Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024) |
PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO |
CARLO PISACANE SAGGIO SULLA RIVOLUZIONECON PREFAZIONE DI NAPOLEONE COLAJANNINon temete nuotare contro il torrente; è d'un' anima sordida pensare come il volgo, perchè il volgo è in maggioranza. G. BRUNO BOLOGNA LIBRERIA TREVES di PIETRO VIRANO 1894 |
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La quistione sociale attira ogni giorno più l’attenzione, non soltanto di quella eletta minoranza che in ogni paese civile si occupa di essa con criteri scientifici, ma anche di quella grande massa che, profana alla scienza, non può tuttavia disinteressarsi di dò che tocca cosi profondamente i suoi interessi ed i suoi sentimenti. Essendo necessario che la discussione per non degenerare nelle asserzioni gratuite rimanga nel campo sereno delle idee, noi crediamo compiere cosa utile alla cultura generale della nostra nazione mettendo alla portata del maggior numero possibile di persone alcune delle migliori opere del socialismo scientifico. La corrente di pensiero che questo rappresenta, se va acquistando ovunque una importanza sempre maggiore, è tanto più degna di nota in Italia in quanto la nostra borghesia come nessun(’’)altra le dà ammirevole copia di forza e di ingegno. Abbiamo pensato di aprire la serie colla esumazione di uri opera nostrana, che quantunque sia rimasta sino ad ora sconosciuta e sia stata scritta nella preistoria del socialismo, presenta una rara modernità di concetti generali.
Essa vale inoltre a dimostrare che è gloria precipua del socialismo italiano di avere lanciata una prima e precoce parola in un periodo in cui la borghesia, non essendosi ancora completamente rivelata, poteva disporre a? suoi fini delle forze del proletariato.
Malgrado i non pochi errori materiali che nel libro si contengono e pei quali l’autore stesso invocava r opera di paziente rifacitore, abbiamo preferito riportare lo scritto del Pisacane tale qual esso è, per conservargli il sapore di spontaneità che si riscontra nell’originale.
OLINDO MALAGODI
A. O. OLIVETTI
ANTONIO GRAZIADEI
Cari Amici,
Quando mi pervenne il vostro gradito invito di scrivere una prefazione pel Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane, mi proposi di fare uno studio sull’uomo e sul pensatore, non certamente degno dell’uno e dell’altro — ché a tanto le mie forze non sarebbero bastate, ma che avesse almeno potuto attestare della intenzione mia sincera di fare il meno male che per me si potesse.
Ho dovuto rinunziarvi perché so che avete fretta di pubblicare il libro. Mi limito perciò ad applaudire alla scelta del Saggio di Pisacane, come primo volume della Biblioteca Socialista ed esporre brevemente le ragioni del mio giudizio, che certamente saranno state anche quelle che guidarono voi.
In Italia si conosce abbastanza Carlo Pisacane come patriota, come eroe, come martire; lo si conosce poco o nulla come pensatore e come socialista; nessuno, forse, tra gli appartenenti alla generazione sorta dopo il 1860, ha letto i suoi libri. Ora, in un momento in cui il patriotismo cade in discredito per le male opere dei patrioti, fu savio divisamento quello di fare apprezzare in Pisacane il pensatore socialista.
Fu savio l'intendimento, perché nella miseria intellettuale del socialismo italiano non poteva lasciarsi nell’oblio questo Saggio sulla rivoluzione, ch'è il primo libro italiano moderno in cui ex professo si espongano le teorie socialistiche.
La ripubblicazione non è del resto un semplice atto di riconoscenza; poiché lo scritto di Carlo Pisacane, a quarant’anni di distanza, conserva un sapore di modernità e di vera contemporaneità, che sorprende e desta ammirazione.
Anzitutto si deve rilevare che nel nostro autore si sente l’influenza degli scrittori e delle rivoluzioni francesi nella genesi delle sue idee; ma egli ha saputo emanciparsi dalla venerazione cieca verso la Francia» ohe in una mente pieno robusta avrebbe potuto suscitarsi. Si può, anzi, deplorare che troppo egli si lasci trasportare nell’antipatia contro la Francia; ciò che si può spiegare coi ricordi della spedizione di Roma del 1849.
Carlo Pisacane, come possono oggi farlo i più avanzati socialisti, combatte Giuseppe Mazzini; ma se egli si mostra severo contro la sua dottrina (specialmente nella parte che rispecchia il misticismo cristiano e la vana speranza di farne una leva per la rigenerazione sociale) e contro il suo metodo (e non sempre le sue accuse sono giuste), è sempre pieno di affetto e di rispetto per la persona.
La vera contemporaneità delle idee del caduto di Sapri risulta in modo veramente brillante da ben altri elementi.
