 1858 dal Procuratore generale del Re, C. Francesco Pacifico, al Direttore del ministero di grazia e giustizia, nel quale rapporto è definito il carattere di Nicotera, come cinico, altero e risentito.

E il massimo panegirico del suo patriottismo è scritto in stile lapidario nella sentenza di condanna pronunziata contro di lui dalla Gran Corte di Salerno:

«Ferdinando secondo — Per la grazia di Dio — Re del Regno delle Due Sicilie, ecc.. ecc… L’anno mille ottocento cinquant’otto, il giorno 19 luglio, in Salerno… per l’accusato Nicotera basta rammentare le sue precedenti opinioni politiche, le manifestazioni fatte nei suoi interrogatorii, e la parte che ha rappresentata nei fatti compiuti in questo Reame, per non esitare un momento a proclamarlo cospiratore. In effetto egli assai giovane si fece ammirare nei rivolgimenti politici del 1848 seguiti nelle Calabrie, per i quali fu poi condannato in contumacia a 25 anni di ferri; poscia emigrato a detta epoca negli Stati Pontificii, si arruolò nelle bande della sedicente Repubblica romana, donde poi ristabilito l’ordine si rifuggì nei dominii Sardi.

«Egli ha confessato inoltre, che essendo del partito nazionale, ossia repubblicano, diede la spinta ad effettuare la spedizione, e che il Pisacane lo pose a giorno della corrispondenza tenuta col Comitato napoletano per concertare e conchiudere i negozi, onde attuare la spedizione e la rivolta: infine il contegno, il coraggio e l’audacia mostrata negli avvenimenti di Ponza e di questa Provincia, additano il Nicotera per un audace cospiratore

«Per questi motivi

«Condanna...

«Giovanni Nicotera alla pena di morte...

«Firmati: D. Dalia»

e gli altri Giudici.

Il Governo borbonico, crudele, ma pauroso della brontolona ed umanitaria Inghilterra, non si attentava a far eseguire le sue condanne capitali; pure il Nicotera ricusò sempre di domandare la grazia.

E la grazia tardava a venire.

Ventiquattro ore dopo la sentenza, i condannati stavano per essere messi in cappella; a Salerno era stato chiamato il carnefice, che già aggiustava gli arnesi del suo mestiere funesto. Il Taiani e due altri difensori corsero a Napoli, a Castellamare e a Quisisana, fintanto che poterono avere sopra un ballatoio udienza dal re, che li congedò senza veruna risposta.

Finalmente seppero dal Pionati, ministro di grazia e giustizia, che la grazia era cosa fatta. Il Nicotera, a sentirne la prima notizia, esclamò piacevolmente: «sarà per un’altra volta.»

Siccome, secondo il Codice napoletano, la Corte che aveva pubblicata la sentenza doveva chiamare in pubblica udienza i graziati e legger loro il decreto di grazia (come narrò il testimonio Taiani nel processo della Gazzetta d'Italia), il Presidente Dalia aveva qualche giorno prima della funzione chiamato il Nicotera e gli aveva detto: «Avete ottenuta la grazia, vedete dunque che Ferdinando II non è quel tiranno che si dice; insomma in questo momento mostratevi grato, perché voi lo sapete, che nelle cause politiche aver la grazia della vita è tutto, e quindi innanzi a questo grande beneficio mostratevi lieto, e nel momento che sarà letto il decreto, voi insieme con gli altri gridate Viva il Re!» Il Nicotera rispose: «Abbiate pazienza, questo non è atto di cortesia; questo abbasserebbe il nostro carattere morale, ed io non intendo, né posso farlo.» Ed il Dalia non insistette più: ed infatti la funzione si passò nel più lugubre silenzio di accesa mestizia.

*

**

Con trenta libbre di catene ai piedi, il Nicotera fu condotto da Salerno a Napoli, e da Napoli alla Favignana, la più grande delle isole Egadi, a 18 chilometri da Trapani, alla punta occidentale della Sicilia.

Lo storico Colletta la descrive cosi: «Quest’isola dei mari di Sicilia, AEgusa de' Latini, e fin di allora prigione infame per i decreti de' tiranni di Roma, s’erge dal mare per grande altezza in forma di cono, del quale in cima sta fabbricato un castello. E dal castello per iscala tagliata nel sasso, lunga nello scendere quanto è alto il monte, si giunge ad una grotta, da scarpello incavata, che per giusto nome chiamano Fossa. Ivi la luce è smorta, raggio di sole non vi arriva: è grave il freddo, l’umidità densa; vi albergano animali noce voli; l’uomo, comunque sano e giovane, presto vi muore. Fu stanza (nel 1799) di nove prigionieri (politici), tra' quali più noti il principe di Torella, grave d’anni ed infermo, il marchese Corleto della casa de' Riari, l’avvocato Poerio, il cavaliere Abbamonti.»

Questa scura tomba, a cui il Governo borbonico per ipocrisia bacchettona mandava i suoi graziati della vita, chiamasi fossa di Santa Caterina. Essa venne descritta più recentemente e più particolarmente da antichi sopraintendenti o condannati politici e da nuovi pellegrini d’amor patrio, che deposero nel processo contro la Gazzetta d'Italia.

Era ritenuta «inadatta a mantenere i prigionieri in buona salute», secondo una relazione ufficiale del marchese Rodolfo Colonna, che comandava nel 1859 il Genio a Trapani; pareva una vera bolgia di sepolti vivi. Quella pietra livida di fori, ricca di zanzare e scorpioni e di nebbia che vi docciava in perpetua pioggia, aveva 20 buche, una delle quali paragonabile al trou aux rats descritto da Vittor Hugo per abitazione della misera Gudula, chiamavasi la stanza del Somaro. Quella sorciaia si appozza a destra di un corridoio arcato, dove le altre buche si sprofondano a sinistra. Nella fetida, umida e buia stanza del Somaro venne per crudele privilegio destinato Giovanni Nicotera. Quello spirito smanioso ed espansivo, quel corpo elastico, fatto per i frequenti e spiccati rimbalzi, doveva raggricchiarsi in angusta nicchia di canile, su cui gli era impossibile rizzarsi senza dare della nuca nella volta, né distendersi, senza spenzolarsi faticosamente dal cavalletto; né occupare il pavimento perché esso si avallava in un feccioso rigagnolo; onde nei giorni di asciutta era gala stare ritto a cavalcioni del canale, e in quelli piovosi, in cui l’acqua sorgeva, sorgeva terribilmente, gli bisognava tuffarsi fino all’ombelico nella sozza belletta.

I pietosi e frementi visitatori, che nel 1862 fecero aprire quella cella, stata murata per vergogna — lessero al lume della candela, poiché là non penetra luce di giorno, iscrizioni a lettere di carbone: Fu questa tremenda segreta dove giacque Giovanni Nicotera, vittima di quella infame Dinastia, sbalzata più tardi dal trono di Napoli per sua cooperazione, — Dio liberi uno sventurato da questo luogo, che senza suo aiuto vi trova morte! — Qui fu sepolto lo sventurato ergastolano politico Giovanni Nicotera, — L’ultima è questa: 0 tu che avrai la sventura di stare in questo luogo, preparati a soffrire tutti i tormenti. Sarai punzecchiato da migliaia di zanzare; oppresso dal fumo: quando piove, vedrai sorgere l’acque dal suolo, sarai afflitto da forti dolori a causa dell’umidità, che ti farà trovare tutto bagnato; sarai appestato dal fetore del vicino luogo immondo, ecc.

Il bibliotecario trapanese Giuseppe Polizzi, copiate tali iscrizioni, le mandò al Nicotera, il quale gli rispose che riconosceva le ultime due per sue.

*

**

Il Nicotera era mantenuto a due soldi di pane al giorno, pane ripieno di terra. Scampato alle tentazioni di suicidio, e alla negra belletta che l’affogava, egli dopo cinque mesi venne tramutato alla galera di S. Giacomo nella stessa isola di Favignana, e pel breve tragitto venne denudato a fine di scoprirgli addosso qualche pezzo di carta.

Nella galera di S. Giacomo, brutta pur essa, ma meno orrida della Fossa di Santa Caterina, maturarono le sofferenze di Giovanni Nicotera pei giorni di risurrezione. Il tempo fu per lui galantuomo.

Già i marinai del Cagliari, appena liberati anche per cagion sua — gli avevano mandato un commovente indirizzo di ammirazione e riconoscenza. «Pregiatissimo signor Nicotera! I marinai del Cagliari, compresi della più alta stima e venerazione per gli eroi martiri della spedizione Pisacane, ammirano in voi, ultimo superstite, l’esemplare d’ogni virtù cittadina, per la nobiltà di condotta, sublimità di pensieri, abnegazione e fermezza d’animo nell’alto immutabile proposito; e benché non capaci di abbastanza apprezzarvi quanto meritate, e dolenti di non potervi dimostrare come vorrebbero, l’affezione che per voi nutrono, e i ferventi voti che ognora innalzano al cielo per la vostra felicità e piena effettuazione di ogni vostro desiderio, pure vi pregano accettare, come pegno della loro memoria per voi, queste righe!»

E terminavano «sperando non isdegnerete questo piccolo attestato del loro grande amore, augurando giorni migliori sì a Voi che alla patria comune, vi salutano cordialmente, e si onorano col dichiararsi vostri umilissimi e devotissimi servi»

«Il giugno 1858

«Agostino Ghio — Pietro Cidale, nostromo — Lorenzo Aquarone—Domenico Costa — Domenico Sturlese.»

L’augurio di quegli uomini semplici e forti venne ratificato da Dio.


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Concordanze italiche

Il poeta Mercantini commoveva la gentile Italia col suo canto della Spigolatrice di Sapri dal patetico ritornello: «Eran trecento, eran giovani e forti. E sono morti.»

Gli è vero che qualche spirito di puro patriottismo si contristò per la spedizione di Sapri. Per esempio il Settembrini nell’ergastolo di Santo Stefano così ne giudicava scrivendone alla moglie il 14 luglio 1857, alle ore 3 e mezzo p. m.: «Gigia mia, stamane ho saputo la notizia del disastro di Sapri, e sono addoloratissimo, e maledirò quegli scellerati che sotto specie di libertà, standosi da lontano, mandano giovani generosi a morire, anzi ad essere macellati.»

E nel poscritto della stessa lettera:

«La notizia qui venuta è stata scritta ad Agresti. Ora udiremo condanne, fucilazioni, ergastoli, ferri. Povero paese, lacerato in mille guise dagli sciocchi e dai tristi! Scellerati quelli che mandano questa gente, senza conoscere bene il paese, e senza venire essi nei pericoli, nei quali mandano gli altri. Sciocchi, stolti, scellerati quei di dentro che dicono a quei di fuori: venite, e spacciano bugie, e fanno credere che sta per iscoppiare il vulcano, che non è altro che la loro pazza testa...»

E nella lettera del 25 luglio ripeteva nello stesso tono: «Mia cara ed adorata Gigia! Non ti so dire quanto dolore ho sentito nella parte più viva dell’anima pel fatto di Ponza e per il macello di Padula. Quel sangue, e quello che si verserà, e i dolori che saranno patiti da tanta gente ingannata, ricadano tutte sul capo di coloro che consigliano queste imprese disperatamente pazze. Scolari nei principii, stolti e scellerati nella scelta dei mezzi, hanno rovinato la causa pubblica. Trenta persone con una sorpresa vogliono mandare sottosopra un paese di otto milioni d’abitanti, con un esercito di centomila uomini; vogliono parlar di repubblica a gente che otto anni fa mangiava carne umana; e che non intende altro che la rapina! Maledetto chi ha mandato al macello tanti generosi ed inesperti! Maledetto chi

consigliava pugnalare i soldati in Livorno e in Genova. Genova gode di tal bene, che la Francia stessa ora non ha, e questi matricidi glielo volevano togliere! E questi biasimavano i condannati napoletani, che accettavano di andare all’Argentina.»

Però lo stesso Settembrini nel primo volume delle sue Ricordanze, narrando dei primi tentativi della Giovane Italia, che intendeva di rendere libera ed unita la patria, mentre questa era pienamente posseduta dalla tirannide interna e straniera, fattasi l’obbiezione: «Ma voi eravate veramente dei pazzi!» rispondeva: «Sì! ma senza quei pazzi non ci sarebbe l’Italia ora; senza quella fede, senza quella febbre ardente e quell’entusiasmo i savi discuterebbero ancora e non avrebbero fatto nulla. Ci volevano i pazzi ed i savi, come in tutte le cose grandi ci vuole l’ardire ed il senno, ma al cominciare ci vogliono sempre i pazzi...»

Ciò concorda con la nuova teoria psichiatro-zoologica delle rivoluzioni esposta dall’alienista C. Lombroso nello studietto dei due Tribuni stranamente da esso accozzati, Cola e Coccapieller: «i rivolgimenti storici non si fanno duraturi se non sono preparati… Ha una lunga serie di eventi. Ma chi ne precipita Ila soluzione, alle volte, molti anni prima dell'applicabilità pratica, sono i genii alienati, che precorrono gli eventi, non sentono gli ostacoli, né li temono; le perciò spesso riescono, laddove i savi sarebbero «stati impotenti.»

Come il Settembrini si corregge col Settembrini e la sua benedizione compensa la maledizione, così si correggono, si compensano i patrii avvenimenti, i quali nel loro complesso valgono molto di più che qualsiasi concetto individuale di scrittore patriota.

Gli è vero che al tentativo di Sapri fece brutta accompagnatura la rivolta mazziniana tentatasi a Genova il 29 giugno 1857 con la presa del forte del Diamante e con l’uccisione di una povera sentinella, per fare di Genova come di Livorno due fomiti ausiliarii della spedizione di Pisacane.

Il Governo liberale piemontese, che agevolmente sedò quei moti ingiusti di Genova, imparò altresì a non meritarli per nessun punto.

Ora noi ci troviamo a così serena e riconoscente distanza da quegli avvenimenti, che possiamo abbracciarli in un solo sguardo combaciati insieme nelle loro apparenti divergenze di forma e nella loro sostanziale concomitanza di effetti.

Nei sotterranei della storia, Mazzini e Vittorio Emanuele, Cavour e Garibaldi, Carlo Pisacane e Terenzio Mamiani, Giovanni Nicotera e Luigi Settembrini si aggrovigliano e si confondono per le stesse radici e per gli stessi succhi, che sono l’amore e il proposito della patria una e libera.

Il repubblicano Mazzini, il quale, promovendo le sollevazioni per la libertà ed unità nazionale, predica che non si frastorni né si pregiudichi la grande questione coi particolari della forma di governo, si combina col porro unum est necessarium di Cesare Balbo e col programma mantenuto fedelmente dal figlia di quel Carlo Alberto, il quale, quando era tuttavia sovrano assoluto, scriveva nel silenzio e nel religioso raccoglimento: «io lo sento, fino all’ultimo mio sospiro, il mio cuore palpiterà al nome di patria e di indipendenza dallo straniero.»

La memoria del martire Pisacane, che nel suo testamento legava eresie patriottiche, come quella che la dominazione della Casa di Savoia e la dominazione della Casa d’Austria erano precisamente la stessa cosa, ed il regime costituzionale del Piemonte era più nocivo all’Italia che la tirannia di Ferdinando II, e nelle sue fiere lettere al Comitato di Napoli aveva chiamato il Mamiani retore orgoglioso, trovava in questo poeta filosofo il santo confessore, che nel Parlamento subalpino il 18 aprile 1858 così arringava contra quei tiranni, dai cui sgherri fu trucidato il Pisacane:

«Quale cosa, in nome di Dio, nelle loro mani è rimasta inviolata? Quale nativa e naturale bontà non ha contratto quel veleno che le è stato inoculato? Dignità personale, leggi, libertà, giustizia, religione ahi! la stessa religione, tutto insomma all’ombra delle armi straniere fu contorto, svisato, contaminato (Bravo!)...

«Dal 99 in poi l’Italia non cessò mai di spandere sulla faccia di tutto il globo migliaia di esuli e di rifuggiti succedenti gli uni e gli altri, senza mai tregua e fuori della speranza che cessi la loro miseria; ed è egli da stupire che da tante migliaia di anime conculcate, che da un così gran cumulo di patimenti e di mali si sollevi a poco a poco, direi così, una schiuma di sfrenate e pervicaci passioni, terribili e invitte come la disperazione, che le promuove e le alimenta? (sensazione).

«Si persuada una volta la diplomazia, che la natura non ismetterà mai di seminare in Italia germi straordinari d’umana forza; ingegni svegliati ed originali, spiriti oltremodo bollenti, tempre adamantine, coraggio indomabile, propositi di tremenda ed inflessibile audacia continueranno sempre a pullulare nella penisola, infino a che nón l’avrete col ferro e col fuoco menata alla condizione in cui la ridusse Attila ed Alarico» (Bravo! Bene!).

Più giù il Mamiani soggiungeva: «Lungi da noi qualunque principio e qualunque opinione odiosa ed abbominevole ai buoni. La causa d’Italia è santa, ella è cara e giusta agli occhi di Dio immortale; guardiamoci bene di oscurarla menomamente con l’uso di mezzi non eletti, non puri, non generosi.»

Ma in riga di opere buone, quegli di cui era principalmente estasiato il Mamiani, cioè il conte di Cavour, mentre i congiurati trascorrevano o precipitavano a fomentare insurrezioni, egli nella sua orbita diplomatica faceva pure per l’Italia, se non d’ogni erba fascio, certo d’ogni fiore ghirlanda.

Nel 1855 scriveva da Parigi al suo ministro degli esteri Cibrario: «V’avverto, che ho arruolato nelle file della diplomazia la bellissima Contessa di………………………... invitandola a coqueter ed a sedurre, se fosse d’uopo, l’imperatore.»

Il Governo sardo, che agli spiriti impazienti pareva pigro e pusillo, ora fa maravigliare i lettori dei documenti storici per l’altezza audace delle sue note diplomatiche e delle sue dichiarazioni parlamentari.

L’impazienza, che pareva incommoda, dei Brofferio e dei Trivulzio-Pallavicino pur serviva ad alimentare il coraggio di Cavour e ad acuirne la sagacia.

Bisogna rileggere le note diplomatiche del ministro degli esteri del Piccolo Piemonte contra l’Impero austriaco, che aveva sequestrati i beni degli emigrati lombardi!

Che dignità risoluta! Quelli eran dottori del diritto nazionale!

E quando il ministro borbonico Carafa, ai consigli di umanità direttigli dal Piemonte, si permise di rispondere rinfacciando al Governo Sardo la tolleranza dei preparativi rivoluzionarii, il Cavour fu tomo di fargli restituire e rimangiare la nota per mezzo del suo rappresentante conte di Groppello; e denunziava a un tempo l’insolenza borbonica a tutta la diplomazia europea, osservando con terribile finezza: «forse il Governo di Napoli ha ceduto ad un momento d’ira, ad un sentimento d’irritazione contro un paese che ha il torto ai suoi occhi d’essere governato in un modo ben diverso dal suo.»

Certamente il conte Cavour così carico di responsabilità governativa non poteva usare il linguaggio dei Comitati rivoluzionarii.

Pure «propugnare la causa italiana» fu il compito dichiarato diuturnamente dal Cavour. Questa la espressa ragione delle sue imposte, della guerra di Crimea, del Congresso di Parigi, della legge risguardante la vita dei sovrani stranieri e reprimente l’apologia dell’assassinio politico.

Ricordando come la Francia repubblicana era stata non solo sorda e disutile alle domande del liberale ma monarchico Piemonte, non solo sorda ai messaggi della repubblica veneziana recatile da Aleardo Aleardi e dal Gar, ma apertamente ostile e micidiale alla sorella repubblica romana, nonostante le commoventi ambasciate di Carlo Rusconi; il Cavour aveva meditato di giovarsi per l’Italia del potente ausilio di Napoleone III.

Né, lavorando per la patria intorno all’occupatore del 2 dicembre, eziandio in compagnia della bellissima contessa designata nella lettera al Cibrario, egli si adontava. Con ragione diceva alla Camera il 16 aprile 1858: «Non si vide forse il venerando decano della democrazia americana, l’illustre Franklin, non isdegnare di confondersi nelle anticamere di Versaglia coi cortigiani, onde propiziarsi l’animo di quel re? Vorranno essi, l’onorevole Brofferio e i suoi amici, essere più puritani, più virtuosi del grande Franklin?»

Il Mamiani, premesso di aver passata la vita intera sospirando appresso all’indipendenza d’Italia, sosteneva l’alleanza di Cavour con Napoleone in e diceva alla Camera: «Ricordiamoci, o signori, anzitutto che egli è nipote di quel grande, il quale ancora che non recasse all’Italia tutto il bene che era in sue mani di fare, ne recò però tanto, che mai non ne avemmo uno pari da alcun principe forestiero. Ricordiamoci che Napoleone III dal lato di padre discende da un’antica famiglia italiana; ed io non penso che disdica e rinneghi quella sua non ingloriosa origine; e non l’ho veduto io stesso con questi occhi montare a cavallo e brandire le armi per la causa nostra? Non l’ho veduto io stesso con questi occhi arruolarsi sotto il vessillo italiano e mescolar la sua voce alla nostra cantando inni alla libertà e alla indipendenza?»

Carlo Rusconi, l’ex-ministro degli esteri della Repubblica Romana, racconta nelle sue memorie aneddotiche, come Michele Accursi, ex-prefetto di polizia in Roma repubblicana e segreto agente ed albergatore del Mazzini a Parigi, uomo assai répandu, frequentatore di Rossini e di Blanqui, amico di tutti, ma famigliare specialmente del còrso Pietri, creatura, e del Conneau, medico di Luigi Bonaparte, gli rivelasse prima del colpo di Stato del 2 dicembre: «Ascolta! Luigi Bonaparte, stanco di esser trastullo impotente nelle mani dell’Assemblea, non desidera che di emanciparsene. Ma il potere cui agogna non sarebbe rivolto ad appagare appetiti volgari, puerili ambizioni, misere vanità; è ben più alto il suo assunto, più grande il suo obbiettivo, e la missione ch’egli crede a sé confidata è missione sacra. Egli vorrebbe far l’Italia; distruggere per sempre il dominio del papa; circondarsi di un popolo riconoscente di là delle Alpi; facendo amar tanto ora il nome di Bonaparte fra noi quanto ei fu col primo Napoleone ammirato.»

Qualunque sia il giudizio che porterà sulla sfinge di Napoleone III la futura storia della riconoscente Italia, che ora non osa inaugurare all’aperto la fusagli statua, — certo è che il conte Cavour, più gagliardo e fortunato di Edipo, ritrasse da quella sfinge il massimo vantaggio per redimere la nazione.

Egli non poteva certamente dichiarare in Parlamento la rivoluzione a giorno fisso; ma cantava l’estote parati: lasciava capire che il gran giorno non era lontano.

Avvertiva la Camera il 15 gennaio 1857, che la storia, e massime la moderna, era una grande improvvisatrice; e ripeteva al Senato il 1° giugno 1858 l’ammaestramento che la storia è solita ad improvvisare.

A riscontro della propaganda mazziniana si era posta a lavorare la Società Nazionale del La Farina, a cui aveva dato il nome lo stesso Garibaldi, e ne firmava i manifesti come vice-presidente.

La causa italiana aveva oramai ottenute le simpatie di tutto il mondo civile. Persino da Boston, dall’Atene americana del nord, si faceva dono di un magnifico cannone al forte Piemonte.

Si era effettuata la condizione espressa da Cavour alla Camera il 16 aprile 1858: «non vi è rivolgimento politico notevole, non vi è grande rivoluzione, che possa compiersi nell’ordine materiale, se preventivamente non è già stata preparata nell’ordine morale, nell’ordine delle idee.»

Ed ecco il cinquantanove, il maturo risorgimento d’Italia, a cui concorsero come riviere portanti una schiuma irresistibile di floreale vittoria la bravura allobroga del Re e l’entusiasmo destato dal leonino Garibaldi, la direzione di Cavour e la cooperazione di Carlo Luigi Farini e Bettino Ricasoli, la monarchica Società Nazionale e la propaganda repubblicana del Mazzini, il quale, come ricorda Giosuè Carducci nella prefazione ai Juvenilia, offeriva egli stesso a Vittorio Emanuele la dittatura, proclamava nella lettera al Brofferio l’annessione al Re, e tempestava con lettere e con stampe quei specialmente di Toscana a far l’annessione, a farla subito, a farla intera.

Concorsero ih primo grado la discesa dell’alleato Napoleone e il procacciatoci da lui non intervento dell’Europa nelle cose italiane.

Pagato lo scotto a Napoleone con la cessione di Nizza e Savoia, il Garibaldi compensò la perdita del luogo natio con l’acquisto di tutta l’Italia meridionale.

Cavour chiude un occhio, anzi tutti e due; fa l’amore bendato; ordina all'ammiraglio Persano di arrestare il naviglio di Garibaldi, se si fermerà in Sardegna, o dove non deve fermarsi, e di lasciarlo proseguire, per mare, dove deve proseguire per la Sicilia.

Sotto gli sguardi dell’amore bendato l’impresa dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane si eleva ad una altezza e ad una riuscita prodigiosa.

Oh! le magiche noterelle di uno dei Mille! Saccheggiamole.

Giuseppe Cesare Abba, che le scrisse nel suo candore studentesco, agguaglia spesso e supera i rilievi robusti della narrazione di Guerzoni e le niellature artistiche di Alberto Mario nella Camicia rossa.

Eubattino, il padrone del Cagliari, si lascia prendere in una finta schermaglia i suoi due legni Piemonte e Lombardo. «Con questi nomi di provincie libere si naviga a portare la libertà alle provincie schiave.»

È il 5 maggio 1860, anniversario della morte di Napoleone il conquistatore, e quell’anniversario diventa inizio di una leggenda per un Napoleone della libertà.

Rosalino Pilo, che nel 1857 aveva atteso invano di congiungersi con Pisacane, ora su una barcaccia ha preceduto i Mille; è approdato audacemente con Giovanni Corrao fin dal 9 aprile alle Grotte presso Messina; è andato a versare fruttuosamente per l’Italia il suo gentil sangue, che vantava Angiò; cadeva sopra i colli di Monreale con una palla in fronte.

Su quelle navi è un incrociarsi di apostrofi, di ordini e di inni che «lasciano il segno nell’aria come saette.»

Comanda sul Lombardo Nino Bixio «col profilo che taglia come una sciabola e con una minaccia fissa e crescente tra ciglia e ciglia.»

C’è Ippolito Nievo, poeta soldato come Goffredo Mameli; egli canterà gli Amori garibaldini, descrivendo Vecchiaia infinita del Duce nella sublime semplicità popolare, con cui Béranger ritraeva Napoleone I:

Ha un non so che nell'occhio

Che splende nella mente

E a mettersi in ginocchio

Sembra inchinar la gente,

Pur nelle folte piazze

Girar cortese, umano

Lo vidi alle ragazze.

Poi il giovane poeta della patria morirà scomparendo nel mare misterioso, come Shelley il poeta cardiaco dell’anima.

C’è Nullo, bello come Perseo, e Missori, gagliardo; Nullo e Missori uniti insieme ricordano Eurialo e Niso; c’è Mauri «per cui si vorrebbe esser donna e amarlo, e non amata, morire per lui.»

C’è Francesco Crispi, il principale cooperatore di Garibaldi nel sollevare e organizzare in libertà la Sicilia, Crispi che fa ricordare all’Abba Pier delle Vigne potente; Crispi con la sua gagliarda compagna savoina.

La Sicilia è una insurrezione che pare una benedizione; «non si vedevano che braccia alzate e armi brandite; chi giurava, chi s’inginocchiava, chi benediceva.»

I Garibaldini combattono come leoni.

Persino i monaci li aiutano.

Uno di essi caricava un trombone con manate di palle e pietre; e lo scaricava come una rovina.

Un altro monaco, ferito in una coscia, si cavò la palla dalle carni e tornò a far fuoco.

Fra Pantaleo, il frate soldato, che sarà glorificato dall’apostolo scrittore Baccio Emanuele Maineri, diceva messa sopra un avello tricolorato; benediceva, purificava il Generale come una puerpera.

I proclami di Garibaldi sono poesia: «Soldati della libertà italiana, con compagni come voi io posso tentare ogni cosa... Le vostre madri, le vostre amanti usciranno sulla via, superbe di voi, colla fronte alta e radiante.»

Invano si rodono i birri borbonici, invano minacciano di strappar le trecce alle dame palermitane per farne cuscini alle loro mogli.

Persino il cielo e il mare sono una vittoria, un trionfo di colori. C’erano albe così belle, che «uno avrebbe voluto disfarsi per andar confuso in quelle tinte di firmamento e in quelle fragranze.»

«Il mare ha trasparenze profonde, lontane, successive, come i cieli di Dante.»

Persino le monache, con le loro vocine da salmo, gridavano: Viva l’Italia! Scambiano Garibaldi per Sinibaldo, il padre di santa Rosalia loro protettrice; ed investono i Garibaldini del loro casto profumo. In quel paese, dove la donna è più cara della vita, ed è più cara della libertà, le monache, aggiunse il Mario, non solo mandavano al Generale canditi in copia e cotognate, e buccellati, e bocche di dama, e castelli, e tempietti, e gli erigevano statue in zucchero, adorne di filigrana, di nastri ricamati e d’ogni altro lavorio della paziente e dolce industria claustrale; ma, quando ne vedevano la fisionomia soave e gloriosa, susurravano: Come somiglia a nostro Signore! e le più ardimentose volevano baciargli le mani; e siccome egli le ritirava, allora esse si avvinghiavano alla sua camicia rossa ed arrivavano a baciarlo in bocca. Il contagio di quell’arditezza giovanile toccava persino la matura badessa, che dapprima voleva sgridare le sue pecorelle dello scandalo; e poi finì anch’essa per baciare il Generale in bocca.

— Noi si stava a guardare — conchiuse modestamente il soldato artista.

Garibaldi, che aveva il debole dell’affetto e della riconoscenza, voleva salvare alle monache il convento di San Polo, perché fra esse vi era, e ne lo pregava, la sorella di Rosalino Pilo.

Lo stesso Governo borbonico, che nel suo giornale ufficiale aveva chiamata orda di malfattori la schiera di Pisacane e qualificati filibustieri Garibaldi e i suoi Mille, si decideva a dargli dell’Eccellenza.

Sopraggiunge Alessandro Dumas, quella fucina di romanzi, che scolora al più brillante dei romanzi storici, l’epopea dei Mille, e si attenda vistosamente con una sultana.

Parecchie giovanotte indossano la camicia rossa e combattono fra i soldati della libertà.

Ogni battaglia è una vittoria, «è una visione di file rosse correnti come trionfali rivi di sangue in mezzo al verde dei fichi d’India, pei canneti, nel letto secco dei torrenti, sulla riva del mare torrida e bianca.»

Garibaldi vince come Timoleone, in cui Plutarco riunisce la forza guerriera, la grazia gradita agli Dei e la vita fortunata. Il poeta, che aveva cantata la Spigolatrice di Sapri, ha già da un pezzo liberato il volo all’inno di Garibaldi:

Si scopron le tombe — si levano i morti,

I martiri nostri — son tutti risorti.

Gliel’aveva commesso lo stesso Generale a Genova la sera del 19 dicembre 1858, in casa del patriota bergamasco Gabriele Camozzi: ed anche questo fu bel segno dei tempi, indizio della confederazione dì tutte le forze italiane: che l’inno garibaldino fosse musicato da Alessio Olivieri, capo-banda nella R. Brigata Savoia.

*

**

Un bel giorno si annunziano nel campo garibaldino i risorti dalle galere sottomarine di Favignana.

Il citato Abba ci dà la psicologia di quella storica comparsa.

«Sono venuti dalla Favignana sei o sette di quei di Pisacane, scampati all’eccidio. Dunque erano in quelle Egadi, che pareano scoppiate su dal mare improvvise a festeggiarci? Erano nelle prigioni sottomarine. Che fremito, se per uno di quei sensi misteriosi che talora si rivelano in noi come guizzi d’una vita di natura diversa dalla umana, avranno indovinato che là fuori, sull’onda che rumoreggiava spruzzando le loro inferriate, passava Garibaldi e la libertà!

«O precursori nostri, quante lagrime, quanto fantasticare dopo il vostro infortunio, dopo Sapri, più bello, più glorioso della nostra Marsala! Tre anni, pareva un secolo; e di lassù dalle Alpi era un volo dell’anima sitibonda verso queste terre delle Due Sicilie, che sin col nome invogliavano e coi mari e coi cieli e coll’istoria loro e con quel canto della Spigolatrice messa dal poeta sull’orme vostre, a veder gli occhi azzurri e le chiome d’oro di Pisacane. Dopo i Bandiera, Corradino, Manfredi, biondi tutti e belli e di gentile aspetto, lui; ed ora ecco qua Garibaldi, bello e biondo anch’esso, ma fortunato lui solo.»

Alberto Mario, negli episodi della Camicia rossa, così descriveva quei fuorusciti di galera, quei risorti:

«Avanzavansi con passo vacillante, a guisa di convalescenti, squallidi le vesti e l’aspetto. La barba rasa da alquanti giorni, crescendo uniforme, faceva risaltare il malaticcio pallore del loro volto di 25 anni, anzi tempo alterato dai solchi della vecchiaia, che in quell’età sono i segni di lunghi tormenti e di angoscio profonde; gli occhi erravano incerti o si affissavano senza guardare, e pareva che il pensiero affievolito non avesse virtù di illuminarli.»

Furono presentati da Mario al Dittatore, presenti Mosto, comandante dei carabinieri genovesi, ed Enrico Cairoli, sulla cui fronte forata da una palla un semplice 0 di panno proteggeva lo scoperto cervello.

— I primi onori a Pisacane precursore, e a questi bravi nostri pionieri — disse il Generale posando amichevolmente la mano sulla spalla del più vicino.

Poi fece rifocillare quei corpi estenuati dal digiuno.

Essi domandarono tosto ed ottennero di appartenere al corpo dei carabinieri genovesi, e di combattere.

Combatterono e si segnalarono a Milazzo, «portando nella battaglia un alito della grande anima di Pisacane.»

*

**

Il comandante del bagno di Favignana aveva consegnate le chiavi al sindaco e questi al Nicotera, che per insigne privilegio era stato escluso dall’amnistia data dal Borbone nel 1860, cosicché a lui toccò la meritata soddisfazione di dare il largo ai suoi compagni.


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Nicotera garibaldino e deputato

Giovanni Nicotera uscì per suo conto dalla gabbia come un leopardo ferito con le unghie bramose di vendetta. Era impetuoso, bollente, manesco.

Raccontò Nicola Botta nel processo della Gazzetta d'Italia, come nel 1860 a Palermo, ai quattro Cantoni egli passeggiava con Nicotera, il quale era felicitato ad ogni passo da calabresi e da altri compatrioti per la sua risurrezione. Ad un tratto Nicotera affissa una faccia sgherra: le balza dinanzi: le domanda il nome:

— Sant’Elmo!

A quel nome Nicotera tenta di strappare il revolver a Nicola Botta per ammazzare l’uomo del sinistro incontro, cui chiama ad alta voce: traditore del povero Pisacane, di me e de' miei poveri compagni.

Con grande fatica Nicola Botta e gli altri amici accerchiando, trascinando e poi portando via di peso il Nicotera lo preservarono dal ritornare alla Favignana per un impeto stradaiuolo.

Però Nicotera non era tanto bramoso di vendicarsi contro i particolari suoi nemici, quanto contro la massa dei nemici del paese.

Quindi, mentre i borbonici sono conciati per le feste, egli pensa già ad assaltare i papalini.

Trova facile ascolto in Garibaldi, il quale gli commette l’incarico di ordinare in Toscana una legione per occupare il territorio pontificio.

Le due bestie nere per Garibaldi erano il Borbone e il Papa; perciò la sua eroica spedizione aveva oscillato come un pendolo tra Talamone e Marsala.

In Toscana il Nicotera si acconta con Ricasoli; il barone di bronzo col barone di ferro; e contrassero fin d’allora un’amicizia baronale, che agevolò poi la salita della sinistra al potere con la pattuglia toscana nel marzo del 1876.

Intanto nel 1860 il Nicotera aveva accozzato a Castel Pucci, a due ore da Firenze, circa millecinquecento volontari, pronti a fugare i soldati del papa. Ma Cavour prevenne il Nicotera, per fare lui ufficialmente con le truppe piemontesi la liberazione delle Umbrie e delle Marche.

Il Nicotera, invitato dal Ricasoli, sgombra dalla Toscana, e ritorna a Palermo per sedurre il prodittatore Depretis, ed averlo coadiutore nell’impresa di Roma; ma il Depretis, in quella congiuntura cavouriano più di Cavour, gli fa orecchie da mercante.

Allora Nicotera si azzecca a Garibaldi; e come suo colonnello brigadiere termina con lui la campagna del Volturno.

A Napoli egli è fra i più focosi, per non dire turbolenti, uomini del partito d’azione; diede noia al luogotenente del Re, Farini, lo impazientì; ed i giornali umoristici moderati ebbero a dire che il dottore Farini aveva dovuto guarirlo con rimedi da cavallo.

Siccome il Petruccelli della Gattina nei suoi articoli tirava a palle infocate contro ai mazziniani, un giorno il Nicotera, destinato dal partito d’azione, o esibitosi lui stesso al partito, va a trovare, nell’archivio di Napoli, il secreto collaboratore del Dumas e facitore della dumasiana storia dei Borboni, mentre l’egregio Petruccelli attendeva a ricerche sulla spedizione dei fratelli Bandiera. Il Nicotera, con poco rispetto agli studi storici, gli assestò sulle spalle una improvvisa bastonata; si accapigliarono; il conte Gaddi, direttore dell’archivio, li separò; e due giorni dopo Nicotera e Petruccelli si scontrarono in duello.

Era padrino del Petruccelli Alessandro Dumas, ed Alberto Mario padrino del Nicotera. Avendo il Nicotera una mano storpia per il martirio di Sapri, si voleva che il duello fosse alla pistola.

Ma il Dumas pretese che fosse alla sciabola, sentenziando che la mano la quale aveva minacciato doveva saper battersi.

Seguito onorevolmente il duello, il Petruccelli, tuttavia acceso di sdegno contra il Nicotera per l’aggressione patita, continuò le sue ricerche nell’archivio sulla storia dei Borboni; e giunto al punto delle ultime cospirazioni murattiane e al fatto di Sapri, egli frugò diligentemente, per trovare qualsifosse verità, magari discara al Nicotera, e l’avrebbe di certo pubblicata, per punire storicamente quel violento. Ma non trovò nulla, proprio nulla, che detraesse alla fama patriottica del Nicotera. Tutto ciò emerge dalle testimonianze fatte nel processo della Gazzetta d’Italia dal biblico condottiero e padre comune dei patrioti congiurati, Nicola Fabrizi, e dallo stesso Petruccelli.

Ma anche sullo spirito bollente del Nicotera operò, la pacifica assimilazione della Monarchia Nazionale.

Egli non volle essere di quei settarii che hanno per motto: pera la patria, ma sia salva la fazione; non volle essere di quegli insensati, fulminati dalla felice memoria di Cavour, perché amavano la rivoluzione assai più che l’Italia. Piuttosto che meritare i fulmini della felice memoria di Cavour, il Nicotera col Crispi incontrò allegramente la scomunica di Ermenegildo Simoni nella Histoire des conspirations mazziniennes. '

Il Petruccelli ed il Bovio concordano nel dire che il Mazzini di nessun distacco si dolse amaramente come di quello del Nicotera, di cui pregiava altamente le doti pratiche, e lo chiamava il suo leoncino.

Essendosi già dal Mazzini separato il Nicotera, pare impossibile sottointendere come diretta a lui l’allusione a quell’ex-mangiatroni superbo, diventato poi ministro e spasimante di titoli, che nel 1863 volle presentare al Profeta un Pasquale Greco per una nuova orsinata contro Napoleone III, del che parla Diamilla-Muller nella Politica segreta Italiana (pag. 26). Però quantunque spiccatosi dal Mazzini, il Nicotera militò ancora nelle file del partito avanzato. Alla Camera, per rovesciare il primo ministero Ricasoli, trattò col Rattazzi, che per lo stesso scopo si intendeva pure col marchese Gustavo Cavour, con l’Alfieri, col Boggio, e con altri della più religiosa destra cattolica.

Nel 1862 Nicotera fu con Garibaldi ad Aspromonte; nel 1866 radunò e disciplinò per il duce popolare un reggimento di volontari a Bari; poi combatté con lui nel Tirolo, meritando di esser promosso da colonnello a maggior generale; gradi che ha sempre smessi, terminata la guerra.

Nel 1867 guidò i volontari, che varcarono la frontiera ad Isoletta, e si spinse a far proclamare il plebiscito fino a Velletri e a Frosinone.

Pur militando nelle prime file della scapigliatura o della milizia rossa, anche il suo temperamento politico si era addolcito, giovando certamente a questa trasformazione, la cordiale cortesia, che si unisce al bollore iracondo nel suo temperamento morale. Aveva ritirato con sé l’orfana di Pisacane; ottenutale una pensione dal Dittatore, e adottatala per sua figliuola. Ciò quanto al cuore. Riguardo alla gentilezza, il Petruccelli nota che Nicotera risponde a tutte le lettere che riceve. L’ultimo ciabattino della Basilicata e il Principe del Sacro Romano Impero hanno in questo sopra di lui eguali diritti.

*

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Ei conservava un dente contra il Fanelli, essendo stato indotto nella credenza che il Comitato di Napoli non avesse fatto tutto ciò che si era in diritto di aspettare da esso per l’accoglimento della spedizione Pisacane. Appena incontrato il capo di quel Comitato nella gloriosa schiera dei Mille, lo rimproverò; il Fanelli volle dargli spiegazioni, che il Nicotera ricusò per un pezzo di ricevere. Esasperato il Fanelli, un giorno inveì contra il Nicotera nella strada; e ne sorse un conflitto, che venne provvisoriamente assopito dall’eterno patriarca e pacificatore Fabrizi.

Più tardi, a Napoli, prima delle elezioni politiche del 1865, in una adunanza elettorale, il Nicotera, seguitando nelle vie conciliative, fece un caloroso invito alla concordia, segreto di ogni buona riuscita. «Fra gente che si stima, bisogna stringersi la mano ed amarsi. Io ne do il primo esempio.» Ciò detto, si slancia verso il Fanelli; cadono l’uno nelle braccia dell’altro, fra l’esultanza dell’assemblea, che per elettrica imitazione divenne tutta aggruppata di amichevoli fraterni abbracciamenti. D’allora in poi Fanelli e Nicotera stettero amicissimi; e Nicotera aiutò il Fanelli a ricuperare un seggio da deputato.

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Poco per volta l’uomo delle scalate, degli assalti, dei colpi di mano e delle mazzate si dirompette, e si corresse in uomo politico approvato, dirò così, patentato: egli che ha dell’acciaio nelle punte dello sguardo, come in quelle del sorriso, acquistò il talento dell’oratore parlamentare, quale lo descrisse Leone Fortis nelle conversazioni del dottor Veritas; divenne un oratore che sa sbrigliare decentemente la parola, e renderla mansueta come ginnetta da signora. «Nessuno più abile di lui a suscitare una tempesta in un’assemblea con una frase, nessuno più destro nel dir tutto, senza sollevare burrasche, secondo che gli fa comodo.» Egli dalla prima Legislatura del Regno d’Italia in poi fu deputato di Salerno, quantunque sia stato pure eletto da altri collegi, verbigrazia da quelli di Torraca e Nicastro.

Sul finire del 1863 egli aveva date le dimissioni da deputato, insieme con gli altri arrabbiati della Camera; e tosto rieletto vi ritornò lentamente.

La sua abilità come oppositore alla Destra non venne disconosciuta da nessuno, e fu ammirata dallo stesso Sella; il quale passò persino dall’ammirazione all’affetto verso la finezza machiavellica e l’estro insolente e gentile del Nicotera.

Per quel diffidente ritegno che gli sbrigliati ingegnosi sanno imporre alla loro conscia sbrigliatezza — come il Gambetta seppe dare il passo al Grew, così il Nicotera, alla morte di Rattazzi, aveva disegnato egli stesso a capo della Sinistra il Depretis.

La Destra si era logora al potere, ed era divenuta invisa per le sue atrocìe fiscali, per le sue restrizioni di libertà, e persino a cagione delle persecuzioni inflitte dai suoi giornali umoristici, e sovratutto pei suoi monopolii, da quello esoso dei tabacchi a quello risibilmente preteso della cultura; la Sinistra aveva fatto un lungo e promettente tirocinio, e si presentava matura.

Nicotera stesso, la cui parola era una volta la mazzata piazzaiuola, aveva oramai imparata tutta la compassata correttezza di un consumato statista inglese; e dalle colonne del Bersagliere predicava con pacato raziocinio la necessità di alternare al potere i due grandi partiti politici, che sono i perni di ogni governo che si rispetta; ed il suo linguaggio era tutto dì sulla opportuna rotazione dei partiti parlamentar!, ovvero sulla bontà della cultura governativa avvicendata fra Destra e Sinistra, fra conservatori e progressisti.

I luoghi più topici, il gergo più usitato del diritto costituzionale pareva rinverginarsi, fiorendo in quel terreno selvaggio.

Casa Savoia, che ha buon occhio, seppe discernere a tempo il Nicotera.

La principessa di Piemonte, in una quadriglia al Quirinale, fece chiamare per suo cavaliere proprio lui, che, crudo di contraddanze, se la cavò alla bella meglio.

Prima del 18 marzo Vittorio Emanuele ebbe frequenti colloqui col baldanzoso pretendente ministeriale.


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Nicotera ministro e dissidente

Formatosi il primo Gabinetto di Sinistra, Don Giovanni, come scrisse il Petruccelli, vi entrò per effrazione.

Seppe imporsi; dispose egli dei lavori pubblici per lo Zanardelli, della guerra pel Mezzacapo, della presidenza della Camera pel Crispi; e giunto alla distribuzione del ministero degli interni, il Depretis gli aveva domandato; e questo a chi lo diamo? — A me, rispose egli alle corte.

Da cacciatore di razza, si tolse, più che non ricevette, il portafogli dell’interno, scusandosi col dire che egli, uomo essenzialmente, unicamente politico, non aveva studi speciali per gli altri dicasteri.

Sarebbe una bella situazione psicologica, da svolgersi per un romanziere, quella di quest’uomo, che era stato terrore di parecchie polizie, e diventa ministro dell’interno, il supremo capo della polizia, e ciò non in un governo provvisorio, zingaresco, ma in un regno stabile.

Obbedendo forse alla prima curiosità, andò a rovistare il libro nero, e si trovò nella posizione tragico-comica di leggervi la propria biografia fra quelle delle persone osservate come pericolose.

Gli antichi compagnoni venivano a cercarlo, e chiedevano non già dell’Eccellenza o del ministro, ma di Giovannino; e la parola Giovannino, secondo le classiche ed ingenue malignità dello Zini, era diventato il talismano, il passapertutto degli intromettenti.

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Però il Nicotera sapeva farsi sentire ministro anche da coloro presso cui doveva rimaner Giovannino. Lo andava spesso a cercare l’ex-frate Giovanni Pantaleo. Questo ardente francescano castelvetranese era stato una delle note più immaginose e pittoresche della liberazione siciliana, e quindi una delle note più efficaci per un popolo, presso cui tanto valgono la fantasia e il colorito. Ritto sulla gradinata del tempio di Alcamo, la fronte luminosa, l’ampia chioma e la lunga barba brizzolata, gli occhi in faville, le nari frementi uno spiro di fuoco, aveva benedetto col Sacramento il generale Garibaldi inginocchiato e lo aveva presentato al popolo, come novello Nazareno, e poi come Giuseppe padre putativo del Cristo venuto a predicare Italia e Vittorio Emanuele; Italia, nuova Madonna Addolorata, Vittorio, vincitore dei tiranni, Emanuele, nome di Dio... E siccome il Generale in posizione incomoda lo esortava a finire, aveva conchiuso:

«Come Gesù di Nazaret vinse il Demonio, tiranno delle anime umane, così Giuseppe di Nizza vincerà il Borbone, quest’iniquo tiranno di Sicilia e di Napoli.» Aveva, per ordine di Garibaldi, fatte suonare tutte le campane di Palermo in gloria di Redenzione; ed egli sulla piazza, colla croce in mano, dalla vetta di una barricata predicava la conversione e la fratellanza alla soldatesca borbonica, che gli rispose a fucilate. Una palla gli franse il braccio destro della croce, ed egli rimase lassù miracolosa statua illesa; onde la croce spezzata diventò tosto per lui uno stemma popolare da immagine sacra, come la croce ricurva di sant’Andrea. Egli non fu solo apostolo, ma milite crociato valoroso; in tale qualità Re Vittorio gli fece dei complimenti, quando Garibaldi glie lo presentò nel primo incontro. Ed il frate soldato, a cavallo, precedette l’entrata del Re Liberatore e del condottiero popolare a Napoli. Quivi egli fu predicatore di libertà, come il Gavazzi e padre Giuseppe da Forio. Garibaldi, che lo aveva avuto quale cappellano maggiore del suo esercito, lo presentava altresì in famiglia come suo confessore: gli rilasciava replicate professioni di fede: «Noi siamo della religione di Cristo, non della religione del papa e dei cardinali, perché nemici d’Italia... Dovere del sacerdote italiano è lasciar la religione degli idoli, ed abbracciare la religione del vero, la santa, la sublime religione di Cristo.»

Da Catania il 22 agosto 1862 aveva emanato per lui uno dei suoi biglietti poeticamente cesarei: «Il Padre Pantaleo è autorizzato a formare un corpo di sacerdoti. Giuseppe Garibaldi.»

Lo stesso Vittorio Emanuele, re cattolico e mago, che sapeva trovare delle frasi per tutti, aveva detto nel 1861 a Padre Pantaleo sulle mosse per Bologna: «Salutatemi l’eroica Bologna e le ceneri di Ugo Bassi.» A Bologna il frate garibaldino ardì predicare in San Petronio, suscitando uno scandalo rumoroso fra preti e beghine, che ricorsero a tridui e a poesie per purificare il tempio profanato.

Chi sei, che vestito di lana non vile,

Col Cristo alla destra e a manca lo stile,

Prolissa la barba, gaudente all'aspetto,

La rossa camicia ti scopri sul petto?

Chi sei che c'inviti del Divo Petronio

Nel tempio ad udirti? Sei frate o Demonio?

Tu parli... s'ascolti... Bestemmia... Menzogna?

Sei figlio a Satana, deh! fuggi Bologna!

Ma la poca religiosità dell’Italia cattolica, già lo riconobbe Massimo d’Azeglio, non è terreno fruttifero pei seminatori di discorse apostoliche; quindi il frate garibaldino, dopo aver farneticato idee emancipatrici del sacerdozio italiano, e missioni in Oriente, getta la tonaca fratesca; è citato davanti al Tribunale correzionale di Torino per «attacco alla religione cattolica. «Parte per la guerra del 66; in quell’anno è ospite a Firenze di Biagio Garanti; poi fa la campagna dell’Agro Romano; aderisce all’anti-concilio; mulina di viaggiare in America; il suo nome viene a galla nei più forti rumori della piazza politica.

Nel 1869 Baccio Emanuele Maineri, il romanziere e biografo ardente di fuoco patrio e morale, lo conosce a Milano in casa del povero Rocco Traversa, il pedagogo trattatista e giornalista dei segretari comunali, il poeta della letteratura da un soldo, che fece cantare e strimpellare da tutta Italia la sua canzone popolare; Camicia rossa, camicia ardente.

Nel 1870 Pantaleo va in Germania per sopravvedere e descrivervi, come corrispondente di giornali, la sconfitta dell’impero napoleonico; e, caduto questo, accorre a combattere per la Francia repubblicana contra la Germania imperiale.

Fra i suoi dubbi da Amleto siciliano, nelle cui vene scorreva non gelido mercurio, ma lava incandescente, era passato questo problema caldo: morire, morire nel bacio del Signore, e perché non nel bacio di Maria?