Carlo Pisacane quando scrive della fatalità delle rivoluzioni, della minima influenza della propaganda delle idee e della massima pressione dei bisogni, pare che abbia voluto anticipare la risposta ai codardi e agli inetti,,che nei moti di Sicilia non videro che l’azione dei sobillatori. Se scrive sul contrasto tra la crescente ricchezza dei pochi e la miseria dei molti, sulla impotenza dei progressi tecnici e industriali a lenire le sofferenze dei lavoratori, pare che le sue siano pagine stralciate da Henry George; né nei libri di Marx e di Loria si trova recisamente affermata la preminenza della quistione economica e la subordinazione della politica, più che in questo Saggio sulla rivoluzione. Nel quale, infine, si rinviene nettamente delineata la teoria anarchica col considerare il governo come un’ulcera, nel ritenere che una società si livella da sé e che la libertà non si apprende dagli educatori; nel combattere le leggi perché riescono sempre a benefizio dei privilegiati, che le fanno, nel giudicare che dev’essere spontanea la reciproca limitazione tra i diritti di tutti e legittima la soddisfazione di tutti i bisogni e delle inclinazioni di tutti; nel propugnare la formola libertà e associazione da sostituirsi a quella mazziniana Dio e popolo e all’altra francese libertà, uguaglianza e fratellanza, che ai tempi di Pisacane erano in onore tra i rivoluzionari italiani.
Però anche Pisacane ha pagato il suo contributo alla dea contraddizione. Cosi, mentre in lui si manifestano le preferenze per l’anarchia quando delinea il futuro patto sociale, quando poi accenna al modo di disciplinare l’azione futura si sente l’uomo che crede nella utilità dello Stato. Egli accenna alla tendenza verso l’unità mondiale, verso l’internazionalismo, ma non sa. sottrarsi ad una specie di chauvinisme nei ripetuti paralleli tra l’Italia e la Francia, che irrompe più veemente quando esclama: sono umanitario, ma innanzi tutto italiano. Egli pensa e scrive come un intransigente socialista contemporaneo e disprezza la quistione politica e il principio della nazionalità; ma agisce diversamente e per la patria dà la vita!
Innanzi a quest’ultima e Sublime contraddizione inchiniamoci riverenti; e inchinandoci rintracciamo nel suo stesso Saggio la ragione del contrasto.
Carlo Pisacane, come tanti sommi psicologi contemporanei, ripetutamente afferma che la coltura, i libri, le idee non sono i fattori determinanti delle azioni, ma che invece la molla vera alle medesime si deve cercare negli affetti, nei bisogni, nei sentimenti. Egli nato e vissuto in un momento in cui la patria e la nazionalità erano tutto, per la patria e per la nazionalità, anche quando la sua mente incamminavasi per un’altra via, eroicamente mori. E del resto, a suo giudizio, era utile, era necessario, che si sperimentasse la vanità della ricostituzione della nazione! E colla constatazione di questa scomparsa della illusione patriottica, prevista dal nostro autore, permettetemi che io vi ringrazi della occasione somministratami di unire il mio nome, in qualsiasi misura e modo, ad un’opera che credo utile e doverosa e vi stringo con affetto la mano.
Castrogiovanni, 12 Aprile 1894.
Vostro
N. COLAJANNI
I. La parola progresso suona nella bocca degli uomini di ogni condizione, d’ogni partito, ma è da pochissimi, anzi quasi da nessuno compresa. I sorprendenti trovati della scienza, che, applicati all'industria, al commercio, al vivere in generale, trasformano in mille guise i prodotti, sono fatti innegabili: noi vediamo ove erano gruppi di capanne sorgere superbe città; vediamo campi aspri e selvaggi squarciati dall'aratro, e resi fecondi; selve, monti, mari superati, rozzi velli trasformati in finissime stoffe; le intemperie vinte con l’arte, le tenebre cacciate da fulgidissima luce, il navigare contro i venti, il percorrere con portentosa celerità sterminate distanze, perfino il fulmine reso rapido messaggiero delluomo; l’immensità dei cieli, le viscere della terra esplorate, gli astri, gli animali, i vegetabili, i minerali tutti studiati, classificati, misurati.. Se questo è il progresso, ninno può negarlo, o non comprenderlo.
Ma cotesto accrescimento continuo della ricchezza e dell’umano sapere, spande egualmente la prosperità su tutti? Suscita nell’uomo il sentimento del proprio diritto, della dignità? Garantisce la libertà, garantisce il popolo dall'usurpazione di pochi, rende forse impossibili, sotto ogni forma, la schiavitù, ed assicura l’indipendenza dell’uomo, o almeno ne libra su giusta lance i rapporti? Ogni uno che vuol manifestare francamente la propria opinione, ogni uno che studia la Storia, che osserva il presente, risponderà: No, l'apogeo della civiltà romana, il secolo d’Augusto fu il perigeo della libertà; i rozzi italiani dell'undecimo secolo erano liberi, e vilissimi piaggiatori quelli del civilissimo secolo di Lorenzo De-Medici; i Francesi dello splendido secolo di Luigi XIV non furono che spregevoli cortigiani. Ove riscontrasi, adunque, il continuato miglioramento delle umane condizioni?