Reduce dalla campagna dei Vosgi, a Lione, per aver dolce compagnia, prese moglie il frate. Rimbalzato, sfigurato per tanta varietà di casi, immiserito, perché i regolamenti di un governo costituito non concedono di guiderdonare prosaicamente i poetici fattori di Rivoluzione, Padre Pantaleo, per alimentare lo spirito di carità verso sè, verso la sua famiglia e verso il prossimo patriottico — egli, che era stato nominato dal Dittatore Vicario del Cappellano nel Regno di Sicilia, invece di monsignor Lello stato dispensato da quel servizio — egli che con decreto del Luogotenente Generale era stato investito delle Abbazie della SS. Trinità di Castiglione e di S. Filippo il Grande coi relativi gradi ed emolumenti — egli, povero frate sfratato, doveva fare il mestiere di negoziatore e di sollecitatore di giustizia ed anche di affari per cui non era nato.

Presentavasi spesso al Nicotera. Erano venuti su tutti e due dalle eruzioni della rivoluzione nazionale; l’uno risorto dalla fossa di Favignana, l’altro scagliatosi dal chiostro di Salemi. L’uomo politico era diventato ministro; il predicatore era diventato tormentatore tormentato di corridoi e anticamere, spauracchio di piazza, persecutore di braccetto. Nicotera mostravasi benigno con frate Pantaleo; però a quell’antico, strano e stremato commilitone, che doveva meritarsi fra breve l’orazione funebre di Giovanni Bovio, soleva soggiungere: «Bada, Pantaleo, ché alla prima che tu mi fai, ti faccio arrestare.»

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Quasi preoccupato, perché il passato gli impedisse di essere ritenuto abbastanza ministro, il Nicotera lo fa troppo. Divenne più cortigiano della Corte; accrebbe l'esercito crociato degli ordini equestri, in cui gli iscritti superarono i cinquantamila; approvata la legge del rincaro sugli zuccheri, fece in un picchio sessanta commendatori fra i deputati, che perciò vennero salutati commendatori dello zucchero; e scrisse lo Zini in sua favella: «vi fu tanta prescia e confusione nel gettito delle onorificenze, che taluno più sostenuto e schivo se ne trovò prima saettato di che avesse potuto avvisare alla parata: onde si potè dire dei decorati ciò che Luigi XVIII diceva nella febbre delle sue incessanti infornate alla Camera dei Pari: ce sera un honte de l’être et de ne l’être pas.»

Si buccinò persino che pensasse a fare se stesso duca di Sapri, come il Medici era stato fatto marchese del Vascello, inquartando nel vassallaggio monarchico le glorie più spiccate della Rivoluzione.

Ma non ne fu nulla del ducato di Sapri; imperocché i giornali umoristici opposero un coro di Sapri... sti!

Egli allargò la sua eccessività ministeriale in cose di maggior conto che non siano i gingilli cavallereschi ed i titoli nobiliari.

Risospinse dallo scaleo del Quirinale una dimostrazione innocua, fatta a braccetto di signore, una dimostrazione da battimani coi guanti.

Perciò il popolino, memore delle durezze del Cardinal Vicario, vociò contro al Cardinal Nicotera. Medoro Savini in un opuscolo difese la politica interna del Nicotera; onde un forte poeta, in un giambo, rimasto non solo inedito, ma interrotto, chiamò Medoro Savini il Macchiavello di Nicotera Borgia. Altri trascorsero nelle invettive al Seiano; e Nicotera, nella foga del ministero, era semplicemente lui; ritornava lui, sempre lui, un bollente Achille.

E per essere completamente lui, dai fastigi, quasi draconiani, del suo ministero ritornava alle piacevolezze e alle bizzarrie della sua anima effusa, slanciata. Presenziando all’inaugurazione della strada ferrata Torino-Ciriè, ricevette nell’Oratorio di Lanzo i complimenti del taumaturgo don Bosco; e col prete umile e possente, raccoglitore di un esercito di fanciulli ed ordinatore di vescovi, si spassò confessando le primizie delle sue scappatelle quando era emigrato in Piemonte.

Salvatosi dal fumoso banchetto nel sotterraneo della Galleria Subalpina a Torino, e riparatosi in più spirabil aere nelle sale della Società promotrice dell’Industria, si avvinghiò in un garrulo crocchio di corrispondenti giornalisti, e sparlò della stampa sussidiata dai precedenti ministeri.

Fu un finimondo.

I giornali da tutte le parti lo tafanavano: ed egli pareva una belva che scodinzolasse per cessare le punzecchiature.

Gli rimproveravano il troppo banchettare. Spacciavano di lui ogni favola; dicevano che egli destituiva gli impiegati che non lo scappellavano per istrada.

In un banchetto a Milano, avendogli il Bardesono, che (segni del tempo) era ricevuto dalle aristocratiche signore di destra come conte e non come prefetto, augurato di diventare uno dei più illustri ministri di Casa Savoia, i giornali, su, su, ad incitarlo: Re Vittorio vi ha fatto ministro, vi ha chiamato barone! Su! su! Diventate un conte Bogino, un Pierino Bello.

Pareva si volesse attizzare il toro, facendogli sventolare sulla testa le banderuole rosse.

Il toro mugolava, rigava con le corna la rena.

Finalmente, quale compimento dell’opera giornalistica, la Gazzetta d'Italia pubblicava il 2 novembre 1876 a Firenze il famoso articolo: L'Eroe di Sapri; autobiografia di Giovanni Nicotera; in cui, oltreché di mestare nelle elezioni, per crearsi una Camera ad immagine sua, lo si accusava gravemente di aver svelato la cospirazione nel processo di Salerno a fine di gratificarsi l'animo del governo borbonico ed ottenere la propria salvezza.

Il Nicotera andò mancomale su tutte le furie, e senza dimettersi da ministro intentò il processo contro a Sebastiano Visconti, gerente della Gazzetta d'Italia.

Gli atti di quel processo, incominciatosi davanti al Tribunale di Firenze nel principio di dicembre dello stesso anno, scavarono una miniera di storia contemporanea; per cui fu meritorio l’articolo incriminato. Deposero in quel processo il fior fiore degli attori e degli spettatori nei rivolgimenti napoletani, l’on. Diego Taiani, il generale Enrico Cosenz, il venerando Fabrizi, il Petruccelli della Gattina, il prefetto Fasciotti, il Magnone, il Matina, Giacinto Albini, i congiurati del Comitato napoletano e fino ai lustrascarpe liberati dalla relegazione di Ponza.

Il povero Fanelli non potè essere udito, perché sotto cura per un’affezione mentale.

Come voci d’oltre tomba, si udirono le testimonianze dell’ex-intendente Aiossa, che dopo Sapri aveva raccolto Nicotera nudo bruco, sanguinolento, e si bucinava avesse tentato di irretirlo con vestiari, chicche, gelati, ed attenzioni spinte persino a donne, e si udirono le testimonianze del procuratore generale Francesco Pacifico, contro cui il Nicotera nel processo di Salerno scagliava minaccie e calamai, e di quel Domenico Dalia, che era stato fiscale contro i fratelli Bandiera, e poi pronunziava come presidente della Gran Corte criminale la condanna capitale dei caduti di Sapri.

Tutte queste testimonianze riuscirono onorevoli e favorevoli pel Nicotera.

Un superbo collegio di avvocati si radunò per le due parti.

Sostennero la parte civile del Nicotera, con una colonia del foro salernitano e con altri egregi delle altre curie d’Italia, il Pessina, il Villa e Piero Puccioni.

L’Andreozzi, il Marcotti, il Pelosini, il Lopez, il Martini, lo Spirito ed altri valenti avvocati difesero la Gazzetta d'Italia nel suo gerente.

Oltre agli avvocati che intervennero alla sbarra, si presentarono i responsi scritti degli insigni giureconsulti Mari e Corsi per la Gazzetta, e del Carrara, principe dei criminalisti, pel Nicotera.

Il Pelosini, linguaio toscano, tutto infarcito di arguzie e di parabole, parlò per sei ore, suocciolando seicento citazioni da Tacito a Guerrazzi, da Cavalca a san Paolo. In proposito del Nicotera, antico repubblicano, che sulla nuova ortodossia monarchica costituzionale poteva aver rassicurato la Corona, ma non lui difensore della Gazzetta, raccontò eziandio la storia del lupo. «Il lupo un bel giorno stanco, se non sazio, di rapinare, fa l’esame di coscienza; trova che vi sono non so quanti agnelli e non so quante pecore, di cui si deve rendere conto. E ce n’erano molte. Sente il rimorso, e siccome era un po’ vecchio comincia ad accorgersi ch’è tempo di mutar vita e costumi. Presso di lui abitava un buon romito, e il lupo va a confessarsi dall’eremita, e svescia tutte le peccata sue che non erano poche. L’eremita, da buon presidente di corte d’assise, fa il riepilogo, e comincia al lupo la sua riprensione. Dinanzi alla cella era un bellissimo prato verdeggiante per fresca erba, e mentre l’eremita parlava al pentito, ecco viene un pastore col gregge che lietamente belava ed occupa il pascolo. E l’eremita parlava sempre. È inutile dire che il cuore del lupo contrito batteva forte forte, e gli occhi si muovevano come aghi di bussola che oscillano nel momento della tempesta magnetica. E gli agnelli belavano, e l’eremita non finiva più. Gli antichi amori alla perfine invasero furiosamente il lupo, e la sua agitazione divenne tale e tanta, che l’eremita disse: — Che hai, lupo, che ti contorci così? — Presto, padre, presto, perché altrimenti gli agnelli vanno via, ed io non posso far preda» (ilarità vivissima).

Il punto culminante di quel processo fu la scena del Vastarini-Cresi, altro dei patrocinatori di Nicotera.

Egli, il 15 gennaio 1877, lesse il testo di una recisa smentita data dal difensore Martini all’asserzione che la Gazzetta d'Italia si fosse inalberata contra il Nicotera, perché questi non gli avesse continuato un sussidio di 5000 al mese, del quale la avrebbe gratificata il ministro conte Cantelli. L’avvocato Martini aveva detto: «tutto questo è falso; è mendace l’asserzione delle lire 60,000 o di qualunque altra cifra o grande o piccina, di cui il ministero passato avrebbe gratificato la Gazzetta d'Italia……………………... è calunnia, è contumelia, è provocazione gravissima.»

Finita la succulenta lettura di questa dichiarazione, il Vastarini-Cresi si contorse oratoriamente, come per dire e non dire; concitò la voce; in nome di Giovanni Nicotera intercalò un pentiti, Don Giovanni! ai difensori di Sebastiano Visconti; si fece richiamare all’argomento dal Presidente; eccitò l’avversario Lopez; si fece consigliare la calma dal collega Puccioni; costrinse ad interloquire il Pubblico Ministero, rumoreggiare il pubblico curioso della tribuna; febbricitò in atti di chi dice: tenetemi, se no dò botte, tenetemi, se no m’ammazzo; si fece tirare pei capelli dall’emozione e poi di rimando agli avversari: sopra questo incidente ci volete proprio tirare pei capelli.

Avv. Lopez — Siete voi...

Avv. Vastarini-Cresi —.... ci si dà dei menzogneri... Ebbene... (levando di tasca alcune carte).

Presidente — Per carità, signor avvocato, cessi. Avv. Lopez — Le mostri pure (rumori nell'aula).

Avv. Vastarini-Cresi — Ebbene, sono quattro lettere del conte Cantelli al Prefetto di Firenze...

Presidente (con forza) — Non continui, signor avvocato, o le tolgo la parola (agitazione nell’aula).

Avv. Vastarini-Cresi —.... ordinando che si pagassero delle somme... (il tumulto cresce nell’aula)'

Presidente — Signor avvocato, le tolgo la parola.

Avv. Vastarini-Cresi —.... al direttore della Gazzetta d’Italia. (Bravo! Bene! — Rumori nell’aula. Proteste dell’avv. Lopez. Il Presidente si copre e si ritira col Tribunale, ordinando che si faccia sgombrare l’aula. Gli agenti della forza pubblica, invitati anche dal Pubblico Ministero, eseguiscono l’ordine e fanno sgombrare l’aula).

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Questo turbinoso incidente ebbe, a cominciare dal giorno dopo, il suo rimbalzo in Parlamento, dove era già accaduto che antichi e nuovi avversari si divertissero a far stizzire il ministro Nicotera fino a fargli perdere la staffa, come si suol dire nel linguaggio figurato dei corridoi parlamentari.

Ma non era mai avvenuto che il Nicotera la perdesse così clamorosamente e così focosamente come nella seduta della Camera del 16 gennaio 1877.

Presiedeva il Crispi.

L’onorevole Corte, spirito tagliente di puritano liberale (che i maligni dicevano puritano libertino), svolse asciuttamente due interpellanze al ministro dell’interno, l’una sopra una circolare telegrafica del segretario generale di quel ministero, che ordinava di respingere dagli uffici dipendenti un giornale (la Gazzetta d'Italia); locché all’interpellante pareva intaccare indirettamente la libertà della stampa; e l’altra interpellanza sopra la nomina del segretario particolare del ministro a segretario di sezione al Consiglio di Stato; locché all’interpellante pareva ledesse quella libertà di rapporti fra merito e ricompense, che si chiama imparzialità: e d’ogni libertà il Corte si professava fermo campione, quantunque la condotta di alcuni suoi amici politici lo costringesse alla nomea di cavaliere errante.

Il ministro Nicotera rispose, che non si era trattato di proibire la lettura di quel giornale; imperocché nel suo stesso ministero si contavano parecchi impiegati associati che lo ricevevano regolarmente, senza osservazione veruna; ma si trattava di impedire che se ne rinnovassero le associazioni a carico dei pubblici uffici. «Il mio segretario generale ha domandato che i denari dello Stato non servissero a sussidiare indirettamente il giornale.... Abbiamo creduto che i denari dello Stato non andassero spesi per un giornale immorale» (Benissimo!). Anzi al ministro pareva che quel giornale fosse stato già troppo ed illecitamente mantenuto dall’amministrazione precedente. Imperocché, disse precisamente il Nicotera: «Il giornale, di cui parla l’on. Corte, godeva tutta la protezione del Governo; i denari dello Stato servivano non solo alle associazioni per gli uffici, ma altresì a sussidiarlo. Mi duole che il mio predecessore, facendo a fidanza sulla distruzione di alcune carte del suo Gabinetto, e dimenticando che esistevano originali presso una Prefettura, abbia creduto di smentire questo che io oggi affermo» (Bene! Bravo! a sinistra).

La gravità smaccante di tali rivelazioni fece perdere ogni importanza alla gemella interpellanza sull’elevazione al Consiglio di Stato del segretario particolare del ministro, quantunque questi recitasse i debiti elogi di quello.

Il Corte ribatté: «Io non appartengo al partito politico a cui apparteneva l’ex-ministro dell’interno, e non lo difendo. Però non posso a meno di dire che se (e credo che sia vero) si sussidiavano così largamente i giornali, ora che non si sussidiano più, perché non si sono diminuiti i fondi segreti? Mi pare che sarebbe stato molto opportuno... (bisbiglio a sinistra).

— «La ragione è semplice: rispose il Nicotera, noi facciamo servire tutti i fondi segreti a quell’uso cui sono per indole loro destinati.»

E più giù spiegò, come «l’uso giusto e naturale di un tal fondo è unicamente il servizio della pubblica sicurezza, e non già la corruzione della stampa....» «Se Ella (onorevole Corte) vuol avere la cortesia di venire al ministero, le accordo il diritto di verificare quanto si spenda (non dirò il come e in che) quanto si spenda per la Pubblica Sicurezza in Sicilia.... Il mio predecessore, lo ripeto, ne impiegava una parte a sussidiare quel certo giornale» (Bene!).

Quindi l’on. Nicotera rimasticò le sue teorie sulla sconvenienza che il Governo desse pur il suo nome e i suoi quattrini d’associato a giornali come quello de cuius re agebatur o come la Pietra infernale di Napoli.

L’on. Ricotti, unico presente fra gli antichi colleghi del Cantelli nell’Amministrazione antecedente, domandò la parola per un fatto personale.

Disse che il Cantelli lasciando il ministero aveva ceduto un bel gruzzolo di fondi segreti al successore, quantunque pur quegli ne avesse spesi moltissimi per la Pubblica Sicurezza in Sicilia. Del resto dichiarò: «io ho sempre creduto finora e molto ingenuamente, che dei fondi segreti non si potesse pubblicamente discutere l’impiego, e che appunto per questo si chiamassero segreti.»

Perciò egli trovò strano, e disapprovò altamente, che un ministro, senza provocazione, senza nessuna domanda venisse dal suo banco a portare davanti alla Camera un’accusa gravissima contro il suo predecessore circa all’impiego di fondi segreti, che sono affidati dal Parlamento in fiducia al libero arbitrio del ministro.

Allora l’on. Nicotera si scatenò maggiormente:

«L’on Ricotti ha creduto di trovare nelle mie parole una certa sconvenienza.... Io sono sicuro che se egli sapesse che l’iniziativa non è mia, ma del suo collega il ministro passato, allora non si sorprenderebbe punto della mia risposta (Benissimo!).

Onorevole Ricotti, io mi difendo, e mi difendo meno di quello che mi abbiano attaccato taluni del suo partito.

«(con forza) Ebbene, il mio predecessore tentò di slanciarmi l’accusa di calunniatore. Vuole l’onorevole Ricotti che io me la tenga? Ho taciuto abbastanza; ma la prudenza ha pure i suoi limiti. Io non ho fatto che rispondere ad un’affermazione non vera del mio predecessore, poiché non è vero che egli non abbia dato danaro a quel giornale dai fondi segreti; non è vero che egli non abbia pagato le 5000 lire al mese, e 10,000 lire il 19 marzo (sensazione).

«Lo vede, onorevole Ricotti, non fo che difendermi; ella che è tanto tenero delle convenienze, procuri di consigliare i suoi amici ad essere più prudenti e, mi consenta la parola, più morali di quello che non lo siano stati» (Bene! Bravo! — applausi dai banchi di sinistra e dalle tribune).

Il Ricotti replicò che forse il meglio sarebbe di sopprimerli cotali fondi segreti, ma che, mentre vi sono, se la Camera li ritiene male impiegati dal ministero, non ha da far altro che diminuirne lo assegno in bilancio, ma non può sindacarli partitamente. Quanto alla maggiore bottata del Nicotera, esclamò: «L’onorevole ministro per l’interno mi consiglia di suggerire ai miei colleghi di essere più morali; questo consiglio io non posso accettarlo, e mi dispiace di non avere sufficiente abilità oratoria per respingere energicamente questo suo consiglio.»

Il Nicotera spiegò: «ho parlato non già dei colleghi dell’onorevole Ricotti, ma di taluni suoi amici e del suo partito; e credo di essere stato generoso» (Bene! — altre voci: Sì! Sì!).

Però ripeté che il Cantelli era stato il primo a smentirlo prima ancora che egli avesse parlato.

Ricotti — È in Senato l’onorevole Cantelli.

Ministro per l’interno — Vuol dire che potrà trattarsi una tal questione coll’onorevole Cantelli in Senato...

Intanto sopraggiunse l’onorevole Minghetti, che sentito l’odore della battaglia, prese da' suoi rapide informazioni di che si trattava, e domandò immediatamente la parola per un fatto quasi personale (ilarità e conversazioni a sinistra).

Egli disse di poter dire questo: «Avendo anch’io udito come nei pubblici giornali si leggesse di sovvenzioni date dall’ex-ministro dell’interno, mio collega, alla Gazzetta d'Italia, ebbi occasione, dopo la nostra uscita dal ministero, di interrogarlo su questa materia. L’onorevole Cantelli mi rispose che egli sapeva benissimo che esistevano le ricevute di cui parla l’attuale ministro dell’interno, ma che egli poteva dimostrare che quelle somme non erano destinate a sovvenzioni per la Gazzetta d'Italia. (Oh! Oh! — si ride a sinistra).

«Signori miei, quando un uomo, come l’onorevole Cantelli, la cui vita privata e pubblica è un modello di onore intemerato, afferma una cosa, non vi ha nessuna ragione per non prestarvi intera fede.»

Alle parole di stima e riverenza che l’onorevole Minghetti tributava al conte Cantelli, l’onorevole Nicotera rispose con una incandescenza che parve di acciaio in ferriera, il quale poi si torca studiatamente in freddezza penetrante.

«Si abbia l’onorevole Minghetti quell’opinione che vuole dell’onorevole Cantelli, ma deve credere che la mia vita privata e pubblica sta al disopra di qualunque eccezione. Nella mia coscienza, a fronte alta, nulla ho a rimproverarmi. Io non ho mai fatto il ciambellano o il servitore di una duchessa borbonica! (Bene — applausi a sinistra).

«L’onorevole Minghetti vuol fare un giuoco di parole, come l’onorevole Cantelli. Ebbene, ascolti la Camera in che consiste siffatto giuoco. Il danaro, dice il suo predecessore, fu pagato al direttore della Gazzetta d'Italia, e non al giornale. Ora giudichi li Camera e il paese, se pagare il direttore della Gazzetta non sia lo stesso che pagare la Gazzetta d'Italia; ammenoché non si dica che le 5000 al Direttore della Gazzetta d'Italia erano pagate come a confidente del ministro dell’interno» (Bravissimo! a sinistra).

La discussione non poteva salire in note parlamentari più acute.

L’interpellante notò: «Io ammiro l’abilità dell’onorevole ministro dell’interno; egli ha manovrato stupendamente. Egli da questa questione di libertà offesa da lui ha cercato di deviare e di farne una grande questione politica.» Ma l’interpellante vuole restare sul suo terreno e sfida qualsiasi dragomanno a dare alla circolare telegrafica del ministero dell’interno la semplice interpretazione fornitane dal ministro; perciò egli propone alla Camera una mozione per invitare il ministro dell’interno ad astenersi nell’avvenire da atti della natura di quelli che formarono argomento all’interpellanza.

L’impetuoso ministro prega la Camera acciocché esaurisca in quello stesso momento tutta la discussione. «Voi comprenderete, egli dice, non essere possibile che il ministro dell’interno resti neppure un minuto sotto l’accusa di liberticida, regalatagli dall’onorevole Corte, il quale, me lo permetta, nella via della libertà è arrivato dopo di me.»

Allora si alzò l’on. Farini per tentare la nota giusta. Egli ricordò alla Camera che sullo stesso oggetto si stava dibattendo a Firenze, davanti al tribunale, una querela di calunnia e diffamazione intentata da Giovanni Nicotera; e che portare la stessa questione in Parlamento sarebbe stato pregiudicare la sentenza dell’autorità giudiziaria.

«Qui, onorevole Corte, egli soggiunse, non vi è questione di maggiore o minore abilità parlamentare. Se l’onorevole Cantelli si riterrà offeso da quello che l’onorevole Nicotera è stato tratto a dire in quest’Assemblea, egli potrà in altro recinto giustificarsi.

«L’abilità parlamentare dell’onorevole Nicotera è stata quella di un uomo onesto, il quale da mesi e mesi è vituperato e dilaniato in ogni maniera (viva approvazione a sinistra). Egli ha creduto di raccogliere il guanto che gli venne gettato (Benissimo!).

«Però, prosegue l’onor. Farini, la Camera non può occuparsi di tale questione prima che la giustizia non siasi pronunziata a Firenze fra Nicotera e la Gazzetta d'Italia;» quindi egli conchiude pel rinvio della mozione Corte a tre mesi (Benissimo! Bravo!).

Invano l’on. Nicotera si oppose alla proposta Farini. Invano supplicò: «Non in nome mio, non in nome del ministero, ma in nome di qualche cosa che sta al disopra di noi, in nome della dignità del Governo, prego tutti, dell’una e dell’altra parte della Camera, a voler esaurire la proposta dell’on. Corte.»

Invano dimostrò che le calunnie avventate contro di lui ferivano il prestigio del Governo, perché si era aspettato ad assalire lui, quando egli trovavasi insediato nel Consiglio della Corona, mentre avevano avuto tanto tempo disponibile per attaccarlo prima.

L’onor. Corte, mosso dal discorso del Farini e preoccupato dall’estensione della fuorviata discussione, ritirò la sua mozione.

L’onor. Nicotera strepitò, che ciò era nello interesse della Gazzetta d'Italia, e che l’interpellante «così amante, a parole, delle forme costituzionali inglesi,» seguiva un sistema conveniente.

Il Corte rispose semplicemente: «L’onorevole ministro dell’interno ha voluto altra volta addebitarmi motivi diversi da quelli che mi spingevano a parlare, ed allora il Consiglio di disciplina di Napoli ha risposto per me.» Del resto egli sdegnava scolparsi; e il Presidente dichiarò che l’interpellanza non aveva più seguito alla Camera.

*

**

Al Tribunale di Firenze, Sebastiano Visconti, gerente della Gazzetta d'Italia, era dichiarato colpevole di diffamazione per mezzo delle stampe, e condannato a due mesi di carcere, alla multa di cinquecento lire, all’indennità ed alle spese dalla sentenza del 26 gennaio 1877. Come immediato coronamento della citata sentenza, si apprestava alla Camera la glorificazione dell’impresa di Sapri.

Nella tornata del 29 gennaio 1877 il presidente Crispi annunziava la lettura autorizzata dagli uffici di un progetto di legge presentato dagli onorevoli Giuseppe Garibaldi, Cairoli, Miceli ed altri garibaldini, portante per «Articolo unico. È assegnata a titolo di gratitudine nazionale una pensione vitalizia di lire mille a ciascuno dei superstiti dell’eroica spedizione del generale Pisacane, partiti da Genova il 25 giugno 1877.»

Il giorno dopo, nell’assenza del generale Garibaldi, Benedetto Cairoli l’oratore di più larga prospettiva patriottica, svolse il disegno di legge: e il suo svolgimento fu una febbrile apoteosi dedicata dai vincitori di Marsala ai precursori percossi di Sapri.

In poco più di due colonnini di orazione raccolse trentadue volte i Bravo, i bene, i benissimo, e gli applausi a sinistra.

Con febbre leonina chiamò la spedizione di Sapri titanico ardimento, reso più glorioso dai pericoli e dagli ostacoli che ne facevano prevedere impossibile la riuscita, «perché attestano la serena premeditazione del martirio, intenta a maturare il domani che non vedrà.»

«Quei prodi andavano a morire per svegliare i dormienti. Era allora profondo il letargo sotto l’incubo del dolore; rari lampi di minaccia spenti nell’apparire; le forche austriache maestre di buon governo ai minori tiranni; unico asilo delle profughe speranze nazionali il Piemonte...

«... Partirono e caddero; eroi nella pugna disuguale; vincitori nell’inevitabile sconfitta...

«... La storia ha celebrata l’impresa di Pisacane; non vi ha commento di scettica bile che possa mettere in dubbio l’epopea del sacrificio.»

L’oratore manda indietro il soffio di passioni, che fanno qualche volta della politica una baccante provveduta di illecite armi; egli non vuole neppure menzionare le aggressioni di condannate polemiche, gli Erostrati distruttori delle glorie nazionali, i sacrileghi attentati contro la storia.

La verità non può essere neppure offuscata dalle sentenze dei tiranni, onde escono radiosi i nomi condannati di Pagano, di Cirillo, di Caracciolo, di Guglielmo Pepe, di Poerio, di Settembrini, dei martiri del 6 febbraio, e di tutti gli eroi risorti con le spade nel pugno e gli allori nelle chiome alle strofe vincitrici delle battaglie di Garibaldi.

«La firma del Grande, che precede la nostra, vi esorta ad onorare col voto i precursori dei suoi più celebrati trionfi; ed io spero acclamata dai vostri cuori una proposta che si presenta a voi sotto gli!( )auspici di un tanto nome e di tali ricordi.» I

Dopo l’applaudita perorazione dell’onorevole Cai(4 )roli, l’onorevole Sella trovò il coraggio di sorgere fra i tempestosi rumori della Sinistra contro alla presa i in considerazione del progetto di legge.

Egli ammise la straordinaria importanza della spedizione di Marsala, onde comprendeva perfettamente da buon abbachista come, «sebbene a chi combattendo per la patria fu ferito, ed anche mutilato, non è assegnata che una pensione, la quale non arriva alle cinquecento lire, si sia data a tutti gli eroi che presero parte alla prima spedizione di Marsala una eccezionale pensione di mille lire.»

Ma l’odierna proposta si riferisce ad uno dei tanti tentativi patriotici che non riuscirono. .

Allora voci della Sinistra lo sgridarono: — Ella non vuole riconoscere che il successo.

Quintino Sella continuò imperturbato, cercando nelle stesse dignitose negative del Cairoli la radice cubica di quella proposta. Egli non prede «essere nella dignità del Parlamento il credersi obbligato ad una rivincita sopra una discussione avvenuta altrove.»

«Non preoccupiamocene; la storia imparziale attribuirà a ciascuno il suo merito, il suo demerito. Non tocca a noi il prendere delle deliberazioni, che, in certo modo, possono significare una interpretazione della storia.» Se pure non avranno una peggiore interpretazione, «come un avviso della maggioranza del Parlamento alla nazione che, glorificando simili tentativi, essa maggioranza intenda nuovamente incoraggiarli» (vive denegazioni a Sinistra); locché ci screditerebbe all’estero, lasciando credere «che l’Italia, giunta alla sua unità, anziché essere considerata come una guarentigia d’ordine e di tranquillità, si costituirebbe come un pericolo per la pace pubblica.» Oltre a ciò «sorgerà la questione: perché questo e non altri?»

L’onorevole lanaiuolo raccolse un elenco dei tentativi fattisi dopo il 1815 per il risorgimento nazionale; e lo produsse come fosse una tabella di articoli di stoffe, ricavando dall’enumerazione la somma di quasi una cinquantina di tentativi per conchiuderne: «Ora, signori, fra queste e tante altre belle pagine della storia d’Italia, volete voi oggi, senza esame, sceglierne una sola, alla quale io nulla voglio togliere, spieghiamoci bene, quella di Sapri?

«Tutto sonnecchiava, dice l’onorevole Cairoli. Io gli faccio osservare che non si sonnecchiava niente nel 1857. Si era dopo la guerra di Crimea e il Congresso di Parigi; anzi mi sia lecito meravigliarmi che, dopo la guerra di Crimea ed il Congresso di Parigi, vi sia stato chi abbia iniziato un movimento, inalberando una bandiera che non era quella della monarchia che aveva preso coraggiosamente in mano la causa d’Italia davanti all’Europa, e che ben presto doveva fare l’Italia» (Bravo! benissimo! a destra).

L’oratore non dimenticò di aggiungere la circostanza aggravante, che la spedizione di Sapri era stata anche accompagnata da movimenti in Genova diretti contro alla stessa monarchia di Savoia.

Per tutto ciò l’onorevole Sella si era «addossata forse l'odiosità d’opporsi alla presa in considerazione del progetto di legge degli onorevoli Garibaldi e Cairoli.»

Si levò a rintuzzare le considerazioni del Sella il presidente del Consiglio, onorevole Depretis, pure esordiendo: «Fra i dieci superstiti di Sapri, noi che sediamo in questo banco abbiamo, non solo un intimo amico, ma un collega nell’amministrazione dello Stato;» onde prometteva la completa neutralità del ministero nella discussione. Ma ciò nonostante, egli prendeva a rompere ad una ad una le verghe dell’argomentazione selliana.

Anzitutto l’enologo di Stradella volle dimostrarsi meno utilitario del pannaiuolo biellese nella riconoscenza storica; e dimostrò di comprendere il concetto dei proponenti, i quali «vollero, dopo che il Parlamento aveva reso una testimonianza d’onore alla spedizione glorificata dal successo, rendere onore, scegliendone una, alle spedizioni che furono invece coronate dal martirio» (Bene! Bravo! a sinistra).

Quindi elevò la ragione della proposta. «Non è contro uno dei martiri di Sapri che furono lanciate le più gravi accuse: noi abbiamo vista messa in giudizio e tradotta come un accusato davanti ai tribunali tutta la rivoluzione italiana (Benissimo!)] la causa della nostra unità...

«... Io credo che questa proposta è un atto di difesa della nostra storia; ed è perciò che il ministero crede che né all’interno né all’estero questo progetto di legge potrà essere mal giudicato... Né giova indagare i tentativi fatti per l’indipendenza e l’unità italiana con altre bandiere (Benissimo! -con altri principii (Bravo!); l’idea predominante, onorevole Sella, che ha mosso i generosi da tanti anni nei tentativi spesse volte severamente giudicati, l’idea dominante era sempre l’unità italiana (Bravo! Bene!), ed appena venuto il giorno, in cui la gloriosa nostra dinastia prese in mano questo vessillo, noi abbiamo visto intorno a questo radunarsi tutti quelli che ad ogni costo volevano l’unità della patria (applausi).

«Dove ci fermeremo noi, ci ha chiesto l’onorevole Sella; perché questi soli e non tutti?

«Ci fermeremo, onorevole Sella, dove il Parlamento crederà di arrestarsi (Bene!), e se ci sono altri eroi per i quali il Parlamento voglia deliberare una dimostrazione d’onore, io gli rispondo che se il ministero è obbligato a restare neutrale in questa circostanza, esso non resterebbe neutrale in una circostanza diversa» (Bravo!).

Benedetto Cairoli ringraziò il Presidente del Consiglio per le sue eloquenti parole: «Io le attendeva dal suo patriottismo, che non si è limitato a platoniche aspirazioni, ma ha affrontato pericoli e sacritìzi per la fede nazionale affermata dal martirio (Benissimo).

«Io confesso che non mi aspettava dall’onorevole Sella un’opposizione spinta fino a combattere la presa in considerazione; scortesia, mi scusi la parola..., che quasi non ha riscontro negli annali parlamentari» (Benissimo!).

Ricordando il catalogo patriottico del Sella, segnala nuovamente «fra le audacie del martirio sicuro di sconfitta, il 6 febbraio (Bene!), che ha dato tante vittime al carnefice, al quale non mancò il plauso dei cortigiani (Bravo!). Abbonderebbero anzi le citazioni dell’eroismo, ma dopo la liberazione della patria non si è mai levata contro alcuna di queste memorabili imprese l’ingiuria dei commenti a mettere in dubbio l’eroismo (Bene!). Essa ha dato occasione a questa proposta, che crediamo presentata in nome del paese, il quale si sente personalmente offeso, quando è toccato nelle sue glorie (Benissimo!).

«… Ed è naturale, che le prime firme fossero messe, dopo quella del nostro duce, da noi che abbiamo avuto la fortuna di appartenere alla schiera dei Mille; da noi che ricordando l’attestazione nazionale che ci ha onorati, ne crediamo pur degni i nostri precursori per quella solidarietà che sente anche l’offesa» (Benissimo!).

Il Sella controrispose: «Non ho davvero inteso fare atto scortese verso chicchessia e meno che altri verso un personaggio così simpatico a tutti, e, me lo conceda, specialmente ai suoi avversari politici, come l’onorevole Cairoli...

«Signori, tanto dal discorso neutrale (??) dell’onorevole Presidente del Consiglio (si ride), quanto dal discorso in favore dell’onorevole Cairoli ho chiaramente inteso che Tunica ragione determinante alla proposta di legge è un disgraziatissimo processo; ma ciò non comprendo, signori. Chi di noi non è stato calunniato nel modo più atroce, e chi si è mai sentito toccato da quelle miserabili calunnie che serpeggiavano ai nostri piedi?

«Ma se un giornale venisse fuori ad asserire che l’onorevole Cairoli non ha patriottismo, se ne sentirebbe l’onorevole Cairoli in alcuna guisa toccato? Crederebbe egli dicevole alla sua dignità che il Parlamento venisse a fare una manifestazione in favore d’un patriottismo che è al disopra d’ogni sospetto? (Bravo! Bene! a destra).

«Trovo, signori, che si manca alla riverenza che dobbiamo alla spedizione di Sapri colla proposta di legge che si porta innanzi... Voi stabilireste un curioso precedente, ed è che per provocare dal Parlamento un voto di glorificazione e vantaggio, che cosa ci vorrebbe adunque, signori? Una bella e buona e ben sostenuta calunnia... .

« Ma, signori, ad una ingiuria privata date una riparazione privata.

«Vuole l’onorevole Cairoli iniziare una sottoscrizione per un monumento a Pisacane? Se melo concede, io pongo il mio nome sotto il suo.»

Malgrado questo eloquente dissenso del Sella e della sua Destra, la proposta Cairoli, messa ai voti per alzata e seduta, venne presa in considerazione.

L’incidente del Cantelli doveva poi avere seguito in Senato.

La coda della guerresca cometa vi spuntò il 3 marzo 1877 per l’interpellanza presentata appunto dal senatore Conte Gerolamo Cantelli sulle cose dette dal ministro dell’interno nell’altro ramo del Parlamento il 10 gennaio.

Il Nicotera, che alla Camera era stato furente, si recò tutto riguardoso in Senato, pregando anzitutto l’interpellante di considerare con lui il dovere di non portare certe questioni irritanti in una nobilissima assemblea destinata alla calma; e si dichiarò pronto a rettificare ogni possibile inesattezza personale, ove il Cantelli gliene chiedesse conto direttamente.

L’interpellante, poiché il ministro non aveva ritirata niuna di quelle accuse, le quali se fossero state vere egli non si sarebbe più ritenuto degno di sedere nell’augusto consesso dei Senatori, persistette nel suo disegno di scagionarsi.

Allora il senatore Conforti propose la questione pregiudiziale fondandola sul Regolamento del Senato, che vieta agli oratori ogni diretta allusione a cose dette o fatte nella Camera dei deputati, in fuori di una semplice enunziazione; disposizione, egli disse, improntata di sapienza, acciocché parole dette nel calore della discussione, e solite a comporsi per intromissione di amici, non si ripercotano in grave assemblea, disnaturandola in campo di polemiche selvaggio.

Ma nonostante il conforto di un sermoncino prò pace del senatore Miraglia, la pregiudiziale del Conforti non venne approvata. Allora il Nicotera, già ripetute le sue dichiarazioni di riguardo e di rispetto al senatore Cantelli per togliere di mezzo la questione personale, gittò un altro appiccagnolo: «il Senato nomini una Commissione di cinque senatori, i quali vengano al ministero dell’interno, per ricevere gli elementi di prova che servono a spiegare i criteri da me enunciati nella Camera; ben inteso però che questa Commissione non debba riferire al Senato i fatti particolari, ma i criteri generali.»

Neppure questo tentacolo fece presa; allora Nicotera ripicchiò: «l’on. Cantelli non ignora il dovere che ha il ministro dell’interno di non oltrepassare alcuni limiti impostigli dal suo ufficio, e comprende benissimo, che io, costretto a tacere molte cose, mi troverei in condizione malagevole con lui, che può parlare con maggior libertà.... E comprenderà l’onorevole Cantelli, che è mio imperioso dovere, quale rappresentante del Governo, di non lasciare il menomo dubbio sull’esattezza delle mie informazioni alla Camera dei deputati.»

Tutto fu inutile.

Il Cantelli diede la stura alla sua interpellanza. Ricordò le sue lettere, se non private, certamente secrete, prodotte senza suo consenso dagli avvocati del querelante Nicotera nel processo di Firenze, e il putiferio fattone il giorno dopo alla Camera dei deputati. «All’accusa di aver impiegato una parte dei fondi assegnati al ministero dell’interno in sussidio alla Gazzetta (l'Italia, egli disse, non posso che ripetere qui ciò che ebbi già ad affermare, che cioè le somme, che io feci pagare al signor Pancrazi non erano destinate né a lui, né all’amministrazione della Gazzetta d’Italia, ma dovevano essere, come furono, dal Pancrazi passate ad altri.»

Così messa addirittura fuori di causa la Gazzetta d'Italia, il Cantelli negò di avere mai coi denari dello Stato pagati dei giornali, perché inneggiassero a lui od alla sua amministrazione.

Però soggiunse: «Che se alcuno mi volesse a qualunque costo convinto che io ho sussidiato in alcuni casi la stampa periodica, perché propugnasse in Italia e all’estero quei grandi principi tanto contrastati sui quali si fonda la politica nazionale, o per metterla in grado di paralizzare nelle provincie gli effetti deleterii di una stampa nemica delle instituzioni che ci reggono, e di tutto ciò che vi ha di nobile e di grande, io non me ne offenderei, e rivolto piuttosto agli uomini insigni che prima di me hanno retto il ministero dell’interno, direi loro col Vangelo: Chi è di voi senza peccato, scagli la prima pietra.»

Si scagionò dall’accusa di aver data una gratuita smentita al ministro. Egli Cantelli avea confermato telegraficamente ciò che riteneva la verità, rispondendo immediatamente ad un telegramma del Pancrazi nella sera stessa del. giorno in cui si erano presentate al Tribunale di Firenze dagli avvocanti della parte civile le quattro lettere, colle quali in diverse epoche l’oratore, mentre era ministro, incaricava il Prefetto di Firenze di far consegnare determinate somme al direttore della Gazzetta d’Italia, «che è pure proprietario di un grande stabilimento tipografico.»

Il giorno dopo, prima di fare il baccano alla Camera, il ministro doveva aver letto quei telegrammi, sebbene non fossero ancora pubblicati, «giacché certi dispacci non rimangono ignorati al ministero dell’interno.»

Piuttosto l’oratore deve esso lagnarsi dell’enorme scortesia usatagli di aver prodotte, senza sua saputa, quelle lettere di lui in giudizio.

«Resta l’ultima accusa: io sono stato il ciambellano, il servitore, quasi si direbbe il favorito d’una duchessa borbonica.»

L’oratore fa appello a quanti senatori bazzicarono in Parma per sapere da loro, se mai odorassero che in quel luogo della sua nascita e delle prime sue gesta gli fosse appioppata la nomea di servitore borbonico.

Fa appello agli onorevoli Vigliani, Plezza, Chiesi, Pallieri, Gamba e Verga, e segnatamente al Borsani, con cui fu legato da amicizia politica prima del 1848, e al Boncompagni che dopo il 1854 fu ministro del re di Sardegna in Firenze ed in Parma, e allo stesso Presidente del Consiglio che trapelò a Parma prima del 1859; ed ambidue questi ultimi fecero capo a lui, non certamente come ad agente borbonico.

Ricordò come il governo di Maria Luigia, vedova di Napoleone I, andasse segnalato per civiltà relativa. «Nella mia giovinezza servii quel governo in uffici gratuiti, e me ne vanto.»

Ma negli ultimi mesi della vita di quell’ex-imperatrice, anche quel governo fu bruttato da sospetti e rancori, e prima che la duchessa spirasse, addì 15 dicembre 1847, il Cantelli era spogliato delle cariche che copriva, compresa quella di podestà della città di Parma, alla quale era stato tre anni prima elevato per voto concorde dei cittadini e del Governo.

Nell’aprile del 1848, spulezzato per sempre il duca Carlo III di Borbone, il Cantelli fu membro del Governo provvisorio, che resse lo Stato fino alla consegna fattane all’inviato di Carlo Alberto.

Il 9 giugno 1859, un’ora dopo la partenza della vedova di Carlo III, il Consiglio municipale, su proposta del Cantelli, dichiarava doversi reggere lo Stato in nome di Vittorio Emanuele da triumviri, di cui il proponente fu capo.

L’assemblea rappresentativa di Parma nominava pure lui a presidente, come quella di Bologna nominava il Minghetti, e quella di Bologna il compianto patriota Giuseppe Malmusi. «Quanto alla mia vita politica dopo quell’epoca, essa si è svolta tutta nel Parlamento. Voi ne siete i migliori giudici» (vivi segni di approvazione).

Il Nicotera non rimase quieto.

Rinnovò le sue querimonie per i ceppi imposti alla sua parola dai riguardi ufficiali.

«Riconosco che l’onorevole Cantelli non ha mai sussidiato la stampa perché facesse la sua apologia; se ciò fosse accaduto, noi non avremmo dovuto aspettare fino ad oggi per conoscere alcuni fatti della sua vita onorevolissimi, che egli ci ha teste narrati...

«In quanto al sistema di sussidiare i giornali, non lo ha negato neppure l’onorevole senatore Cantelli; ma egli lo ha spiegato nel senso che il sussidio si dava non per sostenere le persone dei ministri, ma per difendere la politica del ministero...

«L’onorevole Cantelli crede che quel sistema sia buono: mi permetta che io porti giudizio diverso.

«Io non... (ilarità).

«Prego a non ridere fino a che non abbia terminato, e prego a considerare il contegno che la stampa tiene verso di me, per avere la prova evidente che io non sussidio coi fondi segreti la stampa (rumori). Quasi tutti i giornali mi sono contrari!

Senatore di Cossilla — Il Bersagliere!?

Ministro dell'interno — Il Bersagliere non è sussidiato dal ministero, e sfido chiunque a provare il contrario (interruzioni).

«... Ritornando all’argomento... ad ogni modo, l’onorevole Cantelli afferma che il danaro dato a quel giornale, che io non nomino per rispetto alla stampa, non era dato per sussidiarlo, ma per altri servizi; è questo un affare che mi interessa poco. I servizi segreti, i servizi di confidente non possono esser messi in discussione, e non voglio neppure indagare se le le sue affermazioni siano esatte.» .

Quanto alla scappatagli insinuazione del servitore borbonico, se la rigirò così: «neppure le mie parole sono quali le ha interpretate l’onorevole Cantelli; infatti, io non dissi ch’egli avesse fatto il ciambellano (interruzioni)... ma invece che io non lo era stato giammai.» '

Riguardo alle carte che pretese bruciate dal precedente ministero, come da una truppa di zingari al levare degli accampamenti — egli, quasi stanco del prefissosi ritegno, tirò in ballo come referendario l’antico capo del gabinetto dell’interno sotto il Cantelli. E finì per raccomandare un’ultima volta al Senato di spedire, prima di qualsiasi risoluzione, una Commissione al ministero dell’interno, a fine di verificarvi fatti e documenti.

Ma il Cantelli ringraziò il Nicotera delle parole cortesi, considerandole come un ritiro delle altre, ringraziò tutta la benevola udienza, e non propose verun voto.

Voci: Bravo! bene! bene!

Ed anche qui il Presidente dichiarò: l’incidente dell’interpellanza è esaurito.

*

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Abbiamo voluto offrire un abbondante estratto di tali battibecchi, perché danno nella loro misura più colma e nel loro punto più accentuato un saggio di quella che chiameremo non eloquenza, ma schermaglia parlamentare dell’onor. Nicotera. Imperocché egli non ha studio né pazienza per filare e riempire mai un discorso dottrinale; però ha il luccichio dell’assalto improvviso, la grazia della parata, il guizzo e il capovolgimento della difesa, l’impeto indefesso del riattacco.

Ma i battibecchi parlamentari non furono la memoria più notevole né la migliore lasciata dal Nicotera ministro. Raccontò lo Zini: «nei venti mesi del ministero il Nicotera tanto continuò a rimutare che di 69 Provincie 4 sole ebbero conservati i loro Prefetti, 21 li videro mutati una volta, 35 ne rimutarono due, 8 ne saggiarono tre, ed una ripassò fino il quarto.»

Fra i tramutati vi fu lo stesso Zini mandato a sedere sulle cose di Palermo, e poi spiccatone, come un imbarazzo, perché troppo meticoloso non comprendeva il verbo confidenziale di Nicotera: «La legge? eh! sicuro... sopra tutto deve stare la legge... ma bisogna intenderla... la legge e bisogna saperla adoperare... perché poi la legge non deve impedire ciò che è buono... ciò che è necessità di governo...»

Tale concetto il Nicotera ebbe il coraggio di spifferarlo in pieno Parlamento.

Nella seduta del 29 dicembre 1876, egli nella Camera mandava al preciso indirizzo dello Zini questi avvertimenti: a La questione della pubblica sicurezza in Sicilia non è questione di legge, ma di persona. È questione che chi deve governare quel paese deve sentirsi il coraggio di assumere certe responsabilità, e nel caso poi queste oltrepassassero anche di una linea le facoltà che concede la legge, sapersi sacrificare, ove occorra, purché abbia reso un gran servigio al paese.»

In somma lo prefetto Zini venne schiantato da Palermo e sostituitogli il Malusardi, che aveva provato bene altrove e specialmente nella caccia ai briganti delle Calabrie. Il Fanfulla disse che quella nomina era stata un mal usar di Zini.

Però lo stesso Zini seppe rendere giustizia a certe parti buone del Nicotera. Disse bensì di lui, che «nelle vene del democratico corre alcuna goccia di sangue cesareo; ond’egli di molte cose potè dubitare, non certo della virtù operativa della sua volontà risoluta. — Il tribuno rifatto console sentiva di dittatore. — A lui mancò proprio il campo di un colpo di Stato: ché ci avremmo ricavato un Persigny, un Morny, edizione economica; ed anche un dottor Bach. — Ministro di governo costituzionale è, od almeno fu, un anacronismo, un’anomalia, una disgrazia. — Ministro di un Cesare di ventura ti riverrebbe a venti soldi per lira, e non mi parrebbe caro.»

«Ma — riconobbe parimenti lo Zini — dello autoritario ben si può affermare, che pure qualche volta egli venne azzeccando giusto, poiché lo ingegno naturale e pronto indovinava, e la volontà non impedita operava risoluta e tenace.»

In fatti al ministero dell’interno, sopratutto per la Sicurezza Pubblica, giova di più la forza e la prontezza di un autoritario, che non la circospezione tentennona di un dottrinario.

Gli è certo che il Nicotera si rese singolarmente benemerito della Pubblica Sicurezza, specialmente in Sicilia; ne siano pure teatrali i fasti raccontati dal Galati e dal citato Zini.

Il Nicotera stesso, per mezzo del prefetto di Palermo, con cui comunicava telegraficamente, ridusse ad unità l’azione della polizia nell’isola. Ammonì e mandò a domicilio coatto il figlio di un milionario, e ve lo mantenne, quantunque il genitore si recasse a Roma a supplicare il ministro di un salvacondotto per spedire il figlio a diporto a Parigi o a Londra.

Il ministro una volta ordina per telegramma al prefetto di catturare il tale e il tal altro. Il prefetto, benché stranito di quell’ordine, eseguisce, e mediante quegli arresti si scoprono alcuni spaventosi sequestratori di persone e si ricuperano i denari di un ingente ricatto. Onde Malusardi telegrafa al ministro: Vostra Eccellenza ha corrispondenza col diavolo.

L’immaginoso popolino siciliano fantasticava che Nicotera fosse un gigante; onde un contadino di Mezzoiuso, introdotto nel gabinetto di lui, stentò a raffigurare il ministro in quell’ometto di bassa e tonda statura.

Il ministro sapeva egli stesso cavare il verme a un manutengolo per discoprire la tana del capobanda Nobile; respingeva impavido le sfide degli ammoniti, ed ottenuta la distruzione della banda di Antonio Leone, ed abbattutone il capo, osava in Senato levare la voce ed annunziare con accento sicuro e piglio assoluto, come l’ultimo brigante di Sicilia aveva morso la polvere; e poteva offrire le armi del masnadiero, il corpo del delitto, in omaggio al Re; e per poco non si presentò in Parlamento egli stesso onusto di quel trofeo brigantesco.

*

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Nonostante questi trionfi e fors’anche per essi, seguitavano i malumori della stampa e dell’opinione pubblica contra l’autoritarismo del troppo ministro Nicotera.

Ma era opinione dei più che ci sarebbero voluti gli argani per svellerlo dal portafogli.

Invece egli se ne lasciò distaccare dolce dolce, come ingommatura bagnata.

Egli cadde per la cosidetta gamba di Vladimiro. Questo scherzo, narra lo Zini, consistette in un telegramma privato apocrifo, recante la falsa novella di ferita toccata al granduca Vladimiro di Russia.

Era stato apprestato maliziosamente, acciocché il ministro dell’interno, che ficca gli occhi nei telegrammi, vi abboccasse. Ed il ministro morse all’amo; e il giornale ufficioso di Nicotera annunziò la rottura della gamba di Vladimiro. Quindi se ne fece la grande baiata.

La Camera si mostrò gelosa del secreto telegrafico; ed il Nicotera piantò il ministero, non solo senza aspettare che gli rompessero la sedia ministeriale, per sgranchirlo della sua tenacità polipesca, ma senza aspettare neppure di ricevere il gambetto dal Parlamento. Gli bastò la gamba di Vladimiro.

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D’allora in poi le opere del Nicotera furono ad intermittenza di dissidente (che così presero a chiamarsi i caporioni di sinistra, quando non sono al potere), o di appaciato, o di prepotente parlamentare.

Fu prepotente per le linee Eboli-Reggio.

Nel giugno del 1878, come un vento impetuoso, che porti alberi e fiori, soffiò la voce imperiosa e ammaliante del tiranno-Mefistofele Nicotera-Eboli-Reggio.

Questa sirena dispotica, con la sua forma di pallottola slanciata e con quella sua sicurezza di balzi elastici, intima al ministero di far votare prima delle vacanze le costruzioni ferroviarie, dicendogli chiaramente: io sarò ministeriale, se voi farete come voglio io, cioè se continuerete il mio famoso programma d’infallibilità tecnica, individuale, universale, così aspettato dal paese; se no, no; intanto, come amico leale, vi avverto che, se non farete votare le costruzioni in questo periodo parlamentare, si scatenerà furiosamente contro di voi il malcontento della nazione. A suo tempo, il Nicotera ottenne ciò che volle per le strade ferrate del suo cuore.

*

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Quando si trattava di far cadere il primo ministero Cairoli, alla fine di novembre e al principio del dicembre 1878, il Nicotera si mostrò di un’ammirabile attività.

Si affaccendava per ottenere sottoscrizioni al suo ordine del giorno, perciò correva in carrozzella alla stazione, a cogliervi i deputati appena discesi dal treno; si era persino rimpaciato col Crispi, contro di cui erano corsi sospetti di tremende vendette ai tempi dell’accusa avventata a Don Ciccio di bigamia.

In ogni modo l’on. Nicotera agitavasi, moltiplicavasi, lo si vedeva da per tutto: in vettura, al Parlamento, su per le scale degli uomini politici e di nuovo allo scalo della ferrovia.... sorridente con tutti, prodigando le occhiate più seducenti ed assassine, occhiate a destra, a sinistra, ai centri.

Teneva in tasca il suo bravo ordine del giorno, lo tirava fuori. — Si tratta di salvare il Paese, egli diceva, voglio salvare il Paese; io mi unisco con chiunque, sono il primo firmato, ma vi è spazio, fra lo scritto e la mia firma, per qualunque segnatura di uomo politico; mi faccio soldato, vado fino a Bonghi, se occorre, ma si salvi il Paese.

A questo modo radunò più di un centinaio di firme. Nella seduta del 10 dicembre egli parlò dopo Vare, e parlò con freddezza dottrinale come un candidato in un concorso d’aggregazione per la facoltà... di ministero e portafogli.

Citò autori di diritto pubblico, credo Puffendorfo e Grozio. Ma sovratutto egli volle sgombrare due prevenzioni, secondo lui, funeste, cioè che fosse in pericolo la libertà d’Italia per la caduta di Cairoli dal seggio ministeriale, e che l’Italia potesse fare a meno di una crisi ministeriale per provvedere ai suoi interessi nazionali.

Sul finire del gennaio 1879 fu tenero, idillico, pastorale lo spettacolo del vedere da una parte sorgere il barone Nicotera e dall’altra l’on. Minghetti e in un duo stupendo domandare di cantare la stessa canzone in favore delle bersagliate finanze del Comune di Firenze. Già si conosceva dalla più evidente prosa del Bersagliere come quelle bersagliate finanze stessero a cuore del partito nicoterino, tutto commosso, ingenuamente commosso per le piaghe aperte in quella città da una dissennata amministrazione e da un cumulo di debiti usurai.

Nella discussione finanziaria sulla fine del marzo 1879 l’on. Nicotera propose una dose di gravi considerazioni contra il ministero, e dopo aver lui suonata la campana per la concordia della Sinistra, parve il demone della discordia in maschera napoletana.

Disse che, per beneficare il popolo, prima che togliere il macinato si sarebbe dovuto abolire il corso forzoso, e che vi erano ben altri macinati!

— Bel ragionare il suo l osservavano i ministeriali: quanto dire a un poveretto che avesse bisogno di cappello e di calzature: non ti do il cappello perché hai bisogno anzitutto delle calzature; e non ti do le calzature, perché devi avere primieramente il cappello.

L’on. Nicotera meritò che la Destra lo applaudisse con entusiasmo, e Opinione trovasse le sue idee pregne di buon senso.

*

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In principio di luglio 1879, l’onorevole Depretis con meravigliosa cocciutaggine pretendendo di sostenere le prerogative della Camera in materia di finanza, si rifiutava di accettare il progetto senatorio che restringeva l’abolizione del macinato al secondo palmento; così il vecchio uomo di Stato, invasato dal funesto demone del domani, non dimostrava più di essere un provetto ambizioso del potere: anzi dimostrava di saper cadere, morire, rinunziare alle gioie e ' alla maestà del supremo comando, pur di non sottrarsi alla voluttà, al fascino del temporeggiare, pur di ricusare l’immediata abolizione del secondo palmento, pur di rifiutare una scadenza determinata solennemente dai due rami del Parlamento, santificata dall’aspettazione, dal desiderio, dal bisogno popolare; insomma Depretis si suicidava, pur di non essere puntuale! Allora si parlò seriamente del ricongiungimento dei pianeti Sella e Nicotera.

Ma i maggiorenti della Destra blaterarono contra la sirena Nicotera: — ha idee chiare, precise, da buona massaia; parla bene, come parlò benone a Caserta, e teste alla Camera; ha tatto, ha naso; ma predicando bene, può raspar male; certe volte ha certi umori... che Dio ne salvi dalle sue bizze negli occhi... perde la staffa; e poi ammettiamo, nella migliore ipotesi, che le riesca affatto di spogliarsi di quelle qualità meno buone, che pur la rendevano così celebre e sì ricercata... Senza quelle qualità sarebbe scadente. Non darebbe più per la casa una forza... Bel guadagno si farebbe!... Ed il congiungimento non fu ratificato, né ebbe conseguenze legittime.

La crisi ministeriale, che diede luogo alle elezioni generali del maggio 1880, fu l’epoca classica, il mese d’oro della dissidenza.

I Destri ritornati sul campo di battaglia erano un 120, od un 150 come strombazzavano essi stessi; ma 150 non potevano costituire una maggioranza davanti alla Sinistra che contava un 210 e più di ministeriali presenti e un 53 o più di dissidenti.

Adunque era giocoforza per la Destra che tentasse accordo, cricca, o accordellato coi dissidenti. Essa studiò bene le sue convenienze. Ma riguardo ai dissidenti era un altro paio di maniche. Essi non potevano avere altro scopo visibile fuorché lo sfogo di risentimenti personali.

Infatti, data la vittoria dei coalizzati, i Destri vi avrebbero contato per 150, e i Sinistri dissidenti per poco più di una magra cinquantina. Quindi la parte di torta per questi ultimi sarebbe stata poca o niente,:( )tanto più che gli elementi dei due campi, se potevano unirsi in un’opera di distruzione, non avrebbero potuto aggregarsi in un’opera positiva di costruzione.

In verità, come si sarebbero potuti associare in un ministero Nicotera e Spaventa, Crispi e Minghetti, Zanardelli e Bonghi, le ripugnanze storiche colle antipatie personali, lo scrutinio di lista col suffragio ristrettissimo, l’abolizione del macinato con la passione del macinato, la libertà dottrinaria con la dottrina dell’arbitrio?

Quindi gli ingenui timorati del Dio del Progresso, lasciate in disparte le anime più ringhiose, irrequiete e dispettose dei dissidenti, si rivolgevano supplici ai patrioti più liberali della dissidenza, per esempio agli onorevoli Abignente, Sorrentino e in ispecie all’onorevole Zanardelli, e predicavano loro: — Se per fatto vostro la Destra ritornerà anzi tempo al potere; se l’abolizione del macinato andrà a nascondersi; se la riforma elettorale sarà ridotta ai minimi termini o svaporerà affatto; se le economie ritorneranno impossibili per la rilassatezza spendereccia; se si mozzerà nuovamente la vita economica del Paese; se sarà riaggravata la respirazione pubblica d’ogni libertà; se ritorneremo in una afa di oppressura e nel torbido dei rimescolamenti; se correranno i maggiori pericoli le patrie istituzioni, giusto giudicio dantescamente dalle stelle caggia su voi, che avete postergato ai risentimenti personali eziandio più giusti i più alti principii della vostra fede politica.

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Nonostante queste prediche, si vociferava che l’on. Nicotera avesse combinate cogli onorevoli Codronchi e Rudinì le liste della coalizione per le elezioni dell’ufficio di Presidenza.

Si assicurava proprio avverato il sogno del Sella, cioè che la Destra avesse trovato, nella ricuperata pattuglia toscana, il vero ponte o punto d’unione fra essa e il Nicotera.

Di vero la Dissidenza accoppiata colla Destra nella nomina dei vice-presidenti ne ottenne tre. Dei ministeriali appena lo Spantigati, perché prior in aetate, potior in jure, potè superare il Budini, che al pari di lui aveva ottenuto 208 voti.

Gli altri candidati ministeriali restarono nella tromba.

Adunque il gruppo più numeroso, più omogeneo e più compatto della Camera, quale si era senza dubbio il ministeriale, rimaneva con poca o punta rappresentanza nell’Ufficio di presidenza.

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Ciò che maggiormente offendeva gli ingenui progressisti in questa manipolazione di voti parlamentari, non si era punto la vittoria di un partito o di un altro, ma si era lo scredito che ne proveniva alle istituzioni in faccia al Paese, appunto perché non si aveva avuto riguardo a nessun principio. Essi dicevano: «che dopo un apostolato d’idee e in seguito a un’ampia discussione ottengano la maggioranza in Parlamento il Sella o il Crispi, noi ne rispetteremo il trionfo nella vicenda delle lotte parlamentari, quantunque non possiamo parteciparne il programma.

«Ma che, senza una comunanza, anzi senza una vicinanza di idee, gli uomini più disparati facciano comunella in una votazione segreta al solo scopo di sfogare passioni personali, cacciare dal seggio i ministri e giocarsene l’eredità a mosca-cieca, è uno spettacolo non solo sconveniente, ma stomachevole.»

Si comprendeva così bene l’enormità di questa situazione dagli stessi destri e dissidenti, che essi non rifinivano dal raccontare le storielle delle loro trattative da prima tentate e poi andate a male col ministero.

La Riforma, il Quotidiano e il Bersagliere erano indicatori perenni dell’energia, dell’intelligenza e d’ogni altra qualità di governo, di cui si mostravano incatramati i loro patroni Crispi e Nicotera.

D’altra banda Opinione, mentre nelle notizie rifriggeva il racconto delle trattative intavolate dal suo partito col ministero e incolpava questo se erano fallite, nell’articolone di fondo sparava poi una cannonata della più decisa e immediata ostilità contra il Gabinetto.

Lo accusava di avere osteggiato il Senato, cercando di denigrarlo in faccia al popolo, perché, secondo la logica della Destra, era imputabile al Gabinetto Cairoli-Depretis l’epigramma di Stecchetti contra i senatori che andavano a lauto pranzo, togliendo il pane ai poveri.

E intanto, per vendicare il Senato, ecco che la Destra si univa con Francesco Crispi, così tenero dell’integrità senatoria!

La requisitoria Opinione faceva rabbrividire sulle colpe elettorali che affibbiava tutte al ministero, come se gli ingenui stessi di corta vista non fossero stati testimoni scandolezzati di qualche elezione di Destra, per cui si erano impiegate le frottole più smaccate e gli agenti elettorali più avariati nella loro riputazione e più funesti alle pubbliche amministrazioni e ai pubblici uffici, da cui erano stati sbanditi; si eran pubblicate le minacce più grossolane, e si erano estesi i pranzi persino ai morti compresi nelle liste elettorali, onde il buon senso della probità ingenua aveva dovuto ragionare con ispavento: — Se tanto mi dà tanto, e se osano già tanto adesso, che cosa faranno quando riavranno il potere?

— Ma tranquilliamoci tutti — sentenziavano poi i pretendenti al sarcasmo: — Per ristabilire e propagare il catonismo a Roma, la Destra si è sottoposta a un fecondo e replicato amplesso degli onorevoli Fili Astolfone, Marziale Capo, Giovanni Nicotera, Vollaro, Crispi e di quel gioiellone del duca San Donato.

E concludevano: — Bisognerebbe possedere la lingua di Dante per dare alla Destra il titolo che si merita. .

La conclusione non era precipitata. La Destra e i dissidenti si amarono eternamente per una notte Dopo la nottolata, pareva volessero continuare nella loro eternità d’amore, e ancora alla mattina del 30 maggio, come in un romanzo del più insaziabile naturismo, essi occuparono dei loro abbracci tutti gli uffici della Camera, non risparmiando neppure un angolo; appena ne fu salvo l’ufficio VII, perché difeso nientemeno che da Ercole in persona.

Ma ad un tratto, repentinamente i dissidenti piantarono da loro ganza di un giorno e si rigettarono nelle braccia della Sinistra ministeriale.

La Destra rimase nel comico atteggiamento di una Diana violata. Essa fu degna di essere musicata da Offenbach e da Lecoq.

A vedere questi connubi e questi divorzi improvvisi, gli storici e gli scienziati dell’ingenuità gridavano alla Venere vaga; il popolino gridava addirittura all’imbagasciamento dei partiti. Si ripetevano i versi del Carducci:

... se v’ha conci il reo lavoro,

Ci pensi la Questura

con l’ufficio sanitario.

Gli ingenui si consolavano pensando, che dopo il divorzio i coniugi nuovamente avvicinati dovessero ritrovare qualche comunanza di fede politica e voler tutti la riforma elettorale...

*

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Intanto, magnifico regalo di nozze fu la lista concordata dei commissari del bilancio.

Si lasciarono appena 5 nomi alla Destra; e ben 25 si riservarono alla Sinistra, cioè 16 alla Sinistra ministeriale e 9 alla Sinistra già dissidente.

A leggere la litania dei riusciti ci era certamente da fare parecchie eccezioni, e da strabiliare parecchio, osservando come spesso basti a taluno essere incompetente o competente in tutt’altro per essere ammesso nella Commissione del bilancio. Se qualche collegio della Sardegna avesse mandato alla Camera il celebre tenore Mario marchese De Candia, credo si sarebbe trovato nella Commissione generale del bilancio per la sottocommissione di grazia e giustizia.

In quei giorni venne colto il seguente brano di conversazione politica fra due ingenui:

— Scommetto che i dissidenti, concedendo i loro favori alla Sinistra ministeriale, non vorranno rimanere a denti asciutti...

— Che cosa dici?

— Dissi... denti.

Nel giugno del 1880 non essendo riuscito il Crispi a primo scrutinio fra i commissarii della riforma elettorale, prima che si cominciasse il ballottaggio, pregò la Camera a non nominarlo più.

Nicotera, per solidarietà, rinunziò alla nomina già riportata. Avendolo il Presidente richiamato a più miti sensi, Nicotera rispose che il Presidente, sapendo provvedere alla propria dignità, doveva pur lasciare che gli altri tutelassero la dignità loro, e mantenne per qualche tempo le dimissioni.

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Nelle interpellanze chiusesi nel dicembre 1880, Nicotera dal suo banco a pianterreno dell’estrema Sinistra, piantato come un antico romano all’orlo del circo, scagliò le sue parole gladiatorie che volavano come giavellotti.

Più tardi attaccò il De Sanctis e parve un incendiario che appiccasse fuoco all’impagliatura di quel distratto.

Per la questione del sussidio a Napoli nel marzo 1881 il Nicotera si dimostrò drammaticamente incontentabile.

*

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Impetuosi e subitanei attacchi al ministero nelle congreghe elettorali e in Parlamento, e poi improvvisi e lunghi acquetamenti furono in poche parole la condotta del Nicotera negli ultimi tempi. Noi ci siamo dilungati forse troppo su di lui, sedotti anzitutto dal desiderio di acuire in qualche modo uno sguardo storico intorno a quest’uomo caratteristico.

Scrive con ragione il Petruccelli:

«La biografia, ma meglio il ritratto, il profilo, il medaglione, comunque vogliasi dire — è la migliore forma di storia contemporanea. Con essa, l’orizzonte è più realista; e se gli manca quel che più tardi diventa idealismo e critica, la sintesi è più vasta e più completa, appunto perché più circoscritta, perché il raggio ottico è più diretto e preciso. Dentro l’orbita del quadro racchiudesi tutto: l’uomo nella sua entità psicologica, con le sue manifestazioni diverse ed irraggiato dai riflessi dei suoi contemporanei.»

La drammatica figura del Nicotera è tentatrice per il cronista e per il romanziere, per l’artista e per l’antropologo. Il prof. Cesare Lombroso, nel suo ponderoso studio sull’uomo delinquente, scrive con la sua smania psichiatra professorale pei ravvicinamenti grotteschi a pag. 258: «La storia di Luciani e di Poggi e quella di Crispi e Nicotera ci dimostra quanto breve sia il passo dalle imprese più generose alla violenza più immorale, e fino, forse, al delitto.» Il Petruccelli chiama il Nicotera l’Alcibiade della rivoluzione e della società politica italiana. «Dettagliare per minuto questo essere composito sarebbe forse rifare le Memorie di Casanova — ed ancora!»

Come nel carteggio epistolare lo stile di chi scrive una lettera si accosta in qualche modo all’indole della persona destinata a riceverla, così gli artisti della parola ricevono assai nella loro arte del soggetto che ritraggono.

Lo Zini scote il suo fardello pesante di vieti classicismi e spostati francesismi, ed ha sul Nicotera frasi di una nudità ed efficacia tacitiana.

Leone Fortis non mai naviga più pomposamente fra le alghe del suo lirismo giornalistico, non mai fruscia più riccamente fra le garze dei suoi sostantivi ed aggettivi signorili come quando ritrae il Nicotera.

Lo descrive «piccolo, tarchiato, robusto, nervoso, bruno i capelli, la barba, il volto, la pelle; mobilissimo nel volto e nella persona; ha gli occhi neri lucentissimi, penetranti, la bocca fine, i denti bianchissimi, il sorriso frequente, spesso ironico, talvolta ferino... 11 suo ingegno non passò al torno della coltura, e quindi ha tutte le scabrosità, le ineguaglianze della materia prima. Appartiene alla democrazia moderna e ha di questa le ambizioni irrequiete, ma francamente espansive, così diverse dalle ambizioni concentrate e cenobitiche della antica democrazia — è uomo essenzialmente del suo tempo e del suo paese — ha le passioni mondane dell’uno e gl’impeti e le impazienze dell’altro. Ama la vita per viverla bene, si culla volentieri tra le soffici imbottiture e le carezze del raso e del velluto, ma ama con eguale ardore la lotta e la cospirazione, anche quando conducono all’ergastolo. È uomo da saper portare con serena ed ilare dignità la catena del galeotto, per patriottismo — come di ballare con grazia severa una quadriglia principesca, per ambizione. Vero figlio della rivoluzione, ha fibra per farne e per dominarle con pari energia. Vero figlio del mezzodì, ha l’istinto artistico e quasi poetico della sua terra.»

Casimiro Teja trovò così varia ricchezza di bruno nella faccia del Nicotera, in cui il bianco scintillare degli occhi contrasta colla tinta del volto come nelle pipe annerite, che ne cavò a sua voglia un Otello, o la maschera di Pulcinella, raffigurandolo nelle caricature del Pasquino.

Giovanni Bovio ha scritto sul Nicotera una pagina, che pare una tavola di bronzo.

«Giovinetto all’assedio di Roma, poi esule, poi a Sapri, poi alla Favignana, finalmente senza tregua nelle battaglie municipali, provinciali, parlamentari, ministeriali (e poteva aggiungere giornalistiche), quest’uomo instancabile ha dovuto sostituire l’ingegno allo studio, l’accorgimento alla fortuna, la volontà agli ostacoli, la prontezza all'eloquenza. Quattro mezzi gli crearono nella Camera elettiva un partito numeroso e fedele: le sue antecedenze nella preparazione dell’unità, il suo fascino sugli amici, l’aver saputo creare molti deputati, e tra questi meglio che settanta commendatori... I suoi amici... gli fanno quasi una famiglia.

«La fibra di quest’uomo è tribunizia per natura; la mancanza di larghi studi e i molti anni della vita parlamentare stancarono la prima fede, e il tribuno fu compresso. La fede fu stanca, non la fibra pugnace, che, inconsapevole di termine medio in qualunque condizione, quanto sottrasse all’azione porterà alla reazione. A ragione Mazzini deplorava il mutamento del Nicotera: uomini di tal tempra, preso un indirizzo, vanno a fondo. S’ei non sarà ministro, tempesterà ogni governo; se ei sarà governo, flagellerà ogni democrazia. Se sta lontano dalla reggia, cerca la piazza; se sdegna la piazza, è nella reggia. Se egli siede all’estrema sinistra, è il più ardito tribuno; se siede al banco dei ministri, accoppa tribuni, dritti tribunicii, e dice franco: Ho rimesso l’ordine.

«Non c’è da dire Rabagas! come fa il volgo. Nicotera esce dalle mani del boia, viene dal fondo della Favignana, e quando perde la fede nell’insurrezione, ha fede nella Favignana che la corregga. E perché non corresse lui? — Domanda oziosa: tal è la fibra dell’uomo. — La logica non si ha a cercare soltanto nelle regole generali, ma nel carattere individuale; e la logica del Nicotera è senza termine medio.

«Ne seguita il carattere della sua eloquenza, la quale quando cesserà di essere tribunizia prenderà il colore della catilinaria. Tornando al potere quest’uomo, che è meno lontano degli altri, sarà non il grande Bismarck che fece l’impero germanico, ma il piccolo Bismarck che tenta disfare il socialismo e la democrazia.»

Ciò scriveva il Bovio nel dicembre del 1878.

Anche il Petruccelli, nel precitato libro sui Fattori e Malfattori della Politica europea contemporanea diceva del Nicotera: «Fu ministro; sarà presidente del Consiglio — e sarà il solo che, se per le evoluzioni politiche perde terreno oggidì, ha l’elatère per saltare barriera più alta ancora ogni dì, senza vertigine.»

Questi pronostici possono essere se non errati, certo inopportuni, se si confrontano colla messe parlamentare, che oramai si raccoglie principalmente negli umili strati dei Consigli provinciali e comunali, nel giornalismo, nell’affarismo, netta giovane letteratura, nel foro, nell’accademia o nell’università, o in altrettali campi.

Cambiando gli uomini coi tempi, cambiano pure i metodi, i modi, il genere dell’oratoria, tutta la procedura politica.

Ogni giorno di più ci allontaniamo dall’epoca mitologica. Le ultime escrescenze tribunizie non fanno più presa nel mondo ufficiale: passano irrise o si respingono.

Non si fa più coscrizione fra gli eroi.

Ma ancora quando l’eroe di Sapri non diventi presidente del Consiglio, e nemmeno più ministro, egli rimarrà pure uno dei tipi più notevoli che abbian perdurato nelle cose della nuova Italia dalla romulea impresa dei fratelli Bandiera alle lotte bizantine della dissidenza sinistra; e noi nella nostra modesta compilazione siamo lieti di aver ravvicinato intorno ad esso i giudizi e le deposizioni dei più chiari scrittori e testimoni.


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Sicilia parlamentare

Per lumeggiare meglio il partito d’azione ridotto a parlamentarismo, gioveranno alcuni schizzi sul Crispi e sul Bertani.

Il Crispi, quantunque d’indole vulcanica, come deve essere un meridionale avanzato, ha una nota parlamentare a base avvocatesca ed insulare.

Nel Crispi considerato a un tavolo verde della diplomazia o ad un tavolo verde da gioco si distingue tosto dell’uomo abbottonato la testa, in cui si imprigiona un pensiero diritto, giuridico.

Ma egli non è l’avvocato assimilatore, che si adorna della dottrina e si circonvolge nell’argomento; egli è il legista che nell’argomento imprime e riga la sua rude personalità. Non cerca la dottrina per conformarsi ad essa; la cerca per trascinarla dietro al suo carro. Né si perde a cercarne di troppa. Egli, anziché confondersi con numerose guide dottrinali per raggiungere e dimostrare ciò che crede vero, ravvisa più spiccio agguantarlo e sventolarlo da sé.

Il 4 ottobre 1819 in Ribera di Girgenti egli venne al mondo da una famiglia greca naturalizzata siciliana, quantunque, secondo una voce riferita nel dizionario biografico del De-Gubernatis, egli si compiaccia di derivare dalla antica famiglia Crispa del patriziato romano. Studiò giurisprudenza a Palermo e vi levò presto voce di notevole avvocato. Nel 1846 si recò a Napoli per patrocinarvi i diritti della Chiesa Greca; là si accordò cospirando col Robotti. Ma agli amici liberali dell’isola aveva promesso di ritornare presto.

Come per una corrispondenza vulcanica, senti il tremito della prossima rivoluzione siciliana; e rivolò a Palermo per fomentarla. S’offerse segretario al Comitato di difesa insurrezionale e capo divisione nel dicastero della Guerra.

Con il fucile alla mano prese parte alle ventiquattro giornate di lotta che la città dei vespri sostenne contra i borbonici dopo l’insurrezione del 12 gennaio 1848.

Questa sollevazione era la nota più accesa e più appuntata del risorgimento italiano.

I neoguelfi se ne turbavano. Terenzio Mamiani, che allora dirigeva e compilava in Genova il giornale La Lega Italiana, implorava che la rigenerazione nostra rimanesse regolare ed incolpabile; predicava utile significare in guisa aperta e solenne il cordoglio ed il biasimo a tutti coloro d’ambe le parti che volevano sommergere nel sangue la speranza e la fede in una trasformazione ordinata e conciliativa. Perciò nel foglio del 22 gennaio della sua Lega (molto differente da quella che fondava poi nel 1880 a Roma Alberto Mario) proponeva un memoriale da indirizzarsi a Pio IX, supplicando il Beatissimo Padre acciocché interponesse i suoi santi uffici fra il re Borbone e i sollevati siciliani, e così causate loro crudeli giustizie e più profonde servitù, ravviasse nell’intera Penisola il moto pacifico e bene ordinato di rigenerazione politica.

Nella Lega del 24 gennaio 1848 il Mamiani spiegava meglio il suo concetto: che cioè la sollevazione de' Siciliani da un lato e l’ostinazione cieca e feroce dall’altro mettevano del pari a pericolo estremo il risorgimento pacifico e progressivo d’Italia; e perciò conveniva tentare ogni modo di intervenire fra esse e porre ordine ai moti incomposti e freno agli sformati voleri.

Il poeta filosofo, ognora circonvolto nella sua italianità religiosa, aveva mutato l’inno sacro e patriottico negli articoli di fondo; in essi riteneva l’Italia immatura per una grande rivoluzione, come era stata la francese: mancare all’Italia la condensazione e lo sprigionamento dell’odio necessario a tanto scombussolìo; mancarle il lecchetto delle straordinarie aspirazioni; mancarle sovratutto il senso e l’essere di nazione nutrito appresso i Francesi da mille anni di vita comune. Onde concludeva: «in somma, la salute d’Italia intera estremamente pericola, se le manca tempo e opportunità di unirsi, di educare le plebi, d’armarsi e apparecchiarsi d’accordo coi suoi governi, d’accordo con tutti gli ordini dello Stato. E però a lei conviene fuggire le violente rivolture e l’esorbitanza delle pretese e delle passioni... Il procedere regolato e concorde del nostro risorgimento è sì bello, sì necessario e sì salutevole, porge tal nuovo esempio ed arreca tal meraviglia all’Europa, innalza a siffatta grandezza di fama e d’onore il nome e la sapienza italiana, che merita sia tentata ogni prova per mantenerlo e difenderlo...»

Queste beate ragioni o meglio visioni dei neoguelfi potevano sortire maggior efficacia nelle altre parti d’Italia, che non nella Sicilia, dove alla natura vulcanica ed alla perpetua fierezza insulare, smaniosa» di autonomia, si adunava una inveterata tradizione di libertà parlamentare. Imperocché la Sicilia si può chiamare la culla del parlamentarismo europeo.

Lo ricorda spesso il Crispi, quando sulfureggiando di italianità inferocisce contra lo Statuto Albertino, cui accusa di essere stato copiato dalle carte belga e francese.

Di vero, quando nel 1060 i baroni Normanni, per scacciare di Sicilia i Saraceni, come i Corinzi di Timoleone ne avevano scacciati i Cartaginesi, si radunarono in assemblea, detta braccio militare o baronale, questo formò il primo nucleo del Parlamento Siciliano. Ad esso si associò il braccio ecclesiastico; e poi per regolare la finanza, che allora, mancando ogni censimento di rendita o di proprietà, anziché l’aspetto di tributo, aveva quello di dono gratuito molto forzato, si convocarono i liberi possidenti; e fu il braccio demaniale; i tre bracci composero il Parlamento.

«Quando nel 1232 per la prima volta Federico lo Svevo chiamò in Parlamento i sindaci dei Comuni, con atto, che poi in modo positivo fu stabilito nel 1240, il potente imperatore operò una grande rivoluzione... Emancipò i Comuni in Sicilia, per metterli di fronte al feudo e alla Chiesa...

«In Inghilterra i Comuni entrarono in Parlamento alcuni anni dopo la legge di Federico lo Svevo; formano una singolare coincidenza queste due costituzioni, la siciliana e l’inglese, nate contemporaneamente, per opera l’una e l’altra dei Normanni; ma ebbe più rapido svolgimento in Sicilia il diritto popolare; più tardi in Inghilterra.

«In Inghilterra, solo nel 1265, Simone di Monforte introdusse in Parlamento i cavalieri, i cittadini ed i borghesi, quali rappresentanti dei Comuni, mettendoli alla pari dei feudatari e dei prelati.»

Ciò si compiacque di ricordare alla Camera il Crispi, nel suo discorso per lo scrutinio di lista il 18 giugno 1881.

E ricalcò su questa concorrenza storica, anzi su questa priorità parlamentare della sua Sicilia verso l’Inghilterra, nel discorso del 22 giugno successivo, rinfacciando ai dimentichi delle tradizioni italiane persino gli Stamenti sardi — quando avrebbe potuto eziandio ricordare i maggiori Consigli delle nostre antiche repubbliche e le Congregazioni generali nei dominii sabaudi.

Fatto sta ed è, che mentre nell’Europa continentale gli Stati Generali ed ogni altra forma embrionale di Parlamento languivano, imbizzacchivano, le forme rappresentative fiorirono e fruttificarono, come in terreno acconcio, nelle isole sicula e britannica.

Il Parlamento siculo radunavasi ogni anno; poi, dopo l’impero di Carlo V, si radunò ogni quattro anni, salve le convocazioni straordinarie. Teneva l’intervallo fra una convocazione e l’altra una Giunta esecutrice ed invigilatrice, composta di quattro membri per ogni braccio.

I re aragonesi avevano accordato al Parlamento altre balìe, oltre quella di accordare i tributi; ma i successori le rivocarono, lasciandogli però intatta la competenza finanziaria. Del resto, come aveva notato il Crispi nella biografia di Francesco Paolo De Blasi «le stesse istituzioni popolari — i comuni e i collegi delle arti — nate in epoche di libertà, erano state viziate dagli esempi del triplice dispotismo (dei vescovi, dei baroni e del re) e già avevano prese norme ed abitudini feudali, ed erano divenute una nuova specie d’aristocrazia in, mezzo al popolo dal quale nascevano e di cui avrebbero dovuto essere il presidio.» Ad ogni modo questo stato di cose più o meno parlamentari durò nell’Isola per la bellezza di otto secoli sotto trentun re, fino al 1810.

Re Ferdinando I, espulso da Napoli e ricoverato da quattro anni in Sicilia, per riconoscenza dell’ospitalità ricevuta, non avendo potuto emungere dal Parlamento tutto quanto appetiva, ordinò di suo capo la vendita dei beni comunali ed un’esosa taglia sui contratti; e così infranse peggio di tutti la veneranda costituzione siciliana.

Fremette protestando il Parlamento, e Ferdinando fece catturare i più autorevoli parlamentari, i principi Belmonte, Jaci, Castelnuovo, Villafranca e il Duca d’Angiò e li profondò alla Favignana.

Ma i Borboni, come sono protervi nella fortuna, si dimostrano umili nel bisogno. Quindi nel 1812, sotto gli occhi degli Inglesi, perpetui amoreggiatori dell’Isola, re Ferdinando, per mezzo del figlio Francesco, suo Vicario coll’alter ego, largì alla Sicilia una costituzione riprodotta dall’anglicana in edizione ampliata e migliorata, con una Camera de' Pari spirituali e temporali, idest prelati e baroni, e con una Camera dei Comuni formata dai rappresentanti delle popolazioni, senza alcuna distinzione di braccio baronale o demaniale.

Però quella razza di largitori, che stavano raffinando la speciale attitudine di giurare e violare le costituzioni, appena terminato nel 1815 il cataclisma napoleonico, si affrettarono ad annullare la costituzione siculo-inglese.

Nel ribollimento del 1820 non mancò la rivolta di Palermo, vinta con larghi patti dal generale Florestano Pepe e poi acquetata dal generale Pietro Colletta, il quale nei paesi già ribellati fece dare giuramento alla costituzione di Napoli (imitata dalla spagnuola) ed eleggere i deputati al Parlamento comune napoletano.

Registrò lo stesso generale diventato storico: di ventiquattro deputati siciliani la terza parte fu di nobili, la quarta di preti, gli altri dieci fra tutti i ceti della società; onde vedevasi come ancora duravano nelle opinioni di quel popolo le preminenze feudali ed ecclesiastiche.

La costituzione ispano-napolitana estesa alla Sicilia più per forza e per inganno che per amore, andò travolta nel successivo spergiuro borbonico; e quel Parlamento napoletano finì con la splendida protesta del deputato Poerio e dei suoi 26 coraggiosi colleghi, i quali davanti alla invadente soldatesca austriaca protestarono contra la violazione del diritto delle genti, intendendo di serbar saldi i diritti della nazione e del re, e rimettendo la causa del trono e dell’indipendenza nazionale nelle mani di quel Dio che regge i destini dei monarchi e dei popoli.

Per tal modo, eziandio nella Sicilia eminentemente rappresentativa, vi ebbe una lunga vacanza parlamentare fino al 1848, quando venne nominato deputato Francesco Crispi.

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Ma a cagione del lungo periodo di storia antecedente, noi ci siamo affrettati a riconoscere nel nostro personaggio una nota parlamentare d’origine isolana.

Però il Galati racconta come fino da quel quarantottesco Parlamento siciliano il Crispi osasse parlare «di unità d’Italia e di Roma capitale ad uomini come Stabile e Torrearsa, che lo guardavano come un insensato, e ad uomini come D’Ondes-Reggio ed altri, che si facevano il segno della croce mormorando sotto voce un’Ave Maria.»

Grave stonatura deve essere stata di certo quella del Crispi, quando sosteneva colla decadenza dei Borboni l’Italia libera ed una, tuonando dalla sinistra di quel generale Parlamento, che nello statuto fondamentale del 10 luglio decretava nell’articolo 2°: «La Sicilia sarà sempre Stato indipendente. Il re dei Siciliani non potrà regnare o governare su verun altro paese. Ciò avvenendo, sarà decaduto ipso facto. La sola accettazione di un altro principato o governo lo farà incorrere ipso facto nella decadenza.»

Non è qui il caso di riassumere la Storia della Rivoluzione siciliana pubblicata da Giuseppe La Farina fra i Documenti della Guerra santa, né di raccontare l’opera apostolica e diplomatica del padre Ventura; le gesta di Ruggiero Settimo; la missione di Giuseppe La Farina, di Emerico Amari e del barone Casimiro Pisani alle Corti di Roma, Firenze e Torino; la corona indarno offerta al duca di Genova, proclamato nella notte tra l'11 e il 12 giugno 1848 dal Parlamento re dei Siciliani col nome di Alberto Amedeo I, tralasciato il nome di Ferdinando che ricordava i Borboni, mentre la Sicilia rammemorava soltanto il primo titolo regale provenuto da lei a Casa Savoia; e la risposta che il Duca faceva dal campo di Lombardia: «Io non ambisco a nessuna corona; amo l’Italia e sono contento di servirla;» e poi le disperate lotte siciliane e le tragiche resistenze.

Nell’aprile del 1849 annunziavasi fra Napoletani e Siciliani nuovo fratricidio.

Indarno l’eterno Terenzio Mamiani battevasi i fianchi dal dolore; e il 5 aprile nella Speranza dell’Epoca gridava: «Incredibile a dirsi, il medio evo non è per anco finito in Italia. Si mutino solo le date, e crederemo di assistere alle battaglie infami di Chiozza e della Meloria...»

E conservava tuttavia la grande bontà da eremita antico di invocare l’aiuto del Pontefice. «In Gaeta è un venerando personaggio, a cui debbono più che ogni altra cosa del mondo muover dolore ed orrore le guerre fraterne degli Italiani, i primogeniti della Chiesa. Perché non esce dal suo ritiro, perché non entra coraggioso fra i due popoli contendenti, perché non tenta con l’augusta presenza sua di far cader d’ambe le parti le armi inique e crudeli?»

Ciò che allora era evangelica bonomia dei santi patrioti, la storia ritorse in giusto sarcasmo e in condanna contra il Pontefice.

Crollò tutto quel tentativo quarantottesco e quarantanovesco di risurrezione italiana; e rimasero ritte, uniche speranze, la libertà subalpina, e lo spirito nazionale dei profughi italiani.


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L’emigrazione

Il Crispi, che oltre all’essersi chiarito deputato radicale, aveva fondato in Palermo un giornale mazziniano, L'Apostolato, venne mancomale spedito in esilio; anzi ebbe l’onore di essere inscritto nell’elenco dei 43 esclusi dalla amnistia borbonica.

Allora vi fu quella patriottica emigrazione che va nella storia fra le più belle cagionate dalle rivoluzioni e dalle repressioni.

Allora si videro antichi ministri, antichi apostoli e futuri apostoli, antichi e futuri condottieri, guadagnarsi la vita a frusto a frusto; impetrare il posto di guarda-convoglio, capo-stazione, maestro elementare, segretario degli omnibus, spedizioniere di procuratore, bollettinajo di teatro in paesi liberi; dare per cento lire a un editore un volume immortale; e conservarsi tenacemente a tanto prezzo la loro vita per adoperarla poi virilmente contra gli oppressori della patria. -

Vi fu tale che sali al principato del foro italiano ed all’ammirazione dei giureconsulti europei, e divenne ministro della pubblica istruzione, della grazia e giustizia e degli esteri nel Regno d’Italia; e questo tale un giorno fu in dubbio se per campare la vita sua e quella dei suoi bambini dovesse fare l’avvocato o il suonatore d’orchestra o dare dei concerti.

Scriveva fieramente Giuseppe La Farina da Parigi il 16 dicembre 1819: «Passo le mie intiere giornate lavorando, metà per aver da vivere e metà per far la guerra colla penna a Ferdinando II, non potendo (per il momento fargliela in altra guisa.»

Era una sparsa legione di lavoratori e cospiratori per la patria.

Giustamente il Cordova parlando, il 7 settembre 1863 nel Camposanto torinese sul feretro di La Farina, notava la differenza fra cospiratori e congiurati. «La Farina non confondeva le cospirazioni con le congiure. Sapeva che queste uccidono un uomo, non mutano un governo, ed aveva per esse gli sdegni del Machiavelli. Cospirare per lui non era

già uccidere Cesare o Alessandro de' Medici, ma preparare i Vespri di Sicilia o la Rivoluzione di Francia.»

Fu quella la larga cospirazione che si congiunse e si confuse nella cospirazione nazionale confessata dal Cavour, quando il 27 marzo 1861 dichiarava alla Camera dei Deputati di essere stato per 12 anni un cospiratore, di aver cospirato apertamente con tutte le sue forze per l’indipendenza della patria e di cospirare tuttavia con ventisei milioni d’Italiani.

Veramente il Crispi da principio parve un cospiratore un po’ sbrancato.

Si rifugiava anzitutto a Torino, ove si adattò a fare le ultime parti nel giornalismo, collaborando successivamente alla Concordia del Valerio, all’Archivio storico italiano del Cattaneo, e alla Gazzetta di Torino del Cesana, come riferisce il Sarti.

Una lettera, che in data del 17 aprile 1850 egli scriveva da Torino al Dall’Ongaro rifugiato nel Cantone Ticino al pari di Pisacane, Cattaneo, Macchi,

Deboni, ecc. annunzia il contratto librario della Casa editrice diretta dal Daelli per l'Archivio. Nella chiusa dice: «Cattaneo si è taciuto; io non verrò più in cotesti luoghi.»

Come nota il De Gubernatis, Francesco dall’Ongaro rese a Francesco Crispi, in tempi difficili, servizi che non si dimenticano.

Proprio nel 1850, nei primordii dell’esilio, il Crispi conobbe a Torino il Depretis, che fondava il giornale Il Progresso, di cui fu direttore il Correnti, e fra i redattori fu accettato Io stesso Crispi. Nel Panteon dei Martiri della Libertà italiana, uscito nel 1851 a dispense dalla tipografia torinese di Alessandro Fontana a beneficio degli emigrati, comparve la commemorazione del martire siciliano Francesco Paolo De Blasi, firmata da F. Crispi Genova. Genova era il cognome della diletta madre del Crispi, che lo aggiungeva al prenome paterno, per distinguersi dai tre Francesco Crispi che allora vivevano. In quello scritto con lo stile scabro ed efficace che è proprio di lui, il Crispi descrive potentemente il misero stato della Sicilia sul finire del secolo XVIII, e gli sforzi sanguinosi fatti dalla nascente democrazia per rigenerarla. Nella terra, dove gli antichi, per magnificarne la fertilità, avevano immaginato, che si pascessero gli armenti del sole, in trent’anni era mancato tre volte il pane per carestia. Il Tribunale regio procedeva ex abrupto, giudicava senza rito. Un arbitrio maggiore spaziava intorno alle castella e su certe strade e case designate da una prammatica. I rescritti baronali non avevan formola di ragione; ma erano motivati per motivi a noi ben visti. Tutto era del barone. I proprietari eran costretti a macinare i loro fondi nel fattoio del feudatario e cedergliene una prestazione. Vigeva il nepotismo ad ingrossare i feudi; appena il sesto della Sicilia potea dirsi allodiale. Si bruciavano per mano del boia, sulla pubblica piazza, i libri di Gaetano Filangieri, onore d’Italia; le torture, i supplizi erano atroci. A un arrestato d’ordine del Viceré furono legate le braccia e le gambe a quattro galee, che violentamente per opposte vie allontanandosi lo squartarono. Vendevansi i comuni demaniali; tanto che di 370 città e villaggi appena 44 erano liberi, quando cominciò il regno del primo Ferdinando Borbone. Nei comuni demaniali si soffriva un’altra servitù, quella dei collegi delle arti, di cui se ne contavano 73 in Palermo.. Questi collegi, contro il sentimento di fratellanza, per cui erano nati, escludevano con le formalità ed opprimevano con le tasse i lavoratori. Il clero dalla sua parte difendeva la durata dei privilegi in disprezzo del Vangelo... «In tale posizione non restava che insorgere: ultimo rimedio ad un popolo schiavo, quando non è possibile un rinnovamento legale delle sue istituzioni.» Apostolo dell’insurrezione fu il patrizio Francesco Paolo De Blasi, anima da poeta, cuore benefico, intelletto vigoroso di giureconsulto, che raccolse ed ordinò le prammatiche del Regno; «fu un cospiratore, perché alla sua età, sotto una crudele tirannide, non restava altro ufficio ai patrioti.» Si volgevano gli sguardi alla Francia «dal cui orizzonte era sorto il sole della democrazia.» Si faceva circolare la dichiarazione dei diritti e doveri dell’uomo e del cittadino proclamata da quella Convenzione nazionale. «Portatori di quelle stampe erano giovani ardenti, che colla voce infiammavano i loro confratelli alla riscossa. Essi correvano il paese travestendosi da romiti o da pellegrini.»

Si doveva il 3 aprile, venerdì santo, accendere la rivolta in Palermo, il cui popolo «è facile ad infiammarsi; ad un segno, quasiché spinto da una forza improvvisa, irresistibile, convulsiva, esso diviene il braccio d’una volontà, che sovente non conosce.» Ma i soccorsi, che si aspettavano di Francia, andarono rotti nel mare di Savona, dove si azzuffarono il naviglio francese e la flotta anglo-napoletana. Un penitente rivelò la congiura in confessione al parroco; ed il 20 maggio 1795 sulla piazza di Santa Teresa in Palermo, i carnefici compivano le. vendette della monarchia borbonica percotendo colla scure l’avvocato De Blasi e strangolando col capestro i suoi compagni.

Il Crispi nello scrivere di quei martiri dava a conoscere coi gagliardi sussulti della sua prosa, che egli si era fatto suo sangue e suo nerbo di quelle gesta.

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Nell’ottobre del 1852, per la promozione del notaio Angelo Scrimaglia alla residenza notarile di Chivasso, rendevasi vacante il posto di segretario comunale in Verolengo (Provincia di Torino, Mandamento di Chivasso), Comune rurale di 5289 abitanti in sparse frazioni, fra cui l’aggregato maggiore, ove risiede il Municipio, era appena di 2301.

Il concorso per quel posto a cui era annesso lo stipendio fisso di 1,250 lire, con altre 500 lire fra indennità per legna, ruolo d’adacquaggio, gratificazione della Congregazione di Carità, incerti d’ufficio, alloggio, cadastro, ecc., insomma fra ugioli e barugioli — si pubblicò sull’Ommòus della Gazzetta del Popolo, N. 280. Ciò attirò venti postulanti fra cui un nobile cavaliere, che fu poi prefetto, e tre emigrati, di cui il più insigne era certo l’avv. Francesco Crispi.

Per la amichevole cortesia di chi occupa ora degnamente il posto, cui aspirava il Crispi nel 1852, sono in grado di pubblicare là domanda del Crispi, da cui spira la alterezza di quell’animo anche nel bisogno.

«Ornatissimo signor Sindaco,

«Imperiose circostanze, che non importa di qui specificare, mi hanno impedito di venire in cotesta comunità per presentarmi a Lei e agli onorevoli membri del Consiglio municipale di Verolengo. Nondimeno Ella e il riverito Consesso troveranno nella mia memoria e negli acchiusi documenti tanto che basti a far conoscere i requisiti di che io son dotato. Credo che difficilmente possano trovarsi fra i miei competitori i titoli che io presento. È singolare, e deve imputarsene alla posizione eccezionale in cui fummo gettati dagli avvenimenti del 1848, che un uomo, il quale ha sostenuto alti uffici e fu avvocato presso la Corte d’Appello della più popolosa città d’Italia, si presenti candidato a una segreteria comunale. Questo fatto è per se stesso, un titolo di merito per me. La mia domanda indica come io voglia occupare gli ozi, che le vicende politiche mi han preparato, dedicando i miei studi e l’opera mia a beneficio del Comune da Lei degnamente amministrato, e così lavorando e guadagnando onoratamente la vita.

«Io non mi presento con lettere commendatizie. Ciò sarebbe una offesa per me e pei distinti cittadini che volessero onorarmi del loro suffragio. I miei titoli senza l’autorità di alti nomi possono essere ben valutati, e il buon senso del Consiglio municipale non ha bisogno di una spinta per adempiere al suo compito..

«La prego a voler leggere la presente in Consiglio e credermi.

Torino, 16 dicembre 1852.

Devotissimo servo

«Avv. F. Crispi Genova.»

A quante cose fa pensare questa lettera! come fa battere il cuore! come convince sullo spirito vero della nostra democrazia e sulla nobiltà del lavoro, questa immagine di un forte patriota e possente avvocato, che pur di serbarsi integro ai destini del paese, si acconcia a redigere i verbali di un Comune rurale e a registrare le utili proposte di un console panattiere, le elucubrazioni di un sindaco farmacista, l’eloquenza armonica di un oratore capomusica e il buon senso di un contadino, e si acconcia a bilanciare la maggioranza campagnuola e l’opposizione dei signori locali, la rappresentanza delle frazioni e le prerogative del capoluogo, i rapporti fra gli obblighi del municipio e le riparazioni della Parrocchia e a spiccare i mandati dell’organista, dei maestri e dell’inserviente e a formare l’orario delle roggie, e a pubblicare i bandi campestri!

Non si può immaginare, che sarebbe avvenuto, se la vita rurale avesse assorbito un Crispi, e l’ambiente segretariesco lo avesse consunto! Impossibile l’immaginare che quell’anima di fuoco si congelasse placidamente colle gite annuali al Consiglio di Leva e colle quotidiane partite a bazzica o a tarocchi.

Ma, invece di Francesco Crispi, venne prescelto alla segreteria di Verolengo il signor Federico Osasco, già vice-segretario della città di Bra, che lasciò pure Verolengo per altro posto. Capitò altro al Crispi.

Parecchi biografi di lui, dal ritrattista dello Spirito Folletto del 1863 a Telesforo Sarti, che compilò il grande dizionario Biografico Parlamentare, accennano alle congiure del Crispi in Piemonte e alla sua partecipazione al tentativo mazziniano operatosi a Milano il 6 febbraio 1853. Ma egli che pur testò in Parlamento imputava all’amico Depretis, quasi a titolo d’onore, il fatto di avere prestato aiuti a quel tragico moto, assevera che per suo conto non prese parte, neanco indiretta ai casi del 6 febbraio 1853. Li seppe solo, dopo che ne era giunta la notizia a Torino. Quantunque innocente, venne sospettato di tenere la sua ferrea branca in quelle congiure; perciò fu catturato e poscia espulso addirittura dal Piemonte. Lo condussero gentilmente alla frontiera due carabinieri sguinzagliati dal massimo carabiniere, che era allora il ministro dell’interno conte Ponza di San Martino, cui non era valso a placare in favore del Crispi l’onor. Rattazzi, presidente della Camera.

Riparò a Malta, dove neppure gli inglesi lo trovarono abbastanza ortodosso per il buon vicinato della politica costituzionale cavouriana. Onde lo snidarono. Egli allora si raccolse completamente nel seno dell’Inghilterra, a Londra, e vi stette a tutto pasto col Mazzini.

Ma, mazzinianesimo o cavourismo, il pensiero dominante era per lui e per gli altri patrioti quello di fare l’Italia.

Rispondeva stupendamente il La Farina fin dal giugno 1851 ad una sollecitazione del Mazzini: «Io sono qual ero, cioè unitario e repubblicano; ma in ogni caso io sono unitario innanzi tutto, perché per me primo bisogno d’Italia è essere.» E commentava intimamente: «La repubblica per me è il modo di essere, e l’unità è l’essere; e se i fatti ci negassero un’Italia repubblicana, sarebbe, secondo me, stoltezza non volere un’Italia. La questione è oggi di sapere come si può costituire l’Italia più facilmente con la repubblica o col principato.»

Questo era il problema che si ponevano innanzi tutti i patrioti di buona volontà: questo il computo primario.

Lo stesso Mazzini partecipava al Dall’Ongaro, come il Sirtori, sant’uomo, faticasse tre mesi a Parigi per elaborare un progetto di unione di tutte nuances sul terreno del diritto nazionale e come egli Mazzini avesse dato l’assenso. Una dichiarazione di quei principii doveva uscire a Torino dai Deputati della Sinistra fondatori del Diritto; Correnti n’era l’anima.

Manin precorse pubblicamente a tutti, saltando il fosso con la sua famosa lettera a Lorenzo Valerio, nella quale ripeteva a Casa Savoia il dilemma già preposto da Mazzini nella sua lettera a Carlo Alberto del 1831: «Se no, no!» Manin scriveva: «Convinto che anzitutto bisogna fare l’Italia, che questa è la questione precedente e prevalente, il partito repubblicano dice a Casa Savoia: — Fate l’Italia e sono con voi; se no, no! — E dice ai costituzionali: — Pensate a fare l’Italia e non ad ingrandire il Piemonte; siate italiani e non municipali, e sono con voi — se no, noi... Io repubblicano, pianto il vessillo unificatore. Vi si rannodi, lo circondi e lo difenda chiunque vuole che l’Italia sia — e l’Italia sarà...»

Giuseppe La Farina, nel settembre del 1856, mandava da Torino un’ardita e nobile lettera privata al Conte di Cavour, esprimendogli il sospetto che il ministero sardo accarezzasse il ritorno dei Murat al trono di Napoli.