Quale sarebbe il tipo ideale d’una società perfetta? Quella in cui ciascuno fosse nel pieno godimento dei proprii diritti, che potesse raggiungere il massimo sviluppo di cui sono suscettibili le proprie facoltà fisiche e morali, e giovarsi di esse senza la necessità o d’umiliarsi innanzi al suo simile, o di sopraffarlo; quella società, insomma, in cui la libertà non turbasse l’eguaglianza; quella in cui in ogni uomo il sentimento fosse d’accordo con la ragione; e in cui niuno fosse mai costretto di operare contro i dettati di questa, o soffocare gl’impulsi di quello. In tal caso l’uomo manifesterebbe la vita in tutta la sua pienezza, e però potrebbe dirsi perfetto. Ma chi trovasi più lontano da questo ideale, il mercante, e il dottrinario moderno, o il cittadino romano, il greco, o lo stesso italiano dell’XI secolo? La risposta non è dubbia, e facendo paragone del presente col passato, saremmo indotti a credere che i miracoli del vantato progresso nascondano il continuo peggioramento del genere umano.
Libera la mente da idee preconcette o da sistemi faremo ricerca di questa legge del progresso, e del modo come esso opera.
Tutti i filosofi del mondo, da Platone ad Hegel, si accordano nel riconoscere resistenza di una legge che chiamano idea, sostanza, logica ecc… che regola le condizioni e relazioni degli uomini. Stabilito un tal principio, svolgono» i ragionamenti; ma le conseguenze non sono d’accordo col principio d’onde prendono le mosse. Quel primo concetto, tutto astratto, è creato dal pensiero indipendentemente da fatti: ma una tale astrazione non dura che un istante, la realtà riprende il suo imperio, e la ragione non può che insinuarsi attraverso i fatti, e quindi le conclusioni a cui ognuno di essi giunge, si adattano alle condizioni di quei popoli fra i quali vissero. Platone ed Aristotile sacrificano l’uomo alla grandezza dello stato, perché tali erano le greche costituzioni. Loke riconosce la sovranità della nazione sul monarca, perché scriveva all’epoca de' rivolgimenti dell'Inghilterra, e per esso la nazione è quale era l’inglese; col parlamento, coi grandi, coi pubblici funzionarii. I filosofi francesi, per contro, che scrivevano sotto l’impulso del bisogno di abbattere ogni privilegio, riconoscono il diritto, la sovranità del popolo nel puro senso democratico. Kant comecché razionalista, era un inglese che scriveva nel 97; quindi afferma che il popolo francese non aveva il diritto di giudicare, e condannare il suo re. Dopo la rivoluzione del 98 le condizioni del popolo sono cangiate, e con esse cangiano le idee sorte dai nuovi mali; la miseria crescente chiama a sé l’anima dei pensatori, quindi essi non sacrificano più l'individuo allo stato, ma al diritto d’ogni uno vogliono che s’adatti la costituzione di esso, e mirano all'umana prosperità; d’onde l’idea del convitto umano, del socialismo, rivolto nell'applicazione alla ricerca dei godimenti materiali.
Nella guisa stessa, per le stesse ragioni, nel XVI secolo la vita politica essendo muta in Italia, la filosofia è costretta a rimanersi nell'astrazione, e si manifesta nel razionalismo di Bruno, che Vico e Campanella avvicinano alla realtà, perché cominciasi a sentire il bisogno d’un’esistenza politica; e quando questo bisogno manifestasi nell'azione, la realtà è raggiunta da Maria Pagano, svolta da Filangieri, da Romagnosi in tutti i rami della vita d’un popolo. Oggi finalmente nella dotta e pacifica Germania, in cui l’azione ha pochissimo imperio sul pensiero, rivive con forme anche più astratte il razionalismo di Bruno; e mentre cercasi anche negare la realtà, procedesi così servilmente sotto l’imperio di essa, che deducesi dai ragionamenti come il costituzionalismo sia l’ideale dello stato perfetto.