«Noi abbiamo opinione contraria, e lavoriamo a far sì che la futura rivoluzione delle Due Sicilie sia fatta al grido di; Viva Vittorio Emanuele! Se Ella, signor Conte, non partecipasse a questo parere, in tale caso a me personalmente non rimarrebbe che un favore da chiederle, quello di un passaporto per Parigi. Mi rivolgo ad un cavaliere...» Il Conte con un bigliettino dell'11 settembre 1856 invitava cavallerescamente il La Farina ad un segreto colloquio in casa sua, via dell’Arcivescovado, per le 6 antim. del giorno dopo.

Questi colloqui mattutini e segreti si replicarono, divennero fitti, continui; La Farina ebbe l’uso di una scaletta speciale nel palazzo del Cavour, diventò la piovra del Conte; una piovra dai mille tentacoli; egli tentava, cercava di abbrancare, raccogliere Manin, Ruggiero Settimo, poi Guerrazzi; stendeva su tutta l’Italia la rete della Società Nazionale, di cui faceva Pallavicino presidente e vice-presidente Garibaldi. Sul finire del 1858, nelle solite ore antelucane, ripresentava il Garibaldi a Cavour, che già lo aveva avuto dinanzi a sé il 13 agosto 1856, condottogli da Felice Foresti antico martire dello Spielberg, poi emigrato in America, dondè era ritornato per accostarsi al programma nazionale di Pallavicino e Manin con la dittatura sabauda. Il Foresti riteneva il Mazzini per una creazione piuttosto raffaellesca che bonarottiana, mentre credeva che il Cristo del nostro riscatto dovesse parere uno di quegli Ercoli prodotti dallo scalpello di Michelangelo. E tale Ercole ravvisava in Garibaldi. Questi fu preso ai modi famigliar] del Conte; e ne irradiò tosto grandi speranze alla gioventù e ai provati patrioti, come il Camozzi da Bergamo. Nel nuovo colloquio procurato da La Farina fra il Conte e il Generale, al chiarore della candela quelle due fronti avvicinandosi lumeggiarono come l’aurora di ima nuova storia; la stretta di quelle due destre diede un brivido di esultanza nella vita di un popolo.

Garibaldi, appena ritornato a Genova, scriveva il 21 dicembre 1858 al caro La Farina: «... L’idea del ministro di accogliere i Lombardi della presente leva avrà un effetto stupendo... Le notizie che io ho dalle differenti provincie sono stupende; tutti vogliono la dittatura militare, che voi mi avete predicata; le rivalità, i partiti spariscono: e potete arditamente assicurare il nostro amico (Cavour) ch’egli è onnipotente e che deve manomettere qualunque straordinario provvedimento colla certezza dell’assentimento universale. Oh! questa volta, perdio, la vinceremo!» E il giorno dopo gli replicava: «Gli elementi rivoluzionari sono tutti con noi; è bene che Cavour se ne persuada, in caso non lo fosse pienamente, e che vi sia fiducia illimitata. Credo pure necessario che il Re sia alla testa dell’esercito, e lasciar dire quei che lo trattano di incapacità.»

La sera del 31 dicembre a Genova, in casa del prelodato Camozzi, il poeta Mercantini e la sua signora piantati al pianoforte facevano provare perla prima volta l’inno di Garibaldi a un coro di emigrati, che sotto la volta di quella sala domestica parevano incedere sotto un arco di cielo trionfale.

Il 30 gennaio 1859 Garibaldi mandava da Caprera allo stesso La Farina una lettera che esalta e commuove nella sua semplicità soldatesca e umiltà marinaresca da bravo patriota: «Io sono contentissimo del buon andamento delle nostre cose e non aspetto che un cenno vostro per partire. B. credo che finirà per venire con me, ad onta d’aver ancora certe mazzinerie; in caso contrario noi faremo pure senza. Circa alle suggestioni che potrebbero venirmi da quei di Londra, state pur tranquillo. Io sono corroborato nello spirito del sacro programma che ci siamo proposti, da non temere crollo e da non retrocedere né davanti ad uomini né davanti a considerazioni. Io non voglio dar consigli al Conte, né a Voi, perché non ne abbisognate; ma colla parola vostra potente sorreggetelo e spingetelo nella via santissima prefissa. Italia è ricca d’uomini e di denari. Egli può tutto; che faccia tutto e qualche cosa di più ancora... Noi non avremo mai fatto troppo; ed io bacierò piangendo la mano che ci solleva dall’avvilimento e dalla miseria.» Allora i movimenti, gli avvolgimenti della piovra cavouriana crebbero all’ultima potenza.

La Farina si installò nel ministero del Cavour, e ne divenne visibilmente il capo gabinetto. Lavoravano ordinariamente dalle quattro del mattino a mezzanotte; passavano delle giornate, senza uscire, senza andare a letto. Era un lavoro stragrande, un' lavoro assassino delle loro vite.

I condottieri che respirarono l’aura delle vittorie campali, i cospiratori che fruirono dell'igiene delle avventure, camparono di più. Ma gli atroci lavoratori di gabinetto, divenuto un forno ardente, un centro della nuova terra politico-vulcanica, sui quali si puntava e pulsava ad ogni minuto la guida, la correzione e la responsabilità ufficiale dei destini patrii si consumarono presto. Cavour, Luigi Carlo Farini e Giuseppe La Farina morirono giovani.

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Si desume da una lettera di La Farina del 9 ottobre 1850, che fin dai primi tempi dell’emigrazione il Crispi era in carteggio con lui. Il Crispi, a cui la pervicacia, e per così dire, l’autonomia intellettuale impedirono sempre di legarsi mani e piedi al Mazzini, sentì ferocemente da par suo l’avviamento felice dei destini nazionali; e pensò di grandeggiarvi aggiungendo alla guerra franco-sarda mossa contra i Tedeschi e alla liberazione dell’Emilia e della Toscana una brava sollevazione delle provincie meridionali. Nel 1859, dopo Villafranca, trascorse a Napoli, si portò a Palermo, e vi stette dodici giorni all’Albergo della Trinacria, fu per sei giorni a Catania e per tre a Siracusa. Come si narra aver fatto Giovanni da Procida per la preparazione dei Vespri Siciliani, e soprapponendovi il coraggio dei Bandiera e del Pisacane, ma senza ripromettersi al pari di essi le luminose glorie del trionfo o del martirio militare, Francesco Crispi, a detta del profilista dello Spirito Folletto, corse tutta la Sicilia, incognito, trafugandosi, ora coll’avvedutezza del prudente, ora colla sicurezza del temerario.

Racconta il Galati, che quando, stanco, la sera andava a letto, egli chiedeva tragicomicamente a se stesso: «domani avrò ancora la testa sul busto?»

Crispi, come ripeteva spesso Garibaldi supremo giudice competente in questa materia, fu il principale preparatore dell’impresa siciliana; — pur avendo avuti a concorrenti La Farina ed il Bertani ed a precursore Rosalino Pilo. Dello stesso precursore egli fu il puntello. Rosalino Pilo con lettera da Genova del 24 febbraio 1860 stimolava Garibaldi all’impresa di Sicilia, accennandogli ai mezzi preparati da Mazzini, che non faceva questione di repubblica, ammettendo per solo grido: Unità e libertà! Garibaldi gli rispondeva il 15 marzo da Caprera: in caso d’azione, sovvenitevi che il programma è Italia e Vittorio Emanuele.» Rosalino gli replicava chiamando «a testimonio del fermento siciliano F. Crispi, già segretario del Comitato insurrezionale di Palermo nelle giornate di gennaio e poscia deputato»; e palesandogli il pensiero di partire tosto per la Sicilia, soggiungeva: lascio in Piemonte il detto signor Crispi, amico anche del vostro Bertani, per sostituirmi in quanto concerne gli accordi da prendersi con la Direzione di Milano e l’invio dei convenuti mezzi.» Quanto al programma, gli aveva premesso nella lettera del 24 febbraio: «Voi, Generale, capitanerete militarmente il paese e così avrete garanzia che non si potrà straripare dal convenuto programma, che solo può riunire tutti gli elementi d’azione e così solamente l'Italia sarà.» E chi recò al Comitato di Messina l’annunzio del prossimo arrivo di Rosalino e Corrao? Fu la consorte del Crispi, Rosalia Montmasson d’Anneey, la quale, dopo aver toccata Messina, salpò per Malta, andò alla fucina patriottica del Fabrizi, di là ritrasse fondi, e li portò a Genova, donde mosse anch’ella a guadagnarsi la medaglia dei Mille.


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Dissonanze armoniche

Le stizze, che sfavillarono nel gran lavorìo fra La Farina da una parte e il Crispi e il Bertani dall’altra, si ripeterono dolorosamente nella Cronaca contemporanea, quando nel 1869 Ausonio Franchi raccolse e pubblicò a Milano il postumo epistolario di Giuseppe La Farina. Il processo fattone, di cui discorreremo a lungo più sotto, condusse alla condanna di Ausonio; onde fin d’ora dobbiamo intendere come contraddette dal Tribunale tutte le più gravi accuse scritte dal La Farina contra Crispi e compagni, le quali noi citeremo solo per saggio e curiosità di colorito storico; imperocché anche le panzane corse servono alla verità, come pittura dei tempi trepidi od immaginosi.

Ma la Storia Patria fa qualche cosa di più che non abbia fatto la sentenza del Tribunale di Milano; essa riunisce in un solo amplesso rimuneratore i tre contendenti, e li mette nella loro vera luce di emuli cospiranti e conducenti al gran conquisto.

Nella grandiosa commemorazione funebre che il 3 giugno 1882 la Camera dei Deputati fece del generale Garibaldi, il Finzi ebbe a rivelare: «Non ebbi mai nella vita la petulanza di dire di me. Ma oggi, che mi sento trasportato dall’ammirazione dell’anima di Garibaldi, permettetemi di ricordare che anche io fui del convegno di Dora Grossa in Torino, n. 22, nella sera, nella quale si decise quella grande impresa.

«Ahi! che giro attorno vanamente lo sguardo, cercando le maschie immagini dei Bixio, dei Medici, dei Sirtori e degli Acerbi, che tanto animatamente in quella sera, piena di destino, la caldeggiarono.

«Per l’ordine di Garibaldi, che serbo, quando non ancora aveva salpato da Quarto, mi misi di intesa col Medici a procurargli gli aiuti prontissimi, dai quali voleva essere seguito. Tali aiuti li trovò pronti a Milazzo e concorsero potentemente a consacrare la decisiva vittoria. Medici, Cosenz e Tiirr, che li avevano portati dall’altro estremo d’Italia, vennero riforniti di naviglio, di armi e di mezzi di ogni maniera, che io avevo potuto procacciare con

le oblazioni di tutta la nazione, e col largo concorso di Re Vittorio Emanuele, di Farini e di Cavour, che in quella nobilissima impresa rappresentavano il pensiero del Governo.»

Dopo siffatte ed altrettali rivelazioni, dopo la pubblicazione deiT Epistolario di Giuseppe La Farina e del Diario navale dell’ammiraglio Persano non è più lecito dubitare della principale cooperazione prestata dal Governo Cavouriano e dai suoi prestanome, fra cui primo il La Farina, alla liberazione delle due Sicilie.

A coloro che, fondandosi sulla appariscenza dei documenti diplomatici pubblicati nel Libro azzurro. si ostinano a negare o a diminuire quella cooperazione, rispose egregiamente il Depretis nell’ultima seduta della XIV Legislatura, dopo che il Cavallotti gli aveva attribuito il merito di avere quale Prodittatore della Sicilia disobbedito ai precisi ordini del Cavour, permettendo che Garibaldi passasse lo Stretto: «Poiché l’onorevole Cavallotti ha voluto parlare della mia disobbedienza nei fatti di Sicilia, dico che mi sembra proprio eccessiva la sua ingenuità, se egli crede che la storia consista tutta negli atti ufficiali.

«Ma sì, è proprio un’ingenuità eccessiva. Gli atti ufficiali formano una piccolissima parte della storia contemporanea, perché questa, nel manifestare la serie dei fatti, ha certi riguardi che tutti devono comprendere. Gli atti ufficiali, onorevole Cavallotti, vogliono essere completati con gli atti intimi, che per molte ragioni costituiscono la storia vera, e dei quali io non dirò: magna pars fui, ma minima pars fai, e di cui io pure, a suo tempo, quando più nessuno penserà a me, farò forse alcune rivelazioni che dimostreranno come sia interamente errato il pensiero dell’onorevole Cavallotti, quando egli vuol dedurre la storia dagli atti ufficiali che ha citato.»

È curioso, che mentre da una parte si seguita a diminuire la memoria di Cavour, colla scusa che non sia provato abbastanza il suo concorso alla spedizione meridionale, vi fu chi temette seriamente che quel concorso si scoprisse troppo.

Per esempio Massimo d’Azeglio amava l’Italia non meno di Garibaldi e di Mazzini e, nella sua qualità di monarchico, si disponeva a fare per essa un sacrifizio inverso ma equivalente a quello degli altri, quando scriveva addì 3 luglio 1860: «Sarei repubblicano domani, come oggi sono costituzionale, se lo credessi utile all’Italia.» Ebbene l’Azeglio, rispondendo il 16 luglio 1860 da Milano, dove era Governatore, al Persano, che spalleggiava Garibaldi, gli raccomandava di salvare quanto si poteva al Governo il decoro della lealtà.

A quel gentiluomo coceva che dal Governo nostro si aiutasse Garibaldi, mentre si aveva l’ambasciatore presso il Borbone. «Sono riuscito ad aver in mano dodici mila fucili della sottoscrizione Garibaldi, che sospettavo andassero in tutt’altre mani che le sue. Il Governo mi ha ordinato consegnarli, e gli ho consegnati. Ma la cosa si è fatta con decenza. Volevano fare spettacoli, arruolamenti teatrali, mentre abbiamo un ministro a Napoli!... Non ho voluto. Tutto s’è fatto nonostante, ma con forme decenti. E con tutto questo non posso dirti che mi sia andata molto a genio questa commedia.»

Però nella sua rigorosa coscienza cercava egli stesso la propria e l’altrui giustificazione: «Ma siamo in tempi eccezionali: i portamenti del Governo di Napoli sono eccezionali, come lo è l’impeto dello sdegno pubblico contr’esso di tutta Europa, e bisogna condursi egualmente per eccezioni.

«Tuttavia avrei amato meglio una dichiarazione ed una condotta aperta, piuttosto che usare tante arti, delle quali del resto nessuno è stato dupe.

«Garibaldi, lui, non aveva ministro a Napoli, lui è andato avanti mettendovi la pelle, e viva la sua faccia! Ma noi... Basta, lasciamola lì...

«Salutami Garibaldi e Dio lo salvi da nemici e da amici.»

Per il disgusto del machiavellismo adoperato dall’empio rivale (come egli usava chiamare Cavour) nell’accoccarla così tremendamente al meritevole Borbone, il primo cavaliere d’Italia piantava persino il grato Governo della provincia buseccona.

Allo stesso Persano, che parecchi anni dopo lo richiedeva di consiglio sulla pubblicazione del Diario,. rispondeva sconsigliandolo in data del 9 marzo 1865: «Cavour disse: Se facessimo per noi quel che facciamo per l’Italia, saremmo gran baloss (birboni). E già una dottrina contrastata quella delle due morali, e due onoratezze, una a uso pubblico, l’altra a uso privato... Ma lasciamo correre. —. Quello che non è contrastato è, che se certe cose si fanno, non si dicono poi mai.»

Nonostante la morale di Massimo d’Azeglio, meno larga di quella del Treiske, molte delle patriottiche balossade di Cavour già vennero nel dominio della pubblicità.

Quantunque La Farina nell’Italia centrale si fosse guastato col Garibaldi, frenando gli impeti di lui, che perciò si ritrasse dalla Società Nazionale e fondò la Nazione Armata, le due politiche, la garibaldina e la cavouriana, palesemente discordanti, combinavano nelle loro forze latenti. Vere concordanze classiche! Ed ora che sono scoperte queste radici storiche della nostra rivendicazione in libertà nazionale, male si può giudicare, se fosse più effettivamente radicale il patriota diplomatico o il condottiere popolare. Garibaldi che domandava il milione di fucili, gridava Roma o morte, voleva armare il popolo di tutto punto: e Cavour fin dal gennaio 1860 dava le seguenti istruzioni al suo agente La Farina, perché ne intonasse la stampa e ne informasse l’opinione pubblica: «Ecco il La... spingere all’armamento, osservando che il volere far assegnamento solo sulla diplomazia è cosa orrenda, non potendo essa riconoscere uno stato di cose che riposa sulla distruzione di troni così detti legittimi, se non come fatti compiuti.

«Il tono non deve essere ostile, ma però un tantino minaccioso. Non già che io abbia bisogno di pressione per andare avanti, ma mi sarà utile il poter dire che sono premuto.,.

«Credo che avremo ricorso al voto universale. Lo potrebbe accennare come idea sua, dimostrando non avere poi tutti gli inconvenienti che si temono.»

Certo Cavour doveva lavorare alla sordina; farsi anche minacciare. Non si è diplomatici per niente. Fin dal suo primo abbocco col La Farina nel 1856 gli aveva detto: «Venga da me quando vuole, ma prima di giorno, e che nessuno lo vegga e che nessuno lo sappia. Se sarò interrogato in Parlamento o dalla diplomazia (soggiunse sorridendo), lo rinnegherò come Pietro, e dirò: non lo conosco.»

Ma doveva certo saperne ed entrarci di molto il Cavour in quella spedizione rivoluzionaria, quando il compare La Farina fino dal 25 marzo 1860 spediva a Malta per Matteo Raeli un deposito di proclami incendiari della Società Nazionale Italiana ai militi italiani al servizio del Borbone e del Papa: «Un atto della vostra volontà, e l’Italia sarà libera ed una dalle Alpi a Trapani; un atto della vostra volontà e noi saremo una nazione di 25,000,000 d’uomini, una nazione grande, libera, possente e gloriosa, con 500,000 soldati sotto le armi, con due poderose flotte nell’Adriatico e nel Mediterraneo.

«Soldati napoletani, mostrate di essere figli di quella illustre schiera di prodi, che i Borboni fecero morire sulle forche e sul palco o nelle miserie dell’esilio; soldati romani, mostrate di non essere indegni del vostro antico nome. Italia e Vittorio Emanuele è il nostro grido; sorga quel grido nelle vostre fila, e l’Italia sarà.»

Il 24 aprile 1860, mentre si avvicinava la vigilia della ardimentosa spedizione, La Farina informava direttamente il Conte da Busto Arsizio: «Sono stato a Genova, ed ora mi trovo da tre giorni a Busto. Garibaldi volle vedermi; ed ebbimo un lungo abboccamento sul da farsi in quanto alle cose di Sicilia; è desideroso di agire d’accordo con meu.. Medesima disposizione d’animo in Medici, Bixio, Besana e Sirtori. Credetti quindi utile il mio ravvicinamento. Per allontanare ogni sospetto me ne sono venuto a Busto, ma domani sarò di ritorno a Genova incognito. Se ha comandi da darmi, faccia un dispaccio in cifra al vice-governatore. Venerdì alcuni miei amici partirono per l’isola. Sappia intanto che le casse che si attendevano da Modena non sono arrivate a Genova.» Queste casse misteriose erano di fucili: arrivarono il giorno stesso; ed il vice-governatore gliele annunziava col seguente telegramma: Stazione di Genova, 244, ore 9 m. I libri giungeranno oggi. Indichi la persona a cui consegnarli; il numero d’esemplari per lei.

È noto non solo per le lettere di La Farina, ma per altri documenti, come il Generale ponderasse a lungo l’impresa, e che vi fu un istante in cui la dichiarò impossibile. Il Guerzoni, membro del Comitato provvisorio che la ordinava, ce ne dà la psicologia in quell’ora suprema dell’Eroe, che nei propositi grandi e degni di lui si concentrava e giudicava con calma leonina.

«Egli non sentì mai come allora il peso del suo nome e la responsabilità dell’azione a cui era tentato... Egli non solo si sentiva mallevadore della preziosa vita dei suoi compagni, ma delle sorti della intera nazione... Se v’era cosa che potesse in quel e momento danneggiare l’Italia, era una ripetizione delle gloriose ma infeconde prodezze di Pisacane e dei Bandiera. Un nuovo fallimento avrebbe tolto ogni credito, ogni prestigio alle armi popolari e retrocessa;,. forse irrevocabilmente la rivoluzione italiana.». — Ma partiamo subito, aveva finito per risolvere; ed eccolo sulla spiaggia di Quarto attendere i piro; scafi di Bixio. «Col suo punche buttato su una spalla, la spada al fianco, il revolver alla cintola, il noto cappellino sugli occhi: sereno, tranquillo, illuminato di; quando in quando da placidi sorrisi che si sarebbero detti i presagi della vittoria; e sparso intorno e dietro a lui, inquieto, ansioso, sussurrante, il popolo misto dei suoi seguaci.»

Fra essi «uno stuolo vario ed eletto di Siciliani e primo fra loro Francesco Crispi, inseparabile nome, finché ne resti la memoria, da quell’impresa, come inseparabile da lui, parata a tutti i rischi, che Garibaldi stesso le aveva predetto, la esemplare consorte.»

Il bello si è che lo stesso La Farina, il più rabido... e furioso rivale del Crispi in quella spedizione, scrisse poi: «Garibaldi esitava; da ultimo si decise a partire, quando vide che i Siciliani sarebbero partiti senza di lui.» Capo di questi risoluti Siciliani era naturalmente Crispi.

Egli fu il giureconsulto armato accanto a Garibaldi; rappresentò la spada della giustizia.

Garibaldi lo nominò colonnello a Talamone; ed a lui e a Francesco Bruzzesi aveva dettato a bordo del Piemonte il programma dell’unità nazionale.

Come ricordò nel 1862 il Petruccelli nei Moribondi del Palazzo Carignano, Crispi fu «uno dei primi che misero il piede a terra in Marsala, di unita alla eroica donna che porta il suo nome.»

A Salerno pubblicò con la sua firma il primo decreto del Governo liberatore; si batté fieramente a Calatafimi; ed il 27 maggio 1860 sottoscriveva in nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia un decreto, che in quello stile di onnipotenza rivoluzionaria cancellava persino ogni memoria borbonica dal 1849 al 1860.

Fu del Crispi il decreto del 13 giugno, che aboliva il titolo di Eccellenza e proibiva il baciamano d’uomo ad uomo.

Per fiancheggiarsi della stampa, fondò il Precursore, organo unitario.

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Come un incendio, l’eruzione di un vulcano, un astro, o un semplice forno, visti in lontananza, appaiono uno splendore uniforme, cosi è di una rivoluzione ben riuscita.

Ma se la vicinanza, la fortuna, la forza visiva dell’osservatore e la bontà degli istrumenti ottici permettono di accostare questo splendore, si scopre formato da un precipitare di travi ardenti, da un avventarsi e ripercotersi di lapilli, da un avvampare, da uno stridere, da un diroccare, da un distruggersi, da un confondersi, da furiale mischia di materia cosmica incandescente.

Nello stesso modo, se puossi esaminare una rivoluzione con l’analisi delle testimonianze e dei documenti contemporanei, si trova quel moto stupendo costituito da una fitta e spesso rincrescevole battaglia di elementi eziandio cospiranti.

Di tale genere presentasi pel 1860 l’intrico o meglio la gara fra Cavour e Garibaldi, La Farina e Crispi.

Giuseppe La Farina, secondoché ne scrisse degnamente Ausonio Franchi, era nato amatore d’Italia, come altri nasce pittore, o musico, o poeta, o matematico o guerriero, o mercatante, o cuoco.

Ed aveva dell’amore tutti gli spasimi e tutte le impazienze, tutte le fortezze e tutte le debolezze, tutte le rinunzie e tutte le gelosie.

Come una mamma trasportata dall’affetto sviscerato è capace di rendersi ridicola raccomandando al figlio cinquantenne di non scivolare in un canale a passeggio e di non fare una indigestione a colazione, così La Farina, per smania di veder la Sicilia riunita all’Italia, era irto, insopportabile di preoccupazioni, e vedeva guastamestieri in tutti.

Dopo avere dal canto suo provveduto coi fondi della Società Nazionale all’imbarco dei Mille, averli pungolati alla partenza tanto da meritarsi la minaccia sacerdotale del Sirtori: «voi sarete responsabile del sangue di Garibaldi!» e dopo essersi assicurato di tale partenza, rimanendo anche lui a procurare nuovi soccorsi, perché Garibaldi gli aveva detto: «se voi partite, nessuno ci aiuterà» — appena potè, spiccò egli pure il volo per la Sicilia.

Quivi anzitutto il suo cuore di patriota è ferito dal rovinoso spettacolo a cui avevano ridotto Palermo le barbarie dei giannizzeri borbonici. Così ne scriveva al Cavour il 10 giugno: «Più di un quarto della città convertito in macerie: conventi, chiese, palazzi e riatterò quartiere di Porta di Castro rovesciati in cenere e sassi; sparita la traccia di antiche vie; un lezzo cadaverico fuma da quelle rovine, imperocché più di 600 cadaveri già se ne erano dissepolti.»

In mezzo alle note patriottiche lo colpisce quella pittoresca dei preti e dei frati, i quali, come raccontò eziandio Marco Monnier, avevano principiata essi la rivoluzione il 4 aprile, dandone il segnale col suonare a stormo le campane del convento della Gancia, reminiscenza dei Vespri. «Fra gli armati — scrive il La Farina a Cavour — vedonsi molti preti e frati, col trombone ad armacollo e col crocifisso in mano, che predicano la crociata contro i Borboni in nome, di Dio e della Patria e deificano Vittorio Emanuele.»

Ma esaurite in fretta le note della pietà e della esaltazione, il casoso patriota comincia a preoccuparsi, temendo che Garibaldi trasmodi per umanità e quasi per minchioneria. Narra come il Generale abbia salvata dal furore popolare la vita a certo borbonico capitano d’armi, inventore della sedia ardente e di altri tormenti da Falaride.

Teme e si lagna sovratutto, che il dittatore sia vittima dei sopracciò che lo attorniano: e denunzia nella stessa lettera al Cavour: «Fra' governanti il più sgradito è Crispi, che non gode alcuna riputazione nel paese, e che ha dato prove di mirabile incapacità. Egli è Segretario di Stato per l’interno e le finanze.»

Annunzia indirizzi apparecchiati da Municipi, da Guardie Nazionali e persino da Comunità religiose per chiedere un governo che sappia governare.

In un poscritto del 12 giugno soggiunge: «il Governo (o per dir meglio, Crispi e Raffaele), sapendosi avversato dalla enorme maggioranza dei cittadini, cerca farsi partigiani negli uomini perduti. Già tre borboniani odiatissimi, che frequentavano l’anticamera del segretario dell’interno, sono stati presi a calci dal popolo e messi fuori del palazzo.»... Garibaldi «è costernato, ma non osa liberarsi di Crispi, che gli fu compagno nella spedizione.»

D’altra parte (poscritto del 14 giugno) alle rimostranze di tutti gli uomini più autorevoli, i ministri, eccettuato il dimissionario Pisani, hanno risposto che terranno il potere ad ogni costo.

Nelle lettere seguenti continuano le lamentazioni di Geremia La Farina a Domino Cavour, che solo fra tutti non ne perde la testa. «(18 giugno) — I governanti continuano nelle loro insensatezze: fanno leggi sopra leggi; richiamano in servizio indistintamente tutti gli impiegati del 18; destituiscono in massa tutti gli impiegati attuali, meno quelli che direttamente o indirettamente hanno contribuito alla rivoluzione; aboliscono con un tratto di penna il dazio sul macino, che rendeva alla finanza 25 milioni di lire, gittando sul lastrico della via uno stuolo di impiegati; mettono le mani nei depositi dei particolari esistenti in tesoreria; sollevano una tempesta con la nomina di 24 governatori, quali presi a sassate, quali semplicemente respinti dalle popolazioni, quali bambini (V. lettera del 12 giugno). Non trovando partigiani nel partito liberale, cercano farsi amici negli uomini più odiati e spregiati.

«L’altro ieri alcuni cittadini andavano per parlare col segretario per l’interno, Crispi; e trovano nella sua stanza, seduto che scriveva, un tale che fu il processante nella causa del barone Bentivegna, della quale si rammenterà le terribili scelleratezze. A quella vista non sanno più frenarsi; gli si scagliano addosso e lo cacciano via a pedate. È il quarto caso di questo genere che ha luogo fin nell’anticamera del dittatore!. E come vuole che non sieguano sì brutte scene, quando si vede l’ex-direttore dell’interno, uomo abborrito del passato governo, che tutti credevano fuggito colle truppe reali, ricomparire per le vie a braccetto dell’attuale direttore (segretario generale dell’interno) ed avere dal Governo guardie che lo custodiscono e difendono dagli insulti del popolo?»

È inutile ripetere che queste e simiglianti enormità di genere fantastico vennero smentite nel processo intentato a Milano contra l’editore e il raccoglitore del citato epistolario.

Nella chiusa La Farina pregava il Conte: «Mi faccia il favore di far leggere questa mia lettera al nostro ottimo Farini, e dirgli che ora potrà convincersi se io avevo ragione di diffidare di Crispi.»

Non contento di essersi sfogato epistolarmente col Cavour, La Farina vuole pure votare il gozzo davanti a Garibaldi, e impetra da lui un colloquio mediante l’intromissione dell’ammiraglio Persano.

L’abboccamento durò due ore, il 25 giugno, alla presenza del muto Persano; Garibaldi recriminò sulla cessione di Nizza e Savoia. La Farina gli rispose, che senza quella cessione non si troverebbero tutti e due nella liberata Sicilia. Poi il Dittatore con destrezza marinaresca passò dalle recriminazioni a far luccicare un portafogli da ministro, di cui La Farina, come tutti i gustatori del potere occulto, dimostravasi alieno. Quanto alla acerba critica dei governanti siciliani d’allora, quello del La Farina fu fiato sprecato. Egli così ne riferisce al conte Cavour: «Garibaldi mi rispose facendomi il panegirico del Crispi e degli altri suoi colleghi, ed affermando calorosamente che tutto andava bene.»

Pare che l’andata di La Farina al cospetto del Dittatore fosse combinata con un moto popolare. Ciò desumo dalla stessa relazione del patriottico emissario al Gran ministro: «Il risultato della mia gita al Dittatore si diffuse immediatamente per la città e vi destò una visibile commozione per tutto il giorno 26. Il 27 alle 8 del mattino cominciarono a formarsi dei capannelli in via Toledo, e ben tosto accresciutasi la folla si alzarono le grida: Viva Garibaldi! Abbasso Crispi! Abbasso il ministero! Accorse il Direttore (segretario generale) della sicurezza, e tentò di arringare il popolo; ma fu fischiato, insultato, e costretto a chiudersi in un portone.» Una deputazione con una lista di nuovi ministri si recò dal Dittatore; «il Dittatore fortemente si adirò, disse che Crispi è un egregio patriota, che a lui si deve in gran parte la spedizione di Sicilia….. e ch’egli non l’avrebbe giammai allontanato da sé.»

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Ritiratasi la deputazione, a fu redatta una nuova lista, ed un uomo del popolo, certo Marinuzzi, volle si mettesse anche il nome di Crispi con questa indicazione: non per volere della Sicilia, ma per ubbidienza al Dittatore. La deputazione ritornò al Palazzo, e il Generale accettò allora tutte le persone proposte, dichiarando che in quanto a Crispi egli lo avrebbe pregato a dimettersi.»

Però Garibaldi, mentre da una parte lasciava dimettere il Crispi da segretario generale, dall’altra se lo faceva suo segretario particolare; quanto dire, toltogli il potere di scena, gli ampliava quello di gabinetto.

Allora le geremiadi di La Farina al Conte non ebbero più ritegno.

La Sicilia garibaldina per lui diventa un paese di vandali, di turchi e peggio di cannibali.

Nella stessa lettera del 28 giugno narra al Conte «che nell’interno dell’isola gli ammazzamenti sieguono in proporzioni spaventose; che nella stessa Palermo in due giorni quattro persone sono state fatte a brani.»

Con la lettera del 2 luglio, diretta al solito Cavour, seguita a raccontare cose de populo barbaro: minacciata di arsione la Biblioteca pubblica, perché cosa di gesuiti; sgombrate le scuole; assoldati in Palermo due migliaia di bambini con tre tari al giorno; la finanza consegnata a mani bucate od adunche: un dar di piglio al tesoro pubblico, senza lasciare neppure indicazioni; spariti duecento cavalli in una sola requisizione; libito a chicchessia di organizzare battaglioni con banda musicale ed ufficiali in numero completo ma appena con una quarantina di soldati; concesso lo stesso impiego a tre o quattro persone; tutta quanta la Sicilia lasciata senza tribunali né civili, né penali, né commerciali, poiché congedata in massa la magistratura; create commissioni militari per giudicare di tutto e di tutti, come al tempo degli Unni; e alle suddette Commissioni non concesso un impiegato, non un usciere: «cosicché i giudici dovrebbero andare da loro stessi a citare i testimoni.»

In un’altra lettera dello stesso giorno a un amico di Genova egli tira giù a campane doppie colla solita musica, insistendo sul ritornello: «Il paese è irritatissimo contro Crispi, ed il Dittatore dichiara pubblicamente che Crispi gode la sua piena fiducia; e quando è costretto a dimetterlo in seguito a una dimostrazione popolare, lo elegge a suo segretario particolare e gli lascia in mano tutta la realtà del potere.»

Insomma di un governo poetico, verginale, tutto & al più in istato di natura, l’itterico La Farina nelle sue relazioni ne fa un governacelo da basso impero.

Garibaldi perdette la pazienza; e diede al signor La Farina l’ordine dello sfratto da eseguirsi in mezz’ora; operazione un tantino selvaggia, come ebbe a osa chiamarla il Cavour.

Il 6 luglio un mazziniano da Palermo scriveva la all'Unità Italiana di Genova: «Garibaldi dovrebbe mettere La Farina e tutti i suoi intriganti in luogo di sicurtà, fino alla totale liberazione della Sicilia; perché a nulla giova che egli disperda il nemico in battaglia, e i traditori disperdano il frutto di tutte le sue vittorie! E questa misura dissuaderebbe Lorenzo Valerio di recarvisi anch’esso ad intrigare pel novello suo amico e padrone Cavour.»

Il giorno successivo il Dittatore mandava un biglietto al conte Persano: «Ammiraglio,... Ho dovuto mandare l’ingiunzione al La Farina di lasciare immediatamente la Sicilia. Ve ne dirò poi il perché. Sempre vostro G. Garibaldi.»

Il Persano si recò tosto a terra per placare il Dittatore, ma non lo rinvenne; intanto aveva già disposto perché una lancia comandata da una guardia marina movesse a incontrare lo sbandito. Infatti poco dopo il suo ritorno a bordo, ricevette alla scala il povero La Farina. La costui casa era stata invasa alle 11 di notte? egli intercettato, impachettato colla moglie e colla cameriera, veniva portato alla nave ammiraglia. L’ufficiale garibaldino, che lo accompagnava, ne domandò un ricevo (precisa parola usata) al Persano.

Questi (racconta nel suo Diario) se ne adirò; rispose che un legno del Re di Sardegna era suolo libero; che la Maria Adelaide non era un carcere; né l’ammiraglio un carceriere. E per ricevuta all’ufficiale additò l’uscita. Ma poi considerando come non conveniva urtare col Dittatore, consigliò a La Farina di ritornarsene quetamente a Torino, perciò mise a disposizione di lui la Gulnara.

Non solo il fatto e il modo furono offensivi; ma quello che maggiormente offese il proscritto fu l’annunzio datone dal Giornale ufficiale di Palermo, che, mentre portava nella testata lo stemma di Savoia, si esprimeva in istile molto increspato contra l’insigne mandatario siculo del Governo Sabaudo.

Annunziava, come sabato, 7 corrente, per ordine speciale del Dittatore, era stato allontanato dall’isola il signor Giuseppe La Farina con due còrsi, «di coloro, che trovano modo ad arruolarsi negli uffici di tutte le polizie del continente. I tre espulsi erano in Palermo cospirando contro l’attuale ordine di cose. Il Governo, che invigila perché la tranquillità pubblica non venga menomamente turbata, non poteva tollerare ancora la presenza tra noi di codesti individui venutivi con intenzioni colpevoli.»

Giuseppe La Farina, che si vedeva così sbandeggiato per decreto del Dittatore liberale dall’isola natia, da cui tre volte lo avevano espulso i tiranni borbonici, e dove aveva arrischiata tre volte la testa per la causa della libertà e della nazionalità italiana, e si vedeva cacciato senza che gli fosse concesso di abbracciare la madre, che da dodici anni non rivedeva più suo figlio, il profugo La Farina non poteva tosto sputar dolce pel complimento ricevuto. E da principio sputò di molto amaro.

Scrivendo agli amici sosteneva: «Non diedi ai cagnotti, ai satelliti del Generale dittatore la soddisfazione di vedermi adirato; ne risi come di una buffonata.» Ma il suo non fu riso di quello buono; era riso mal cotto, molto raffreddato e rassegato.

Nelle citate, lettere, imitando lo stile del giornale ufficiale di Napoli, che il 18 maggio aveva qualificato lo sbarco dei Mille come un atto flagrante di pirateria consumato da filibustieri, scriveva: «è utile che certi atti si compiano, affinché tutti si convincano. che i pirati marocchini non possono agire che da pirati marocchini, e che non v’è potenza o gloria che possa fare di uno insensato un uomo savio, di un barbaro un uomo civile...» E le descrizioni lafariniane delle cose di Sicilia, fino al giorno in cui vi ritornò consigliere di luogotenenza, diventarono vieppiù nere: «La camarilla, che ha in mano la realtà del potere, è un misto di mazziniani incorreggibili e di borbonici vituperosi: un’orda di selvaggi briachi. La povera Sicilia è divenuta conquista di una accozzaglia di mazziniani e mazziniane... Garibaldi dichiara pubblicamente che non vuole tribunali civili, perché i giudici e gli avvocati sono imbroglioni; che non vuole assemblea, perché i deputati sono gente di penna e non di spada; che non vuole niuna forza di sicurezza pubblica, perché i cittadini debbono tutti armarsi e difendersi da loro» vero stato primitivo di natura. Si minacciano «di giudizio statario coloro i quali consigliano l'annessione.» Onde «un concerto di maledizioni contro Mazzini, Bertani, Crispi, Mordini e compagnia.»

«Il Comune di Palermo ridotto al punto di non aver da pagare i lampioni... Le balie dei trovatelli, che non hanno avuto il semestre, minacciavano di abbandonare i bambini; i matti non hanno pane...; i viveri saliti ad un prezzo enorme, la carne a due lire il chilogr., il pane a dieci soldi...» E in questa penuria, che provoca persino lo sciopero nelle balie dei gettatelli, un tale da solo «ha riscosso dal tesoro di Sicilia, senza causa specificata, la bagatella di 7 milioni» (bisogna eccheggiare con un Bouni a tanta cannonata), «impiegati tripli e quadrupli di quanto richieda il servizio pubblico, un cumulo dì quattro o cinque impieghi nella medesima persona; ragguardevoli uffici concessi a minorenni; pensioni senza titolo largite a mogli, sorelle, cognate e fino a fantesche di sedicenti patrioti...», ecc., ecc.

È una orribile pittura da imputarsi agli occhi sconvolti dello stralunato La Farina, che non si salvò dalle più patenti contraddizioni, poiché da una parte accusava il governo garibaldino di aver licenziato tutti gli antichi impiegati, e dall’altro lo redarguiva per essere stato troppo generoso verso gli strumenti della cessata tirannide.

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Bisogna però soggiungere, ad onore del fosco brontolone, ciò che già gli apponeva a lode Ausonio Franchi nel Proemio dell'Epistolario. L’alto confidente cavouriano sapeva trovare nella sua irritazione eziandio virtù manzoniane; sapeva dire e scrivere: «Non difenderò la mia persona, che non vai la pena. Per l’offesa a me fatta, non ci penso né punto, né poco... Per ciò che mi riguarda, me ne rido; — è cosa da nulla; — non ci penso più.»

Scacciato da Garibaldi in modo crudele il 7 luglio 1860, egli al 22, appena sfiorata la prima e tuttavia incerta notizia che Garibaldi si fosse imbarcato pel continente, scrive: «In questo momento, tutto ben considerando, ho creduto conveniente sospendere la polemica, alla quale mi provocano i mazziniani, con le loro calunnie sfacciate e con le loro insolenze villane. Non è giusto, mentre egli combatte contro i borbonici, ed ancora ci lascia un qualche raggio di speranza, che noi possiamo far conoscere all’Europa che cosa sia il Governo del generale Garibaldi.»

Ed il 5 agosto, al crescere radioso di queste speranze egli depone tutte le ire, come Malacoda, il demone dantesco, davanti a Virgilio si lasciò cascar l'uncino ai piedi, e disse agli altri: Ornai non sia feruto! «Sarei un indegno italiano, se in momenti così solenni volessi ricordarmi di personali oltraggi. Ho tutto dimenticato... Il generale Garibaldi, che sì eroicamente combatte per la indipendenza ed unificazione d’Italia, non può destare nel mio cuore che sensi di ammirazione e di riconoscenza.»

A questi degni sentimenti La Farina era confortato da ottimi amici. Per esempio Giuseppe Natoli gli faceva sapere il 13 luglio da Palermo a Torino: «In questo momento, pel trionfo della causa italiana, potrai essere più utile a Torino che in Sicilia. Questa causa, alla quale hai sacrificato tanto, ti chiede l’oblio di immeritata offesa... Purché l’Italia sia libera, si prendano pure la nostra vita.»

A tale sublime esortazione fa riscontro l’umorismo patriottico con cui nello stesso luglio La Farina risponde ad un amico di Ivrea: «Per ciò che mi riguarda, è cosa da nulla: oramai siamo come i fringuelli, avvezzi ad essere accecati.»

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Egli non ebbe neppure bisogno del tempo per guarire del suo bruciore.

Ma il tempo sana ogni grande piaga (anche politica) in tutti.

La riposata storia è una componitrice di enormi dissidii.

Nel 1833, quando Carlo Alberto segnava la condanna di morte del Mazzini, e quando il Mazzini lasciava partire per Torino Antonio Gallenga, presentatogli dal Melegari, per ammazzare Carlo Alberto e lo forniva di un pugnaletto con manico di lapislazzuli, non era certo prevedibile che nel 1882 il Municipio della monarchica Torino, nella apoteosi di Garibaldi, consacrasse l’antica via Borgonuovo al nome del grande cospiratore; per cui ora via Mazzini si incrocia con via Carlo Alberto, a perpetua ricordanza delle loro benemerenze verso la madre comune, la patria.

Così per le stesse benemerenze si incrociano nei tranquilli depositi e nelle chiarificazioni della storia i ripetuti nomi di Cavour e Garibaldi, di La Farina e Crispi.

Importa anzitutto notare, come il Cavour nella sua comprensività e lucidezza diplomatica si dimostrasse più propenso di La Farina a Garibaldi ed a Crispi.

Il Conte scriveva il 23 giugno all’Ammiraglio: «Raccomandi al La Farina la pazienza. Ad ogni modo bisogna evitare ogni urto con Garibaldi.»

Più tardi, nell’agosto del 1860, il Cordova scriveva da Palermo a La Farina, il quale si curava nella belletta termale di Acqui, gli scriveva domandandogli il parere, se doveva accettare il ministero delle finanze offertogli dal prodittatore Depretis. La Farina gli rispondeva che non dovrebbe entrare nel ministero fuorché nel giorno in cui ne uscisse il Crispi.

Per lo contrario Cavour si dimostrava di più miti consigli: e l'11 agosto notificava a La Farina: «Risposi a Cordova, consigliandolo a non fare condizione assoluta della sua accettazione del portafoglio delle finanze il rinvio di Crispi; ma a persistere che questi non abbia il portafoglio dell’interno... Autorizzai Cordova a far leggere la mia lettera a Depretis, cui diedi così per via indiretta il consiglio di ritener Crispi per non mettersi male con Garibaldi...»

Infatti Cavour comprendeva da tutte le parti come Crispi fosse l’indispensabile di Garibaldi. Il Persano attesta nel suo Diario la particolare condiscendenza del Dittatore verso il suo consulente, in cui il diarista ammiraglio riconosce, oltre l’ingegno, assai elevate qualità.

Crispi accompagna il prodittatore Depretis nelle visite a bordo della Maria Adelaide: insomma è cucito al potere garibaldino.

Cavour ha per ripetuti rapporti che «sopratutto non si perdona a Depretis di non volere o non potere svincolarsi dal Crispi.» Ma sa perdonargli egli stesso: ed il 16 agosto scrive a La Farina: «Finché Garibaldi è in Sicilia, non si può pretendere da Depretis di liberarsi da Crispi.»

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Finché Garibaldi è in Sicilia! Ecco la grande questione. Le rivalità e le recriminazioni dei patrioti volgevano sull’immediata annessione della liberata Sicilia allo ampliato Regno costituzionale di Sardegna. Ma tutti avevano per obbietto la unificazione d’Italia nella libertà. Questa ora si riconosce essere stata la chiave della volta del grande lavorìo architettonico d’allora.

Gli impazienti dell’annessione erano mossi dalla smania di affrettare l’unità; i ritardanti temevano che col contentino dell’isola si rinunziasse al continente napolitano, e che questo fosse condannato ad asciugarsi per un altro po’ la dinastia borbonica improvvisatrice di un’altra costituzione nella nuova battisoffiola.

Garibaldi, che proponeva fieramente di proseguir l’opera, dovesse anche battersi con un esercito di Cavour, e La Farina che strepitava ed intimava o l’annessione in quindici giorni, o Crispi e compagni giù dalle finestre, erano accesi dallo stesso ardore liberale, erano agitati dalla stessa furia unitaria.

Dopo i documenti venuti alla luce, non è più permesso credere che il piano cavouriano fosse ristretto all’accettazione della Sicilia, per salvare il Napoletano a Franceschiello; il quale col dolor di corpo, ad imitazione dei suoi maggiori, aveva emanato una costituzione, e cercava disperatamente ministri fra i liberali, come il generale De Sauget, il marchese D’Aflitto, Antonio Ranieri, ecc., i quali si rimpiattavano in campagna, o si fingevano ammalati, o si rifugiavano persino sui bastimenti stranieri, pur di scapolarla dall’essere fatti ministri di quel regno in articulo mortis.

Il cavouriano La Farina scriveva: «Le concessioni promesse dal re di Napoli hanno fatto l’impressione come di cose riguardanti la Cina. Non uno le ha prese sul serio.»

Il piano del Cavour era largo ed antico; e fin dal 24 ottobre 1858 egli partecipava al marchese Villamarina, legato sardo a Parigi, in lingua e garbo di diplomatico: «Vous verrez que nous sommes à la veille du plus grand drame des temps modernes, dans laquelle vous êtes destiné à avoir une part brillante, mais remplie de difficultés. Pour le moment vous êtes destiné à tout savoir, avant l’air de tout ignorer.»

Il Cavour aveva di queste maravigliose divinazioni; egli che nelle sue confessioni della febbrile gioventù aveva scritto con audace galanteria da eroe di Byron il 2 ottobre 1832 alla marchesa di Barolo: «il y a eu un tems où je ne croyais rien au dessus de mes forces, où j’aurais cru tout naturel de me réveiller un beau matin ministre dirigeant du Royaume d’Italie.»

Dopo il lavorìo parigino, il Villamarina era stato inviato come legato sardo a Napoli sul principiare del 1860.

Un ambasciatore non va certo ad uno Stato coll’espresso incarico di rovesciarlo. È stolidezza pretendere dalla storia la dimostrazione di quest’orrore diplomatico. Ma è tremendo il pensare, e si comprende quanto se ne scotesse la fibra cavalleresca di Massimo d’Azeglio, è tremendo il pensare come il Villamarina, recatosi a Napoli con aperture in apparenza conciliantissime, finisse col ricevere dal Cavour il risoluto incarico di provocare un moto nel popolo e un pronunziamento a modo spagnuolo nell’esercito.

Onde la signora Luisa Colet potè scrivere nell’Italie des Italiens, che gli uomini politici e i giornalisti liberali si recavano tutte le sere dal marchese Villamarina a Napoli, e che questi les avait ralliés dans l’action; e il Conte con una diplomatica fregatina di mani se ne dichiarava enchanté e sentenziava: Villamarina à degagé la situation.

Allora il freddo diplomatico quasi superava Crispi, l’ardentissimo fra i patrioti, come ebbe a chiamarlo Ferdinando Bosio, il biografo di Villamarina.

Cavour pulsava da ogni parte per far entrare tutta quanta l’Italia nel crogiuolo dell’unità, della libertà e della sicurtà monarchica.

Per una banda, fin dal 19 giugno 1860 aveva scritto al suo La Farina, non ancora cacciato da Palermo: «Sarebbe un gran bene se Garibaldi passasse nelle Calabrie.»

Ma poi temendo che le poche attitudini amministrative di Garibaldi finissero per screditare la rivendicazione italiana davanti l’opinione pubblica del mondo serio e civile, e ne provocassero una sentenza di condanna, che le potenze si sarebbero affrettate ad eseguire, il 14 luglio scrisse al Persano: «Conviene impedire ad ogni costo che Garibaldi passi sul continente da un lato, e dall’altro promuovere un moto in Napoli», proclamandovi senza indugio il Governo di Vittorio Emanuele.

Ed esce in questa ammonizione, che fa palpitare l’anima ed ingrandire la testa: «Vigili, ammiraglio, che i momenti sono supremi! Si tratta di compiere la più grande impresa dei tempi moderni; salvare l’Italia dagli stranieri, dai cattivi principi e dai matti.» Perciò egli ordina al Persano di trascinare dietro a sé i legni napoletani; tutto tocca, tutto muove, nulla risparmia, tutto fonde: Villamarina, il Principe di Carignano, il Conte di Siracusa, ecc. Pare il Cellini, che nel risveglio febbrile dal contrastato getto del suo Perseo, disturbato persino da un incendio in bottega, a tutto provvede, a tutto ripara, e nell’ebbrezza e nel furore dell’ardente e sfavillante trionfo artistico, gitta e liquefa persino i dugento piatti di stagno della sua credenza.

Quando Garibaldi in una scarrozzata olimpica occupò miracolosamente Napoli con un numero di seguaci poco maggiore degli apostoli di Cristo, l’emulo Cavour scatta nella grandiosità culminante del suo audace genio diplomatico e patriottico; egli, il ministro della devota Casa di Savoia, della Casa dei Santi, ordina alle truppe regolari crociate il passaggio della Cattolica, acciocché invadano, liberino l’Umbria e le Marche e si congiungano con le scomunicate camicie garibaldine.

E ne dà, per mezzo del Villamarina l’unico preavviso al Garibaldi:

«Nous avons décidé d’occuper l’Umbrie et les Marches..

«Cialdini et La Rocca entreront dans ces provinces la semaine prochaine…………….. Vous ne communiquerez cela à personne, sauf au général Garibaldi, en lui recommandant le secret……...

«Je ne saurais vous tracer un ligne de conduite précise, tant les évenéments sont incertains. Faites pour le mieux, avant pour but de vous tenir en bons rapports avec Garibaldi, sans compromettre le Roi.»

A questo punto di congiunzione plenaria dei tre astri: Cavour, Garibaldi e Vittorio, si sente la com piutezza dei destini italiani; e si prevede non lontano il giorno, in cui sulla vetta del Campidoglio anche la statua di Marco Aurelio riavrà la bandiera tricolore del quarantotto, e al soffio lirico di uno stornello di Francesco Dall’Ongaro riprenderà

……. l’aria d’un pruno selvaggio,

Che dopo tanto metta foglie e fiori.

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Davanti a questa trionfale armonia zittiscono le gelosie arpeggiate da pochi artisti scontenti, pel pretesto che colla brillante campagna delle Marche si volesse tagliare la giubba al leone di Caprera, e svaniscono le loro detrazioni a Cavour, perché fondate sul sofisma che il papato fosse solo a Roma e non a Rieti né a Gubbio; e male si potesse demolire il papato con la religione cattolica, avendo Vittorio Emanuele promesso: conserverò la religione degli avi.

Più non si sente il gelo, il ribrezzo degno della Caina dantesca, allora provato da quelli che nell’arrivo del Re Sardo previdero il fratricidio di un nuovo Caino sopra un altro Abele.

Tutto si riscalda, si congiunge e sinfonizza in quella storia patriottica veduta dall’alto. Garibaldi che dice al popolo di Napoli: «un partito avverso mandò a Palermo La Farina per affrettare l’annessione della Sicilia, annessione che se io avessi fatta non avrei potuto venire a liberarti, popolo di Napoli;» e La Farina che smentisce quell’interpretazione scrivendo: «io replicatamente pregava il generale Garibaldi ad affrettare la sua spedizione, a fine di giungere sul continente prima della promulgazione della Costituzione borbonica, da me preveduta, e prima che le truppe di Bomba si fossero rimesse dallo sbalordimento in loro cagionato dalla liberazione di Palermo;» Garibaldi e La Farina, così contraddicenti nelle parole combinano nella riuscita dei fatti.

Si accordano i sinedrii di congiura diplomatica tenuti dal marchese Villamarina, e le carezze dei proclami garibaldini ai sacerdoti patrioti, e le prediche che il Padre Gavazzi recitava da un palchetto del teatro di San Carlo, negli intermezzi degli atti, a telone alzato, acciocché anche gli attori potessero ascoltarlo e convertirsi al suo facile modo di risolvere la questione romana: «Vittorio Emanuele dica al Papa: i vostri sudditi non vi vogliono più; facciamo un cambio; datemi Roma, ed io vi darò il mio regno di Cipro e Gerusalemme.»

Consuonano le note sostanzialmente più suggestive che conciliatrici del Cavour al Villamarina; e le sue inconcludenti cortesie al Manna e al Winspeare inviatigli dal neo-costituzionale Borbone; ed il telegramma, con cui per mezzo del prefetto di Cagliari il 25 giugno 1860 autorizza senza indugio il Persano a sbarcare i due cannoni da 80 chiestigli dal generale Garibaldi, raccomandando che l’operazione venga eseguita di notte, usando la massima prudenza.

Si intrecciano le promesse date, nel giugno del 1860, sull’onor suo dal Dittatore al Persano di far arrestare il Mazzini e consegnarglielo, ove si mischiasse di politica contraria a Vittorio Emanuele Re d’Italia, e le reticenze, con cui evitò di promettere che ne ordinerebbe pure l'arresto, quando semplicemente lo si trovasse su qualche legno delle spedizioni di Volontarii; si intrecciano queste promesse e queste reticenze con la lettera che il prodittatore Giorgio Pallavicini, il martire dello Spielberg, scriveva da Napoli il 3 ottobre 1860 a Mazzini: «L’abnegazione fu sempre la virtù dei generosi... Anche non volendolo, voi ci dividete. Fate adunque atto di patriottismo, allontanandovi da queste provincie.»

E ci si impiastra bene la risposta del Mazzini: «Il più gran sacrifizio, che abbia mai potuto fare, l’ho fatto, quando interrompendo per amor dell’unità e della concordia il civile apostolato della mia fede, dichiarai che accettavo, non per rispetto a ministri o a monarchi, ma per la maggioranza, a non dir poco, abbagliata del popolo italiano, la monarchia, pronto a cooperar con essa, purché fondasse l’unità.»

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L’ardore guerresco continua ad essere elevato alla stessa temperatura negli animi di Garibaldi e di Cavour. Il quale ultimo il 14 agosto scriveva a La Farina: «La guerra, alla quale bisogna oramai prepararci con tutta l’energia, farà cessare, io lo spero, tutti questi screzi. Guai all’Italia, se dinanzi al nemico il partito liberale non si ricompone a quella concordia che fece la sua forza nell’anno scorso!» Ed il 22 ottobre telegrafava a Persano: «Faccia una leva forzata di marinai in cotesti porti. Se il Codice Napoletano non punisce di morte i disertori in tempo di guerra, pubblichi un decreto a tale effetto, e, ove ce ne siano, li faccia fucilare. Il tempo delle grandi misure è arrivato. Dica al generale Garibaldi da parte mia, che se noi siamo assaliti, io l’invito, in nome d’Italia, ad imbarcarsi tosto con due delle sue divisioni per venire a combattere sul Mincio.»

Davanti a queste concordie in faccia allo straniero, si attenuano le pretese di Garibaldi, poco pratico di diritto costituzionale, perché Vittorio Emanuele dimettesse Cavour e Farini; onde Bianchi Giovini aveva da scrivere al Generale: «Per quanti gravami possiate avere contro quei due ministri, una lettera di quel tenore, se avesse esistito, ci condurrebbe nientemeno che ai tempi in cui il vandalo Stilicone e il goto Guinas domandavano al debole imperatore di Oriente, Arcadio, la testa del suo ministro Eutropio.»

Ed il Cavour, insieme con un’ottima lezione di diritto costituzionale, ripeteva in Parlamento un esempio di patriottismo. Egli, domandando alla Camera un voto di fiducia, così motivava la richiesta il 2 ottobre: «Ciò è tanto più necessario, o signori, dacché una voce giustamente cara alle moltitudini palesò alla Corona e al paese la sua sfiducia verso di noi.

«Certo tale dichiarazione ci commosse penosamente, ma non poteva rimuoverci in nulla dai nostri propositi.

«Custodi fedeli dello Statuto, del quale a noi più che ad altri incombe l’esecuzione più scrupolosa, non crediamo che la parola d’un cittadino, per quanto segnalati siano i servigi da lui resi alla patria, possa prevalere all’autorità dei grandi poteri dello Stato (Bene! Bravo!).

«Però è debito assoluto dei ministri di un re costituzionale di non cedere innanzi a pretese poco legittime, anche quando sono avvalorate da una splendida aureola popolare e da una spada vittoriosa (segni di assentimento).

«Ma se cedendo a quelle esigenze avremmo mancato al nostro debito, ci correva l’obbligo tuttavia v di interrogare il Parlamento, onde sapere se questo è disposto a sancire la sentenza profferita contro di noi

«Qualunque esser possa la deliberazione vostra, noi Faccetteremo con animo tranquillo Sicuri della rettitudine delle nostre intenzioni, noi siamo egualmente disposti a servire la patria come ministri o come privati cittadini, consacrando in qualunque caso tutte le nostre forze alla grande opera di costituire l’Italia sotto la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele» (applausi fragorosi e prolungati).

Nella tornata dell’11 ottobre ripeteva: «Se la Corona sulla richiesta di un cittadino, per quanto illustre egli sia e benemerito della patria, avesse mutati i suoi consiglieri, essa avrebbe recato al sistema costituzionale una grave, e, dirò anzi, una mortale ferita. (Bravo!)

«Né vale il dire che Garibaldi non è un generale come il generale Fanti e il generale Cialdini.

«Io riconosco essere il generale Garibaldi in altre condizioni. Ma, o signori, se egli è il dittatore di Napoli, è pure il cittadino che, come noi, ha giurato lo Statuto (Bene!).

«Non essendo più lecito a noi di dare le nostre dimissioni, non ci rimaneva altra via da seguire che di radunare il Parlamento.

«... Se il vostro voto ci è contrario, e la crisi ministeriale avviene bensì, ma in conformità ai grandi principii costituzionali... Se poi il vostro suffragio ci sarà favorevole, noi nutriamo fiducia che questo abbia ad esercitare una grande influenza sull’animo generoso del generale Garibaldi (Bene!).

«Noi nutriamo fiducia che egli presterà maggior L fede alla voce dei rappresentanti della nazione che non a quella dei tristi (con forza) che cercano di separare uomini che hanno pure alacremente lavorato molti anni per il trionfo della causa nazionale (applausi). Se ci accorderete il vostro voto, noi, animati sempre dal medesimo spirito di conciliazione che abbiamo sin qui dimostrato, fatto anzi questo più vivo dalle parole generose che furono a noi rivolte, non solo dai nostri amici politici, ma anche da coloro che noi forse potevamo temere di dover annoverare fra i nostri avversari, animati da questi sentimenti (con calore) noi andremo incontro al generale Garibaldi, e mostrandogli l’ordine del giorno proposto dalla vostra Commissione ed al quale noi di gran cuore ci associamo (Bravo! Bene!), e additandogli pure il voto di fiducia della Camera, noi inviteremo il Generale, non a nome nostro, ma a nome dell’Italia a porgerci la sua destra» (applausi vivissimi).

Queste parole cavouriane meritano di essere inchiodate avvampanti nella storia della Concordia e della Fortuna Italiana insieme con il superno proclama mandato fuori due giorni dopo dal Dittatore di Napoli, quando convocò i Comizi pel Plebiscito ed annunziò l’arrivo del Re Liberatore.

«Vittorio Emanuele, il Re d’Italia, l’eletto della nazione, ha infranto quella frontiera che ci divise per tanti secoli dal resto del nostro paese, ed ascoltando il voto unanime di queste popolazioni, comparirà qui fra noi.

«Accogliamo degnamente il mandato dalla Provvidenza, e spargiamo sul suo passaggio, come pegno del nostro riscatto e del nostro affetto, il fiore della concordia a Lui sì grato, ed all’Italia così necessario.

«Non più colori politici! Non più partiti! Non più discordie! L’Italia una, come la segnano seriamente i popolani di questa metropoli, ed il Re Galantuomo siano i simboli perenni della nostra rigenerazione, della grandezza e della prosperità della patria.»

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Lo stesso Crispi, pur cercando ostinatamente la genesi dei partiti legali, e ripetendone la necessità nel rotismo costituzionale, mentre si riafferma come progressista tenace, nel suo discorso del 18 maggio 1883 fece alla Camera questa stupenda e leale ammessione in favore dei moderati: «L’illustre Conte di Cavour, Minghetti e gli altri moderatori della nostra impazienza forse poterono impedire che con l’opera nostra audace ed improvvisa l’Italia fosse caduta nel precipizio e si fosse potuta ritardare la costituzione dell’unità nazionale.

«La rivoluzione italiana se fosse rimasta senza freni, forse non avrebbe potuto essere riconosciuta in

Europa, non avrebbe potuto diplomatiarsi, lasciatemi la frase, senza il concorso di Cavour.

«Questa Nazione, che per tanti secoli rotta e divisa, insorse, rovesciò sette troni, si ricompose ad unità di Stato, se non suscitò sospetti nel mondo, se fu messa nel consorzio delle genti, ciò è forse dovuto al partito moderato.»


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Seguita il Passio di La Farina

All’eco maestosa di questa concordia nella giustizia fanno torcere il volto dall’altra parte le immagini di coloro che nel 1860-61 versavano l’aceto e il fiele nel cuore ferito dell’illustre Generale, secondo che disse allora il deputato Chiaves alla Camera — e rendevano più miseri i ripicchi personali fra La Farina e Crispi.

Noi li avevamo dimenticati volontieri nell’esaltazione del racconto; e con dolore li riprendiamo per debito di cronista; imperocché, quantunque tutti e due i valentuomini fossero assorbiti nello stesso intento unitario e liberale, pur continuarono a tipizzarsi sulla scelta dei mezzi.

Il Natoli, con lettera del 2 agosto, informando l’amico La Farina sulle cose di Palermo, seguita a fare un passio dei torbidi popolari ed azzecca una sospettosa pittura di carattere diabolico al Crispi: «Accusano il Crispi di soffiare in questo fuoco e gli imputano il piano di aumentare il disordine, per dirsi poi solo capace di frenarlo e tornare con più larghezza al potere.»

Poscia il Crispi aveva accompagnato il generale Garibaldi a Napoli.

Alberto Mario, in uno dei quadri ad olio della sua Camicia Rossa pubblicata nella Biblioteca Romantica del Sonzogno, ci rappresenta nella prima quindicina di ottobre, durante un combattimento sotto Capua, montati sulla vetta pericolosa di Sant’Angelo, Crispi e Carlo Cattaneo, Consiglieri del Dittatore.

Giuseppe La Farina fin da un mese prima aveva temuto che il Crispi ritornasse in Sicilia a surrogare il Depretis nella prodittatura, e per scongiurare questo che egli riteneva grave pericolo, suggeriva un Governo provvisorio, da confezionarsi magari coll’aiuto della Guardia Nazionale, oppure la spedizione di una Deputazione di notabili per invocare la protezione del Re.

Poi mandava attorno la voce che il Re, partito da Torino con Farini verso le provincie meridionali, avesse detto e ripetuto sdegnosamente, non soffrire che il suo nome diventasse insegna da osteria.

Quindi per bilanciarsi di nuovo in arcioni contro a Crispi concedeva allo Sbarbaro, offertosi suo biografo, i dettagli della sua vantata preponderanza nella spedizione dei Mille, i telegrammi del 1° maggio, ecc., ecc.

Nel novembre La Farina passò a Napoli per avviarsi a Palermo consigliere della Reale Luogotenenza, di cui era stato investito il Montezemolo. Da Napoli quell’anima scontenta riferisce al Cavour nuovi «intrighi crispiani»; e conferma sospetti sul cambiamento avvenuto nelle condizioni di salute del Farini: nota l’antico e semplice Dittatore dell’Emilia sfoggiare asiaticamente, alterato dalle esalazioni del Sebeto, quasi rinnovare i fasti del tribuno Cola di Rienzi esaltato dai fumi consolari; ridere con spallucciate dei Buoi antichi colleghi Cassinis, Minghetti, ecc.; dispettare che un Montezemolo qualunque si recasse con pari titoli a lui in Sicilia; sognar esso di riunire sotto il suo freno Napoli e Sicilia; trattare alla pari col governo centrale; narrare tuttodì le proprie gesta, farsi aprire le porte a due battenti, quando passava da una stanza all’altra, e farsi precedere dall’usciere sbraitante a squarciagola: S. E. il Luogotenente generale! negare un bugigattolo al collega Luogotenente di Sicilia, quando questi è di passaggio a Napoli; confinare in una retrosala da refettorio con. misero mobilio il ministro Cassinis; e desso, il Luogotenente di Napoli, nel suo lusso orientale intendersela col satrapo Crispi, accordargli un appartamento magnifico, dargli facili udienze, mantenersi con costui in assiduo commercio epistolare.

Il Crispi è addirittura il maggior martello del signor La Farina, che dopo aver narrato al Cavour di una emissione di rendita non autorizzata in Sicilia (metodo viennese), per giunta rappresenta il suo rivale come azionista in una Società compratrice o fondatrice di giornali con Bertani e Mordini, col figlio maggiore di Garibaldi, e con lo stesso Mazzini.

Il Crispi, che non poteva vedere messer La Farina meglio che questi vedesse lui, gli fura le mosse. Esso e compagni precorrono «tutti nell’isola per organizzare opposizione al nuovo governo», narra fremendo d’impazienza l’antagonista tuttavia ancorato a Napoli, pel cattivo tempo, nella lettera al Cavour del 21 novembre 1860. Colla lettera successiva del 25 novembre, datata ancora burrascosamente da Napoli, già suppone che si continuino a Corte gli intrighi stati iniziati dal Crispi e dal Mordini presso il Farini, acciocché il Re consigli al Montezemolo di non adoperare lui La Farina.

Finalmente giunto a Palermo, egli si affretta a giudicare con occhio torvo «tutte le autorità nominate da Crispi e da Mordini;» perciò fa cambiare il Questore. Ma il Crispi e la fortuna politica gli rendono pan per focaccia. Se La Farina nel Piccolo Corriere d’Italia del 15 giugno 1860 aveva potuto pubblicare che il ministero Crispi inviso (egli allora non volle dire pubblicamente se a ragione o a torto) aveva dovuto ritirarsi davanti ad una dimostrazione popolare nonostante l’intiera fiducia dichiaratagli dal Dittatore; — sul principio del 1861 il Crispi, volendo espandere modestamente nel seno dei suoi amici o nei suoi organi di pubblicità la soddisfazione del proprio orgoglio, avrebbe potuto annunziare che lo sfortunato La Farina dovette decadere tosto dal Consiglio di Luogotenenza per l’avversione pubblica, senza saper dire se a ragione o a torto eccitata.

Non è il mondan rumore altro che un fiato

Di vento, ch’or vien quinci ed or vien quindi,

E muta nome, perché muta lato.

Il 10 giugno 1860 La Farina al Cavour narrava di se stesso raggiante a Palermo: «Tutti gli sguardi si sono diretti sopra di me... Se passo per le vie, mi si fa festosa accoglienza, e ai governanti nessuno saluta.» Si gloriava nella lettera del 25 giugno di avere le sue stanze dalle 6 del mattino fino alle 12 di sera piene zeppe di visitatori; e di non esser riuscito ad affittare un appartamentino mobigliato, perché tutti ricusavano di farsi pagare da lui la locazione. Mostrava gli scrupoli più pudibondi e più inopportuni nell’accettare il potere; respingendo l’esortazione fattagli dal barone Pisani di prendere la presidenza del Governo, rispondeva, che non poteva e non voleva sciupare la sua popolarità, utile alla causa italiana, per salvare Crispi e Raffaele, che egli supponeva avversi alla politica del Governo del Re, e forsanco alla Casa di Savoia. Il 6 luglio, alla vigilia dello sfratto intimatogli dal Dittatore, scriveva con eroico disdegno degli onori e del potere: «Non è smania di potere che mi tien qui: rifiutai il Governo della Romagna, rifiutai la Presidenza dei ministri nell’Emilia; e se volevo esser ministro, rimanevo a Torino.»

Ebbene, nel volgere di pochi mesi, dovette assaggiare egli stesso l’impopolarità a Palermo; e non seppe resistere per pochi giorni attaccato al non sublime posto di consigliere di luogotenenza davanti la raffica del malcontento popolare. ‘

Se ne rimpattò spiegando irosamente ad Ausonio Franchi, come il Consiglio di Luogotenenza, del quale aveva fatto parte, si era dimesso, non potendo rimanere senza una lotta materiale nelle vie di Palermo. Per tagliare la cancrena, come aveva già scritto al Cavour, sarebbe occorso in Palermo un presidio almeno di 8000 soldati, che imponessero col numero, mentre se ne aveva appena un migliaio. Egli vantavasi di aver rifiutato una probabile vittoria militare, che sarebbe apparsa al cospetto dell’Europa come una sconfitta politica, trovandosi contro una accozzaglia di borbonici, autonomisti, garibaldini, ecc., misera minoranza, secondo lui, ma avente seguito in tutti i malviventi della ereditata ed accresciuta corruzione governativa, nei saccheggiatori e negli uomini peggio da lui qualificati «amnistiati da Garibaldi, pensionati da Crispi e da Mordini ed introdotti nei carabinieri, negli agenti di sicurezza, nelle guardie di finanza, e fino ne’ ministeri.»

Forte dei 14000 nomi inscritti nella Società Nazionale, il brontolone si consolò eziandio coll’esito delle prime elezioni politiche in Sicilia: «tutti gli ex-consiglieri siamo stati eletti: onore accordato anche a tutti i governatori da me nominati e che si dimisero. Crispi è stato solennemente battuto a Palermo, Mordini a Girgenti.»


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Le arringhe di Crispi

Cionondimeno il Crispi entrò nel primo Parlamento dell’Italia riunita: e l’eterno piagnone La Farina l'8 aprile 1861 scriveva da Torino: «Garibaldi è qui. Sventuratamente gli sono sempre attorno Crispi, Ugdolena, Brofferio e compagnia. Io temo che lo spingano a qualche atto, il quale possa' condurlo a rovina.»

Nella apoplettica seduta del 18 aprile 1861, quando il gran Garibaldi assaltò con jugulanti accenti di fratricidio il magno Cavour, si sentì il Crispi domandare la parola per l’ordine della discussione.

Dopo le bottate date da Nino Bixio con santa arditezza, il Presidente disse: il deputato Crispi ha facoltà di parlare.

Crispi. Io cedo la parola al generale Garibaldi.

Garibaldi. No, no; parli Crispi, io parlerò dopo, di lui.

Crispi. No, no; gliela cedo.

Presidente. Il generale Garibaldi ha la parola.

Garibaldi riparlò; riparlò Cavour. E su quell’atroce duello di due grandi patrioti si stese l’iride della Concordia invocata dal Bixio. Ma pareva un’iride rada, incerta, lontana, un’iride vista attraverso una garza funebre; il corrotto per la vicina morte del Conte.

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Nel luglio del 1861 La Farina si vanta tuttavia di aver interrotto il Crispi con un grido di: Non è vero.

Quale fosse in quelle prime giostre del Parlamento italiano il contegno del Crispi, è reso da una fiera risposta che egli diede ad un breve catechismo fattogli dal Petruccelli, e questi la riferì nei suoi Moribondi del Palazzo Carignano del 1862. «Un giorno io domandava a Crispi: Siete voi mazziniano? — No, mi rispose egli. — Siete voi garibaldino? — Neppure, ei replicò. — E chi siete voi dunque? — Io sono Crispi.»

Crispi è Crispi. E la sua Crispità consiste ognora nel suo parlamentarismo di stampo isolano siculo, nel suo rigorismo sulfureo, vulcanico. Questa crispità è chiarita dai profilisti contemporanei. 11 Petruccelli nei citati Moribondi ricorda in lui un uomo «avente più energia che tatto, più volontà che idee, più coraggio che capacità, più fermezza che autorità morale, uomo probo, perseverante, altamente ambizioso;» e soggiunge: «il signor Crispi non è mica uomo da passare inavveduto in niun luogo, né da restare negli ultimi ranghi. Alla Camera ogniqualvolta parla, parla di sé o della Sicilia. È stringente negli argomenti... È laborioso e spiccio nelle panie amministrative... ma ha troppa personalità di odi e di amori siculi, sì che l’usbergo della prudenza sua rompe le maglie.»

La penna maestra che scrisse per l'Espcro i Profili Parlamentari e pubblicò nel 1863 i Profili contemporanei dello Spirito Folletto, e forse dimenticò poi gli uni e gli altri, rendeva magistralmente l’aspetto del Crispi brizzolato e barbuto d’allora: «Una fronte severa ed una gran barba grigia; l’occhio abitualmente fosco a lampi lucenti sotto un osso sopraccigliare pronunziato che indica forza e tenacità di volere; l’aria tra cupa e riflessiva, il sorriso tra sardonico e fiero; un po’ di studiatezza nella posa, un po’ di affettazione democratica nel piglio, nella parola, nella stessa ricorrenza dell’ironia; qualche ostentazione, di buona fede, nel suo liberalismo fremente, ma non senza civiltà; delle accennate pretese alla ferocia delle virtù repubblicane antiche commiste alle studiate tradizioni del famoso comitato francese di salute pubblica; un tribuno che è passato per lo sconquasso del 92, che ha subito il falso macchiavellismo in prosa poetica di Mazzini, ed ha fatto capo alla forma di buon senso del Garibaldi, un figurino di Saint-Just tallito sopra un’ombra di Bruto, con delle aspirazioni ad essere uomo di Stato e delle velleità al potere.

«Ecco quale ci appare alla veduta della nostra lente Francesco Crispi democratico, rivoluzionario ed avvocato.»

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La sua eloquenza avvocatesca, come quella parlamentare, si contorce per strizzare la formola definitiva, e si leva in piedi per arraffare in cielo il quadro finale.

Togliamo dall’Arte Forense del Giuriati il razzo di una perorazione crispiana.

Era accusato per reato di stampa davanti la Corte di Assisie di Firenze Alberto Mario, il repubblicano federalista «di tempra antica,» il quale, eletto deputato del Collegio di Modica, aveva ricusato il mandato pubblicando ripugnargli di giurare fedeltà a quel re, nel cui nome ad Aspromonte erasi sparso il sangue di Garibaldi. Crispi, anziano nel collegio dei difensori, roteò questa chiusa: «Bisogna aver molta circospezione nel fare di codesti processi, quando gli atti che si vogliono incriminare si riferiscono alla persona del Re. Non frutta alcun beneficio né per la libertà della stampa, né pel rispetto dovuto al Capo inviolabile della nazione il venir discutendo, se possa egli o no essere stato offeso. Cittadini giurati! Oggi, 27 aprile 1863, è il quarto anniversario della libertà toscana. Quattro anni addietro con potente unanimità di popolo voi vi siete emancipati da una tirannide corruttrice, e atterrando le frontiere del vostro piccolo Stato vi siete confusi nella nazione. In quell’anno furono gettate le basi di un ordine politico che fu il desiderio de' vostri padri, e pel quale un tempo a noi vicino furono bagnati dal sangue dei vostri martiri i campi di Montanara e Curtatone. Voi oggi siete chiamati a provare col vostro voto che quest’atto di redenzione non fu invano. Un verdetto di colpevolezza in un processo, che concerne la libertà della stampa, sarebbe oggi un’antitesi del pensiero che allora vi guidò nel sollevarvi a nome della libertà.»

Ed il verdetto dei giurati fu assolutorio.

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Ritornando alla Camera, il Crispi fu il capo della vera ed antica Sinistra, della Sinistra storica, la quale poi, dissero alcuni, per rendersi più accessibile il potere, prese a guide d’accatto il Rattazzi e in seguito il Depretis, come gli antichi Comuni assumevano podestà forestieri, e l’esercito piemontese nel 1849 ebbe a comandante un generale polacco.

Nell’intenzione di rendere la sinistra partito riconoscibile di governo, il Crispi, a giudizio di molti, non pareva abbastanza costituzionalmente ortodosso. Il Petruccelli dei Moribondi lo allogava tuttavia fra i repubblicani in istato latente. Il profìlista dello Spirito Folletto riteneva che il Crispi non avesse punto compreso, come tanto nell’organismo sociale, quanto nell’umano una convulsione poteva essere buona anzi necessaria, quale crisi risolutiva; ma oltrepassata questa, bisognava affrettarsi a tornare alla regolarità della vita. Invece, secondo il profìlista, il Crispi, abbracciando con dialettica rivoluzionaria la formola monarchica, vorrebbe tenere il Regno così stretto nell’abbraccio ardente e consumatore della Rivoluzione, che facile sarebbe il povero Regno vi rimanesse soffocato, e se ciò fosse, il Crispi non si desolerebbe di vederlo spacciato.

Persino il modo di parlare del Crispi spaura lo Spirito Folletto: «Quando parla, vi pare debba ad ogni istante tirar fuori dalle tasche, in cui tien le mani, la pistola e puntarla in faccia agli avversari. Gli stessi suoi discorsi sono revolvers a più colpi, che scoppiano con vera regolarità in argomenti da tutte le parti e di tutti i generi. Il suo animo è buono e mite, ma il cervello è concitato e soggetto alla prepotenza intollerante del demagogo. Molte volte nella sua mente, pur lucida e ferma, riesce ad offuscare il ragionamento con una certa tendenza all’enfasi tribunizia ed un cieco ossequio alle tradizioni rivoluzionarie. Si illude da se medesimo con la sonorità di parolacce consacrate da una religione storica tutta particolare della rivoluzione.»

Se questo tipo di congiurato sbocciato alla luce della pubblica discussione, questo politico di scuola italiana, ma guasto dalle massime convenzionali della Francia, istancabile ed ostinato nei suoi propositi, calcolante anche nei suoi entusiasmi, freddo nei suoi trasporti, che regola l’eloquenza del tribuno con la tattica del procuratore, avesse fatta campeggiare la sua barba brizzolata e avesse picchiato i suoi pugni sul banco dei ministri, anche lo Spirito Folletto di allora si sarebbe fatto il segno della croce e avrebbe paventato il terrore conciante tutti i moderati in salsa di ghigliottina.

Per sgomberare ogni dubbio dalla sua conversione monarchica, il Crispi, memore certamente della frase del Palla vicini al Mazzini: «anche non volendo ci dividete», ponzò, e poi sfoderò la forinola decisiva: la monarchia ci unisce e la repubblica ci dividerebbe. La dichiarò alla Camera nella seduta del 18 novembre 1864; e la svolse e la dimostrò nel suo opuscolo del 1865 intitolato appunto: «La Repubblica ci divide; la Monarchia ci unisce.»

Si guadagnò mancomale i biechi giudizi di Ermenegildo Simoni nell’Histoire des conspirations mazziniennes, il quale gli rimproverò altresì di aver osato gridare Viva il Re! in un meeting a Torino, e registrò con carbone nero che Crispi «era stato mazziniano per convinzione e si era fatto monarchico per convenienza, per interesse, per ambizione.»

Però il Mazzini, che sopratutto ha sempre voluto la libertà e l’unità d’Italia, ha tenuto ognora in conto come di un valore liberale e unitario la personalità del Crispi.

Nel carteggio al Dall’Ongaro fratello, prima del 1859, domanda: «Dov’è il Crispi? dove gli amici suoi?» E mentre trova Garibaldi «vacillante alquanto come nel 18 lasciargli appena la speranza di superare le oscillazioni» spiattella addirittura: «fra' nostri, gli uomini, nei quali potete fidare come in devoti al partito, sono Mazzoni, Crispi, ecc.» Dalle memorie della Politica segreta italiana (1863-1870), pubblicate sui documenti posseduti dall’ingegnere E. Dianrilla-Muller, si rileva come il Mazzini intavolasse nel 1860, per mezzo di segreti agenti, trattative con Vittorio Emanuele per la liberazione della regione veneta, assicurandolo che, senza disdirsi lui, vi avrebbe lasciato proclamare la forma monarchica. Nella sua lettera al Muller datata da Londra, 17 febbraio 1864, si lagna perché il suo contatto col Re sia stato comunicato a Crispi; ma poi suggerisce quest’ultimo consiglio a re Vittorio; «Mutamento di ministero: Ricasoli, Crispi, o altri, poco importa, purché scelto chi voglia la guerra.»

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Fra le altre qualità il Crispi mostrò per tempo quella di essere ombroso e punitivo, come il vecchio di Orazio, difficilis querulus... censor castigatorque minorum.

Allorché nel 1869 fra Cristoforo Bona vino (Ausonio Franchi al secolo filosofico-letterario) pubblicò pei tipi di Emilio Treves a Milano le lettere di Giuseppe La Farina così irose contra il Crispi e compagni, Crispi non ebbe pazienza di rimetterne il giudizio alla storia, non si contentò di un opuscolo di difesa, come fece il Bertani con le Ire politiche di oltre tomba, ma insieme col Mordini stiaffò la sua brava querela di diffamazione all’editore Treves e al raccoglitore Ausonio Franchi.

Il processo pubblico principiò davanti al Tribunale correzionale di Milano il 15 novembre 1869.

Erano citati come testimoni alcuni pezzi grossi, come Depretis e Giorgio Pallavicini, e alcune individualità come Tamaio, Adriano Lemmi, ecc. Al solito si cominciò dalle questioni pregiudiziali, e la prima delle questioni pregiudiziali sollevate dal difensore di Treves fu questa, che la parte civile dovesse spulezzare, perché non era rappresentata da procuratore residente nella giurisdizione del Tribunale.

In forza di questa eccezione di procedura, uscì un’ordinanza del Tribunale, per cui il querelante Mordini venne posto fuori di combattimento.

Rimasto di fronte al Crispi, Ausonio Franchi rispose all’interrogatorio del presidente, con un discorso socratico, rinunziando persino alla prova delle asserzioni lafariniane.

Perciò il suo difensore, invocando parità di trattamento, propose che si licenziassero come inutili i testimoni della parte civile.

Ma l’on. Mancini, rappresentante di questa, volle prendersi il gusto storico e giuridico che si sentissero tutti i testimoni, salvi i motivi personali di ripulsa. Il Tribunale tagliò il male in mezzo. Parte dei testimoni si sentano, parte no; e degli udibili limitò l’audizione a determinati punti. Pertanto vengono i testimoni: sono giovani segretari di ministero, vecchi patrioti, deputati, professori, magistrati, eoe., ecc. E tutti, eccettuati coloro che ne sanno poco o non si rammentano più dei fatti precisi, cozzano contra le pitture incriminate del La Farina. Negano che i famigerati servitori od aguzzini borbonici denunziati nell'epistolario avessero gradi od incarichi dalla dittatura garibaldina.

Crispi nota, che un valentuomo mal trattato nelle lettere di La Farina è professore nell’università di Palermo.

Mosca, difensore di Treves, protesta perché il querelante, facendo pure da testimone, si mostri iracondo, verso gli imputati.

Il testimone Ugdulena non ha udito che il Barcia, processante nel processo Bentivegna, servisse mai il Crispi: e secondo lui, se fecesi uso di depositi particolari, fu per urgenza di pubblica finanza.

L’on. La Porta, già compagno del Bentivegna, ebbe la fortuna di non conoscere il processante; ma crede che capo del gabinetto di Crispi in Sicilia fosse un

Bracco, uno dei Mille, e stima assurda immaginazione il credere alla scelta di un borbonico.

Giorgio Pallavicino, di cui si legge la deposizione, quantunque non sia stato presente all’amministrazione di Crispi e Mordini, li reputa due perfetti gentiluomini ed ingannato il La Farina.

Caccioppo, presidente di sezione alla Corte d’appello di Trani, si manifesta pel più sviscerato di Crispi: non lo trovò mai impegolato con borbonici, che allora avevano sbrattato Palermo, ma ognora circondato da onesti patrioti, fra cui un certo Destefano, che il governo della Consorteria lasciò poi morire di fame (ciò ricordando il testimone rompe in pianto). Attesta che Crispi, per vivere nell’esilio, dovette vendere per diecimila lire l’eredità paterna in Sicilia, e dovette essere soccorso dagli amici, eziandio per fare il deputato a Torino, dopoché aveva preso parte al governo dittatoriale di Garibaldi in Sicilia. Inoltre passando dalla difesa alla gratuita offesa, nota che La Farina avea ottenuto per una spia borbonica... il finimondo... no, la croce di cavaliere.

In seguito si letica fra gli avvocati per sapere se si dovevano aspettare o no le deposizioni raccolte a Palermo; due avvocati si apostrofano vivacemente; ed hanno bisogno di essere smorzati dagli amici.

Invano il difensore di Ausonio svolge incisivamente l’eccezione di prescrizione. '

Crispi grida: il nemico fugge! ma Pamore per la scienza giuridica gli impedisce di augurare e tantomeno di procurare al nemico fuggente i proverbiali ponti d’oro; anzi egli vuole arrestarlo il nemico, impugnandogli la prescrizione.

Il Pubblico Ministero ed il Tribunale, respingendo l’eccezione della difesa, danno ragione al Crispi.

Si rinvia il dibattimento, finché arrivino le deposizioni di Palermo, che concordano nell'eliminare ogni relativo disordine finanziario dall’amministrazione dittatoriale.

Allora il difensore di Ausonio presenta lettere di Cordova, Camerata-Scovazzo, Persano, ecc., lettere che il Crispi respinge ed il Tribunale idem. Perciò i difensori disertano l’udienza in segno di protesta, ma ritornano il giorno dopo.

Il Pubblico Ministero opina essere sussidiaria la responsabilità degli editori, quindi conchiude per l’assolutoria del Treves e per la condanna di Ausonio. L’avv. Mosca, invece difendendo bravamente l’editore, domanda la condanna della Parte Civile in 5000 lire di danni e spese.

L’avv. Guastalla sostiene con chiarezza e vigore l’innocenza del raccoglitore. Mancini consacra due giornate di eloquenza ai diritti della Parte Civile.

Nella notte antecedente al 18 dicembre 1869 il Tribunale Correzionale assolse il Treves e condannò Ausonio Franchi come reo di diffamazione e di ingiuria ad un mese di carcere, a cinque giorni di arresto, alla multa di lire 151 ed alla pubblicazione della sentenza nella Perseveranza e nella Lombardia, obbligandolo a unire il testo della sentenza alle copie

Epistolario poste in vendita.

Il filosofo, che si era difeso con tranquillità socratica, perché aveva raccolto l’Epistolario di La Farina in buona fede, credendo di rendere omaggio alla memoria dell’amico e alla storia patria, sopportò pure la sentenza con rassegnazione e fermezza stoica ed olimpica.

L’illustratore del Razionalismo positivo, il celebrato autore della Filosofia delle scuole italiane, e degli Studi filosofici e religiosi sul sentimento, il maggior critico dei nostri tempi, come lo chiamò il Mittermayer, fin dal 1854 aveva lasciato il suo posto nel Diritto quotidiano al giovane ed abile economista Marazio,per fondare la rivista critico-filosofica settimanale La Ragione. Ausonio, come Socrate nel Critone, non si diede quasi pensiero della polemica e del processo e della condanna. Forse li ritenne atti doverosi per la giustizia sociale, come aveva ritenuta doverosa la pubblicazione dell’Epistolario lafariniano, per la storia e per l’amicizia. Ma se già da parecchi anni, prima di quel processo, egli si faceva lontano dal cosidetto mondo politico, negli anni seguenti cercò di saperne e di udirne il nulla possibile, tutto rifugiato nei suoi studi placidi e vigorosi, e nella sua bella scuola all’Accademia scientifica letteraria di Milano.

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Il Crispi sfoggiò meglio le sue virtù catoniane nel patassio del 1868 e 1869 per i sospetti elevatisi, che alcuni deputati avessero lucrato sulla votazione della Regìa cointeressata dei tabacchi. Le accuse ventilavano su due principali punti: la lettera famigliare del deputato Raimondo Brenna, scrittore della Nazione, mandata il 21 settembre 1868 da Firenze al cognato e collega Paulo Fambri, colla frase divenuta proverbiale «vediamo di guadagnare quattrini;» ed il fatto che l’aw. Salvatore Tringali senza presentare la corrispondente cauzione finanziaria, aveva avuto nell’affare la partecipazione di un milione dal Balduino, Direttore del Credito Mobiliare; onde se ne imputava il favore all’amicizia ed intromissione del deputato Civinini.

Nel sostenere quelle accuse, se il maggiore Lobbia fu l’arciere, Crispi fu il fisco popolare, elettivo.

Nel processo di Milano intentato al Gazzettino Rosa, iniziatore della battaglia contra gli uomini della Regia, il Crispi si era trincerato dietro l’art. 288 del Codice di procedura penale, secondo cui «gli avvocati e i procuratori non possono, sotto pena di nullità, essere obbligati a deporre su quei fatti o circostanze di cui essi non abbiano cognizione che in seguito a rivelazione o confidenza ad essi fatta dai loro clienti nell’esercizio del proprio ministero.» Egli lasciava capire di sapere parecchio, ma solo per confidenze fattegli dai suoi antichi clienti ed amici e banchieri Weill-Schott.

Quello della Regìa fu un processo che si riprese e si rifece parecchie volte, davanti la Camera, davanti la Commissione d’inchiesta parlamentare composta dei deputati Andreucci, Biancheri, Cairoli, Calvino, Gasar etto, Ferracciù, Fogazzaro, Pisanelli presidente, e Zanardelli segretario, davanti al Tribunale di Firenze che condannò il Lobbia per simulazione di ferimento, e davanti la Corte d’appello di Siena che lo prosciolse; ed è un processo non ancora finito per la storia e pel romanzo.

Al cospetto della Commissione d’inchiesta parlamentare il Crispi si presentò ripetutamente nelle sedute secrete e in quelle pubbliche, e dopo aver declinato le sue generalità come un semplice testimone, rispondendo di essere figlio di Tommaso, nativo di Ribera in Sicilia, di professione avvocato, residente in Firenze, e giurando di dire la verità, nient’altro che la verità, tutta la verità, assunse le proporzioni e le fatiche più atletiche; consegnò lui la lettera del Brenna, cui disse di aver avuta in modo misterioso; sostenne un drammatico contraddittorio col signor Cimone Weill-Schott e col sig. Enrico Guastalla; accusò e si difese; disse: «la mia persona e la mia vita stanno in una campana di cristallo, ed è permesso anche ai miei amici di guardarci dentro.» Così fece sapere che poco prima teneva i risparmi del suo lavoro presso la banca Balduino e poi presso quella di Weill-Schott, dai quali aveva fatto vendere 100 obbligazioni della ferrovia Vittorio Emanuele, e 100 obbligazioni del prestito di Firenze mettendone il ritratto in conto corrente per investirlo in una costruzione in via della Scala; e che nell’ottobre del 1868 aveva pure desiderato di sottoscrivere al prestito dei 180 milioni, cosa diversa dalla partecipazione.

Alcune pagine dell'inchiesta sono commoventi, alcune fanno rabbrividire; è straziante la lettera di Civinini, del 3 giugno 1869, la lettera, in cui scriveva: «l’accanimento, il furore contro me sono stati soverchi; mi hanno messo il coltello alla gola; non mi hanno dato tregua; non mi hanno lasciato neppure la libertà di ritirarmi, come è pur mio desiderio, dalla vita politica. Hanno proprio voluto assassinarmi, finirmi... Se il Crispi potesse leggermi nel fondo dell’anima e fosse capace di intendere i miei sentimenti, proverebbe un dolore certo più grave di quello che può avergli procacciato la seduta di ieri: il rimorso di aver offeso, e per quanto stava a lui, assassinato un uomo, che anche oggi, benché tanto offeso, è dolente di aver dovuto fare a lui del male.» Furono violenti i balzi di questo principale accusato, quando dal testimone deputato Curzio sentì menzionare il denaro, che doveva servire a lui Civinini per pagare la balia... Scattò in piedi coll’impeto di un padre ferito nel corpicino del bimbo che gli vagisse nella culla, e gridò: «Oh santo Dio! Protesto... Non posso lasciar portare qui dentro gli affetti più intimi della vita privata...» e poi sferrò un vigliacchi!

Allora il testimone: «Ho creduto mio stretto dovere di raccontare tutto. In ciò fare io non ritenevo di recare personalmente offesa ad alcuno... Quanto alle mie qualità personali, dico che da vent’anni ne ho dato saggio e colle mie azioni e colla mia povertà. Io non sono un vigliacco... (con calore). Per trent’anni ho servito la patria e non ho domandato né un grado, né una decorazione, né un soldo...»

Il presidente tutelò alla meglio la dignità della congrega e il rispetto della giustizia; e l’incidente, come si dice, ebbe onorevole soluzione fuori di quel recinto.

Da quei processi micidiali il Civinini uscì affranto, e morì non molto dopo, il 19 dicembre 1871, nella natia Pistoia; mori poverissimo, non senza essersi narrato che egli avesse persino impegnata la medaglia di deputato al Monte di Pietà per cavar la fame a sé ed ai suoi.

Non solo davanti la Commissione d’inchiesta parlamentare, non solo davanti i Tribunali e le Corti di giustizia passò quell’ululato di moralità straziata. Ma tutta l’Italia fu un rimbalzo ed un’eco invadente di note drammatiche patetiche o minacciose.

In ogni villaggio ricomparve il pittoresco cappello di velluto, col pennacchio quarantottino, e si nomò cappello Lobbia.

Allora corsero per la Penisola le vociaccie più cupe, le panzane più madornali, le negazioni più mefistofeliche. Si esposero di nuovo quei ritratti degli eroi delle Ferrovie meridionali, che Cletto Arrighi avrebbe voluto coperti di un velo nero, come nella Galleria dogale, il ritratto di Marin Faliero, decapitato pro criminibus. Si appioppò al Balduino della Regia il cupido ingegno scorto dal Padre Eterno nel Baldovino della Gerusalemme Liberata:

Ma vede in Baldovin cupido ingegno

Ch’all'umane grandezze intento aspira.

Si vociferò persino la fiaba che il prelodato commendatore fosse scappato in Isvizzera, come un cassiere qualunque si fosse; ebbero voga le pillole velenose di pidocchio e le diniegate autopsie, e si canticchiarono osceni ritornelli e il «passa Lobbia», e si udirono le grida scamiciate delle vestali di via dell’Amorino; — i carrettieri, quando infellonivano contro un giumento imbizzarrito, frustandolo e bastonandolo, lo salutavano col nome di qualche ministro in carica; e poi se ne pentivano, quasi avessero fatto torto alla bestia. La più gentile etopeia del ministero d’allora è resa con lo stile scolastico del Nuovo metodo, in una poesia sguinzagliata da un ribelle studente di quei tempi, salito poi insigne professore ad una cattedra di letteratura:

Menabraa, quel bigottone,

Con Dignv fa gozzoviglia;

Terzo vien Gigi Nappone;

Fa Pironti la quadriglia;

Con Bargoni v’è Mordini,

Ex-amico di Mazzini;

Ribotty, Berthollè-Viale,

L’avvenente generale.

Ma costor chi son? Soggetti

Da comparse e da corista,

Messi a petto al gran Minghetti,

All’immenso economista!

…………………………………………

Fino a quando, o giuraddio!

Durerà tal buscherìo...?

Quando, stanca di tal festa,

Vorrà Italia alzar la testa?

Gli studenti di più facile erudizione, alla notizia del ferimento di Lobbia, estrassero dall’epistolario del Giusti una lettera scritta nel 1832 e la applicavano come cerotto ai guai del 1869. «In una pubblica via è stato bastonato un pover uomo, che aveva avuto la sfacciataggine di smascherare alcuni ladri del paese. Ed è stata cosa ben fatta, perché le maschere devono essere rispettate, e non è lecito ad un onesto cittadino alzare i panni a chi vuole peregrinare su questa terra incognito, come fanno qualche volta le Altezze e le Maestà. Pure le autorità costituite della provincia hanno trovata fuori di regola quella bastonatura, e si sono messe a perseguitare con ogni possibile ricerca il maestro di cappella, che ha saputo battere così bene la solfa. I bracchi hanno frugato e annusato per tutto, ma inutilmente; — la fiera non è scovata. Ora, come conciliare tanta pubblicità nel fatto con tanta incapacità a rintracciarne l’autore nella capacissima polizia, la quale è buona a ritrovarti per l’immensità dello spazio un sospiro dodici anni dopo che è stato tirato? Diversi sono stati i pareri dei satrapi: chi ha detto che il bastonatore non è del paese; chi ha pensato che il poveruomo si sia bastonato da sé; e v’è stato anche il temerario che ha osato supporre che il Bargello si sia lasciato unger la mano per abbuiare la cosa.»

Allora si imbavagliarono di fatto con ammonimenti ufficiosi e minaccio ufficiali le gazzette degli, annunzi giudiziari. Insomma era tutta una tela misteriosa, da cui si può ricavare tuttavia il miglior romanzo francese, d’effetto tale, che i proprietari dei giornali italiani lo acquistino a gara per le loro appendici.

Noi non essendo occupati per ora a scrivere un romanzo da pian terreno di giornale, ci restringeremo a dare per chiusa narrativa di quell’affaraccio un tratto della difesa del Fambri e il sunto delle risoluzioni della Commissione d’inchiesta parlamentare.

Il Fambri, in una vocale relazione fatta ai suoi elettori di Venezia, fra le altre cose osservò «come le delazioni o maligne o avventate non ottengano l’effetto di demolire le riputazioni degli onesti, che per buona ventura sono granitiche, e lo prova il fatto di tanti denigrati da anni ed anni, e pur sempre locati altissimi dalla fiducia degli elettori e della nazione; ma come ciò riesca a degradare un paese che nei proprii uomini politici, da Cavour a Garibaldi, da Fanti a Mazzini, da Ricasoli a Farini e Minghetti, da San Martino a Bertani ed a Crispi, ha il primato del galantuomismo, perché nessuno si è arricchito, neanche mediocremente, nella pubblica gestione.»

La Commissione d’inchiesta parlamentare, nel suo responso del 12 luglio 1869 prosciolse tutti i deputati citati dall’accusa di illecita partecipazione nelle operazioni della Regìa; taluno per essere stato involto nell’inchiesta da un mero e lontano equivoco, e questi era l’egregio Nervo; altri, cioè il Frascara e il Servadio, perché non avevano preso parte alla discussione, né alla votazione della legge, avendo la Commissione stabilita la massima: «che l’astensione esonera il deputato dalla responsabilità della partecipazione ogniqualvolta manchi, come nel caso, ogni circostanza che possa qualificare sfavorevolmente l’astensione medesima»; in riguardo poi al Fambri e al socio Brenna, perché la partecipazione fu assunta dopo la votazione, in buona fede e senza segreto; infine, quanto al Civinini, considerando anzitutto «che dal difetto di ragionevole spiegazione della partecipazione Tringali non è lecito inferire che glie l’abbia procurata il Civinini per la sola circostanza dell’intima amicizia che stringeva quest’ultimo al Tringali», e per ogni altra investigazione ritenendo «non risultare prova alcuna che la partecipazione del Tringali sia dovuta a qualche fatto del Civinini, e tanto meno che egli ne abbia avuto un profitto personale.»

Però la Commissione non iscompagnò dalle sue assolutorie alcuni utili avvisi: espresse il desiderio «che prevalga la consuetudine che i deputati concorrano a votar le leggi e si astengano piuttosto da quelle posizioni che li mettono nella necessità di astenersi dal voto;» ed avvertì «a quanti sospetti possa dar luogo una partecipazione assunta da un deputato pochi giorni dopo la votazione di una legge, e come importi riprovare questi fatti affinché non si abbiano a rinnovare in nessun modo.» Infine la Commissione non potè astenersi «dall’esprimere la penosa impressione che quella lettera (del Brenna) le produsse.»

Insomma: molto rumore per nulla! si dirà.

Però, riconosciamolo: meglio quelle tempeste di moralità offesa; meglio quelle accuse atroci e quelle difese sanguinose; meglio tutto quell’uragano, che non i succeduti accasciamenti ed addormentamenti, meglio quel subbisso di bufera, che non il venticello, che susurra negli anditi: il tale è un ladro maledetto, ha dato di morso in quella società ferroviaria, ha abboccato in quel trattato di navigazione, si è rinfiancato fra ruffiani, baratti e simili lordure; ma se il tale passa vicino, tutti salutarlo carissimo collega. Meglio quello sprangare degli odii, che non lo strimizzirsi in una ilare ed inerte preparazione alla dissoluzione civile, come ne strozzasse un dolce e solleticante incubo, a cessare il quale non possiamo muovere un dito.

Da quella fiera burrasca l’Italia uscì e trovò presto la perla dell’andata a Roma.

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Il Crispi, che nel 1867 era stato al campo garibaldino, per scongiurare il conflitto con le nostre truppe regolari, fu tra i più feroci stimolatori dell’andata a Roma nel 1870, e raccolse egli e pubblicò le generose lacrime sparse dal Lanza in seno all’ambasciatore francese dopo la clade di Sédan.


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Crispi incarnazione del partito

A Roma il Crispi portò lentamente la Riforma,? il giornale da lui fondato col motto baconiano: Instaurano ab imis fundamentis.

La instaurazione più cocciutamente da lui voluta fu l’elevazione della Sinistra al potere.

Al contrario di fra Bonaventura di Bagnoregio, si può dire di lui che

………… ne’ grandi uffici

Sempre prepose la sinistra cura.

Egli dichiarò ùltimamente alla Camera che appartiene al partito e vi milita fin dal 1842.

Nel compianto parlamentare per la morte di Urbano Rattazzi, fattosi nella tornata del 5 giugno 1873, il Depretis e il Crispi s’atteggiarono a generali, successori d’Alessandro. Il Depretis disse: «Questa parte della Camera (facendo cenno alla Sinistra permettetemi, o colleghi, che io lo dica, perde una guida e un capo impareggiabile;» poi ebbe la bontà di soggiungere: «ma chi perde di più, o signori, chi perde e soffrirà di più per la morte di Urbano Rattazzi, è la nostra madre comune, è l’Italia.»

D Crispi alla sua volta sgorgò, per soddisfare al desiderio degli amici e ad un voto del cuore, questa elegia politica:

«Diceva benissimo il deputato Depretis, che gli uomini, i quali siedono da questa parte della Camera, perdono (per la infausta morte di Urbano Rattazzi) la guida e il capo, al quale, io debbo soggiungere, è difficile trovare un successore.»

E narrò: «Ieri, vedendolo al suo letto di morte, la prima cosa, della quale egli mi chiese con vivissimo interesse, fu di quello che si facesse alla Camera. Congedandomi, egli non ebbe altre parole che queste: — Tenete stretto e forte il partito (movimento).

«Questo concetto, che non dispiacerà certo all’altra parte della Camera, sarà anche un ricordo di un dovere per coloro che seggono su questi banchi.

«I partiti, signori, sono necessari alle instituzioni parlamentari; senza di essi è impossibile che le istituzioni stesse si reggano e collimino al bene di tutti. Se i partiti mancano o se vacillano, le istituzioni non possono a meno di pericolare.»