Dunque, dal principio del mondo, il pensiero umano non ha potuto mai procedere nelle sue ricerche indipendente dalla realtà; ed appena discende all'applicazione delle idee, che si adattano ai fatti, e non mai i fatti procedono da esse. Ciò basta per dimostrare ad evidenza, quanto sia assurdo il concetto che le rivoluzioni, i mutamenti negli ordini sociali si facciano prima nel pensiero e poi nella realtà; essi sono conseguenza delle condizioni, e relazioni degli uomini, e cominciane a manifestarsi con l’idea quando già sono latenti nella società; dalla manifestazione procedesi all’attuazione,, e spesso questa avviene senza di quella: nella guisa stessa che nell'uomo si manifesta un bisogno, poi una idea, poi l’azione, e spesso l’azione segue immediatamente il bisogno di manifestarsi, o maturarsi nel pensiero. Quindi la filosofia è quella che esamina con pacata ragione sulle condizioni, sui rapporti sociali onde discernere ciò che si nasconde sotto l'apparente calma,, trae in luce e presenta in concetti chiari e distinti quello che vagamente ed universalmente è sentito. La società ammira le astrazioni del pensiero come i giuochi dei funamboli, ma non apprende nulla da quelle, che possa migliorare le sue condizioni: come ninno impara meglio a camminare osservando le sorprendenti prove d’equilibrio di questi; le une e gli altri non sono che passatempi. La filosofia veramente razionale, ovvero la scienza che merita il nome di filosofia, è quella cominciata in Italia con Bernardino Telesio e seguita da tutti i sommi italiani sino al Romagnosi, che le diede il più vasto sviluppo; secondo i dettati di questa scienza noi seguiremo le nostre ricerche.
Io mi scorgo parte dell’universo; penso, ma penso ciò che è il reale; non si produce nella mia immaginazione nulla che non risulti da ciò che esiste. Ho un’idea chiara e distinta, senza conoscerne l’essenza della materia, del moto, delle sue proprietà; lo spirito è una negazione; e ciò che non è materia, un’incomprensibilità; una cosa, che non potendo essere avvertita dai sensi, non può essere né pure immaginata; spirito è una parola che non ha significato.
Nel mondo osservo un incessante avvicendarsi di produzione, e di distruzione; due cose opposte, ma se meglio rifletto, ogni contraddizione sparisce, produzione e distruzione non sono che l’effetto di una medesima causa, che è la legge della vita; produzione come distruzione vuol dir moto, ovvero vita.
L’uomo lo scorgo eziandio sotto mille aspetti contraddittorii: eroe e codardo, benefattore e crudele, avaro e generoso; ma ogni contraddizione sparisce quando riconosco queste diverse azioni effetto di una sola e medesima causa, di una sola e medesima legge, la ricerca dell’utile, che secondo l’indole degl’individui, ed i rapporti che costituiscono la società in cui vive, cangia i modi ed il nome; chi lo cerca nella gloria, chi nell’ignominia; alcuni nel sacrifizio, altri nei beni mate» riali» È questo un fatto che niuno può revocare in forse; esso è riconosciuto da tutta la scuola del sen sismo francese ed inglese, dai nostri grandi italiani. Pagano, Filangieri, Beccaria, Romagnosi e sottinteso da Vico, da Campanella, da Telesio, da tutti gli economisti moderni, da tutti i socialisti, dai razionalisti della Germania; Di buon grado, dice Schiller, io presto aiuto agli amici. Ma ahi lasso! lo fo per indignazione; onde spesso mi contrista il pensiero di non essere virtuoso. Fichte dice: ama te stesso sopra ogni cosa, ed il tuo prossimo per amor di te stesso. Negano questa verità i paesi devoti ad un Dio personale, e gli ecclettici, cioè quelli che cercano conciliare i principii della scienza e lo stato presente della società; e così si fanno gli apologisti del sacrifizio quelli che ne rifuggono con Orrore!! A Giordano Bruno sarebbe stato più doloroso rinnegare la sua dottrina, che sentirsi ardere le carni; si gettò nel rogo per fuggire il dolore di rinunziare alle proprie idee. I due ultimi versi del suo sonetto il dicono chiaramente:
Fendi secur le nubi e muor contento,
Se il ciel sì illustre morte ti destina!
Chi ha creato il mondo? Noi so. Di tutte le ipotesi la più assurda è quella di supporre l'esistenza di un Dio, e l’uomo creato a sua imagine; ovvero, non essendoci dato imaginare questo Dio, l'uomo l'ha creato ad imagine propria, e ne ha fatto il Creatore del mondo; e così una particella diventata creatrice del tutto.
Ma quale utile può ottenersi dalla ricerca del Creatore del mondo? Nessuno. Il mondo esiste, e ciò è un fatto; in esso da pertutto io trovo moto, da pertutto la medesima causa della vita, ohe appare in mille guise: è latente nei minerali, vegeta nelle piante, guizza nei pesci, rugge nel leone, ragiona nell'uomo; la diversità dei modi coi quali manifesta la sua potenza, dipende dalla maggiore o minor perfezione del corpo da essa animato. Corpo ed anima sono entrambi immortali, non avvi nell’universo mondo un granello di sabbia che si distrugga; il corpo ridotto polvere, rientra in seno alla gran madre; l’anima o il fluido animatore esce dalla sua prigione che davagli forma, abbandona il corpo che si distrugge e più non si presta al moto, e confondesi con la gran massa di esso che vaga negli spazii; la morte non è che la distruzione delle forme d’individualità. Da questo moto incessante risultano i rapporti dell’uomo col mondo esteriore, degli uomini tra loro, la società; e però non fa d'uopo ricercare la causa del moto, perché a nulla gioverebbe tale ricerca, ma la legge del moto. Tutti i filosofi del mondo convengono nell’immutabilità di questa legge; quelli soli che riconoscono l’esistenza di un Dio la negano.