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Pell’avvento della Sinistra al potere nel marzo del 1876, venne riservato in pectore al Crispi, che era stato vice-presidente nella IX Legislatura, il posto di presidente della Camera, che egli occupò di fatto dopo le elezioni generali del novembre.

Allora egli, l’uomo che sa sintetizzare le situazioni con un motto, salito al seggio, scovò la magnifica formola ad hoc: «ricorderò ognora il posto dove sono e non la parte donde vengo;» e seppe riuscire presidente più solenne che satrapesco; quantunque a lui, che aveva abolito il baciamano e il titolo di eccellenza in Sicilia, si appuntasse l’accresciuta avanguardia e il codazzo degli uscieri.

Nelle vacanze estive del 1877 viaggiò autorevolmente all’estero; e si fece commentare pelle sue citazioni dantesche antipapali nei pranzi ghibellini dei. politici tedeschi e pel suo telegramma di saluto confidenziale all’imperatore Guglielmo. A Monaco si pubblicò la celebre conversazione di Gastein, nella quale Bismark, mantenendosi duro sul Trentino, avrebbe consigliato il Crispi a rifarsi su Nizza, sulla Corsica, sull’Albania e sulla Tunisia.

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Ritornato in Italia con quell’aureola viatoria, non andò molto che, per la caduta del Nicotera, venne invitato ad occupare il ministero dell’interno. Ma il Crispi, prima di degnarsi di accettarlo, esigette che il Parlamento si spicciasse ad approvare la transazione del Governo con gl’impresari Charles e Picard, di cui egli era stato consulente e patrono legale, e per cui aveva ottenuto dalle Corti una sentenza stupefacente, a detta di qualche pezzo grosso; ed esigette quello spicciamento a fine di poter salire al potere netto di impicci e interessi professionali verso il Governo. Ma egli potè rimanere poco tempo al ministero; neppure i cento giorni del ritorno dall’Elba. Pur egli ricorda volentieri i suoi settanta giorni d’impero; e li elogiò ultimamente, pigliando atto che amici ed avversarii abbiano riconosciuto in lui uno di coloro i quali hanno reso e possono rendere qualche servizio al Paese.

In quei settanta giorni non ebbe pur occasione di presentare il suo programma abbracciante, oltre all’allargamento del suffragio e lo scrutinio di lista, l’indennità ai deputati, l’esclusione degli impiegati dalla Camera e la trasformazione del Senato in corpo elettivo; ssia, come si esprime il Calati, «dare per base alla sovranità nazionale la sovranità individuale e la sovranità comunale, rendendo la monarchia magistratura e non proprietà, funzione pura e semplice, pegno di ordine, di sicurezza, di stabilità.» Onde il Gambetta mandava allo stesso ammiratore Calati il seguente giudizio sul Crispi: «M. Crispi est au dessus de tous vos hommes politiques par ses principes et par ses vues. Sa main puissante est destinée à accomplir un prodige politique: l’affermissement de votre monarchie constitutionnelle et l’établissement de la démocratie royale.»

Intanto della democrazia regale, ossia della regalità democratizzata, il Crispi, nel suo breve ministero, non potè dare altro saggio, fuorché facendo seppellire il gran Re nel Panteon di Roma, e cospirando a dare il titolo di I al giovane Re Umberto IV di Savoia.

Il ministro saraceno s’inchinò pur esso, tenendo in mano il cero acceso, intorno al letto del morente monarca italiano e cattolico, e lo si sarebbe detto Satanasso in ginocchione, quando sentì l’annunzio del senatore dottor Bruno: «il primo Re d’Italia è morto. Pare riposi dopo un lungo e glorioso lavoro.»

Molti, e di ogni partita, seppero dare al Crispi grande lode per aver mantenuta egregiamente la tranquillità e la dignità pubblica durante le commozioni straordinarie per le morti di Vittorio Emanuele e di Pio IX, ossia nello scomparire del principale autore e del principale oppugnatore del Regno.

Lo stesso Zini, che rimproverava al nuovo ministro dell’interno di avere soppresso con un tratto di penna la Direzione generale delle carceri, scrisse: «Niuno discreto vorrà questa lode disputargli, dello avere esso provveduto saviamente in quelle gravi contingenze che ne apportò la morte inaspettata di re Vittorio Emanuele glorioso, l’assunzione al trono del giovane re Umberto, e poco stante la morte di Pio IX, il Conclave e la esaltazione di Leone XIII. E ammetto che nel primo la commozione universale degli animi non potesse sortire altra manifestazione che del reverente compianto; ma per li casi di poi ben poteva aversi dubbio di qualche turbamento; ed importava molto attestare all’Europa ed alla Cattolicità come veramente la nazione italiana avesse fatta e mantenesse sincera, interissima la libertà e l’indipendenza del Papato. Di certo i cittadini sentirono unanimi di quello che dovevano; ma non è men vero che il Governo del Re guardò alle cose maggiori, serenamente provvide; sicché né da fuori né da dentro gli fu ricusato il debito encomio.»

Chi glielo ricusò fu il truce Petruccelli, il quale nella sua Storia d’Italia dal 1866 al 1880 (Epoca quarta: I disinganni, XXI) attossica fosforicamente la gloria dei settanta giorni, notando: «La chiusura codarda del Parlamento, in presenza del conclave, che aveva offeso i deputati e stupefatto il paese, consigliato aveva ai deputati restati a Roma di provvedere al loro onore, agli interessi e alla dignità nazionale. Quindi di dare un voto di sfiducia al Gabinetto, maculato anche dalla condotta del Crispi nella sua vita domestica e con l’esorbitante atto di fare, per ordire, quasi transigere, a grande scapito degli interessi dello Stato e grosso benefizio dei suoi, la causa di una sua cliente: la Società Picard e Vitali. Alla reprobazione pubblica — dolente ma forzato — e respinto pure dal Depretis, il quale voleva sbarazzarsene — e per calmare altresì l’emozione della Corte, sopratutto della regina, per lo scandalo delle tre mogli viventi ad un tempo — Crispi, dico, aveva dovuto dare la sua dimissione, il 7 marzo.»

Allora alte e diverse grida n’andarono per l’Italia. I giovani che ricordavano di aver letto con un palpito di emozione patriottica nelle storie garibaldine la fortezza della donna che aveva accompagnato il Crispi nella spedizione dei Mille, credettero di dovere cavallerescamente imprecare contro di lui; altri, che erano in perfezionamento di studi fra popolazioni puritane, sentendo dir raca di noi, concepirono il proponimento di sciogliersi dalla cittadinanza italiana e. di emigrare in America.

Altri, con leggerezza da operetta offenbacchiana, paragonarono il Crispi al Barbebleu; altri barzellettarono empiamente, ricordando il motto, che chi impalma una seconda moglie non merita di aver perduta la prima: e proposero due statue al Crispi come benemerito delle istituzioni del matrimonio e del divorzio; nell’una un gruppo di tre spose, e nell’altra un gruppo di tre divorziate: e tutte a lui rivolte esclamanti: Adveniat regnum tuum.

Altri difendevano il Crispi con l’esempio del rispetto inglese al testo legislativo; per cui un marito che aveva sposato cumulativamente tre donne ne era andato assolto, essendoché la legge definisce per bigamia il reato di chi si sposa insieme due donne e non già tre donne.

Altri infine tenevano la via di mezzo, la via giusta e dicevano: sono questioni private, di cui il pubblico non si deve immischiare.

Qualche gazzetta pubblicò facsimili di contratti matrimoniali a Malta ed altrove. Ma il Crispi difese con asciutta ed altezzosa abilità la sua condotta legale dal punto di vista del diritto canonico e civile che vigeva nelle Due Sicilie, durante il suo precedente matrimonio, invalido perché mancante della richiesta iscrizione. E la sua difesa fu completamente vittoriosa davanti ai tribunali.

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Dopo che fu assunto il Cairoli al ministero, il Crispi partì per un nuovo viaggio all’estero, quasi castigando l’Italia con la sua assenza e rugghiando come uno spirito d’abisso, che vuota stringa la terribile ugna; in una lettera al direttore del Bacchiglione lanciò al vincitore Cairoli il memento, che doveva a lui Crispi, se aveva potuto combattere e rimaner ferito sotto le mura di Palermo.

Ritornò in Italia raddolcito, quasi svaporato; allora continuava la luna di miele del ministero Cairoli.

Nel giugno del 1878 pareva che la respirazione politica si fosse dilatata; un senso di benessere invadeva la vita parlamentare.

I politici ingenui credevano di trovarsi già senza Destra e senza Sinistra, e di trovarsi bene come se a loro si fossero strappati due denti cariati che li mettessero continuamente di cattivo umore e di tanto in tanto li facessero maledettamente guaire. E si. stropicciavano le mani, e congratulandosi seco loro per la propria ingenuità dicevano a se stessi: «Ah! ce ne volle prima di porgere le ganasce al dentista! Appena ci approssimavamo al suo gabinetto, il male di denti ci faceva la celia di chetarsi, e noi allora fronte indietro; ma appena èravamo ritornati a casa nostra, il maledetto male ripigliava più accanitamente di prima il suo martello.

«Ma ora, laus Deo! l’operazione è fatta.» Eccome credevano di starci bene alla Camera! In onta al corso forzoso della carta monetata, pareva fosse ritornata l’età dell’oro, quella in cui le piante sudavano latte-miele, i fiumi portavano vino di Chianti e vernaccia di quella migliore, si legavano i pali delle viti con metri lineari di salciccia, gli agnelli andavano alla scuola serale insieme con le tigri, e le tortore tubavano duetti d’amore con i corvi.

Crispi sembrava che se le avesse già scosse tutte di dosso e con un solo scrollone quelle poche che aveva ricevute, ed anch’egli volle fare allegramente la sua parte, che gli spettava nei duetti della nuova età saturnia.

Ma quasi per invelenirlo si propalò un aneddoto parlamentare, che interessò eziandio le signore.

L’onorevole Crispi, nella sua assenza, era stato eletto membro della Commissione sul progetto Morelliano del divorzio, attesa la speciale di lui competenza in fatto di matrimonii; ed egli non credette bene di accettare l’onorifico mandato.

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Nel dicembre 1878, il Crispi fu fra i principali tiratori nel fuoco di fila che fece cadere il primo Gabinetto Cairoli. Sentiamolo a svolgere la sua interpellanza.

Egli emette una parola ogni cinque minuti: passa per tutti i toni, dal sottovoce al colpo di cannone, tira i registri, fa. delle giravolte, pesta i pedali.

Un impaziente notò le seguenti impressioni:

«Se fosse possibile immaginare un paesaggio acustico, il discorso del Crispi si potrebbe paragonare a un paese di una varietà e maestà tremenda, tremendae majestatis, da vincere la fantasia dei più esaltati pittori di parafuochi: all’altissimo monte succede per bruschi saliscendi la vallata profondissima; questa a un tratto è troncata da una elevazione a picco; nella vallata pecore verdi, buoi azzurri e cani gialli da pastore.

«Ciò, di cui non si potrà rimproverare il difetto all’onorevole Crispi, è la prosopopea.

«Il dio Brama, se discendesse in persona sulla terra ad arringare i suoi fedeli credenti indiani, non potrebbe parlare con accento più autorevole di quello che adopera l’onorevole Crispi nello spargere i dommi della sua infallibilità sul capo dei suoi indegnamente onorevoli colleghi.»

«Ma (concluse quell’annoiato alla disperazione), chi può seguire in sostanza il filo oratorio dell’onorevole Crispi nelle capresterie, nelle eclissi e nelle risurrezioni sfolgoranti e altitonanti delle sue parole?»

Con autorità cattedratica il professore Crispi assicura che c’è equivoco nei concetti di prevenzione e di repressione. La pulizia preventiva deve esercitarsi da qualsiasi governo; ma bisogna esercitarla con grande sentimento di prudenza, di giustizia e di moralità.

E qui rievocò il fantasma del Barsanti.

Seguitò dicendo: «l’onorevole Cairoli ha difeso il Re, ed è la sola invidia che i patrioti gli possano portare.» :

Domandò al ministero una risposta rassicurante per la monarchia e per le libere instituzioni.

— Il ministero...

E poi l’oratore si divincola, squadra a squarciasacco i deputati vicini, poi sporge le grosse labbra minacciosamente... Chi sa quale parolona mirabolante verrà dopo la voce ministero?

Invece dopo un incubo di parecchi minuti sulla parola ministero, e dopo le più promettenti ripassate di pezzuola sulla calvizie sudata, l’onorevole Crispi esce semplicemente in un il quale. Quindi dà un pugno sul quale, e si arrota per un pezzo sul medesimo.

Ma pure tra un quadro plastico e l’altro all’onorevole Crispi riesce di dirne delle belline.

Al sentirlo veniva in mente ai colleghi proverbiosi: La volpe vuol ire a Loreto! — Ferraù frate? — Ferraù cristiano? — Il diavolo, quant'è vecchio, si fa cappuccino.

Molti pendevano ammirati dalle labbra del valoroso saraceno, che fattosi catecumeno nella sua vecchia età, diceva: «L’onorevole Minghetti ha avuto ragione di citare come severissima la legislazione inglese sulle associazioni. Durante il mio esilio, assistei a molti meetings in Inghilterra, e vi posso attestare che là il nome del re e la religione sono sempre rispettati nelle riunioni; sono superiori ad ogni attacco.

«... La nostra educazione politica non è ancora fatta.»

E per soprassalto: «I discorsi di ieri, l’atmosfera della Camera, quest’aria mitingaia italiana che mi ricorda i brutti momenti del 1848 e del 1860, non mi persuadono... (rumori a sinistra).

«Noi combattevamo, quando i meetings tacevano... (tempesta di disapprovazione a sinistra. Bene! da altre parti).

— Andate a destra! — gli tuona il Mazzarella, professore d’interruzioni.

— No! sono qui! e qui rimango! — ripicca testardamente il coraggioso vegliardo.

Certo fu spocchia da diavolo frate, che predichi sul pulpito, quella di rimproverare la retorica parolaia davanti a Benedetto Cairoli che, come i suoi quattro fratelli morti per l’Italia, diede, secondo l’espressione del poeta, a gustare delle sue carni a tutti i ferri dei nemici del Paese — davanti a Benedetto Cairoli ancora zoppicante per la sovrapposizione delle ferite... antiche e modernissime.

Mancomale il Crispi propose anche lui il suo bravo voto di sfiducia al ministero; e per seguire la terminologia dei venti, se gli altri ordini del giorno furono

Minghetti-Mari, Paternostro-Nicotera, ecc., quello del Crispi fu Crispi-Crispi.

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Nella discussione di politica estera, che avvenne nel febbraio del 1879, si sentirono alcuni di quei dilettanti che possono divertire od annoiare il pubblico, e possono altresì suocciolare delle verità popolari buone per un lontano avvenire; ma che pel presente non levano un ragno dal buco; non dànno le mosse ai tuoni; e non producono nissun effetto immediato sulla borsa e sui circoli diplomatici.

Invece un po’ diversi si pretendevano gli effetti oratorii di coloro che come il Crispi erano stati ministri ed erano in predicato o in isperanza di ritornar tali e avevano fatto un viaggio all’estero ottenendovi un pranzo di qualche importanza telegrafica.

La Destra ebbe così grave torto, nel volere freddamente monopolizzare per il proprio partito ogni importanza dell’Italia all’estero, che Crispi ebbe ragioni da vendere nel combatterla. Egli adoperando la solita mimica parlamentare già descritta, e sbuffando ancor più del solito ed alzando ed appuntando le braccia, come volesse guidare una sommossa popolare od indicare al mondo e alla storia un esecrato tiranno, seppe dire le più fondate, le più documentate e le più schiaccianti cose contra le vanterie di politica estera fatte dalla Destra.

Egli scagionò coi testi del Libro Verde il ministro Melegari di avere avuta troppa tenerezza verso il ministero francese di Broglie; e dimostrò per lo contrario quanto fossero stati servili i ministeri della Destra, siccome quelli che erano stati fino al 1870 umilissimi servitori della Francia di Napoleone III, tanto che alla caduta di questi era parso che l’Italia rimanesse senza un tutore.

Egli dimostrò come, nonostante la carità fraterna dei Destri, i quali si adoperarono per mettere in mala voce i Sinistri all’estero (infatti un partito serio deve sempre preferire il disdoro e i danni del Paese all’onorato trionfo del partito avversario), l’avvenimento della Sinistra al potere non aveva fatto venire i denti diaccinoli né al Bismarck, che la complimentò espressamente, né all’Andrassy, non ostile e non nuovo certamente alle più spiccate idee di progresso liberale, siccome quegli che per la libertà nel 1849 era stato condannato a morte.

Conchiuse il Crispi dichiarando come l’Italia con la politica estera della Sinistra aveva compiuto tutto il suo dovere possibile verso quei principii di nazionalità e di libertà, in nome dei quali eravamo risorti da ieri; e che dovevamo stare vigilanti per riaffermare possibilmente quei principii a vantaggio dei nuclei di nazionalità, che per gli ultimi avvenimenti si erano formati nella penisola balcanica.

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Nell’aprile del 1879 era venuta la volta della politica interna.

Sella sorse a dire: «Qui trattasi del mantenimento delle istituzioni e siamo in presenza di tentativi per rovesciarle (rumori a sinistra).

«In questa condizione di cose anche a noi oppositori sembra dovere di patriottismo appoggiare il Governo. Disse il Guardasigilli che qui non è questione di partito. E ha ragione. Alla proposta fatta si deve rispondere con un cortese rigetto, ossia col rinvio a sei mesi della mozione Cavallotti. Sopra questa questione dimostriamo che il Parlamento sostiene il Governo (Bene! a destra).

Crispi. «Tutti siamo animati da zelo per le istituzioni. L’appello del Guardasigilli con fine arte accolto dal capo dell’opposizione...

Sella. Non c’è arte. Protesto. ’

Crispi. «Domando che la mozione Cavallotti sia discussa domani.

Sella. «Protesto contro la parola arte che fu usata. E non ammetto che si possa dubitare che in sì gravi questioni non si sia mossi dal più puro patriotismo.

Crispi. «Alle corte. 0 il ministero vuole essere appoggiato dalla Destra o dalla Sinistra (Bene! a sinistra — rumori — agitazione).,

A questa intimazione il Depretis non osò accettare la sospensiva proposta dall’onor Sella, che quindi la ritirò; ed uno dei soliti ingenui emise un grido addolorato, poi bisbigliò: «L’onorevole Crispi sarà stato abilissimo, come capitano, stratego di Sinistra, nell’aver mandato a picco una mozione venuta magnificamente dalla Destra. Ma davanti ai nemici comuni delle istituzioni e per la difesa dell’unità e della libertà costituzionale d’Italia il dire al Governo del Re: — Alle corte! 0 il ministero vuol essere appoggiato dalla Destra o dalla Sinistra! — suona quale grido di un convinto partigiano, piuttosto che di un patriota di cuore.

«Davanti ai nemici della costituzione il ministero deve essere difeso da tutti coloro che si trovano nell’orbita dello Statuto; e se in questa questione la Camera avesse dimenticato di essere frazionata in Destra e Sinistra, e gli uni avessero accettato le forme e le iniziative degli altri, il Paese avrebbe fatto onore alla sua solidità e alla sua estimazione anche fuori d’Italia, e il Parlamento non avrebbe perduto un giorno di più in una discussione sterile ed irritante.»

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Lo stesso ingenuo scriveva alla Gazzetta del suo cuore, quasi un anno dopo, il 9 marzo 1880:

«La secchia della partigianeria, a forza di andare nel pozzo, vi è restata; e chi ha dato una strappatina alla corda fu l’onorevole Crispi, il quale volle troppo sprofondarla.

«L’onorevole Baccarini, il quale è tagliente come un utensile dell’epoca della pietra, arroncigliò la corda mentre era calata in giù; quindi cagionò un vero annegamento, una vera sepoltura alle speranze e alle manovre di Crispi, onde era riempita la secchia.

«Molta forza di questo uomo consiste nell’attribuirsene.

«Per poco egli non è paragonabile politicamente a Semiramis, che libito faceva licito in sua legge.

«Ne diede saggio ieri nell’ordine del giorno Omodei, che imponeva per la linea Siracusa-Licata un criterio diverso da quello della legge generale.

«Il ministro dei lavori pubblici si rifiutò vigorosamente di accettare questo sviamento, quantunque esso fosse altezzosamente patrocinato dall’onorevole Crispi nella sua qualità di presidente della Commissione del bilancio; anzi parlando nel più grosso e netto corsivo di cui sia capace un perito calligrafo, l’onorevole Baccarini disse fieramente che egli non sarebbe restato neppure un quarto d’ora al ministero, ove avesse dovuto patire la tolleranza o la protezione di chicchessia.

«Allora l’on. Crispi sorse sulfureggiando come un Mongibello; ma si era alle sette pomeridiane, quindi il presidente ci mandò tutti per lo meglio a pranzo.

«L’opinione pubblica approvò il Baccarini, la stampa idem il Consiglio dei ministri idem: quindi pare che per ora della intromissione forzata d’elementi crispiani nel ministero non ci sia più alcun pericolo.

«Se l’ordine del giorno Omodei fosse stato sottoposto alla votazione della Camera, avrebbe riportato una certa sconfitta; quindi l’on. proponente, fatta di necessità virtù, lo ritirò; e ne venne annacquato un altro in camera charitatis.

«Per grande desolazione degli amanti puritani del sistema rappresentativo, le vicine elezioni generali appariscono come una preda da acciuffarsi in una gara dei partiti.

«Di qui la marcia forzata del Crispi verso il ministero.»

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Poco dopo, il 15 marzo 1880, il predetto ingenuo, scrivea: «La seduta della Camera odierna attira un interesse speciale. Il leader, anzi lo tzar della Sinistra autocratica doveva esporre di nuovo le sue idee sulla politica estera. La Camera dal basso in alto era quindi affollata.

«L’on. Crispi diede lentamente principio alla sua sbottonatura, facendo vedere alla Camera il suo noto gilet bianco, che ha il punto di colore dei suoi baffi, e buttando giù le sue frasi ora sottolineate con l’accento meridionale, ora accompagnandole coi suoi gesti brevi, rapidi, cubitali.

«La prima parte del suo discorso aveva alquanto malcontentato i Centri; la seconda fu più temperata. Naturalmente volle novellamente dimostrare che la politica estera della Sinistra fu la conseguenza di quella della Destra, ligia sempre alla Francia fino alla caduta del Napoleone, poi incerta, balorda, isolata. A più riprese deplorò la mancanza di un uomo di genio al ministero, il quale avrebbe fatto tante belle cose.

«Quel genio, ogni qualvolta compariva nel discorso, faceva sorridere maliziosamente molte persone. — Lo si intravedeva sotto il gilet bianco dell’on. Crispi, ed anch’egli pareva se lo guardasse con compiacenza.

«Il discorso, che era venuto mitigandosi man mano, fu nella conclusione mitissimo: — Non chiederò conto del passato, ma desidero un pegno per l’avvenire.»

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Il Cairoli si provò invano, per Crispi, a dare questo pegno. Il Parlamento ne pareva soddisfatto, ma Crispi, no.

L’Austria (come se ne erano avvisti anche gli ingenui), la stessa Austria si era sforzata a capire visibilmente ciò che essa sapeva già prima meglio di tutti, cioè che il Governo italiano non aiutava una maledetta gli irredentini, e che anzi si sarebbe tenuto assai contento di poter redimere i terreni incolti abbondanti sulla superficie del Regno.

L’Inghilterra ne diceva bravi! La Francia ci faceva ancora dei complimenti.

Tutta l’Europa e tutto l’orbe, salvo la Destra e il genio incompreso dell’on. Crispi, si dimostravano K soddisfatti del nostro torneo di politica estera; essendo così facile a chicchessia il contentarsi sui minchioni che v non sanno fare del male ad una mosca.

Ma Crispi, vedendo l’ostinazione del ministero nel ricusargli il brevetto di genio patentato, nonostante che vi fosse il suo Miceli dell’antica Riforma al ministero di agricoltura e commercio, si sfogò addirittura nel dare una presa di bestiona all’autorità. governativa, paragonando i repubblicani e gli internazionalisti a toreadores, che coi loro nastri e colle loro bandiere si spassassero a imbizzire il toro.

Finito il discorso, l’uomo di genio prese i suoi cartabelli sotto il braccio e se n’andò. E l’ingenuo a gridargli dietro: Al nemico che si ritira, ponti d’oro.

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Il 3 maggio 1880, l’ingenuo si dava una grande fregatina di mani, scrivendo al suo giornale: «Il gran cavallo di Sinone (che tale fu la presidenza del Crispi nella Commissione del bilancio) non servì per stavolta a conquistare la Troja del potere; non si minarono le porte, né si fece veruna breccia nelle mura per introdurre il mostro in città e collocarlo sull’alta rocca; quindi Cassandra per ora non ha da vaticinare l’ultimo dì neppure del Senato elettivo.

«Lo scioglimento immediato della Camera con lo incarico all’attuale amministrazione di rimanere al governo, era l’unica uscita decente, necessaria nella critica condizione di cose parlamentari.

«Si può dire che la Camera, di cui abbiamo dinanzi il cadavere caldo, si è ammazzata da se stessa colle sue gare personali.

«Nessun governo poteva oramai più esistere con essa, nessun gruppo vi poteva contare per qualche» cosa di vitale, né i ministeriali in minoranza davanti i coalizzati, né l’accozzaglia dei coalizzati di eterogeneità dichiarata, né ciascuna frazione dei coalizzati, che presa separatamente non levava un ragno da un buco. Quindi lo stesso buon senso costituzionale suggeriva che una Camera impotente persino ad usufruire d’una vittoria dovesse scomparire, e che il giudizio fra lei e il ministero fosse deferito immediatamente al Paese.

«La durata dell’esercizio provvisorio ristretta a un mese necessitò che si bandissero precipitosamente le elezioni generali. E anche ciò sarà tanto di meglio.

«Non si avrà troppo tempo per i brogli, gl’imbrogli, le manipolazioni, le suggestioni, e per tutti gli altri artifizii elettorali. Si coglierà più genuina la volontà del Paese, e la si servirà in tavola, se non è irriverente l’espressione, come un risotto all’onda. Così il responso della nazione non potrà certo avere

la lunga motivazione delle sentenze, ma sarà per converso un verdetto del sentimento, e ognuno sa come spesso colga meglio nel segno la botta improvvisa del sentimento, che non l’arrabbiatura del calcolo più protratto.

«Ma contro a sì consolante armonia nel nostro interno, oh sentite che diavoleto fra i coalizzati delusi! I loro organi e organi ni mandano una convulsione di suono straziante; le canne si sfiatano; le corde si strappano; i manubrii volano all’aria.

«Il Fanfulla e l'Opinione strepitano che la soluzione scelta è la più scorretta del mondo costituzionale. Il Bersagliere nicoterino pianta davanti le elezioni generali addirittura la bandiera: o candidato di Sinistra o candidato di Destra, ma ministeriale mai!e invoca dal Paese la stessa risposta sdegnosa, che il corpo elettorale francese seppe dare al Duca di Broglio per il colpo di Stato parlamentare del 16 maggio.

«Il Crispi, oltre la Riforma, tiene per organi strepenti il Quotidiano, la Sinistra e lo Spillo; quest’ultimo quasi istrumento muliebre per traforare, occorrendo il caso dei casi, anche la lingua di un Cicerone minuscolo.

«In alcuni circoli politici smaccati si è gridato persino alla rivolta.

«Ma che rivolta d’Egitto!

«Come disse un saggio, l’entusiasmo o si comunica agli altri o rende ridicolo se stesso.

«Ora è impossibile che l’entusiasmo delle ambizioni personali dei pochi possa parteciparsi alla maggioranza del nostro popolo, così serio in paragone dei suoi ex-rappresentanti; gli è inverosimile che il Paese riesca a commuoversi, perché il tale o il tal altro uomo politico hanno il rovello e sentono il bisogno fisiologico o patologico, morale o materiale, di diventare ministri.»

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Spicciatesi le elezioni generali del maggio 1880, il Crispi rientrò imbronciato in Parlamento. E in occasione delle prime nomine fattesi dalla Camera, ebbe occasione d’allungare vieppiù il broncio, come già venne accennato nel profilo del Nicotera.

Nella votazione per la Commissione della riforma elettorale, il nome di Crispi, ostico agli uomini stanchi delle sue vampe e ai paurosi dello scrutinio di lista, non potè avere l’onore di uscire a primo scrutinio collo Zanardelli, col Nicotera e col Mancini, avendo riportato appena 139 voti su 299 votanti; anzi restò al disotto di Baccelli, Correnti, Mussi e Coppino.

Figuriamoci se Crispi poteva soffrire di essere ballottato!

Ringraziò gli amici suoi e anche quelli di Destra che avevano votato per lui, ma li pregò di non ripetere più il voto al suo nome, perché egli, quando anche fosse stato eletto, non avrebbe accettato l’incarico.

Allora Nicotera rinunziò addirittura alla propria elezione.

Invano Farini ebbe le più gagliarde e le più sante parole per invitarli alla abnegazione e alla tolleranza.

«Onorevoli colleghi, egli, apostrofò: la Camera ha ascoltato la loro preghiera; ma io vi prego d’ascoltarne anche una mia. Con lo spettacolo che diamo sin dalle prime sedute, non otterremo niente di utile (Bravo! — applausi). Prego tutti i miei colleghi di volersi inchinare al volere dei rappresentanti della nazione, come io stesso, pur riluttante, pel primo mi vi arresi. Conviene che tutti facciano qualche sacrificio di fronte ad esigenze sovrane, superiori agli uomini ed ai partiti (applausi vivissimi e generali). Mi raccomando agli onorevoli Crispi e Nicotera, perché non vogliano rifiutarsi al servizio che il Paese chiede da loro» (Bravo!).

Avendo la Camera applaudito fragorosamente il Presidente, l’onorevole Crispi replicò con durezza di lava raffreddata: «Questi applausi, che vengono da» una parte della Camera, sono ben dovuti al Presidente, ma servono a farmi insistere nella deliberazione presa.»

A questo punto il Presidente ebbe a sedare i clamori d’indegnazione sollevati dalle parole del Crispi: si proclamò dirittamente il Presidente di tutta la Camera e non già della Destra, della Sinistra o del Centro; disse di aver accettato l’incarico per giovare alla concordia; invitò nuovamente Crispi e Nicotera a fare anch’essi atto di sacrificio, e si dichiarò dolente, se la preghiera da lui rivolta agli onorevoli Crispi e Nicotera non fosse giunta al loro cuore di cittadini.

Nell’accento del Farini si sentiva la gravità solenne del più autorevole dei presidenti, e a un tempo l’amarezza del patriota contristato.

Ma nessun discorso commovente potè ammollire per quel momento un cuore indurito.

Ad onor del vero, bisogna però notare che la Riforma di quella stessa sera raccontò come il suo Crispi fin dal giorno prima aveva pregato i suoi amici di non comprendere il nome di lui nella lista per la Commissione della riforma elettorale.

Ma l’ingenuo invitò addirittura il Paese a leggere a lettere di scatola: «Questi signori dissidenti che si protestano smaniosi delle riforme e vogliono scacciare il ministero, accusandolo di troppa fiacchezza nel prepararle, quando si tratta poi di attuare veramente le riforme, rifiutano il loro concorso.»

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Poco dopo si annunziava che il Crispi aveva preparata la balestra demolitrice del ministero con la sua interpellanza sulla condotta del Governo durante le elezioni.

Il 10 giugno si erano apparecchiati gli animi alla aspettazione del grande pugilato crispiano; le signore si erano procurati i biglietti per le tribune riservate, dove sogliono sfoggiare molte attrattive sul Parlamento; — l’ingenuo aveva apparecchiato una nuova penna metallica.

Ancora il giorno innanzi, in principio di seduta, si cercava di tenere fermo al combattimento qualche soldato che dichiarava di voler partire pel mercato dei bozzoli. Quand’ecco Crispi si alza e, per non intralciare l’amministrazione, fa la famosa ritirata dell’interpellanza, riscuotendo qualche bravo dai suoi vicini.

Figuratevi la sorpresa; figuratevi i commenti!

Chi trovò la frase della situazione nell’’equilibrio delle patire; chi trovò una nuova benemerenza di pacificazione in Giove-Fàrini, presidente dell’Olimpo; chi disse che Nicotera, Crispi e Sella si erano contati ed hanno voluto risparmiare un fiasco a se stessi ed un trionfo al ministero... Chi brontolava. Chi gridava di peggio.

Il Bersagliere e la Riforma decretavano la corona civica ai loro patroni, perché non avevano fatto il male che avrebbero potuto fare.

Il Popolo Romano di Depretis sembrava contento anche lui.

E l’ingenuo rimase con la penna nuova, asciutta, che doveva rifulgere nella grande lotta.

*

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Rieletto commissario della riforma elettorale politica, il Crispi si dimise altresì da deputato.

Perciò il 18 giugno 1880 avvenne la meritata glorificazione del Crispi. Vi presero parte gli onorevoli Nicotera, Correale, Ercole, Mancini, Tajani, Zanardelli, Di Rudinì e Cairoli.

Si distinse l’onorevole Ercole colla sua turibolata, invocando pel dimissionario Crispi lo stesso trattamento che in ilio tempore la Camera aveva accordato al dimissionario La Marmora, e si distinse sopra tutti l’on. Mancini, il quale disse che se Giuseppe Garibaldi fu il braccio, il duce della gloriosa impresa di Sicilia, Francesco Crispi ne fu la mente e l’anima, e narrò che questi pel primo aveva battezzato Vittorio Emanuele II Re d’Italia, nel decreto con cui Garibaldi assumeva la dittatura in Sicilia.

Quello scontento di un ingenuo brontolò nel suo circolo politico-letterario: «È cordialmente desiderabile che la storia del risorgimento italiano si abbellisca di questi ricordi.

«Ma perché un uomo ha singolarmente e anche straordinariamente benemeritato del suo paese, non mi pare giusto che la rappresentanza di esso gli neghi il riposo e lo sforzi a lavorare a vita.

«La civiltà e la sapienza antica usavano un procedimento affatto diverso, collocando i grandi benemeriti ai riposi forzati, perché non turbassero coi loro titoli soverchianti la libertà e l’eguaglianza degli altri cittadini.

«Certo la civiltà presente non permette più che si ritorni a questi eccessi di prudenza liberale mediante gli ostracismi; — ma per lo meno si eviti la crudeltà di ritenere i grandi cittadini in locazione perpetua d’opere. »

Ed il circolo gli fece coro: «Il movente della risoluzione dell’insigne dimissionario non può essere stato certamente un semplice desiderio di réclame, di cui il Crispi non aveva bisogno. Fu un motivo rispettabile, ed anche la Camera avrebbe dovuto rispettarlo, sopratutto perché esso poteva nascondere una nobilissima delicatezza: se egli, riconosciuta la propria turbolenza senile, avesse voluto ritirarsi per non impacciare di più i lavori della Camera. Infatti non è credibile il motivo attribuitogli, che egli reputi il ministero inetto a compire la riforma elettorale, anzi inteso a tradirla.

«Se fossero veri questi pericoli, correva obbligo al Crispi, apostolo principale, di rimanere nella Camera e nella Commissione della riforma elettorale, per impedire che questa non sviasse o ristagnasse.»

Si corse la posta persino a spargere, fra le cagioni delle dimissioni del Crispi, questa frottola spaventevole, cioè che fuori del Parlamento egli intendesse spingere le cose più oltre di quello che la grande maggioranza degli Italiani vogliano, e che a Palermo, nella città delle iniziative, egli potesse farsi promotore d’un’agitazione grave contra l’attuale ordine di cose.

Ma a tale spauracchio non credettero neppure gli ingenui, ricordevoli dei servigi eminenti e delle formolo decisive con cui Crispi si era reso benemerito della monarchia liberale.

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Ossequente alla volontà unanime della Rappresentanza Nazionale, il Crispi ritornò in Parlamento più rigoglioso di prima, ed il 10 marzo 1881 sgranò pel concorso dello Stato nelle opere edilizie di Roma un discorso, che lo stesso Fanfulla giudicò il più vibrato ed eloquente di tutti quelli pronunciati in quella occasione.

Tramontata la placida parola di Berti Ferdinando, sorse la focosa eloquenza di lui.

Egli conservava la ricchezza abituale di pose; ed oltre all’arricciare i baffi, oltre al torcersi, e porre il mento sullo scannello del banco superióre per domandare duramente delle approvazioni ai vicini, egli girando le dita di una mano intorno all’altra, avvolgeva e dipanava una invisibile matassa.

Egli chiamò meschini gli oppositori del sussidio a Roma, e volle contrapporre una nuova grandezza italica al lusso orientale de? Vaticano; ed esclamò: «Venuti a Roma, vi abbiamo trovata la sede del cattolicismo; e questo, se può avere i suoi vantaggi, ha pure i suoi danni. Qui il Governo non trovò tutte quelle condizioni di vita e di esistenza materiale che sono necessarie al regolare andamento delle sue funzioni.

«Noi in Roma stiamo a disagio. È una locanda per noi piuttosto che una città (Benissimo!) e guardando quest’aula dovete tutti sentire un grave rammarico nel riflettere, che, dopo 10 anni, siamo ancora in una casa di legno coperta di tela e di carta (si ride), quasi che stessimo qui provvisoriamente e non nella capitale definitiva dello Stato (Bene! Bravo!).

«Io sono un uomo all’inglese; e (mel permettano di dirlo coloro dei miei amici i quali hanno idee più avanzate) tutte le volte che v’è una seduta reale, e che vedo disfare il seggio del Presidente per costruire al suo posto un trono di legno, io mi trovo umiliato! A Londra le sedute reali si tengono nella Camera dei Pari, dove il seggio reale, di bronzo e d’oro, è permanente: e nessuna ha mai potuto sospettare che colà vi sia provvisoriamente, perché il trono, come lo Stato, devono esser saldi e sembrar tali» (Bravo!).

Egli narrò con parole di molta venerazione per la memoria del Gran Re e per l’augusto attuale Regnante (parole che parevano untuosamente destinate a riaprirgli la fiducia aulica); narrò come fin dal capo d’anno del 1875 egli aveva detto a Vittorio Emanuele, come il Re d’Italia non avesse sede sufficiente al Quirinale, né il Parlamento sede decorosa nel cortile di Montecitorio.

«Il Re mi disse: — Ma come farebbe lei? Abbiamo la carta-moneta. — Io risposi che la Banca Nazionale ci ha provato come anche colla carta si possono elevare dei grandi palazzi» (ilarità),

Crispi vorrebbe incelare la Camera ad Ara-Coeli, sull’area del tempio di Giove Capitolino.

«Ma, onor. Crispi! — sussurrarono i taccagni rurali: — Se noi siamo piccini, l’aria del Campidoglio non ci farà crescere.

«Sono gli alti fatti che rendono illustri i luoghi, e non sono le minchionerie che ricevano dai luoghi illustrazione.

«In una baracca di legno si possono prendere risoluzioni più perenni del bronzo.»

Crispi, a confusione della incredulità rurale, citò Londra, il cui sindaco è proprio membro del Consiglio dei ministri.

«Ma, onor. Crispi! — ribatterono i rurali, i rusteghi, — Londra è una città così grossa, così sformatamente grossa, che perde persino la forma di municipio; quindi è naturale che si governi come uno Stato. .

«Ma noi, per la salute morale e civile d’Italia; noi, per la nostra tradizione storica; noi, per la nostra positura geografica; noi dobbiamo impedire, anziché promuovere le elefantiasi morbose di città ingenti.»

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Quando l’on. Crispi cessò di parlare, molti si affollarono a stringergli la mano, compresovi l’on. Sella, che diede perciò cagione a qualche scherzo sopra nuovi di lui connubi: e si sentì, come in un giorno di festa nazionale, salire per la scala dell’ultimo settore di sinistra un razzo di applausi, particolarmente diretti dall’onorevole Fazio.

Il giorno dopo girava alla Camera una lepida sottoscrizione per erigere un trono di bronzo all’on. Crispi.

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Ma nonostante gli altrui sussurri, le burlette e gli odii eziandio cordiali, l’on. Crispi non si dimostrò ancora in decadenza.

Quando difende le sue idee di monarchia democratica, e il partito, sopratutto il partito di Sinistra, egli è ognora insigne per sporgenze da quarantotto e spaventosi contorcimenti da oratore della Convenzione.

Ciò quanto alla oratoria esteriore.

Riguardo alla sostanza dei suoi concetti, egli vibra tuttavia coscienza altezzosa ed energia giuridica.

Nel discorso del 18 maggio 1883 egli rinfrancescò maestrevolmente alla Camera il suo programma: a base indiscutibile il diritto plebiscitario e su questa base un costante progresso nelle leggi costitutive dello Stato. Lo Statuto è una barriera, per non tornare indietro, non una barriera per non andare avanti.» Questo è, secondo lui, il concetto del partito progressista, ossia della Sinistra storica, che non dovrebbe abdicare né confondersi con altri elementi egualmente pregevoli e necessari, purché distinti. Egli ritiene che «il nostro è un giovane Regno che non ha tradizioni; i soli che abbiano tradizioni sono la dinastia ed i partiti che concorsero alla costituzione dell’unità nazionale.» Egli vede malinconicamente spariti gli uomini del 1820 e superstiti del 1830 due soli, Nicola Fabrizi e Terenzio Mamiani. Non crede al pareggio finanziario, ma crede supremamente alla salute costituzionale nella dualità dei partiti legali. E distingue accuratamente il partito progressista da quello radicale, osando affermare: «L’onorevole Minghetti concedeva ai radicali l’avvenire remoto; io non concedo loro né il remoto, né quello prossimo (senso). La monarchia, o signori, se popolarmente ordinata, costituirà talmente lo Stato, che persuaderà i repubblicani, parlo di quelli che sono fuori di quest’aula, perché qui siamo tutti monarchici, persuaderà, dico, i repubblicani, che con essa noi abbiamo la miglior forma di governo possibile.»

Del resto Crispi è sempre Crispi. Sbarbato e rubicondo come un pomello rosso, è lo stesso Crispi di quando era barbuto e biancastro, come una vecchia statua da demagogo greco. Tenendo un portinaio che, a detta del Fanfulla portava sul berretto la scritta di Portiere Crispi, come un semovente porterebbe l’indicazione del padrone sul collare, ricco di clientela legale, accomodato di due carrozze per strascicarsi pomposamente; è lo stesso Crispi di quando, per nobile intento di lavoro, domandava il posto di segretario comunale a Verolengo.

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Per sfogo di crispità si prese persino la scesa di testa di incresparsi contro un gallomane.

Auguste Brachet, lauréat de l’Académie francaise, nel 1881 razzolò un opuscolo: «L'Italie qu’on voti et l'Italie qu’on ne voit pas», col quale si avvisò di rendere alla rovescia il servizio delle oche che salvarono il Campidoglio dai Galli; cioè egli cantò un chicchirichì per salvare il pollaio francese dalla supposta invasione della volpe macchiavellica italiana.

Per dimostrare la nostra fremente gallofobia, il Brachet raspò pazientemente nei nostri libretti scolastici, sillabarii, trattati di geografia, ecc., e pretese aver raccolto un erbario di dimostrazioni della nostra sfrenata ambizione, alle quali aggiunse le sue allucinazioni storiche sul lavorio dei nostri Comitati, dei nostri ambasciatori, dei nostri giornali, dei nostri ministri, per riavere Nizza, la Corsica, e la stessa Savoia, salvo a regalar questa alla Confederazione svizzera.

Il Brachet si permise di mandare una copia del suo libercolo all’indirizzo del misogallo signor Crispi. E Crispi lo rimbeccò a priori. «Avant de vous lire, permettez-moi de vous dire que vous vous trompez en me croyant l’ennemi de la Franco. (Test un culte pour moi que l’indépendance des nations. Leur liberté a été le rêve de toute ma vie. Je serais heureux si, avant de mourir, je pouvais voir amis et confédérés tous les peuples de l'Europe.»

Il gallo così rimbeccato a meraviglia, per dimostrar meglio la conoscenza profonda delle cose italiane, che distingue parecchi francesi, pubblicò una Réponse à M. le Commandeur Francesco Crispi, ancien Président du Conseil des Ministres.

Che il signor Brachet, elevando di moto proprio il Crispi ad una passata presidenza del Consiglio, abbia voluto darci un cenno del suo antivedere sul futuro?

Se così fosse, asciugandoci il Crispi a presidente del Consiglio, sarebbe desiderabile che si potesse a riguardo di lui rinnovare l’osservazione fatta da san Tommaso d’Aquino nel Paradiso di Dante:

Ch’io ho veduto tutto il verno prima

Il prun mostrarsi rigido e feroce,

Poscia portar la rosa in su la cima.


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Incipit Bertani

Agostino Bertani, impasto di demagogo e gentiluomo, di scienziato e di artista, di tribuno e di diplomatico, di produttore e di cospiratore, fermentò nel suolo lombardo, ricco di succhi, di strati, di depositi artistici, patriottici, scientifici, economici, ecc., pervenuti a quel suolo od accresciutigli dal consolato letterario di Foscolo e Monti, dalla razzìa martirologica od esule del Conciliatore, dalla scuola del Romagnosi, dalla sacra famiglia del Manzoni; e fiorente in una pleiade di nomi, dal poeta Berchet al pittore Havez e allo storico Cantù.

Ma la zolla, presso cui si rincalzò maggiormente la pianticella del Bertani, ed il concio onde maggiormente si nutrì, fu l’insegnamento di Carlo Cattaneo, ingegno italiano ed enciclopedico, che dalla dirittura delle intenzioni e dalla saldezza dei propositi non iscompagnava mai il predominante colorito del pensiero e la cadenza della frase: musica di cuore ed amore di testa.

Il Bertani, nato a Milano, fu messo nel collegio Calchi-Taeggi, dove si distinse come un diavoletto.

Un amico di sua famiglia, certo signor Longhena, quando lo portava fuori del collegio, a quanti incontrandolo facevano festa al giovinetto, soleva rispondere: «ve lo do per una fina lametta.

In vacanza, a Givate, il dott. Bonizelli si sentiva in obbligo di correggere nel collegiale le tendenze da Lucifero.

A Pavia lo studente si addottorò fra i migliori in medicina e chirurgia; ma Ciotto Arrighi, dai cui 450 traggo questi primi aneddoti, assicura che se il dottorino guariva gli uomini feriti, feriva poi dal canto suo il cuoricino alle signore e alle signorine, pietose visitatoci degli infermi e collaboratrici di filaccie. In prova del suo asserto l’Arrighi cita a testimoni le mura dell’ospedale di Sant'Ambrogio a Milano e quelle dei Pellegrini a Roma.

Imperocché fin dal 18 il Bertani mise a servizio della parte liberale e nazionale più accesa il fuoco covante nella sua testa e la sua perizia finissima di medico chirurgo. Nel 49 si trovava alla difesa di Roma; dove non solo cercò di salvare la vita ai feriti nell’ambulanza di San Pietro in Montorio e all’ospedale dei Pellegrini, ma si spinse nel campo nemico, con pietà omerica a ricuperare le salme degli eroi; e spedì come colli di sacra merce alle dolenti famiglie lombarde i corpi imbalsamati dei forti e nobilissimi giovani Manara, Dandolo e Morosini.

Aveva tralasciata a Milano la compilazione della Gazsetta Medica Italiana per buttarsi nell’azione politica; dopo le pubbliche sciagure, essendo ritornato pei patrioti un periodo preparatorio, egli concordò e stabilì una vera rete nazionale di Gazzette Mediche Italiane.

Il titolo di tali effemeridi in ogni regione italiana era unico: Gazzetta Medica Italiana; a cui seguivano i sotto-titoli regionali, per es. (Stati Sardi), come si intitolava la Gazzetta Medica diretta a Torino dall’esimio chirurgo e filosofo bovesano Gian Battista Borelli.

Così almeno nel giornalismo medico vigeva l’unione federale italiana.

Né ciò era senza importanza. Imperocché il ceto medico, che si sparpaglia su tutta la superficie nazionale, è dei più vivaci e liberali. Pei loro studi naturali e positivi i medici sono i più lontani dai pregiudizi metafisici: accostando il maggior numero di sofferenze umane, sono i più caritatevoli e democratici. Quindi anche nei paesucoli più remoti, se troviamo un liberale nelle elezioni, nella lettura e nella diffusione di libri e giornali, è desso d’ordinario il medico condotto.

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Il Bertani, tirato dal suo muschio artistico, si aggruppa coi naufraghi più intellettuali dei rivolgimenti precedenti.

Nell’inverno del 1850 lo si vede a Genova.

Carlo Rusconi, il traduttore fedele di Shakespeare, il ministro degli esteri della Repubblica Romana, descrive nelle Memorie anedottiche come un idillio quella dolce invernata del 50. Si pranzava alla trattoria del Gerolamo: i commensali ordinari si chiamavano lui Rusconi, Alberto Mario, Aleardo Aleardi, Pietro Maestri, i due fratelli Guerrieri-Gonzaga, Costantino Cernuschi, Carlo Mavr, spesso Sirtori e Medici, spesso pure alle frutta Bertani, Mauro Macchi ed Anau. Si abbandonavano ad amichevoli dispute, a rassegne retrospettive, a speranze cordiali. Indi tutti all’Acquasola, o al terrazzo del Porto, a contemplare l’occidente di porpora, quei magnifici tramonti di Genova, fra l’effervescenza cerulea e luminosa del mare rispecchiante il cielo costellato e le mandate delle essenze di arancio.

Alla Villetta Carlo di Negro improvvisava versi e rallegrava deliziosamente le serate coll’arpa.

La marchesa Teresa Doria apriva le sue sale ai balli. Una notte si andò tutti ad Albaro, alla villa, donde Byron si spiccò eroicamente per muovere crociato al riscatto della Grecia. «Si interrogano i coloni, si vogliono i più minuti particolari sulle abitudini del gran poeta; qui passava le ore del giorno; in questa stanza riposava; in questa scriveva. Qui ebbe luogo l’ultimo incontro colla contessa... che poi andò sposa di Boissy d’Anglas.

«Era la più bella notte di questo mondo; splendeva la luna in tutta la sua pienezza, e fra i pioppi e gli olivi (seguita il Rusconi) restammo gran tempo ad ammirarla. Il mare si stendeva placido in distanza, segnato qua e là da vele bianche di pescatori che andavano ai lidi di Arenzano e di Sestri ad esercitare i loro uffici coi primi chiarori del mattino.»

In quell’idillio marinaresco di Genova il Bertani otteneva pure una clientela lucrosa per la sua valentìa di medico-chirurgo, una clientela che si disse fruttargli parecchie decine di migliaia di lire all’anno.

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Ma curando gli ammalati, il patriota non dimenticò la grande inferma, la nazione italiana.

Sul finire del 58, egli aveva ricevute le espansioni di Garibaldi, dopo che l’eroe si era combinato con Cavour.

Nel 1859 fu medico-maggiore nei Cacciatori delle Alpi. Pel servizio sanitario di quel corpo aveva fatte le più diligenti preparazioni ed aveva ordinata la più bella raccolta di dottori, da Pietro Maestri a Pietro Ripari.

Prese molto a petto la sua carica, tanto che si spampanarono dai begli umori i seguenti scherzi raccolti da eletto Arrighi: cioè, che all’entrare nelle città e nei villaggi, egli comandasse ai suoi colleghi di tenersi a otto passi di distanza da lui, affinché «tutti avessero ad accorgersi che egli era il capo, colla speranza fors’anche che l’avessero a scambiare con Garibaldi.»

I burloni fra i volontari. prendendo per spirito brrfminico ciò che era spirito di disciplina nel medico-maggiore, e volendo contraccambiarlo di urbanità, lo incroatarono addirittura, paragonandolo al generale tedesco, cui si andava a sconfiggere, e soprannominarono il Bertani l’Urban dei medici.

Piucché nella campagna del 1859, l’ingente lavoro garibaldino del Bertani si fu nel preparare ed alimentare la spedizione del 1860.

Questa, come ricordò pure l’Arrighi, attinse a tre principali sorgenti: 1° la Società Nazionale del La Farina, prestanome al Cavour; 2° il Comitato Bertani, che stabilì a Genova la cassa centrale dei soccorsi a Garibaldi, assistita da Federico Bellazzi ed Alessandro Antongini; 3° la direzione del milione di fucili fissata a Milano dal Finzi e da Angelo Mangili con Enrico Guastalla, segretario. A queste principali sorgenti affluirono tutti i rivoli patriottici; affluirono i denari raccolti a Pavia da Benedetto Cairoli, che servirono per le spese di primo impianto, come raccontava ij Majocchi al Majneri; affluirono le collette delle signore lombarde, fra cui primeggiò la forte e benedetta Laura Mantegazza, ecc., ecc. Sessanta mila lire del milione di fucili furono recate la stessa sera del 5 coll’ultimo treno ferroviario di Milano dall’avvocato Filippo Migliavacca, che morì poi combattendo a Milazzo. Nella fretta e furia il Bertani pel cambio ricorse ai suoi clienti, e così potè tuttavia in tempo consegnare il denaro a bordo.

Garibaldi, prima di salpare, aveva per così dire lasciato a terra parte di se stesso nel Bertani e nel Medici, ai quali aveva dato lettere di rappresentanza ed istruzioni per organizzare il seguito dell’impresa. I bollettini particolari, che Garibaldi mandava al Bedani per viaggio, dopo lo sbarco, dopo le vittorie, sono degni di essere trascritti su tavole di marmo.

Il Medici fondò a Genova con Clemente Corte e Daniele Crescini un Istituto militare, che doveva allacciarsi, secondo il mandato stesso del duce supremo, alle tre società prelodate.

Ma i presidi delle prelodate tre società si bisticciavano, come tre fantesche zelanti nel render servizio alla stessa signora Italia.

Giuseppe La Farina fin dall’11 maggio si lagnava per le pretese imprudenze del Bertani, che mandava dispacci e non in cifra, accennanti a vapori, ad armi e a munizioni, dispacci compromettenti il Governo in faccia alla diplomazia, che Dio ne liberasse!

Poi strillava, perché «il signor Bertani faceva pubblicare nei giornali ch’egli era il solo incaricato dal generale Garibaldi.»

Alla pubblicazione dell’Epistolario del La Farina nel 1869 il Bertani si difese strenuamente con la armatura del suo opuscolo: Ire politiche d’oltre tomba. In esso egli diede modestamente le prime parti a Rosalino Pilo, scrivendo: «Rosalino Pilo preparava di lunga mano quella iniziativa di movimento, che colla persona seppe dappoi valorosamente sostenere, finché fu possibile commettere a Garibaldi il comando di una spedizione, per la quale, devo dirlo, forse il solo Rosalino Pilo allora istantemente pregava e stimolava il Generale quasi negletto a Caprera.»

Ma all’audace Siciliano era stato parimenti di attaccagnolo prezioso il dottore lombardo. Le informazioni, che Rosalino Pilo per mezzo del suo pilota mandava il 12 aprile al dott. Bertani, deputato al Parlamento a Torino, segnano il guizzo ardente della tracciata e disseminata rivoluzione: e quelle informazioni rappresentate a Garibaldi dallo scritto di Rosalino e dalla viva voce del latore pilota, che il Bertani gli aveva condotto innanzi a Quarto in casa Vecchi, furono striscie di fuoco nell’animo del Liberatore.

Come nei Cacciatori delle Alpi, così anche nel 1860, il Bertani pareva volesse sopravanzare a tutti, poiché faceva pesare, come basalto irremovibile, idee proprie.

Egli pretendeva, a detta di Cletto Arrighi, che il Medici, [scambio di raggiungere Garibaldi in Sicilia, si gettasse a sollevare le Marche e l’Umbria, donde prendesse poi in giro, alla rovescia, il Regno di Napoli, senza risparmiare all’occorrenza un colpetto su Roma contra i Francesi. Lo stesso Garibaldi scrivendo da Palermo il 13 maggio, due giorni dopo essere sbarcato a Marsala, mentre domandava nuove armi, munizioni ed un’altra spedizione per l’isola, soggiungeva al Bertani: «Medici dovrebbe occuparsi del Pontificio — io diedi ordine a Zambianchi di mettersi a sua disposizione. Serva questa per Medici e per la Direzione Finzi Besana.»

Il Medici non volendo accettare lì per lì il piano del Bertani, si passò del comitato, di lui e della cassa centrale: e fece capo sopratutto al Finzi. 11 quale, munito di un mezzo milione, si recò con il collega Mangili a Marsiglia, ed ivi acquistò i piroscafi Washington Franklin ed Oregon; e con essi venne trasportata la colonna di Medici alle vittorie di Sicilia e del Napoletano.

La cassa del Bertani sovvenne la successiva spedizione apprestata dal Cosenz di circa 2000 coperte di lana e di 12,000 lire che l’Arrighi riferisce essere state dal Bertani domandate in restituzione al Crescini nel giorno stesso della partenza. Però aggiunge che tutte le altre spedizioni di volontari furono spesate dal medico capo dei Cacciatori delle Alpi.

Per mandar denari a Garibaldi in Sicilia, il dott. Agostino Bertani e il dott. Alessandro Antongini rilasciarono un atto legale di garanzia ai fratelli Rocca di Genova, i quali inviarono al dittatore oncie 250,000 e poi altre 166,000 con una seconda operazione, sempre sotto la solidale garanzia dei predetti dottori. In una lettera spedita dall’ex-deputato Antongini alla Riforma e datata da Borgosesia il 20 giugno 1882, egli scrive bellamente e giustamente: «In quel movimento d’entusiasmo per l’entrata dei Mille a Palermo (fra essi eranvi due giovanissimi miei nipoti) avrei sottoscritto tutte le garanzie di questo mondo… Di leggieri comprenderete, cari amici, che se la fortuna non fosse arrisa a Garibaldi, tanto il mio patrimonio quanto quello dell’illustre Bertani (che consisteva principalmente nella sua non comune abilità qual professore in medicina e in chirurgia) sarebbero stati indubbiamente compromessi.»

Per questi e per altri maggiori fatti, Petruccelli della Gattina, con tinte che l'Arrighi chiama ossianesche, potè dipingere il Bertani quale mago che trae dalle viscere d’Italia quell’esercito meridionale che si mostrò, conquise due regni e disparve come un fantasma — armata fantastica, armata da poema.

Ma la parte magica, dove si appuntò e si inchiodò maggiormente Bertani, fu la spedizione che doveva attaccare gli Stati Papalini. Perciò era sopraggiunto in Genova il Pianciani, e Bertani con una lettera circolare si era riservata come sopracciò la somma delle cose. Tra lui a Genova e Nicotera in Toscana avevano radunato ben novemila volontari, disposti in sei legioni, quattro delle quali dovevano dal litorale ligure rovesciarsi sulle coste romane, e le altre due valicare gli Apennini per far insorgere Perugia ed attaccare Lamoricière.

Di questo armeggìo il Governo Sardo si ingelosì maggiormente di ciò che siasene inquietato.

È curioso il riscontrare, come il conte Cavour adoperasse nel suo carteggio lo stesso linguaggio dell’Opinione, ciò che prova che, quando egli pur era presidente del Consiglio dei ministri e gran sopraintendente alla fucina in cui si gettava la nuova Italia, non credeva inutile di intingere le sue proprie dita nel giornalismo.

Il 28 giugno 1860 egli scriveva al conte di Persano: «Signor Ammiraglio, il contegno del generale Garibaldi col Governo del Re non è soddisfacente. Dopo di avere accreditato il conte Amari, come l’unico suo rappresentante, dà pieni poteri al signor Bertani e lascia l’Amari senza istruzioni. Il Governo non intende far chiassi, ma non si lascia giuocare così sfacciatamente, ond’è che, fatta la spedizione di Cosenz, già in corso, Ella disporrà acciò che nulla di quanto può disporre vada in Sicilia, finché non sia tolta al signor Bertani ogni ingerenza nelle spedizioni.

«Senza fare di ciò argomento d’una formale comunicazione al generale Garibaldi, glie lo parteciperà in via officiosa.»

L'Opinione del 15 luglio si lagnava in sua favella: «Il Dittatore delega a Torino rappresentante officioso della Sicilia il conte Amari. Era naturale che questi dovesse essere incaricato di tutto ciò che si riferisce ai volontari... Ma il conte Amari non ha istruzioni; non ha danari, non ha mezzi di sorta; il signor Bertani dirige ogni cosa, regola, ordina, dispone, ed il conte Amari, trovandosi in una posizione poco conveniente, non istima di poter far meglio fuorché di ritornarsene a Palermo.

«Ma se il signor Bertani non avesse la fiducia del nostro Governo né del Paese, non avremmo il diritto di dichiararlo? Di questa fiducia noi non abbiamo alcun indizio, e se il signor Persano ne ha fatto avvertito Garibaldi, non disse cosa che non fosse verissima e giusta ed opportuna a sapersi.»

Vedendo che il messaggio all’Ammiraglio e il comunicato dell’Opinione non sortivano sufficienti risultati, il Conte, dopo aver esperimentato invano altre ambasciate, pensò di spedire al Bertani addirittura Luigi Carlo Farini, già favorevolmente conosciuto nell’opera speciale di infrenar Garibaldi e garibaldini. Infatti nella notte del 19 novembre 1859, quando Farini aveva saputo da un telegramma di Garibaldi che questi voleva passare la Cattolica per aiutare l’insurrezione nelle Marche, era corso egli stesso da Modena a Bologna per impedirlo.

All’alba il Generale era salito a crucciarsi col Dittatore, in quello storico palazzo, dove nel 1530 Clemente VII e Carlo I si erano abbaruffati accampando ciascuno la privativa di strangolar meglio la libertà d’Italia.

Per lo contrario, in quell’ora mattutina del novembre 1859, il Dittatore dell’Emilia doveva duellare col futuro Dittatore delle Sicilie per la gara filiale del far valere ciascuno il miglior metodo di risuscitare la madre Italia. Garibaldi, a un tragico punto, ergevasi a trapotenza tribunizia e consolare; e coll’argento della voce usato ad intimare la resa di una armata o di un accampamento, ordinava a Farini: «Vi ingiungo di deporre nelle mie mani la dittatura.»

Farini saldo nell’alta, fronte marmorea, gli si piantò diritto dinnanzi, come un macigno, e rispondeva con pacatezza dittatoria: «Generale Garibaldi, sarà più facile cosa che Voi mi gettiate da questo balcone. Io rispetto e venero i patrioti, ma so resistere ai faziosi. Il potere che mi è stato liberamente confidato da queste popolazioni, io non lo restituirò ad altri che al mio e vostro Re.»

Non molto dissimile fu il diverbio fra Farini e Bertani a Genova.

Il ministro Farini vi giunse il 31 luglio, e spese tre giorni di confessionale politico per convertire Bertani.

Ma questi duro e superbo come Lucifero: — «Io batto il piede e sono padrone di Genova.»

Onde Farini: — «Batta pure! Il Governo di Vittorio Emanuele non vorrà perciò lasciarsi esautorare da un cittadino.»

Pure Bertani fu cocciuto a dirigere nei primi di agosto la sua spedizione contra il Papa. Ma la fecero abortire «i contrasti non vinti coi comitati umbro-marchigiani residenti in Bologna e in Firenze, che timidi o avversi diffidavano delle forze popolari: e le ingiunzioni governative fatte nel Golfo degli Aranci, dove era raccolta la spedizione, e dove per quegli ordini smembrossi», come narrò lo stesso Bertani nella solenne relazione fatta da lui in Genova il 4 gennaio 1861 alla assemblea generale dei rappresentanti dei Comitati di provvedimento. Il relatore allora ricordò pure che il generale Garibaldi ed egli sentirono vivo dolore, quando giunti dal Faro di Messina, dove improvvisa fu la decisione, nel Golfo degli Aranci la sera del 13 agosto, ultimo giorno pel fissato convegno, non vi trovarono tutta la gente ivi diretta da Genova e che il Bertani aveva al Generale promessa. «Fu allora necessità fatale il desistere dalla ardita impresa, che il Generale voleva compiere, mentre in Toscana si aggiungevano le tribolazioni alla brigata Nicotera ed al suo capo.

«Disgiunte cosi le forze di quel corpo, di circa novemila uomini, Bertani credette di non potere far di meglio che raccoglierne oltre quattromila a Milazzo, e dopo vari sforzi per ritentare il grande progetto, essendo già Garibaldi sceso in Calabria, portare quella eletta schiera il più innanzi che fosse possibile sul continente perché, ultimi venuti e smaniosi di battersi, quei giovani incontrassero per i primi i soldati borbonici in Napoli e fossero più vicini a quel campo di battaglia che avevano con tanto ardore prescelto.

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Il 7 settembre 1860, allorché Garibaldi con cavalli di posta, e i suoi Garibaldini con la semplicità omerica del loro capo, in numero di 14, fecero il conquisto della città di Napoli, eravi fra gli avventurosi 14 il Bertani segretario generale del trionfatore.

Il giorno dopo, alla festa ufficiale nella chiesa di Piedigrotta, quando Garibaldi inginocchiato sopra un cuscino di velluto riceveva dall’arcivescovo in pontificale la palma che sole vasi d’antico offerire l'8 settembre al re delle Due Sicilie, aveva ai lati Liborio Romano ed Agostino Bertani, mentre di dietro Alberto Mario, per non parere scortese alle signore, si lasciava abbracciare e baciare dalle devote fanatiche che lo scambiavano pel Generale.

Marco Monnier, nella Cronaca della conquista delle Due Sicilie, dice Bertani e Liborio Romano consiglieri onnipotenti di Garibaldi.

Nella Camicia rossa di Alberto Mario vediamo il segretario generale del Dittatore presentare ai proconsoli di Lui i signori sindaci, che ne invocavano l’aiuto: e se questi erano troppo chiacchieroni, interromperli bruscamente, e tirar loro le falde della velata in segno di silenzio, facendoli balbettare: aggio caputo!

Il citato Cletto Arrighi ci descrive il Bertani a Napoli «ricevere un suo vecchio amico in piedi con un pugno appoggiato sulla tavola e un altro sul fianco, nello stesso modo che i sovrani da stadera usano ricevere i loro umilissimi sudditi.»

A giudizio dello svaligiato impresario dei 450, il Bertani a Napoli, quando per 21 giorni ebbe sovrano potere sullo stesso Dittatore, fece provvedimenti assai buoni: fra essi, l’abolizione del cumulo di impieghi in una stessa persona, l’abolizione del lotto, la fondazione di un istituto per l’educazione dei giovani popolani.

Furono nella sua relazione all’assemblea di Genova dimostrate tristi invenzioni e lo spreco di denari, e i contratti rovinosi per le ferrovie e i numerosi arresti, e gli sfratti, e le persecuzioni a lui addebitate in quei dì. Ma, a sua detta, «fuvvi invece economia oltre la convenienza, furono vantaggiosi ed onesti i contratti per la grand’opera rigeneratrice delle ferrovie, più che mai reclamata dalle nuove e momentanee esigenze di quei popoli; fu invece indulgenza coi Borbonici: fu allontanamento di qualche torbido prete o di maleviso ufficiale: fu l’imprigionamento del generale Ghio che, colonnello a Padula nel 1857, aveva fatto falciare senza giudizio dai paesani armati trentasei seguaci di Pisacane prigionieri, ed era stato nominato da altri in quei giorni comandante la piazza di Napoli e che il Governo poscia rilasciò, troncando il processo, dapoiché ebbe nominato ad alto posto il suo compagno d’armi, il Nunziante.»

Nella supremazia segretariesca il Bertani non dimenticò la sua fissazione contra gli Stati del Papa, anzi su questo punto pungolò continuamente Garibaldi, perché non si lasciasse furare le mosse dal Cavour: e come narrò poi egli stesso alla Camera nel giugno del 1863, «era riuscito ad ottenere che un battaglione almeno di Garibaldini sbarcasse a Terracina, affinché il berretto e la camicia rossa dei volontari fossero segnale precursore a quella gente che non erano abbandonati, che la rivoluzione redentrice si avvicinava e che in loro si confidava per poter ristorare le sorti d’Italia. Ma per effetto di una voce più persuasiva od insinuante, o per altra cagione, anche quel progetto andò a vuoto, e nemmeno il battaglione, che doveva essere comandato dal Cadolini, potè passare quel geloso confine.»


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Il fantasma bigio

Chi molto fa, incontra moltissime accuse, massime se egli sia altezzoso o spiacente.

Bertani, ritornato a Genova, prima che Garibaldi consegnasse il Regno a Vittorio, si trovò in un vespaio di calunnie.

La più atroce fu l’insinuazione contenuta in una corrispondenza da Caserta diretta all'Unione di Bianchi-Giovini, dove si leggeva: «Vi è penuria di medici, abbenché tutti quelli che vi sono adempiano egregiamente al loro dovere, meno il signor Bertani che si occupa esclusivamente di interessi suoi particolari. Io non so se sia tutto vero quel che si racconta, e particolarmente che abbia mandato nel Belgio tre milioni (è forse un po’ troppo), ma non è inverosimile che il provvido dottore, diventato colonnello, abbia pensato di sottrarsi per tempo alla gloria di morir povero.»

Il Bertani non tardò a fulminare l'Unione con una querela giudiziaria; e l’avv. P. Ambrogio Curti, che difendeva il gerente di quel giornale, dopo aver accennato al colore del tempo, alle male voci corse in paese, e a un libello pubblicatosi da un delinquente poliziotto rifugiatosi a Bruxelles, diceva: «Che rimaneva allora a fare al dott. Bertani? Uno era solo il rimedio: il solo che doveva far ammutire calunniatori e cialtroni. La parola di Garibaldi.

«E Garibaldi parlò, e Garibaldi approvò l’operato di Bertani; ed io, coi buoni tutti, applaudimmo, poiché era un dolore di meno all’Italia; e Bertani doveva alle ulteriori dicerie opporre il responso del grande uomo, e la ragione sarebbe stata per lui.»

Questo è quello appunto che aveva fatto il Bertani alla Camera fin dalla seduta del 9 ottobre, quando si discusse delle annessioni. Egli allora disse con vibrata malinconia da cittadino di Gand: «Volevo anch’io fare il mio discorso; era necessario che io vi narrassi il vero travisato anche in quest’aula. Commosso, non tormentato, imbrattai mille fogli di carta per far la mia difesa, che poi ho stracciati; ma la rimando a tempi più calmi...

«Il generale Garibaldi, un uomo così grande, non avrebbe posta la sua fiducia in chi per onestà non gli avesse potuto stare dappresso. Io non sono né turbolento né divoratore di milioni, e fra breve il Governo vedrà netta ogni cosa; del resto io posso vivere onoratamente dei faticosi lavori della mia professione

«La generosità di Garibaldi è pari al suo amore per la patria; desidero che il conte di Cavour sia generoso come lui. L’illustre diplomatico vada a Napoli e stringa la mano all’illustre generale, e sarà stabilita una concordia, una pace tra la Rivoluzione e la Monarchia, tra i volontari di Garibaldi e il rimanente dell’esercito.»

Queste sentenze, che il moderatume d’allora prese in sinistra parte, ora compaiono improntate di alto e sereno patriottismo.

Lasciata la procura della Cassa centrale al suo amico Bellazzi, che ne divenne, secondo l’Arrighi, il parabotte, il Bertani recossi a villeggiare a Miasino sul lago d’Orta, e non tralasciò di mettere in chiaro le pezze giustificative della sua gestione patriottico-finanziaria; e mandò alla luce un opuscolo di protesta contra le calunnie, nel quale figurano persino attestati di entusiasmo rilasciati a lui da patriottiche gentildonne.

Pubblicatosi il 24 dicembre 1860 il formale Resoconto, il Bertani convocò tosto il 4 gennaio 1861 a Genova la plenaria assemblea dei Comitati acciocché lo si giudicasse. La presiedeva il marchese Vincenzo Ricci.

Il Bertani, con una compiuta orazione, narrò le vicende dettagliate delle sue preparazioni guerresche ordinate ad assaltare gli Stati del Papa, e seppe ricavarne fin d’allora con verità profonda la filosofia della storia, avvisando: «Quella tentata e fallita spedizione non fu povera però di risultati, lo ho fermo convincimento che quei nostri propositi determinarono il Governo all’invasione dell’Umbria e delle Marche. L’iniziativa nazionale vinse così nel 1860 la resistenza governativa ed il divieto forestiero del 59 di passare la Cattolica. Un grande beneficio fu adunque ottenuto, poiché quasi due milioni di italiani furono a noi riuniti.»

Sostenne fortemente che egli non si discosto mai dal programma di Garibaldi.

«In Napoli, o signori, permettetemi che qui lo rammenti, non fui meno fedele interprete e promotore del programma di Garibaldi… Ed io qui, voi tutti e l’Italia chiamo a giudizio, se un atto, un convegno, uno scritto, un grido solo da me o per opera mia uscisse mai che accennasse a diverso politico programma.»

Volle dare la sintesi di ciò che potè fare: «Qui dirò a voi, come a tutti gli onesti, che fra le innumerevoli difficoltà procacciate da un governo corrotto, impotente, disfatto, e la instaurazione di un nuovo: col nemico poderoso e riunito a poche leghe dalla città e sparso nella stessa capitale; con pochi nostri armati; col turbine de' tementi e de' petenti; nella difficile scelta di uomini da usarsi e di cose da iniziarsi; tribolati da cospirazioni e pressioni d’ogni sorta e d’ogni grado incapaci a sommovere, ma attivi nell’infastidire; colla mancanza quasi assoluta negli impiegati di ogni gerarchia, potere ed ufficio, della necessaria attività, della preziosa efficacia esecutiva; con tutte queste difficoltà, le cure di quei primi e pochi giorni furono spese in prò dei maggiori bisogni popolari, dell’armata popolare volontaria, della giustizia nazionale, per dar pane infine, lavoro, armi e dignità d’uomo libero a quelle buone popolazioni riconoscenti e devote al loro liberatore.»

L’assemblea, sentita l’esposizione del Bertani, lo esaltò per acclamazione a membro del Comitato centrale, mentre questo doveva rifondere i Comitati di provvedimento per Roma e Venezia, con incarico di adoperarli eziandio nelle elezioni politiche a fine d’aumentare la deputazione garibaldina alla Camera.

Però Bertani rassegnò l’ufficio di membro del Comitato, manifestando l’idea di ritirarsi a vita privata?

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Lo credevano sepolto da se stesso: ed egli comparve presto, maligno spettro, in Parlamento; comparve col profilo di Cassio, come se avesse accettata una parte nel Giulio Cesare di Shakespeare.

L’8 dicembre 1861 ficcò le forbici nel ministero, come volesse sparare un pesce; ed accusò il Governo persino di aprire le lettere private e di sgovernare segnalatamente nelle provincie meridionali.

Il 15 giugno 1863 si avventò con la sua morbidezza spettrale contra il Gabinetto, che gli aveva sciolta l’associazione intitolata La Solidarietà democratica, e stava dicendo, con calma ferirfa, del prefetto Gualterio: «In Genova, nell’incontrarsi di due uomini, nello scambiar di due parole, egli vuol sempre trovare un pericolo per la pubblica tranquillità, una minaccia di anarchia...»

A questo punto avvertì e fissò con intenzione magnetica il ministro Peruzzi, che gli voltava le spalle e giocherellava col tagliacarte ostentando di non dargli retta. Parve che l’oratore le volesse trapanare quelle spalle.

Fece una pausa improvvisa, quasi per cominciare a scuotere il ministro, trafiggendolo col silenzio. Poi ruppe in una sgridata biliosa: — «Ehi, signor ministro, stia un po’ attento qui a quel che si dice.»

L’avvolpacchiato toscano rifilò presto: — «Oh, non la dubiti; sto attento assai; ho l’orecchio buono.»

E il medico milanese, quasi per mortificarlo, esprimendo la sua altezzosa soddisfazione e un comando militare: — «Va bene, attenzione reciproca.»

Allora Peruzzi che non voleva rimaner disotto: — «Benissimo: la vada pure avanti.»

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Sei giorni dopo, in proposito di documenti diplomatici e di politica estera, il Bertani, vieppiù scontento ed inacerbito, parve voler pascersi in una recriminazione retrospettiva di tutta la recente storia nazionale, facendo stridere altre piaghe e tentando sopratutto di diminuire al Cavour i meriti supremi; come a dire la partecipazione alla guerra di Crimea, la chiamata dei Francesi in Lombardia, come se questa fosse stata una banalità secolare da Papi o un’imitazione servile di Ludovico il Moro; l’annessione dell’Emilia e della Toscana; l’impresa delle Marche e dell’Umbria, ecc.

In mal punto egli invocò a testimoni il Bixio e il Sirtori, i quali risposero tosto deponendo in favore della memoria del gran ministro.

Il 10 dicembre 1863 il Bertani fu ancora più esulcerato ed esulcerante discorrendo dei fatti di Sicilia; attaccò Bixio, Bertolani e Govone; ed appuntò il Governo di aver inflitto orribili strazi ad un sordomuto, Cappello.

La Camera, che spesso per mancanza di corrente omogenea fra oratore ed uditorio si manifesta scettica, per non dire cinica, secondo la confessione ricevuta e pubblicata dal Falleroni — risacchiò oscenamente alla descrizione dei tormenti che fecero dibattere una povera creatura.

Allora il Bertani, con un gesto spietato e con un tono di voce mefitica, rimbrottò quei risancioni: — «Non ridete, perché il fumo delle carni arse potrebbe asfissiarvi tutti in questa Camera.»

E terminò, per castigare i colleghi, con la minaccia che non avrebbe mai più parlato, esclamando: — «Ah voi (ne sono certo) ne sarete assai contenti!»

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Questo contegno parlamentare del Bertani lasciava diverse impressioni, e chiamava vari giudizi.

Per esempio Cletto Arrighi nella sua disinvoltura prosaica di giornalista ambrosiano giudicando il Bertani, quale uomo politico e sociale, lo spacciava ambizioso come un pretendente, aristocratico all’occasione come un grande di Spagna; esagerato come un Marat; e perciò riconosceva in esso il perfetto demagogo: intendendo per demagogo colui che ostenta di sostenere i diritti del popolo al fine di acquistarne il favore per poi signoreggiarlo; al eguale uopo richiedesi, secondo la ricetta dell’Arrighi, molto talento e pochissimo criterio, molto coraggio civile e poco riguardo alla pubblica opinione, e sopratutto una dose sterminata di spirito dispotico e dominatore.

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Invece il Petruccelli della Gattina, spirito poetico meridionale, vivamente innamorato dei fantasmi drammatici, affondando, nei Moribondi del Palazzo Carignano lo sguardo sui banchi dell’estrema sinistra, tra Saffi e Miceli — un altro dei mille di Marsala, si chiamava colpito «dall’espressione singolare di una testa giallognola a capelli neri, agli occhi fiammanti. Quegli è Bertani. Al naso aquilino, alla figura fina, acuta, tagliata a lama di spada, al fronte alto, ondulato da piccole rughe, come il mare qualche minuto avanti la tempesta, agli occhi viperini e concentrati, si indovina l’uragano eterno, come quello dei mari polari, che rugge nel suo petto, che si ammoncella nel suo cervello. La sua tinta biliosa denuncia le sue forti passioni; il suo sguardo fisso e magnetico domina e fa paura.... Ha viste larghe e lontane, avvegnaché meno radicali che le si potriano per avventura supporre. Parlando, mira giusto, colpisce a morte, non perde mai la staffa né il contegno. Asperge di acido solforico, e par gittare foglie di rosa ed acqua lustrale.»

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Per la vita parlamentare il Bertani non dimenticò la vita d’azione.

Come nella storia naturale, su migliaia di germi pochi hanno la fortuna di trovare lo svolgimento nella lotta della esistenza, così avviene nella storia politica. La Cronaca della politica segreta è specialmente rivelatrice di movimenti embrionici, che rimasero ciechi.

Tali furono i rimestamenti tentati od obliterati dal partito d’azione nella inveterata questione d’Oriente.

Gli Italiani, secondo i tempi, cercarono di trarne profitto per la loro libertà, cucinando l’Oriente in tutte le salse.

G. R. Marocchetti, nel suo opuscolo pubblicato fin dal 1820 e poi ristampato a Parigi nel 1830, Independanoti d’Italie, e Cesare Balbo nelle Speranze d'Italia, uscite pure a Parigi nel principio del 1844, riponevano le migliori conghietture per le sorti della nazione nel far avanzare l’Austria in Oriente, acciocché ci levasse l’incommodo da casa nostra. Onde era corso l’epigramma:

E il Balbo grida: dai Tedeschi lurchi

Liberar non ti possono che i Turchi.

Il conte Cavour invece lavorò in favore della Turchia, solo per fare , per avere un teatro da riprovarvi felicemente il valore italiano, ingrandire l’importanza del Piemonte ed ammetterlo nel congresso delle Nazioni, acciocché vi potesse poi dire la sua in favore della conculcata nazionalità d’Italia, sopratutto contra l’Austria.

Nel periodo di politica latente dopo la formazione del Regno d’Italia, si pensò da visionari, avventurieri e da veri liberali enciclopedici di cucinare ad un tempo Austria e Turchia a prò delle nazionalità italiana e slava, tedesca, greca e tocca via; o, come si espresse l’esule cosmopolita Marco Antonio Canini nel suo curioso libro Vingt ans d'exil, si mulinò di combinare una rivoluzione sinfonica e sincronica di tutti i popoli dell'Europa orientale contra l’Austria e la Turchia.

Perciò con la sua barba e col suo paludamento da artista del cinquecento, con la sua imponenza da vescovo greco, e col fascino della sua voce melodrammatica da Leandro innamorato di Ero, Marco Antonio si portò al cospetto di Vittorio Emanuele, e gli promise che gli avrebbe fatto trovare ad un castello delle Alpi i magnati e i capoccia più importanti di cinque o sei nazioni.

Si stuzzicava massimamente Garibaldi; e Canini registra perfino la fantasia di farlo imperatore d’Oriente. In una commemorazione recentissima dell’Eroe, tenuta a Venezia in piazza di San Marco il 10 giugno 1883, lo stesso Marco Antonio racconta «Mediatore Ugdulena che era stato ministro in Sicilia nel 1860, Ricasoli offerse a Garibaldi navi, uomini, milioni per andare a portare la rivoluzione in Epiro; ma Rattazzi... gli mise una pulce nell’orecchio dicendogli che Ricasoli lo mandava in Oriente per farlo perire...» Ciò accadeva nel 1861-62. Nel 1864 si trattò di far andare Garibaldi in Rumania, onde sarebbe entrato in Transilvania od in Galizia, terre austriache.

Corsero per questo scopo proposte di abboccamenti; accettate fra il Re d’Italia e Mazzini; quando ruppe la malìa una protesta pubblicatasi nel Diritto della domenica 10 luglio 1864:

«Avuta certa notizia che alcuni fra' migliori del partito d’azione sono chiamati a prendere parte ad imprese rivoluzionarie e guerresche fuori d’Italia; i sottoscritti convinti:

«Che noi stessi versiamo in gravi condizioni politiche;

«Che nessun popolo e nessun terreno sia più propizio ad una rivoluzione per gli interessi della libertà che l’italiano;

«Che le imprese troppo incerte e remote quali sono le indicate, ordite da principi, debbono necessariamente servire più a' loro interessi che a quello dei popoli;

«Credono loro dovere e per isgravio della loro coscienza dichiarare:

«Che l’allontanarsi dei patrioti italiani in questi momenti non può che riuscire funesto agli interessi della patria.»

Allora il Re dichiarò di essere stato compromesso dalla denunzia del Diritto in faccia all’Europa, e di non volersene più mischiare.

Mazzini avrebbe tutto al più concesso Menotti alla Gallizia; ma voleva riserbare Garibaldi padre per il Veneto; insomma anche stavolta non se ne fece nulla.

Il compilatore della Politica secreta italiana (18631870) elenca Bertani nella protesta del Diritto contra la partenza di Garibaldi per l’Oriente.

Nella impresa garibaldina del 1867 il Bertani fu poi visibilmente magna pars.


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Vita di laboratorio

Il Bertani, quando non fa la vita parlamentare o di azione, entra nella vita di laboratorio; e ne esce temperato da una freddezza, quasi si direbbe imparzialità scientifica.

Allora le sue proposte sentono la calma, l’attenzione e la tenacia sperimentale di un osservatorio o di un gabinetto di fisica e chimica.

Tale il disegno che egli presentò fin dal 5 dicembre 1871 per una inchiesta agraria, della quale divenne poi uno dei più operosi e diligenti membri, illustrando particolarmente le provincie di Porto Maurizio, Genova e Massa-Carrara. Per conoscere le condizioni delle classi agricole, egli rivolse un minuto e curioso questionario ai medici condotti di tutta l’Italia. Volle sapere da loro un mondo di cose; ad esempio se vigeva nei loro villaggi il brutto vezzo di cantar canzoni oscene, se nei dormitori rustici lamenta vasi la confusione dei sessi, quale era nei singoli luoghi la frequenza del precetto pasquale, quale il periodo del cambiar le lenzuola in letto o di mettersi la camicia di bucato, ecc., ecc.

Per l’agricoltura scientifica egli sostenne a più riprese la petizione delle società agrarie lombarde dirette ad evitare la soverchia esportazione delle ossa intrapresa dagli stranieri, massimamente inglesi, che dopo avere rovistato i campi di Lipsia, di Vaterloo, di Crimea, e persino dell’Egitto, ed avere spogliato le catacombe di Sicilia, presero a ricavare dall’Italia circa 6 milioni di chilogrammi all'anno di ossa di bestiame; onde il nostro terreno cominciò a depauperarsi di fosfati e quasi si interrompeva per noi il circolo della natura. Alla Camera, nella seduta del 4 dicembre 1876, egli ebbe su questo tema un vigoroso e festivo adiutorio nell’onorevole Mussi.

Il 9 dicembre lo stesso Bertani svolgeva il suo progetto riparatore per imporre un dazio di cinque lire per quintale sull'esportazione delle ossa, delle unghie e delle corna di qualsiasi qualità, condizione e provenienza, e per aumentare il dazio di esportazione della colla da 3,75 a 5 lire per quintale.

Siccome la principale obbiezione che gli si faceva era che in Italia non si sapevano lavorare ed usufruire tali ossa, onde piuttosto che tenercele inutilmente era meglio negoziarle coi forestieri, egli disse: «Temete voi forse, onorevoli colleghi, onorevoli ministri, che queste ossa restino inservibili in casa nostra? Ma perché, lasciatemelo dire, si serbano allora in obliate catacombe le centinaia di migliaia di tonnellate di ossa confuse, per le quali nessuno più, da un secolo almeno, serba ricordanza ed affetti?

«Ma provvedete almanco per le ossa degli animali, facendo insegnare da maestri ambulanti nelle campagne, come fate pei vini e come io vi proporrò, la maniera di profittare di quei preziosi materiali, e instituite le ambulanze veterinarie.»

*

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Il Bertani, per chiudere il circolo della natura, per ritornare alla terra ciò che è stato tolto alla terra, e per torcere a carnevale dei campi il motto che preludia alla quaresima delle anime, non si contentò di predicar bene alla Camera la causa dei concimi nazionali.

Non si adontò, se qualcuno elevava contro a lui la boccetta d’acqua di Colonia: egli, profumo contra profumo, invocava dalla sua parte l’ambrosia delle Muse, e sopratutto la Musa di Vittor Hugo, che nei Miserabili canta su per giù: «Alla fin dei conti sapete che cosa è tutta questa materia... ripugnante? È prateria in fiore; è verzicare d’erba; è odorare di serpillo, di timo e di salvia; è frullo di beccaccia, che s’innalza dalla macchia; è solida letizia di pecorame che bruca; è muggito soddisfatto dei grandi buoi alla sera; è olezzo di fieno inebbriante, primissimo tabacco alle pipe legnose dei vaccari; è messe dorata; è pane affettato alla vostra mensa; è sangue caldo che corre e picchia nelle vostre vene, è salute, è gioia, è vita, ed è sopratutto amore.»

Fatto sta ed è che il Bertani nel 1876 a Genova mise su in Bisagno una fabbrica di concimi artificiali utilizzando tutte le carogne animali, che prima si buttavano in mare e andavano a male. La fabbrica riuscì eccellente; ed il prodotto ne andò assai pregevole in mercato, ma per le gravi spese di trasporto, non essendo la merce a facile portata dei consumatori, lo spaccio e il ritratto pecuniario non furono da principio proporzionati; onde il fabbricante rimasto col corto da piede, mi dicono, averci rimesso qualche sessantina di migliaia di lire del fatto suo; guadagnandosi però i dispettacci litigiosi dei vicini di casa ed appioppato volgarmente al suo titolo di deputato un nomignolo tolto da quid faciat laetas segetes.

Quindi se i lucri professionali all’eminente medico chirurgo concedono tuttavia di autunnare sul lago d’Orta nella villa che già cedette ai marchesi Solaroli, riservatasene per comodato l’abitazione vitalizia; e se quei lucri gli concedono tuttavia di offrire per bocca di Cavallotti la sottoscrizione di 200 lire al maggior appannaggio del Duca di Genova, come già il Sella aveva voluto sottoscrivere per un ricordo all’impresa Pisacane — è altresì onorevole pel Bertani che egli, come tutti i veri patrioti italiani, non siasi punto arricchito; onde cade cento volte la vecchia fola spacciata dal corrispondente dell’Unione.


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Il Papa dell’estrema Sinistra

Nella Legislatura XIII, capo riconosciuto dell’estrema Sinistra, egli fu inglesemente l’uomo più accomodato al proprio posto: the right man in the right place.

Il 24 febbraio 1877, prendendo a discorrere sullo schema delle incompatibilità parlamentari, egli espose il programmino del suo manipolo:

«Noi non abbiamo ponti da gettare o da passare... Non comprendiamo tante distinzioni tra liberali moderati, liberali avanzati od estremi. Noi vogliamo avanzare coi fatti, e ci chiamiamo puramente, schiettamente liberali.»

Egli sostenne l’illimitato rispetto alla libertà elettorale, della quale le incompatibilità pegli impiegati si presentavano come una restrizione; però, a suo senno, l’impiegato entrando nella Camera doveva perdere la qualità e lo stipendio di impiegato.

L’oratore dell’estrema Sinistra tasteggiò tutto il vasto tema, ma solo per avere occasione di uncinare e trarsi dietro la completa riforma elettorale.

Se no, no.

Se no, egli voterebbe contro alla leggina, non adontandosi di trovarsi insieme coi migliori della Destra, non essendosi mai vergognato di votare leggi liberali coi Morpurgo, coi Villari, coi Guerrieri-Gonzaga, coi Tommasi-Crudeli, ecc.

Egli conchiuse: «Destra o Sinistra per me non monta... Facciamo il bene della nazione... Se la potenza di fare il bene per tutti ne uguagli la volontà, l’animo umano non domanda altro cielo.

«Carlo Cattaneo nel 1848, 1849, 1859 ci diceva: — Combattete e tacete. — Nel 1860, quando fu assicurata l’unità d’Italia, egli mi disse raggiante in Napoli: E adesso? Attenti: la sola parola gratitudine può fare tacere in Italia la parola repubblica.»

Ciò, secondo la Jessie White Mario, aveva già detto il Cattaneo nelle Cinque giornate di Milano al messo di Carlo Alberto, conte Enrico Martini: «Se il Piemonte accorre generosamente, avrà la gratitudine dei generosi di ogni opinione. La parola gratitudine è la sola che possa far tacere la parola repubblica.»

Al termine di quella discussione il Bertani propose che la legge delle incompatibilità parlamentari andasse solo in vigore con la nuova legge elettorale; ma nell’appello nominale del 2 marzo egli ebbe appena 15 voti dalla sua parte.

Nella seduta del 17 marzo 1877 si lesse una proposta di legge presentata da lui per facilitare le spese dell’istruzione obbligatoria, coll’instituire come battesimo della scienza la tassa di una lira per l’iscrizione di ciascun neonato non indigente nei registri dello stato civile.

Il 27 aprile sfornò la sua interpellanza sullo scioglimento di associazioni, alcune delle quali si occupavano di temi scientifici (ilarità). E il ministro dell’interno Nicotera, che negava di rispondergli trattandosi di fatti sottoposti all’autorità giudiziaria, gli diceva: «è una certa scienza, onorevole Bertani, che in Italia non molti sono disposti a seguire.»

Il 14 maggio successivo il Bertani parlò sulla legge che modificava la dotazione della Corona, liberandola di alcuni stabili devoluti al Demanio, e portandola da 12,250,000 lire a 14,250,000, mentre nel 1862 era stata fissata a 16,250,000.

Il Bertani, come un operatore che non volesse cominciare l’operazione prima di avere intorno a se certi assistenti, esigette, prima di aprir bocca, che si traducesse al suo cospetto il Presidente del Consiglio Questi mandato a chiamare, benché malucciato, entrò (come figura negli atti ufficiali) zoppicando a braccetto del collega dell’interno Nicotera; ed ebbe dalla Camera il permesso di parlare seduto. Il Bertani cominciò: «Duolmi che la mia insistenza per avere nell’aula il Presidente del Consiglio, insistenza contraria alla doverosa pietà della mia professione, lo abbia obbligato a tanto incomodo.» Quindi l’oratore espresse il desiderio che fosse universale la riverenza verso chi rappresenta col proprio nome e colla volontà dei plebisciti l’unità d’Italia; ma domandò la presentazione di una legge per sottoporre alla sorveglianza del Parlamento l’amministrazione della lista civile.

Il 17 maggio 1877 si adunò col Budini per sorridere malamente al ministro Nicotera.

Coltivando le grandi questioni politiche, non dimenticò il suo tema agrario. Il 19 maggio 1877 sulla particolarità della produzione ippica combatté nuovamente gli stalloni governativi, ripeté che il mescolamento del sangue nordico col sangue meridionale fu veramente uno sproposito da cavallo, condannato dalla scienza e dalla esperienza: inculcò che si doveva ritornare alle nostre razze, al nostro tipo, migliorandolo col sangue meridionale più conveniente. Così soltanto si potrà formare il cavallo soldato e il cavallo popolo, che serva alla nostra agricoltura e alla nostra industria: e non si avranno soltanto quei cavalli da corsa e quei cavalli di lusso, per cui si domandano sangue e scheletri alle altre nazioni. Egli inorridiva, perché a Catania, nella città nativa del ministro di agricoltura, vi fossero appena 12 stalloni orientali e 18 tra inglesi, francesi, mecklenburghesi, prussiani e vattelapesca; e conchiudeva domandando che si convertisse l’instituzione degli stalloni governativi in soccorsi del Governo ai produttori intelligenti, appoggiati alla scienza e alla pratica.

Il 22 maggio 1877 si lesse un altro schema di legge proposta dal Bertani per abolire la tassa del macinato, sostituendovi una tassa sulla produzione dei cereali a carico del coltivatore ed una sopratassa per la importazione frumentaria.

Egli, inanimito dal suo felice capitanato della estrema Sinistra, diventava una fucina di leggi di iniziativa parlamentare e prendeva l’aire nelle interrogazioni contra i parroci, che facevano retrocedere le bandiere nazionali dalle sepolture, ecc., ecc.

Nel giugno del 1878, finita una certa interrogazione dell’onor. Chimirri sopra un fatto, che poteva sceneggiarsi a dramma col titolo: Il Prefetto e l’Esattore, l’onor. Agostino Bertani, il quale pur sapeva che l’Italia aspettava il riposo delle tasche, anche senza il corrodimento della monarchia, svolse il suo progetto di legge per sostituire una imposta diretta sui cereali alla tassa del macinato.

L’onorevole rappresentante dell’opima Vercelli, il Guala, il quale, oltre alle nozioni teoriche di economia politica, di cui fu professore nell’istituto tecnico della natia città, doveva rappresentare la conoscenza pratica di quel senno provato che fiorisce nei maestosi fòri frumentari del Piemonte, oppose al disegno del Bertani la considerazione che esso farebbe precipitare direttamente i 70 od 80 milioni del macinato sulle spalle della fondiaria, le quali non sono poi alla fine del salmo le spalle di Atlante, perché debbano e possano sopportare il peso di tutto il mondo economico.

Nessuno però ricusò al progetto dell’illustre Bertani la gentilezza della presa in considerazione.

Sul bilancio dell’interno egli cominciò fin d’allora a snocciolare la sue considerazioni sanitarie e umanitarie contra la prostituzione patentata, considerazioni raccolte poi in volume, e citate dall’elegante De Renzis insieme con gli atti della Confederazione britannica continentale generale nelle relazioni su quel bilancio, chiamato il bilancio morale di un popolo.

Altro tema favorito dalla competenza scientifica del Bertani è quello delle condizioni morali e materiali delle carceri.

Il furore igienico spinse persino il dott. Agostino, sul finire della seduta del 18 maggio 1883 a domandare che si aprissero quelle finestre che nella nostra Camera non ci sono: «Io credo, egli disse, che l’ordine del giorno proceda lento e variatamente interrotto, per mancanza di ossigeno in questa Camera..

Si narra che nella Camera inglese, chi dice Newton, chi un altro deputato che non aveva mai parlato per anni, aprì la bocca la prima volta proponendo di fare aprire una finestra... Parlo anch’io, se non per la prima volta, per chiedere alla Presidenza di trovar modo di fare qualche buco in queste finzioni di finestre, e darci così un poco d’aria pura (Bene! Bravo!). Io confido nel genio architettonico italiano...»

*

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Ma udiamo la pacatezza scientifica di lui nelle più spiccate commozioni politiche.

Nella discussione parlamentare, dopo l’attentato del Passanante, il deputato Bertani, questo fantasma bigio, questo spauracchio degli spericolati che temevano la repubblica, disse pressapoco così: «Noi dobbiamo dare il perché del nostro appoggio al ministero … Per noi esso è eminentemente conservatore. Noi non intendiamo anticipare i tempi, ma spingere questi uomini onestissimi a secondare il presente

«...L’estrema Sinistra, incoraggiando il Governo nel suo programma, reca vantaggio anziché danno alla monarchia, il cui destino è indissolubilmente legato al programma di libertà

«...Respingiamo ogni solidarietà con i rancori e le opere nefaste di partiti, più nefaste ancora perché un solo giuramento lega quanti sono qui dentro, e nessun atto può essere apposto a noi e ai nostri amici che a tale giuramento sia contrario

«...Nessun italiano può nutrire odio verso re Umberto. Egli merita dalla democrazia il titolo di alto gentiluomo; onde noi ci inchiniamo riverenti dinanzi all’erede dei plebisciti (Benissimo!). Però non ci dissimuliamo che la miseria e l’ignoranza possono esaltare i cervelli fanatici; e così spieghiamo l’attentato, poiché è orgoglio italiano il ritenere che non possa essere uomo sano di mente colui che tentò l’enorme misfatto

«...Esortiamo la Camera a respingere il sospetto che la Sinistra estrema possa fare propaganda sovversiva. Essa intende i tempi. E li intende sagacemente colui che sa conciliarsi la stima e la popolarità nazionale; chi strinse la mano agli operai e vide sventolare la bandiera rossa senza sgomentarsene» (Bene!).

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Come mi scrisse chi lo conobbe molto da vicino, il Bertani sa molto di vivere nello spazio e nel tempo e vi si adatta.

In fondo deve essere repubblicano, ma repubblicano un po’ alla Giusti, nella sfera dell’astratto; quindi in pratica, per servire la patria e la libertà,. non alieno dall’accettare un portafoglio sotto la monarchia costituzionale.

Siccome quegli che sente molto l’ambiente e lo sente con la nervosità barometrica di un artista, il Bertani, a detta del suo citato conoscente, sembra quasi un altr’uomo, secondo che lo si osserva a Genova od a Roma. A Genova, in mezzo ai fastidi degli affari e alla numerosa clientela dell’umanità sofferente, egli si umanizza di più, diventa più pratico e più tenero, fino a farsi vedere a braccetto del prefetto o del regio sindaco.

A Roma, invece, circondato dai repubblicani ideologi, si mantiene maggiormente nelle nuvole e disdegna di posarsi al Quirinale. Ma quando si chiude in se stesso, per un esame storico, egli rende giustizia storica eziandio al papato.

Fu lui (come notò il Galati), fu Bertani e non Cantù, non D’Ondes Reggio, non padre Curci, fu il repubblicano Bertani che scrisse: «Il papato, successore della più gloriosa repubblica e del più colossale impero, resta nella storia come la più potente rivelazione del genio italiano… Papa Ildebrando concepì la monarchia universale, perché la sentì compenetrata nella coscienza dei popoli; ed a tanti secoli di distanza, nel 1848, l’Italia si scosse ancora» con il sogno della scuola neo-guelfa, ed il popolo si sollevò contro il dispotismo de' suoi principi, al grido di: Viva Pio IX! Mirabile durata di una forma potente, che gettò sprazzi di luce anche nell’agonia!»

Quest’alta considerazione verso il papato rivela nel Dottore non solo l’artista, ma l’economista nazionale. Pare quasi che egli riguardi l’instituzione cattolica, che ha il centro in Roma, tuttavia come il maggior negozio italiano, a cui siano tributari gli stranieri.

Leggendo quell’opuscolo del Bertani: — gli è un pensiero da fabbricante di concimi artificiali! — commentò nel caffè di un villaggio un certo affittaiuolo miscredente, il quale in un giorno di protratto alidore, per vendicarsi del tempo ostinato a non piovere, aveva tirata una schioppettata in cielo dicendo che voleva accoppare Domine Dio.

Un medico condotto assai sboccato si abbandonò alla allegria irreverente di fantasticare che il Bertani sarebbe capace di fondare una società anonima per raccogliere il Guano del Concistoro o del Conclave.

Per lo contrario un giovane dilettante di ideologia puritana e patriottica, partendo da quel passo citato di filosofia storica, si permise di scrivere il seguente parallelo fra il Bertani e Leone XIII nel gennaio 1879:

«Nel giorno stesso (!), in cui ricorreva il primo anniversario della morte di Vittorio Emanuele, fondatore dell’unità e della libertà nazionale, si pubblicarono due documenti usciti dai poli opposti della vita italiana; intendo dire l’enciclica di Leone XIII contro ai socialisti, e la lettera dell’onor. Bertani, papa dell’estrema Sinistra, all’onor. Quintino Sella.

«Ambidue i sullodati pontefici sono scrittori valenti, non vuoti, non digressivi, non perdigiorno; con passo vellutato, quasi felino, ambidue, facendo vista di ornare, più che di palliare, la loro bandiera, si accostano ad agguantare ciò che vi è di più sostanziale nella vita presente.

«Papa Pecci, per l’indole stessa della sua vita, pel suo abito e pella tradizione pontificia, è più classico, ha maggiore unzione; discorre con un fare largo e condensato, alla guicciardina.

«Il dott. Bertani appartiene quasi al genere romantico; ha del fantasma bigio del nord; a qualcheduno, leggendo i suoi scritti, pare di veder passare streghe fra la nebbia; qualchedun altro, ascoltandolo, sente talvolta Un guizzo gelido di stridore.

«Ma ambidue nella sagacia, nella gagliardia o nella difformità delle loro frasi, mantengono costantemente la propria dignità personale.

«Non c’è caso che papa Leone esca mai nelle malignità intemperanti alla Don Margotti, il quale scrive quotidianamente come se la sua clientela fosse un pubblico di serve da spaventare o di burloni da esilarare: tanto che i giornali serii di tanto in tanto sono costretti a dare qualche buona strapazzata al bilioso teologo, che l’altro giorno pure insultò il lutto nazionale, arrogandosi la parte di giudizio universale sul gran re Vittorio Emanuele, ed incolpandolo terribilmente di avere toccato gli interessi materiali delle chieriche nella piccolezza di fondare o di redimere la nazione.

«Ai begli umori il direttore dell'Unità Cattolica fa l’effetto burlesco di quel pievano che, confessando un contadino, se la cava con una soffiata di naso e con il borbottio di una giaculatoria, se il penitente gli racconta di avere tagliato le viti al medico condotto, tanto più quando questi è libero pensatore; ma, se il penitente gli racconta d’avergli toccato in un dito la Perpetua, allora egli nabissa, urla alla dannazione, alla dannazione dell’anima, alla dannazione eterna.