Il concetto d’un Dio onnipotente è figlio dello scolasticismo in cui cadde il mondo romano nella sua decadenza, la virtù, il giusto, il diritto sono incompatibili con l’esistenza di questo Dio che può tutto cangiare secondo il suo capriccio, che piegasi alle discordi preghiere dei mortali; nulla vi resta d’immutabile, | tutto cangia secondo la sua volontà. L’unità nell’universo sparisce, non è una sola la causa del moto, e quindi una sola la legge di esso, ma son tante cause diverse quanti sono gli enti; l’anima dell’uomo è diversa da quella del bruto, questa da quella del vegetabile, anzi ogni uomo ha un’anima diversa. Ammessa tale ipotesi, la virtù non ha significato, la ricerca di ’ una legge unica del moto è impossibile, impossibile il progresso; per un solo atto della volontà di questo Dio noi potremmo indietreggiare di secoli. L’unica regola, Tunica legge è la rivelazione che ci vien fatta da alcuni uomini in nome di questo Dio; questi uomini sono gli arbitri dell'umanità. La storia non ha più nesso, ma sono tanti fatti, manifestazioni della libera, e però mutabile, volontà di questo Dio. Ma quest’ipotesi scoraggiante e incomprensibile, questo Dio assurdo, imagine della dissoluzione sociale, sparisce, non appena dalla corruzione comincia a manifestarsi novella vita.
Stabilito che una sola debba essere l’ignota causa del moto, ci faremo a rintracciarne la legge; non già astraendo il nostro pensiero, e ricavando le conseguenze secondo i dettati della dialettica, ma seguendo da vicino i fatti, studiandoli accuratamente, e conoscendo così la legge con cui gli uni dagli altri procedono; non già cercando quale dovrebbe essere questa legge, ma quale è; non l'ideale, ma il reale.
Nell’universo scorgiamo armonia ed unità, tutto è regolato, il moto degli astri, il succedersi delle stagioni, il prodursi delle piante; tutto è l'effetto di una medesima forza attiva, la quale sospinge gli uomini al moto, e crea le loro diverse condizioni e relazioni, le diverse costituzioni della società; e però essendo la storia un effetto di questa forza, essa deve proceder secondo una regola, secondo una legge immutabile e necessaria.
La noia che esagera il fastidio del presente, la speranza che abbellisce oltre misura l’avvenire; ed in altri termini la necessità di soddisfare ai proprii bisogni, sospingono l’uomo al moto; dolore e piacele, suoi angeli tutelari, lo costringono a fermare la sua attenzione sugli oggetti circostanti. Ed in tal guisa da ogni sensazione, da ogni esperienza vien creata un’idea; se nulla v'è nell'esperienza, nulla v'è nella mente, ovvero come dissero i peripatetici: nihil est in intellectu quod priùs non fuerit in sensu.
Le continuate sensazioni dirozzano le fibre, che per soverchia rigidezza, come quelle del selvaggio, mancano d’irritabilità, e danno tono a quelle dei fanciulli per placidezza tarde. Appena la fibra acquista un certo grado d'irritabilità, l'uomo immagina; né ha più bisogno della presenza dell’oggetto per descriverlo e vederlo in sua mente. Segue in ultimo la ragione, facoltà di discernere, la quale classifica, compara, cerca la correlazione. Nella prima le fibre son, molte, nella seconda cominciano a tendersi, nella terza hanno il giusto grado d’irritabilità, con la vecchiezza diventano flaccide, l’uomo peggiora, e diventa di nuovo fanciullo.
Le facoltà dell’uomo sono inferiori ai bisogni; da ciò la perpetua operosità della vita. Ad ogni sensazione, ad ogni idea l'uomo subisce una modificazione, e con questa sorge un nuovo bisogno; e così la vita è un avvicendarsi continuo di bisogni, di idee, di nuovi bisogni.
L’uomo, se non è costretto da forze esteriori ad operare diversamente, segue per sua natura questa serie di movimenti, e trasforma tutti gli oggetti circostanti. L’indefinita modificabilità del mondo esteriore, che reagendo sull'uomo lo modifica indefinitamente, costituisce un’indefinita modificabilità di rapporti fra uomo, e uomo, fra esso e gli oggetti che lo circondano. Questi rapporti, ovvero l’azione degli uomini gli uni verso gli altri e sul mondo esteriore, costituiscono le umane società che per tal ragione sono indefinitamente modificabili. Dunque il continuo mutarsi di questi rapporti, ovvero delle costituzioni sociali, è una legge assolutamente necessaria, legge che risulta dalla natura umana; quindi fa duopo o migliorare, o peggiorare continuamente, oppure oscillare fra certi limiti.