«Ritornando a papa Leone XIII, non c’è proprio caso che egli si abbandoni mai alle trivialità di un volgare pretoccolo, che pretenda interrorire o divertire gente volgare. Il sommo Pontefice ha tutta la severità dell’uomo sodamente e largamente colto, il quale nelle fiorite armonie delle scienze e delle lettere non trova neppure il tempo di fare il cattivo, anche se dovesse farlo per professione.

«Già si vide nelle sue pastorali arcivescovili raccolte nel volume del Bonghi, come l’odierno Papa sappia citare Montesquieuristotile, Platone, il commediografo Terenzio, Ugo Foscolo, la vita di Beniamino Franklin e la Revue des deux mondes; — egli è capace di incontrarsi, scrivendo un’enciclica, in una sentenza di Terenzio Mamiani, uscita da poco tempo sulla Nuova Antologia} si lascia tradurre una sacra elegia, suo parto poetico, dall’eretico Cavallotti.

«E questa umanità letteraria non nuoce certamente alla umanità pontificia.

«La forma letteraria ha permesso al Sommo Pontefice e al dott. Bertani di far scivolare le loro vecchie idee, tenacemente mantenute, senza renderle vistosamente odiose.

«Così Leone XIII combatte dalle radici la sovranità nazionale, quando lagnasi acerbamente, perché «si andò dicendo che l’autorità pubblica non riceve da Dio né il principio, né la maestà, né la forza di comandare, ma piuttosto dalla moltitudine, la quale, stimandosi sciolta da ogni legge divina, a quelle appena tollera di restare soggetta ch’essa stessa a suo piacere abbia sancite.»

«Insomma il Sommo Pontefice, sotto il velame dei suoi versi poco strani, invoca il diritto divino per crismare egli stesso i re e i legislatori, poiché fede di mal occhio che i popoli si siano accinti a scegliere da loro stessi i legislatori e i re.

«Certamente il miglior sistema di governo è la Ragione od il Diritto (non parlo di giornali); è la legge assoluta, e chiamiamola pure divina.

«Ma quando Domeneddio non si vede mai discendere in persona a promulgare gli statuti e a far gemere i torchi della Stamperia Reale, non mi pare poi che i popoli abbiano tutti i torti a farsi le leggi da loro stessi; perché queste leggi riguardano alla fin dei conti i loro averi, il loro sangue, la loro pelle, e la maggior presunzione dell’utile onesto si ricava finora (nell’insufficienza di altri scandagli) dal consenso della maggior parte dei cittadini.

«Questo si ammette tanto più volentieri e ragionevolmente, quanto più fecero cattiva prova nei tempi passati coloro che avevano la pretesa di rappresentare meglio la legge divina e si atteggiavano a Domini dominantium. Infatti i signori pontefici unsero, bisunsero e sgrassarono certi re non solo senza lume di legge divina, ma con manifesta lesione della giustizia più volgare.

«In un altro luogo il Sommo Pontefice ridomanda bellamente il potere temporale, quando scongiura i principi che «ridonino alla Chiesa quella condizione di libertà, nella quale possa efficacemente dispiegare i suoi benefici influssi a favore dell’umano consorzio.»

«Veramente non potrebbe immaginarsi maggior libertà pel Sommo Pontefice di quella che dà prova di esercitare per il bene precipuo del suo ministero, ora che egli è spastoiato da ogni cura di governo temporale.

«Se egli avesse dovuto assistere a un Consiglio di ministri, firmare qualche sentenza di morte, spiccare un brevetto di colonnello, ecc., forse non avrebbe avuto il capo e il cuore così liberi per attendere estesamente ai bisogni morali dell’umanità. Notisi: estesamente; imperocché bisogna convenire che le bottate di dottrina pontificia archeologica sono date da lui quasi di passata nell’enciclica, e direi per semplice omaggio a una tradizione inveterata.

«Lo stesso accenno alle dottrine del secolo XVI, incolpate di avere generato i malanni sociali d’oggidì, è messo alla sfuggita. Infatti il Sommo Pontefice nella calma della sua dottrina storica deve riconoscere troppo bene a quali maggiori strazi e disonestà fossero condotte prima della Riforma la Chiesa e l’umanità, a cagione appunto degl’interessi e dei godimenti materiali, di-cui i preti vantavano e volevano esercitare il monopolio.

«Ma, all’infuori di questi accenni, la sostanza dell’enciclica versa sul costume pubblico e ammanisce vere medicine sociali, in quanto inculca la santimonia della famiglia e il rispetto alle gerarchie costituite legittimamente e naturalmente.

«Se i preti ne porranno in pratica gli insegnamenti, e dimostreranno di curarsi più del bene delle anime che dei loro interessi e godimenti materiali, se insomma daranno a vedere che a loro importa meno la Perpetua che il Signore, noi per i primi siamo disposti non solo ad applaudirli, ma a canonizzarli.

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«Il dottor Bertani anche lui, come il Pontefice, lancia la sua offa in bocca alla pertinacia delle opinioni stantie; e fa un po’ di alchimia filosofica sulle fondamenta del nostro diritto pubblico.

«Ma l’egregio dottore, così pensoso attore e sagace spettatore della nostra storia, sa troppo bene che la monarchia costituzionale non è neppure discutibile davanti le menti e soprattutto davanti i cuori della maggior parte degli Italiani; essa è il risultato logico, legittimo, doveroso di una riconoscenza nazionale, e, per dirla tedescamente, di un afflato storico.

«Per loro, pensare di distruggere la monarchia costituzionale italiana è pensare a distruggere l’unità e la libertà nazionale, secondo la più diretta applicazione della teorica sul merito e sulle ricompense. Ora poiché il governo monarchico rappresentativo è il perno storico del nostro essere di nazione, bisogna adoprarci perché esso funzioni il più utilmente, saldamente e pulitamente possibile.

«A questo parmi miri la sostanza scientifica della lettera del dottore Bertani, dopo che egli ebbe pagato il tributo all’alchimia della sofìstica.

«Egli perciò fa appello a tutte le forze di intelletto e di cuore che vi sono nel Paese, e fa un’invocazione poetica ai campioni del partito opposto, a Sella, a Minghetti, a Luzzatti, a Villari, a Morpurgo, a Spaventa, a Mantellini, a Puccioni, ecc.

«Insomma pare che il maggior Prete voglia tornare alla rete delle anime.

«Pare che in una nube fantastica o coreografica l’estrema Sinistra voglia unirsi in un abbraccio colla Destra pel bene del popolo e al suono della marcia reale.

«L’anno 1878 fu un anno per eccellenza dissolvente.

«L’anno 1879 farebbe proprio il suo debito di riparatore, se si accingesse a congiungere pel bene d’Italia qualche cosa d’onesto e di vitale, e meriterebbe i bravo! e i iene! più cordiali, se vi riuscisse in qualche modo.»

Questi i genuini discorsi che scritti o parlati correvano nel principio del 1879.

Il Sella non. rispose pubblicamente al Bertani.

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Il maggior stimolo di quest’ultimo rimase per la riforma elettorale.

Il 29 aprile 1879, dopo che si era riconosciuta a stento la Camera in numero legale, mediante il rinnovato scrutinio segreto sulla convenzione addizionale pel Gottardo; dichiarata quest’approvazione, il presidente lesse una proposta dell’onorevole Agostino Bertani, il quale domandava che il disegno di riforma elettorale, senza passare per la trafila degli uffici, fosse tosto esaminato da una Giunta di 11 deputati, che la Camera avrebbe eletti, purché si impegnassero a presentare la loro relazione nella prima quindicina di maggio.

L’onorevole Ercole oppugnò energicamente questa proposta, dicendo che in una materia così grave ne bisognava procedere col calzare del piombo, e non operare a salti passandoci di quelle norme e guarentigie, che furono fissate per la posata vagliatura dei disegni di legge.

Per lo contrario gli onorevoli Lazzaro e Vare trovarono accoglibile la proposta del Bertani con qualche emendamento, e fornirono esempi di accorciata procedura parlamentare.

Il Presidente del Consiglio lasciò libera completamente la Camera sulle norme che volesse seguire per la discussione del progetto di legge, purché se ne venisse a capo rapidissimamente e in quella stessa sessione.

Quindi l’ordine del giorno puro e semplice, proposto dall’onorevole Ercole, venne approvato colla massima maggioranza.

Mehercule! commentò latinamente un giovai pentito che aveva votato per Ercole: — Mehercule! la proposta Bertani non era poi poi il diavolo: perché in qualsiasi tribunale o assemblea ogni scorciatoia di procedura è una mano di Dio per guadagnar tempo e per farci veder chiaro; poiché più si chiacchiera e più si imbrogliano le cose. Quando la questione è portata allo stadio del giudizio o della deliberazione, è naturalmente matura; allora oportet studuisse, non studere; e il più splendido discorso e la chiacchiera più fitta non sono mai riusciti a levare un ragno da un buco. Non voglio dire che la Camera ed io, indegnamente sua particella, abbiamo respinto la proposta Bertani in odio all’autore; ma anche la mosca ha la sua collera. Ed è certo presumibile che, se i 44 del concistoro dei Due Macelli non avessero parlato con grottesca prepotenza e non avessero imposto su due piedi al Paese di dare loro legalmente tutto quanto essi desiderano, sotto pena che essi se lo piglino illegalmente, forse i loro desiderii onesti, proposti in forma legittima, sarebbero stati più facilmente soddisfatti. Insomma sono sempre le esagerazioni che fanno indietreggiare le utili e possibili riforme. — L’onorevole Bertani, dopo che vide così universalmente rigettata la sua proposta, discese dal suo settore a balzi di pallida e inguantata fierezza.

Si dubitò che egli siasene poi consolato prestamente all’annunzio datone da Farini, che il progetto elettorale sarebbe sottoposto all’esame degli uffici nel giovedì di quella stessa settimana.

Però il Bertani non ebbe la soddisfazione di poter votare la riforma elettorale alla Camera.

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Un anno dopo (e secondo lui fu un altro anno perduto per la riforma), sul finire dell’aprile 1880, egli che poco prima si era mostrato così cavallerescamente severo verso la signorina Matilde Serao, per certa lirica in prosa sul Reale fanciullo — sfoderò tutta la sua ovatta per proteggere l’assediato Depretis; ma fu invano.

Il ministero venne battuto e la Camera minacciata tosto di scioglimento.

Allora vedemmo il Bertani uscire all’aria aperta: e ricordiamo il resoconto di una sua arringa sub diu, la ricordiamo nella minuta prosa di una corrispondenza giornalistica d’allora.

Il corrispondente era il solito ingenuo:

«Della serietà e serenità popolare ha dato un esempio il popolo di Roma, nelle cui vene circola tanta onda di classicismo indomito e il cui atteggio è la fierezza.

«Il 30 aprile si era fatta a Porta San Pancrazio, per cura dei Veterani e dei Reduci dalle patrie battaglie, una pia, solenne, piena e commovente commemorazione anniversaria di quella gloriosa giornata del 1849.

«Ma non contenti i sopracciò della democrazia, avevano indetta un’altra commemorazione più popolare e avevano scelta la domenica per invitarvi specialmente gli operai, dicendo loro che non avevano, voluto distoglierli dal lavoro in altro giorno.

«L’invito era fatto per le 2 pomeridiane.

«Io mi trovai a San Pancrazio all’ora precisa; lusso di carabinieri e di guardie di pubblica sicurezza; pochi festaiuoli incamminati a bere la foglietta nel capannone del Belvedere o di altre osterie; i soliti visitatori incamminati alla villa Pamphili e nessun accenno di dimostrazione.

«Attesi un’ora con qualche amico, commentando la precisione poco reale della democrazia sovrana. Finalmente giungono in carrozza i principi della democrazia, l’onorevole Bertani, la famiglia repubblicana dei Nathan, devota alla memoria di Mazzini, colle loro leggiadre signore; il signor Brusco Onnis. ecc.; arrivano pedetentim alcuni scrittori repubblicani della Lega, il Castellazzo autore del Tito Ve zio, il Socci, Curzio Antonelli, ecc., e fanno gruppo separato dagli scrittori repubblicani del povere.

«Ma il grosso della dimostrazione seguita a ritardare o meglio a non venire affatto. Insomma al categorico invito dei democratici nessuna corporazione operaia rispose col proprio intervento al luogo detta dimostrazione. Mi si disse che sopra una trentina, poiché di esse non se ne devono contare di meno, appena la corporazione dei cappellai si era mossa colla sua bandiera, e, vistasi sola, ritornò indietro.

«Adunque la commemorazione seguì in famiglia fra apostoli e pubblicisti della democrazia, reporters e pochi curiosi.

«Due o tre giovanotti fecero scala salendo sulle spalle l’uno dell’altro, e il sovrano di essi affisse sulla lapide commemorativa del Vascello una bella e florida corona di semprevivi dedicata a chi cadde per la causa del popolo.

«La musica suonò l’inno di Garibaldi e i Fratelli d'Italia sempre inebbrianti.

«Sotto la lapide, fra la ressa, cominciò un oratore, le cui note giungevano interrotte da un guazzabuglio di voci.

«Credo fosse Siro Fava; e in qualche punto dovette essersi lagnato che il popolo, dopo aver tanto combattuto, sia ancora condannato a vedere ritta la croce sul Vaticano, perché i rappresentanti del popolo, i deputati... — Sono tutti preti! — gli fu risposto da qualcheduno della folla: — locché cominciò a produrre un fremito di ilarità.

«Quindi la musica risuonò più forte dell’oratore.

«Allora fu fatta avanzare una vettura e indotto a salirvi l’onorevole Bertani.

«Questi, tutto infoderato di nero, coi guanti neri, agitando il nero cappello a cilindro, la faccia terrea, ma secura, disse che, benché rappresentante del popolo in Parlamento, non si reputava indegno di parlare al popolo di quelle glorie patriottiche onde egli era stato testimone; che queste glorie popolari erano incontestate; inutile quindi fermarcisi troppo, e troppo comodo pascersi esclusivamente del glorioso passato; bisognava altresì pensare al presente, mandando buoni rappresentanti al Parlamento, che, nei limiti della legge, procurassero i beni promessi dalla sacra parola del Re, a cui mescolò il suffragio universale e la Costituente.

«Sulla Costituente si fissò naturalmente Alberto Mario, che fu fatto salire alla tribuna della botte, dopo che ne era sceso il Bertani.

«Alberto Mario mostrava un taglio alto, ondulato e snello di vita, impastranato in un lungo soprabito verdastro, che gli colava addosso come la pelle di uno smagliante serpente; ergeva la testa artistica, arieggiata da capelli lucenti come filigrana e fini come vetro filato; teneva cristallizzato nella disseccazione del profilo un inespugnabile sorriso di dottrina e di idee prefisse.

«Parlò con quell’ostinazione di garbo e di serenità con cui si intestò quasi sempre di scrivere.

«Disse che il popolo vero fu sovrano, esercitò la sua sovranità soltanto nel quarto d’ora dei plebisciti, passati i quali la sua sovranità venne ridotta di 16 diciasettesimi nel suffragio ristretto; onde bisognava reintegrare il suffragio universale e fondarvi la Costituente, pattuita nella fusione quarantottesca della Lombardia, argomento questo che era il suo cavallo di parata.

«Succedette al Mario sulla carrozza Brusco Onnis, tozzo, grasso, rosso umido, come un prete scaccino, egli gran sacerdote dell’Idea! predica gonfiando le corde del collo: — La Costituente sta bene, il suffragio universale sta bene; ma bisogna siano preceduti dalla rivoluzione. Senza questa, il suffragio universale vale quanto il suffragio delle anime del Purgatorio; può anche legittimare, come avvenne in Francia, l’impero di un malfattore. Prima di costituire, prima di fabbricare il nuovo, bisogna distruggere, annullare il vecchio...

«Ebbe anche lui un’allegria di applausi.

«Luccicava in tutti gli occhi la convinzione di non fare opera feroce né letale.

«Una bella figura di vecchio, che voleva spingere gli oratori a parlare, si appressò a qualchedun altro, per dirgli: adesso vai tu in bigoncia, seguita il crescendo: così, dopo il suffragio universale, dopo la Costituente, dopo la rivoluzione, arriverai alla predica dell’anarchia.

Il signor Fratti, la vittima condannata dai regi tribunali per la dimostrazione del Campidoglio, ossequiava, tutto elegante, le leggiadre signore mazziniane. Infine i principi della democrazia ripartirono in carrozza.»

Il corrispondente conchiudeva esprimendo la fantasia che l’onorevole Bertani, fermatosi davanti al fontanone dell’Acqua Paola, abbia ammirato quel vero tempio idraulico, da cui scendono fragorosamente, spumeggiando, si stendono in curve, e dilagano in onde cristalline i saluberrimi rivi di Bracciano: e di lì voltato verso l’almo panorama di Roma, le abbia impartito la benedizione scientifica coll’augurio popolare e cordiale, che sopra essa non domini mai la violenza, la quale soggioga i voleri e i pensieri dei più all’arbitrio e al godimento dei pochi, ma vi aleggi sopra ognora la più dolce e la più equa delle libertà, quella per tutti.

*

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Nelle elezioni generali del maggio 1880 l’onorevole Bertani rimase nella tromba.

Egli non ne fu punto accasciato. Anzi si presentava eretto più che mai nella domenica dell’11 luglio 1880 a presiedere il Comizio popolare di Torino pel suffragio universale. Giunse accompagnato da Domenico Narratone e da Alessandro Guidazio e fu accolto da fragorosi applausi.

Era più rigido del solito: e l’alto colletto che gli serrava il collo pareva che gli accrescesse la difficoltà dei movimenti.

Molti, che non lo conoscevano di persona e lo credevano un terremoto, rimasero delusi, nel sentire quel birillo nero concionare con stento compassato. Imperocché il Bertani, se, come parlatore da salotto o scrittore di pagine da centellarsi riposatamente, apparisce colorito ed incisivo,— quale oratore parlamentare e tribuno da comizio, riesce freddo e difficile.

Il discorso da lui letto al Comizio di Torino fu non solo un programma popolare, ma un’autobiografia: quindi mette il conto di riferirne qualche tratto.

Egli cominciò col fare la diagnosi della situazione. Quella agitazione per il suffragio universale non era produzione giornalistica od altrimenti artefatta; era davvero spontaneità popolana operaia; quel comizio era schiettamente piemontese.

Si diceva che la popolazione disciplinata del Piemonte rifuggiva da torbide manifestazioni: «quando ad un tratto arsero le risaie, prese fuoco nel latte, e sorse improvviso, meravigliando, il Comizio operaio nella placida ed opima Novara...

«Ed oggi stesso un altro comizio operaio si tiene nella militare Alessandria.»

Perciò non si tema una rivoluzione. «Gli operai sanno bene, come le rivoluzioni si avviano; esse non cominciano in luogo chiuso, con un banco di presidenza in perfetta tranquillità, col popolo comodamente seduto.

«… Or bene, che facciamo noi qui riuniti? Che c’entro io lombardo tra voi io educato alla scienza tra voi maestri nelle varie discipline dell’industria?

«Come mai avviene che io, sospettato, reietto, perseguitato qui venti anni or sono, perché repubblicano, gesuita rosso (come ebbe a dire uno spiritoso deputato dei vostri), mi trovi oggi sopra questo alto seggio, chiamato da voi, operai, che sorgete a nuova vita politica?

«È egli forse vero, che voi siate allucinati, coinvolti nelle utopie di pochi sturbapopoli?

«… Io non mi sono imposto a voi; mi cercaste come una vecchia bandiera che non ha sbiadite le t tinte, ma vivacemente rappresenta, nell’armonica trinità de' suoi colori, il verde dell’indefettibile speranza, il bianco della calma nell’opera, il rosso nell’ardore della fede.

«… Sarà vano il cinico presagio, che questi comizi si disperdano come gas innocui se effusi all’aperto, e dannosi, se compressi, appunto come disse poc’anzi un ministro di Sinistra in Senato.

«Ma lasciamoli dire...

«Né Governo, né Parlamento badano a voi, operai.

a Montecitorio si vive in un mondo a parte — lo proclamai tante volte alla Camera — dove non arriva la voce e si diffida del voto del popolo.

«Ma la marea monta, esclamano ogni dì più angosciati i conservatori. — No, non è marea questa che monta o discende, ma è vulcano che erge il suo cono ogni dì più alto e si estende per le stesse sue esplosioni.

«Noi siamo fraintesi... Io sono sospettato...»

Qui l’oratore con alterezza coraggiosa equipara quantitativamente la sua persona a tutto un popolo, e vuol fare il paio con esso popolo.

«Noi siamo due calunniati... Difendiamoci adunque qui in pubblico.

«E comincio da me (prima charitas).

«Sapete voi come fossi dipinto io, e forse lo sono ancora, nelle alte sfere? Ve lo dirò, se permettete, con un episodio della mia travagliata vita politica.

«Eravamo quasi a mezzo dell’anno 1860; io, malato, non potei essere fra i Mille, alla cui spedizione diedi nullameno tutte le forze dell’animo mio. La spedizione era sbarcata in Sicilia, i primissimi eventi le sorridevano propizii, il Governo lasciava fare. Cavour, l’astuto e penetrante ministro, si fregava le man perché aveva bel gioco nella doppia partita. A Palazzo si era in qualche apprensione, ma le speranze aleggianti di buon successo prevalevano e gli umori erano allegri.

«Dopo altri messaggi inviatimi dall’alto, mi venne un giorno mandato di lassù un generale dell’esercito, uomo assai garbato ed aperto, al quale nulla tacqui degli ardimenti, dei preparativi, delle speranze e del bisogno supremo di ogni maniera di soccorsi per Garibaldi dovunque egli portasse col suo prestigio le armi e le vittorie del popolo. Parlai lungamente con quel signore e più volte ci siamo scambiati i segni di reciproca simpatia e di stima.

«Quand’egli, compiuta la sua missione, mi si drizzò d’improvviso dinanzi, mi guardò fisso e sorpreso; mi stringeva la mano e mi domandava commosso: — È proprio lei il signor Bertani? proprio lei? È egli possibile che non vi sia equivoco fra la mia missione e la sua persona? — Sorrisi e gli risposi: — Ho capito tutto; sono proprio io colui che le offre il singolare contrasto, di cui ella si meraviglia. — Ed egli replicò: — Da soldato d’onore le dico che non sono sorpreso, ma mortificato, dopo questo nostro colloquio, poiché Ella mi fu dipinto lassù come il repubblicano il più rosso, più aspro, l’uomo il più incivile, violento, intrattabile, e per poco io non entrava nel di lei gabinetto armato. — Ed invece ci stringemmo una volta ancora la mano...

«Ma altre e ben più gravi calunnie si aggravarono poi su di me, e tutte furono qui combinate e di qui messe in giro. Io era divenuto dieci volte milionario nelle imprese di Sicilia e di Napoli; e vi ha ancora chi vi crede. E giacché sono qui dove nacque la mia ricchezza, vogliamo insieme vederne una buona volta il quanto; ed io vi invito, onesti operai, a venir meco agli uffici delle ipoteche, di registro e bollo, della ricchezza mobile, presso i banchieri, gli appaltatori, i negozianti, i sensali: facciamo l’inventario di tutta l’attività e tutta ve l’abbandono prima del testamento. A me resti la cara passività di avere tutto dissipato per compiere il mio dovere: economia, carriera, onori, speranze; poiché io sono ben ricco ancora portando alta la fronte e facendo chinar gli occhi ai miei calunniatori...

«L’istesso contegno avversario si ha con voi, popolo...»

«Oggi i due calunniati di venti anni or sono si trovano, si intendono, si abbracciano ed innalzano uniti un solo grido e fanno un solo giuramento, di volere giustizia per tutti, uguaglianza per tutti nei doveri come nei diritti...

«E voi, operai del Piemonte, mettete avanti anche voi il vostro stato di servizio...

«Voi vi siete ordinati in società per istruirvi, per soccorrervi nelle facili vostre disgrazie, poiché le opere pie hanno in quasi tutta Italia molto bisogno dell’esame dell’altrui pietà...

«… Voi avete aumentato il lustro e la prosperità di questa diletta Torino, che se un dì come corpo opaco poteva brillare della luce riflessa della capitale politica, oggi luminosamente brilla come stella di primo fulgore e di luce tutta propria, poiché l’avete fatta la capitale dell’industria.

«Voi... ecc. ecc.

«Voi potete dire: lavoriamo subordinati al capitale; paghiamo tributi indiretti; dazio consumo, tassa di fabbricato nella carezza delle locazioni; noi paghiamo di persona il servizio militare, quanto lungo ci capita e grave, come semplici soldati,’nelle noiose caserme, nei sudati campi di esercizio, poiché per noi non è accessibile il volontariato di un anno, né possiamo entrare nelle scuole militari per uscirne ufficiali.

«Noi così lavorando e pagando, e compiendo tutti i doveri di cittadino, chiamati un dì a un politico suffragio, perché la grazia di Dio aveva bisogno di noi, coll’arme e col voto abbiamo contribuito a costituire l’Italia per volontà della Nazione, senza la quale volontà non si possono oggidì più riscuotere le imposte, non si possono pagare la burocrazia, l’esercito e la lista civile, e non si può davvero fare la guerra.

«E quando colla nostra volontà abbiamo ricomposta questa nazione in un sol fascio, fu trovata inutile, dannosa per reggerla, e ne fu commesso il governo a poche volontà privilegiate, tanto poche che noi, ridesti oggi dalla meraviglia, ci domandiamo come mai s’intitoli ancora il comando per volontà della Nazione, mentre noi, massima sua parte, non siamo in essa rappresentati.»

E se in Piemonte non vi fu plebiscito, noi possiamo bene domandare anche di qui il suffragio universale a nome di tutto il popolo italiano.

«E chi potrebbe contrastarlo?

«La Corona? Mai più; essa non lo può, e d’altronde vi è impegnata la sua lealtà con patti solenni.

«Il Parlamento? Non lo deve...

«Il Ministero dovrebbe accoglierlo come un insperato beneficio; e piuttostoché negarlo, il Presidente del Consiglio dovrebbe uscire sdegnato dal Gabinetto, protestando per la contraddizione, in cui vien posto fra il suo passato e lo strazio della sua fama, cui non corrispondono le opere.

«Sì, tutto il popolo italiano vuole liberamente il suffragio universale collo scrutinio di lista esercitato in circoli elettorali per egual numero di deputati, sicché la volontà dei singoli cittadini abbia un egual numero di rappresentanti;

«Lo vuole coll’indennità ai deputati, per togliere la prevalenza all’oligarchia del censo, e per rendere accessibile la deputazione a tutte le capacità, come a tutte le fortune;

«Lo vuole coll’esclusione degli stipendiati e dipendenti in altro modo per interessi dallo Stato...

«Vuole il suffragio universale senza la restrizione di attestati scolastici...

«Lo vuole senza la restrizione di un giuramento, che infirma, non rassoda la coscienza e toglie la libertà alle opinioni...

«Per avere questo suffragio prepariamoci a combattere il maggior nemico, che è il partito clericale, con cui il partito liberale-moderato ha testé ricambiata una stretta di mano per tal patto, che il venerando filosofo e senatore Mamiani ha proclamato delitto...

«Questa lega è il nostro nemico, e come tale dobbiamo fatalmente trattarla. Il Barbarossa di questa lega è il clero, e noi dobbiamo preparare Legnano.

«Non saremo soli in Europa per questa guerra contro l’eterno nemico della libertà, che non ha patria nel mondo e, suddito di due poteri, obbedisce a quello che non discute e si dice infallibile.

«Se questo nemico è potente nelle campagne, prepariamoci a debellarlo colla nostra propaganda nelle borgate, nei villaggi, nei cascinali. 11 popolo rurale ci comprenderà, e il prete avvisato si farà prudente.

«Vedete i rurali di Francia. Dopo le dolorose vicende sorpassate, hanno ben compreso che sia rispettato il prete all’altare e sia anche benedetto se coll’aspersorio indice la concordia e la pace: ma esso non deve per avidità mondana intrigare in politica, poiché è ormai noto a tutti che il suo voto è sempre pel dispotismo o per lo straniero.

«Per disarmare il prete bisogna rapirgli il potere sulle donne.

«Ad impegnare cotanta lotta novella s’avvisi la democrazia di guadagnarsi un potente alleato nella donna, sottraendo la sua influenza, che sale dalla capanna al trono, al dominio del prete che finora fu il suo grande fascinatore.

«Si ravveda la democrazia dal fatale egoismo maschile, che lasciò in abbandono al nemico della libertà cotesto prezioso elemento di civiltà e di progresso.

«La donna non è più soltanto l'animai grazioso e benigno del poeta (il quale poeta veramente aveva messo tale complimento sulle labbra a Francesca di Rimini perché Francesca lo rivolgesse a lui stesso, maschio), ma come già nella storia palese si è mostrata sovranamente capace, oggidì, ben disse un poeta moderno fra voi (Levi), la donna è una delle più efficaci energie sociali che preparino le grandi trasformazioni, essa è divenuta protagonista, ispiratrice della storia, della leggenda, del poema.

«Essa si appalesa qual è: il Femminile eterno di Goethe; diamo il voto alla donna, ed avremo raddoppiate ed acuite le armi per difendere la libertà.

«Rappresentanti del popolo laborioso del Piemonte che siete qui raccolti, avvertite questo: che la macchina del progresso, scrisse un illustre lombardo (Cattaneo), fa molto fracasso quando si muove, ma talvolta fa fracasso e non si muove...

«Per non fare molto rumore per nulla, tuoni concitato da un capo all’altro d’Italia il grido: Vogliamo il suffragio universale! Non sarà il grido soltanto dell’esigua estrema Sinistra parlamentare, ma sarà la estrema intimazione della volontà popolare.

«Queste pacifiche bandiere, simboli della forza che sta nella vostra unione, testimoni oggi delle vostre solenni affermazioni, vi rammentino nel più prossimo giorno che la sovranità popolare non si domanda con fugace parola, non si impetra in ginocchio, ma si reclama, da chi la contrasti, come il popolo sa, poiché volere è potere.»

*

**

L’onor. Bertani occupò il suo esilio parlamentare durante la XIV Legislatura non solo nell’apostolato mitingaio pel suffragio universale, ma altresì nella raccolta scientifica di dati per l’inchiesta agraria e nell’elevare un monumento editorio al Cattaneo.

Carlo Cattaneo, spirito epico e matematico, audace e guardingo, tanto che non scrisse per pubblicare nulla prima dei 30 anni; — dopo aver appreso dalle labbra della bella Perticari le ripugnanze pel Carbonarismo, meditava un suo ordine poetico e composito di Austria Federale, in cui il Lombardo-Veneto elevandosi a forza intellettuale ed economica mercé il progresso dell’agricoltura, delle ferrovie, delle scienze, delle arti, delle lettere, ecc., ottenesse giuridicamente la possa della libertà, tramite razionale alla indipendenza ed alla federazione italiana.

Perciò compilava e scriveva il Politecnico, di cui erasi reso proprietario, e vi radunava il metodo sperimentale di Galileo colla ideologia sociale del Romagnosi, facendo passare fra una scabra merce di locomotive e gasometri e ponti obliqui e trafori le veneri dell’eloquio e quasi tranquillando in sciolta orazione l’onda numerosa di Vincenzo Monti.

Ciò non tolse che nella repentina e quasi miracolosa esplosione del quarantotto, egli non si manifestasse per la più sfolgorante figura delle Cinque Giornate di Milano. Stava appunto stendendo il programma del giornale Il Cisalpino «Armi e libertà per tutte le nazioni dell'imperio, ognuna entro i suoi confini», quando all’aurora del 18 marzo 1848, alcuni giovani irruppero nello studio di lui, dicendogli: «Maestro, l’ora è suonata!» e Cattaneo, come scrisse Alberto Mario: «fu lo strategico, il tattico, il diplomatico, il vincitore in quella battaglia di popolo; fu l’anima, la vita, il genio di quell’epopea cittadina: e, alla dimane ne diventò l’arguto storico. Ci sono tre no nella storia d’Italia; il no di Pier Capponi a Carlo Vili; il no di Michelangelo al Duca Alessandro de' Medici; il no di Cattaneo al maresciallo Radetzky.»

Questa figura così eletta doveva innamorare molti, e fra i suoi più appassionati ammiratori vi fu il Bertani.

Le nebbie nordiche, che rendono frigido il discorso del chirurgo, paiono qualche volta squarciate dal sole argolico dell’imitato filosofo artista.

Né l’ammirazione pel Cattaneo ripugna a coloro che non ne seguono appuntino le dottrine.

Imperocché il «Socrate lombardo,» ritiratosi nell’eremo di Castagnola sopra Lugano, se continuò la predicazione del diritto federale, fuori del quale sosteneva che saremo sempre gelosi, discordi ed infelici, e se preferì agli eserciti stanziali la formola militi tutti, soldato nessuno, egli però non nocque, contrastando, al rifacimento d’Italia in altre forme; anzi, secondo lo stesso Mario «nel concetto di Cattaneo nulla impediva che una possente confederazione avesse un capo ereditario.»

Quando si recò nel Napoletano, presso gli eroici cimenti di Garibaldi, si sperò fosse apparso un altro bel pianeta attratto dell’orbita del sole unitario.

Ma pure, non consentendo nelle idee politiche della maggioranza, giovò ognora la patria de' suoi studi, de' suoi lumi e delle sue trovate tecniche. Fu persino ad un punto di presentarsi in Parlamento.

Nominato deputato, s’indusse a recarsi al suo posto, quasi piegandosi sotto il magnetico influsso dell’affetto, con cui lo chiamavano gli amici.

Ma il giorno prima di giungere a Firenze, scriveva ad Alberto Mario colà: «Non posso negarti che la dura prova, a cui per giudizio o pregiudizio degli amici vengo messo, turba affatto i miei sentimenti, i miei senili studi, i miei negletti interessi.»

Pervenuto a Firenze, narra il Mario, andò fino alla soglia di Palazzo Vecchio; retrocesse rabbrividendo davanti al giuramento, e si rifugiò di nuovo a Lugano.

Chi può dire la battaglia psicologica di quelle anime alte del Mazzini e del Cattaneo, consacrate all’Italia e alla libertà, e pure ripugnanti a mescolarsi coll’Italia e colla libertà foggiate a monarchia? Chi sa quante volte li assalse la tentazione di versarsi e confondersi nel comune lavoro? e quante se ne ritrassero pensando che per gli uffici, per le commissioni, per le chiacchierate della Camera bastavano qualche paglietta, qualche computista e qualche marchesino; e che era più decoroso ed esemplare all’Italia che essi mantenessero senza tacche e senza pieghe la loro figura storica.

Eppure anche quelle grandi anime si consumarono d’amore come falene intorno alla fiamma d’Italia, comeché si fosse ravvivata.

Mazzini, pure gustando fino alla fine la nomea di proscritto, se ne venne a morire in Italia, a Pisa; ed ebbe l’apoteosi più rispettata nel Campidoglio monarchico costituzionale.

Grave era il contrasto fra le idee del Cattaneo e del Mazzini, fra la repubblica federale vagheggiata dall’uno e la repubblica unitaria caldeggiata dall’altro.

Anzi il compianto Alberto Mario, che negli studi biografici di Teste e figure, raccolse ed illustrò le idee federaliste sparse occasionalmente dal Cattaneo, quasi giudicava l’unità repubblicana inferiore per logica politica e per esempi di durata storica all’unità monarchica; imperocché, a suo senno, nella monarchia si rinviene la migliore unità pensabile, avendo il suo centro nella dinastia; e per contro «non esiste un solo esempio di repubblica unitaria, la quale non sia diventata antiliberale prima d’essere inghiottita nel governo personale, e che sia durata abbastanza per capacitarci che il tempo possiede lima così finamente temprata da rodere gli attributi essenziali, le proprietà costitutive dell’unità, che sono: il concentramento, la rigidità e il dispotismo.»

Perciò, invece di qualsiasi unità, il raccoglitore predicava l’unione: l’home rute, il governo di casa; la federazione dei popoli, ossia la compenetrazione delle due sovranità distinte e corrispondenti; la federazione, ossia del centro, e la locale o di stato.

Quindi faceva vedere la superiorità dinamica che rileva dall’essere una nazione, non già un monolito immobile, come si presenta l’unità, ma un corpo, come il federale, colle membra articolate che si snodano movendosi secondo le tradizioni, gl’interessi, le affinità filologiche, etnologiche e geografiche. E dimostrava come questa ricca unione di varietà si attagli precipuamente all’Italia, la quale, come ben disse il Gioberti nel Primato, riflette l’immagine in piccolo dell’Europa; onde riuscirebbe a pennello una unione federale del Piemonte, della Liguria, della Lombardia, dell’Emilia, del Veneto, della Toscana, delle Marche, di Terra di Lavoro, della Basilicata, delle Puglie, delle Calabrie, della Sicilia e della Sardegna, con Roma od altra capitale da costruirsi espressamente e annesso territorio, governati direttamente dalle autorità federali, come Washington e il distretto di Colombia. Allo stesso modo nel Paradiso di Dante il cielo primo mobile è retto direttamente da Dio (governo centrale) e gli altri cieli confederati sono governati da un angelo (governo locale).

Quantunque, come attesta lo stesso Bertani in una lettera alla signora Jessie White Mario, il profeta federalista vivamente si crucciasse sentendo che alcuni ignoranti delle distinzioni e finezze repubblicane confondevano le sue dottrine con quelle del profeta unitario così cozzanti, pure il dottore patriota guidò il Cattaneo al letto del Mazzini, aggravato e creduto morente.

Commosso da quella scena d’affetto e da quel colloquio, che gli parve un episodio della nostra storia, il Dottore, da' piedi del letto contemplando mestamente quei due uomini sì cari all’Italia, tremava per la vita di entrambi e scacciava il pensiero, che a prepotenza della professione voleva imporgli librando, quale delle due nature fosse più infiacchita. e prossima alla fine, e ripensava alla miseria dei superstiti e raddoppiava allora di preghiere e di. sforzi a persuadere entrambi di essere più accurati e gelosi nel conservare la vita.

Di vero il quadro del Cattaneo al letto di Giuseppe Mazzini col Bertani medico curante, è commovente come quello di Gioberti ministro a Torino, che chiamò a sé il Rosmini suo antagonista in filosofia, e lo mandò ambasciatore a Roma presso il ministro Almiani, contro cui erano pure arse le loro polemiche: e come l’altro quadro della messa da morto, che" l’abate Rosmini celebrò a Stresa per l’anima del Gioberti, messa servita all’altare da Alessandro Manzoni.

Il sentimento della patria e dell’umanità compone ogni grande dissidio fra le grandi anime.

Poco più di due mesi trascorsi dal ravvicinamento di Mazzini e Cattaneo, il 6 febbraio del 1869 il Bertani dovette consolare gli estremi momenti dello scrittore del Politecnico, che spirava nel suo eremo di Castagnola, in quella cameretta, dalla cui finestra si vede lungo il lago di Lugano la terra di Lombardia.

Nella pietosa lettera, che il 17 febbraio 1869 il dottore scrisse alla signora Mario, narrò come il Cattaneo «fino all’ultimo ricordò di essere deputato e con manifesta agitazione proferì spesso la parola Parlamento»; ma toccato poi nella mano da un amico da lui non riconosciuto, soggiunse: «sono libero — nulla ho promesso; non giuro» — e si rasserenava fantasticando sulla meteora della repubblica spagnuola.

Affinché il Cattaneo continuasse a vivere nella mente degli Italiani, il Bertani pensò di ordinarne e. ripubblicarne le opere complete, le quali, come ben scrisse egli nelle notizie premesse al primo volume, «conservarono e conserveranno a lungo l’istessa importanza per la storia, per la scienza, per l’arte, e l’istesso aroma attico, ond’eran fragranti quando fu rono la prima volta pubblicate.»

Cario Cattaneo aveva nominata erede la sua degna moglie, di alto lignaggio inglese, la quale, consigliata dagli amici Bertani, Mauro Macchi ed altri, aveva tosto offerto all’Istituto Lombardo, di cui Cattaneo era -socio effettivo, tutti gli scritti di lui. Mentre l’Istituto si accingeva a cernere quegli scritti per la pubblicazione, la vedova moriva nove mesi dopo la perdita del marito, senza indicare il preciso nome della nipote erede.

Allora l’Istituto riconsegnò le opere del Cattaneo al tribunale di Lugano, acciocché le custodisse come eredità giacente senza richiamo di eredi.

Finalmente, secondo la citata notizia, la povertà in cui morì Carlo Cattaneo, e alcuni titoli di prestiti amichevoli non richiesti al debitore vivente, tristamente aprirono al Bertani la via ad un riscatto, per divenire dinanzi al Tribunale di Lugano il legittimo proprietario dei libri e delle opere dell’estinto maestro ed amico.

Allora, egli che da tanto tempo ammirava il Cattaneo e lo citava così volentieri, si apparecchiò alla pubblicazione di quelle opere complete, acciocché le potessero ammirare e citare eziandio i giovani studiosi.

Ma, soggiunge egli nella ripetuta notizia: «è ben altra cosa l’ammirare le opere di un uomo illustre e anche averne la proprietà, ed altra il poterne far partecipe il pubblico esigente assai limitato per alcuni studi, distratto dall’incalzarsi di tante vicende e dall’enorme produzione di opere dilettevoli e di picciol volume.»

Solo nel dodicesimo anniversario dalla morte dell’eremita di Castagnola, nel 1881, potè uscire a Firenze, nella rinomata biblioteca nazionale dei successori Le Monnier, il primo volume delle opere letterarie del Cattaneo, con la promessa che sarebbero presto seguiti gli altri volumi, ove quello avesse incontrato il meritato favore.

Pare che questo non sia stato soverchio, imperocché spirò l’anno 1882 senza che sia uscito il secondo volume. Di ciò devesi accagionare il distacco fra la prosa del Cattaneo ed il gusto moderno del pubblico.

Il solitario di Castagnola, come tutti i solitari, suggeva e trasudava erudizione, anche di quella che non è più valutata nel commercio del giorno: onde il suo idealizzare e il suo fraseggiare paiono cosa torpida ai talenti odierni, che, appena sopportano il frizzo della gazosa o la mordacità delle salse piccanti, o la vellicatura superficiale del solletico, o il rimbalzo delle freddure (idiotismo signorile) o il pungolo afrodisiaco.

La virile, ma santa letteratura, che precedette od accompagnò il risorgimento nazionale, non è quasi più conosciuta.

Poco più si ristampano o si studiano, e quasi più non si nominano Gioberti e Balbo e Guerrazzi od altrettali.

Fra i giovani poeti e prosatori d’ingegno, che hanno trovata una patria bella e fatta e libera, quasi tutti se la pigliano consolata, come se dovessero favorire con la loro indifferenza alla cosa pubblica un governo assoluto; dichiarano allegramente di voler uccidere la loro forte gioventù in braccio alle femmine, trovando dolce lo sfinire dell’anima sopra i «bei seni da la punta erta fiorenti.» Figuriamoci, come Cattaneo annoia la Musa erotica!

*

**

Il Bertani, trascorso il tempo della sua lontananza dalla XIV Legislatura nella meditazione del Cattaneo, nei lavori dell’inchiesta agraria e nell’apostolato pel suffragio allargato, si trovò da questo richiamato alla Camera coi voti di più collegi.

Ma egli, il capo riconosciuto della estrema Sinistra nella XIII Legislatura, ritrovò a disagio un po’ di principato nella estrema Sinistra della Legislatura XV, in compagnia del Bovio, del Ceneri, del Cavallotti e di Alessandro Fortis, che lo vincono tutti per celerità di pensieri e per fuoco giovanile; e fra essi il Fortis ha il marchio del dittatore con tale dominio di se stesso, che gli permette di ostare alla lava del Presidente e quasi di presiederle.

Il Bertani, rifatta sua la formola di Mazzini: né apostata né ribelle, per raccomodare il suo trono tasteggiò e ritasteggiò in molteplici lettere e repliche il suo programma, che parve accostarsi a quello del Crispi, di democratizzare la monarchia, ed è poi il programma già bandito da Riccardo Sineo, ministro dell’interno nel Gabinetto democratico Giobertiano, programma che accennava precisamente alla congiunzione della democrazia con la monarchia, della rivoluzione col governo.

Però oggi il Bertani è ben veduto da ogni parte della Camera, e, come si dice nel linguaggio parlamentare, ha salde amicizie su tutti i banchi.

Quindi egli, quantunque non trovi più per le sue epistole di politica apostolica il cieco ossequio dei fedeli, pure avendo qualche volta la felicità di parlare a nome del suo manipolo, può riposatamente attendere alla sua filosofia da laboratorio.

Se è lecito al cronista fantasticare sulla psicologia di un uomo politico, immaginiamo il Bertani sul finire del 1882 raccolto grigiamente nel suo studio sperimentale fare l’autopsia della Destra, la vivisezione della Sinistra, quella morta, questa addormentata nel bacio dell’incantatore Depretis, e tentare di brancicare, come pesciolini in una conca, i vividi elementi della estrema Sinistra. Dal suo diligente lavorìo il nuovo Faust avrà tentato di assurgere a formole di storia parlamentare, come Vico, Ferrari e Cattaneo trovarono leggi storiche generali: —la Destra, il partito conservatore è perpetuamente destinato a scomparire, non solo nelle persone, ma nelle idee. La Sinistra, il partito progressista, è destinato a diventar destra: l’estrema Sinistra, il partito più avanzato, a diventare semplice Sinistra ed essere sostituito da un’altra Sinistra estrema più estrema. La Destra del Parlamento Sardo, quella del conte La Margarita, è scomparsa, come un animale antidiluviano; Lanza, già principale nella Sinistra subalpina, divenne capo della Destra italiana; Bertani...

Ma a questo punto della bigia alchimia fantastica saranno passati svolazzando sul cranio dell’attempato dottore filosofo e patriota, saranno passati, col riso sfolgorante della bandiera tricolore, i ricordi giovanili, i ricordi dei tempi in cui non ferveva altra dissidenza fuorché la feroce gara di servire la patria, e non si conosceva altro trasformismo fuorché il trasfigurarsi dello studente in eroe e del verme in angelo per il trionfo della libertà nazionale ed umana.

Fine del Volume

DAI FRATELLI BANDIERA ALLA DISSIDENZA




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Pisacane e la spedizione di Sapri (1857) - Elenco dei testi pubblicati sul nostro sito
1851 Carlo Pisacane Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49
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1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. I HTML ODT PDF
1858 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. II HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. III HTML ODT PDF
1860 Carlo Pisacane Saggi storici politici militari sull'Italia Vol. IV HTML ODT PDF

1849

CARLO PISACANE Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma

1855

La quistione napolitana Ferdinando di Borbone e Luciano Murat

1855

ITALIA E POPOLO giornale politico Pisacane murattisti

1856

Italia e Popolo - Giornale Politico N. 223 Murat e i Borboni

1856

L'Unita italiana e Luciano Murat re di Napoli

1856

ITALIA E POPOLO - I 10 mila fucili

1856

Situation politique de angleterre et sa conduite machiavelique

1857

La Ragione - foglio ebdomadario - diretto da Ausonio Franchi

1857

GIUSEPPE MAZZINI La situazione Carlo Pisacane

1857

ATTO DI ACCUSA proposta procuratore corte criminale 2023

1857

INTENDENZA GENERALE Real Marina contro compagnia RUBATTINI

1858

Documenti diplomatici relativi alla cattura del Cagliari - Camera dei Deputati - Sessione 1857-58

1858

Difesa del Cagliari presso la Commissione delle Prede e de' Naufragi

1858

Domenico Ventimiglia - La quistione del Cagliari e la stampa piemontese

1858

ANNUAIRE DES DEUX MONDES – Histoire générale des divers états

1858

GAZZETTA LETTERARIA - L’impresa di Sapri

1858

LA BILANCIA - Napoli e Piemonte

1858

Documenti ufficiali della corrispondenza di S. M. Siciliana con S. M. Britannica

1858

Esame ed esposizione de' pareri de' Consiglieri della corona inglese sullaquestione del Cagliari

1858

Ferdinando Starace - Esame critico della difesa del Cagliari

1858

Sulla legalità della cattura del Cagliari - Risposta dell'avvocato FerdinandoStarace al signor Roberto Phillimore

1858

The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

1858

Ricordi su Carlo Pisacane per Giuseppe Mazzini

1858

CARLO PISACANE - Saggi storici politici militari sull'Italia

1859

RIVISTA CONTEMPORANEA - Carlo Pisacane e le sue opere postume

1860

POLITECNICO PISACANE esercito lombardo

1861

LOMBROSO 03 Storia di dodici anni narrata al popolo (Vol. 3)

1862

Raccolta dei trattati e delle convenzioni commerciali in vigore tra l'Italia egli stati stranieri

1863

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1863

Giacomo Racioppi - La spedizione di Carlo Pisacane a Sapri con documenti inediti

1864

NICOLA FABRIZJ - La spedizione di Sapri e il comitato di Napoli (relazione a Garibaldi)

1866

Giuseppe Castiglione - Martirio e Libert࠭ Racconti storici di un parroco dicampagna (XXXVIII-XL)

1868

Vincenzo De Leo - Un episodio sullo sbarco di Carlo Pisacane in Ponza

1869

Leopoldo Perez De Vera - La Repubblica - Venti dialoghi politico-popolari

1872

BELVIGLIERI - Storia d'Italia dal 1814 al 1866 - CAP. XXVII

1873

Atti del ParlamentoItaliano - Sessionedel 1871-72

1876

Felice Venosta - Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione Sapri

1876

Gazzetta d'Italia n.307 - Autobiografia di Giovanni Nicotera

1876

F. Palleschi - Giovanni Nicotera e i fatti Sapri - Risposta alla Gazzettad'Italia

1876

L. D. Foschini - Processo Nicotera-Gazzetta d'Italia

1877

Gaetano Fischetti - Cenno storico della invasione dei liberali in Sapri del 1857

1877

Luigi de Monte - Cronaca del comitato segreto di Napoli su la spedizione di Sapri

1877

AURELIO SAFFI Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini (Vol. 9)

1878

PISACANE vita discorsi parlamentari di Giovanni Nicotera

1880

Telesforo Sarti - Rappresentanti del Piemonte e d'Italia - Giovanni Nicotera

1883

Giovanni Faldella - Salita a Montecitorio - Dai fratelli Bandiera alladissidenza - Cronaca di Cinbro

1885

Antonio Pizzolorusso - I martiri per la libertࠩtaliana della provincia diSalerno dall'anno 1820 al 1857

1886

JESSIE WHITE MARIO Della vita di Giuseppe Mazzini

1886

MATTEO MAURO Biografia di Giovanni Nicotera

1888

LA REVUE SOCIALISTE - Charles Pisacane conjuré italien

1889

FRANCESCO BERTOLINI - Storia del Risorgimento – L’eccidio di Pisacane

1889

BERTOLINI MATANNA Storia risorgimento italiano PISACANE

1891

Decio Albini - La spedizione di Sapri e la provincia di Basilicata

1893

L'ILLUSTRAZIONE POPOLARE - Le memorie di Rosolino Pilo

1893

 MICHELE LACAVA nuova luce sullo sbarco di Sapri

1894

Napoleone Colajanni - Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane

1905

RIVISTA POPOLARE - Spedizione di Carlo Pisacane e i moti di Genova

1895

Carlo Tivaroni - Storia critica del risorgimento italiano (cap-VI)

1899

PAOLUCCI ROSOLINO PILO memorie e documenti archivio storico siciliano

1901

GIUSEPPE RENSI Introduzione PISACANE Ordinamento costituzione milizie italiane

1901

Rivista di Roma lettere inedite Pisacane Mazzini spedizione Sapri

1904

LUIGI FABBRI Carlo Pisacane vita opere azione rivoluzionaria

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Giudizi d’un esule su figure e fatti del Risorgimento

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - Lettera di Carlo Cattaneo a Carlo Pisacane

1908

RISORGIMENTO ITALIANO - I tentativi per far evadere Luigi Settembrini

1911

RISORGIMENTO ITALIANO - La spedizione di Sapri narrata dal capitano Daneri

1912

 MATTEO MAZZIOTTI reazione borbonica regno di Napoli

1914

RISORGIMENTO ITALIANO - Nuovi Documenti sulla spedizione di Sapri

1919

ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

1923

MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

1927

NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano


























Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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