Inoltre le fibre vengono modificate secondo il numero delle sensazioni: queste crescono a misura della trasformazione degli oggetti esterni; dunque in una società in cui la natura è selvaggia, e non ancora ha subito gli effetti dell’umana operosità, le sensazioni debbono essere pochissime, le fibre degli uomini rozze. A misura che le sensazioni crescono per la trasformazione che il mondo esterno subisce per mano dell’uomo, le fibre gradatamente si dirozzano; quindi le tre età che si riscontrano nell'uomo, esistono egualmente nelle società dei sensi, il puro stato selvaggio; dell’immaginazione, l’epoca delle favole e degli eroi; della ragione, l'epoca delle forti passioni, delle grandi virtù, perché la fibra ha raggiunto tutto quel grado d’irritabilità di cui è capace. Dunque per la natura umana il moto, il cangiamento delle condizioni e relazioni degli uomini, è immancabile; e per la stessa natura nelle società debbono sempre migliorando succedersi tre età diverse; dunque progresso. Ma le modificazioni, ed i rapporti, effetti dell'umana operosità, essendo indefiniti, indefinito eziandio il numero delle sensazioni che ne risultano; e siccome le soverchie, e continue sensazioni logorano ed ammolliscono le fibre, e gli uomini s’avviliscono, ne risulta che le società debbono eziandio soggiacere allo stato di vecchiezza, e morire di sfacelo; il progresso indefinito è impossibile.
Ora ci faremo a particolareggiare le nostre ricerche. Generalmente ogni modificazione che l’uomo opera sugli oggetti circostanti è un prodotto; le modificazioni sono indefinite; i prodotti debbono indefinitamente crescere.
Discorremmo nel primo saggio come si formano le prime famiglie, e quindi paghi, le città; quindi l’uomo tende all’associazione, o perché il debole donasi al forte per essere protetto; o perché questi lo fa suo schiavo, o perché varii deboli si collegano contro il forte. Insomma questa tendenza continua risulta dall’istinto della propria conservazione, dalla ricerca della prosperità, dalla paura della vendetta, non già dall’amore reciproco degli uomini. Come gli uomini, le famiglie, i vichi, i paghi per vantaggiare sé stessi si uniscono e formano le città, del pari vediamo le varie città formare le nazioni; e queste sotto l’imperio degli stessi moventi, formare gl’imperi. Quindi possiamo inserire che l’umanità ha una tendenza verso l’unità mondiale.
Né questa è l’unica ragione, ma avvene un’altra non meno importante. La natura, quasi per confermare questa legge, ad ogni regione ha dato prodotti diversi, mentre il desiderio, ed il bisogno di giovarsene è lo stesso in tutti gli uomini della terra, i quali ricorrono alla forza, alla frode, al commercio, per fornirsi di ciò che difettano. Quindi è indubitato che un giorno, se il globo non formerà un solo ed unico stato, certamente la prosperità e la civiltà saranno uniformemente sparse sulla sua superficie. E come ne’ vichi, ne’ paghi, nelle città, nelle nazioni dai varii costumi e gerghi, nacque una pubblica opinione, ed una lingua comune, nella guisa stessa, un giorno vi sarà un’opinione ed una lingua mondiale (1).
Proseguiamo lo studio della natura umana. L istinto avverte la esistenza dei fatti senza svolgerne le conseguenze. La ragione le svolge, le studia e le compara. Oli impulsi che riceviamo dallo istinto sono l'effetto dell'immediato piacere che può procurarci un’azione. Se a questa prima sensazione piacevole, ne succedano come conseguenza, altre dolorosissime, noi noi sappiamo. Solamente la ragione può avvertircene, la quale opera quando una sensazione dolorosa fissa su di un oggetto la nostra attenzione. L’uomo deve necessariamente errare; la sua ragione non evita l’errore, ma lo corregge quando i tristi effetti delle sue conseguenze ló costringono a ragionare. L’errore non è conforme alle leggi di natura, altrimenti non sarebbe errore; i suoi tristi effetti sono la voce di queste leggi che ci richiama sotto il loro assoluto imperio. Dunque l’istinto ci allontana dalle leggi di natura, la ragione ci rimena verso di esse. Il fine a cui tendono le leggi di natura, è il bene, è l’azione che risulta dalle ultime conseguenze dei loro effetti; l’istinto, invece, non mira che al bene immediato; la ragione c’ insegna di sacrificare questo all’avvenire. L’istinto restringe il nostro sguardo in angusta valle, mentre per discernere le leggi di natura, è d’uopo di ascendere una sublime vetta, ed in un fissar d’occhio tutto antivedere nell'avvenire. Fra i suggerimenti dello istinto, e le leggi di natura, avvi il medesimo rapporto che passa fra una lettera dell’alfabeto e la scienza. Per il che la legge del moto, della vita, è evidente: il moto è una serie non interrotta di azioni, le quali sono effetti erronei dell’istinto, che più tardi la ragione corregge, quello deviando, questa avvicinandosi alle leggi di natura. Inoltre le condizioni, e le relazioni degli uomini, la costituzione sociale insomma, è l’effetto dell'azione degli uomini, gli uni verso gli altri; dunque le costituzioni delle società sono effetto dell'errare del l’istinto, che la ragione corregge avvicinandole sempre alle leggi magistrali della natura. Svolgeremo più diffusamente cotesta idea.
Seguendo l’istinto, l’uomo che trovasi sotto una sensazione dolorosa, cerca tutto ciò che allevia il dolore, che distrugge la causa del male; né riflette se il rimedia dall’istinto suggerito, svolgendo in seguito le sue occulte proprietà, possa cagionare un male maggiore del presente; ricalcitra con esso, e ciò basta. Con questa legge che risulta dall'indole sua l'uomo costituisce la società e muta la costituzione di essa.
Intanto ad ogni nuova costituzione accettata dagli istintivi desiderii del popolo, esiste sempre un utile immediato, causa di coteste aspirazioni e quindi nei primi istanti, rinfrancata da un tale utile, la società prospera. L’ulcera che dovrà roderla, è nascosta, è appena in germe, i mali non sono sensibili. In tale stato la ragione, non ancora costretta dal dolore a studiare i mali, segue ciecamente l’istinto, ed essendo costretta a serpeggiare nei suoi angusti giri, e comparando e studiando i rapporti delle cose in quelle condizioni che l’errore dominante la sociale costituzione le ha stabilite, risultano i pregiudizii e le opinioni, che un giorno dovranno tiranneggiare questa società, e pur non di meno in quest'epoca, la ragione siccome segue l’istinto, è d’accordo col sentimento; gli uomini sentono e ragionano, non già giustamente, ma liberamente; la società è giovine, i costumi sono puri; il diritto, il giusto, le azioni virtuose sono quelle conformi al patto sociale.
Ma i rapporti sociali òhe si svolgono partendo da una base erronea, si scorgono diventare sempre più. contrarii alle leggi di natura: quindi cominciano a manifestarsi gli inconvenienti, poi i mali, i quali rapidamente crescono ed ingigantiscono; ecco il periodo delle rivoluzioni, o delle dissoluzioni delle società.
In tal periodo il dolore obbliga la ragione a fare studio su i mali che tormentano il pubblico, ed è condotta a delle conseguenze opposte ai pregiudizi! ed alle opinioni dominanti contraddittorie con le opere, coi costumi; quindi uria lotta di motivi esterni con l’interno convincimento. La virtù, essendo la vittoria di questo su di quelli, ovvero quel sentimento superiore alla stessa fama che appellasi coscienza, per cui disse il Campanella: Onor non ha chi d'altri il va cercando non è più quella che opera secondo il patto, ma in contraddizione col patto. Il diritto, il giusto non più quello riconosciuto dal patto, ma quello che risulta dai nuovi rapporti delle cose scoverte dalla ragione. Se il patto, per cagione dei dolori che tormentano le moltitudini, non è riformato o cangiato la società è condannata a perire. Allora scorgesi la virtù difettiva; quindi i motivi esterni prevalendo, la ragione è costretta a tacere. Ognuno impotente a combattere i proprii mali, si isola; non è più commosso dai mali altrui, e la ragione stessa impone per la propria conservazione silenzio al sentimento; l’uomo è depravato, è perfido ed infelice.
In questi diversi stati, in queste condizioni la società per mezzo degli scrittori manifesta le sue idee. Nell'epoca di prosperità l’erudizione ordinariamente sovrabbonda, gli scrittori sono puri, le loro opere, le loro dottrine sono d’accordo col patto sociale.
Cominciano i mali, i tormenti, e questo sentimento doloroso manifestasi con rimpiangere il passato, con maledire i depravati costumi. La Divina Commedia fu il canto solenne con cui l'Italia manifestò i proprii dolori, e rimpianse l’antica purezza dei costumi.
I mali cessano, la depravazione generale produce la sfiducia, lo scetticismo. Allora vediamo sorgere sovente gli apologisti del sentimento, i nemici del calcolo e della ragione; scrittori generosi ma non profondi, i quali credono cagione dell'isolamento, dell’egoismo, non già i mali da cui l’uomo è tormentato, ma la facoltà che li fa dfscernere. Eglino vorrebbero porvi rimedio suscitando in altri quei generosi sentimenti dai quali si sentono animati. Melchiorre Delfico, Giacomo Leopardi sono di un tal genere; la loro voce è lamento, protesta della società contro i mali che tutti sentono.
Contemporanei di questi scrittori, si mostrano i riformatori, nunzii di speranza e di vita, uomini di squisita fibra, che sottopongono a sereno esame i mali che opprimono la società, mostrano a nudo le sue piaghe, ne ricercano la cagione, propongono i rimedii, e compongono la filosofia dell'epoca. Se i dolori non sono abbastanza sentiti, o l’indole nazionale è tarda ed incapace di forte passione, costoro rimangono nell'astratto; e se discendono ad applicare le loro dottrine, si allontanano ben poco dallo esistente, adattano ad esso i loro ragionamenti. Se i mali son gravi, le passioni violente, il ragionamento dei riformatori distrugge quanto esiste. Gli scrittori alemanni, e i francesi del presente secolo hanno questi due distinti caratteri. I riformatori debbono vincere l’aspra lotta del proprio convincimento, contro tutti i motivi esterni, i pregiudizi, la pubblica opinione, spesso la presunzione, l’esilio, il carnefice il rogo. Sono gli eroi dell'epoca.
D’altra parte in molti l’utile privato trovasi strettamente legato alle leggi, alle opinioni, ai pregiudizi combattuti, e questi se né fanno i difensori.
In questi cotali scrittori depravati, i motivi esterni hanno sempre il trionfo sull'interno convincimento, la virtù è difettiva, sono turba vile e spregevole in perpetuo, se lo sprezzo potesse aspirare ad immortalità; l’opportunità è la legge suprema, il principio che li regola. Lodatori infaticabili, formano il corteggio della tirannide finché questa non diventa forte, da non aver più bisogno delle loro lodi, ed impone silenzio all’importuno garrito.
La lotta fra i riformatori ed i conservatori rischiara le tenebre, perfeziona le dottrine di quelli, che, originate da mali della società, acquistano maggior lume secondo che maggiori sono gli ostacoli che trovano al loro sviluppo. Per tal ragione, i conservatori, parte cancrenosa della società, loro malgrado contribuiscono al perfezionamento delle nuove idee. Così il pensiero' nasce dai fatti fra il volgo, dai dolori procede a traverso di essi, ma siegue poi fuor di volgo, i suoi voli, la sue astrazioni, mentre questo, senza mai addottrinarsi, dai soli fatti vien balzato da un un’idea in un’altra.
Intanto le moltitudini, sotto la pressura dei crescenti mali, cominciano a manifestare un’irrequietezza, un odio al presente, un desiderio di migliorare vago, confuso, non espresso in verun concetto. Ma questo desiderio, questo concetto non tarda a formolarsi nella mente di' pochi in un idea che diventa legame di sette, scopo di congiure, fede di martiri; e così essa manifestasi in una serie di fatti, di sensazioni, che la rendono comune, spontanea, concreta, immediata, sentimento insomma. Allora la rivoluzione delle idee è compita; quel concetto di pochi getta un seme nell'universale coscienza che frutterà, fecondato da fatti. Questa idea popolare legasi con le astrazioni dei filosofi, ma essa è quel primo suggerimento dell'istinto movente, e punto di partenza dei ragionamenti di quelli; e però nasconde nuovi errori, nuovi mali, dai pensatori, manifestati, comparati,contrappesati, ma sempre inutilmente pel volgo, che non cercherà il rimedio di mali non ancora esperimentati; e come quelli procedono seguendo i voli del loro pensiero sino alle ultime conseguenze, le moltitudini, lentamente operano, ed attraverso fatti, delusioni, errori, procedono verso la meta da quelli rapidamente raggiunta.
Sbattuto dalla tempesta sento il bisogno di un ricovero, penso di piantare degli alberi, e già li veggo nella immaginazione, in grandi rami diffusi. Li esamino minutamente, e mi convinco che non sarò da essi abbastanza guarentito, anzi mi attirerò i fulmini addosso. Come fare adunque? Quando saranno grandi, penso meco stesso, li abbatterò; coi loro fusti costruirò un ricovero più utile degli alberi. Esamino questo nuovo trovato del pensiero, e, non iscorgendolo abbastanza perfetto, procedo; perfeziono il ricovero, e giungo, sempre migliorando, ad un edilizio; e conchiudo che l'edilizio è il solo utile rimedio contro la bufera. Ma a quanti travagli, a quante fatiche, a quante delusioni non dovrò sottostare se voglio trarre in atto il mio pensiero, e piantare gli alberi, attendere che crescano, abbatterli, ed adattarli all'ideato edificio? I riformatori son quelli che ragionando stabiliscono la necessità dell’edificio; il popolo comincia per attuare il pensiero con piantare l'albero, e non l’abbatte, se prima non ha esperimentato che esso non è sicuro all’ombra delle sue foglie, come aveva sperato; e cosi procede, perfezionando il proprio ricovero, sempre dopo avere esperimentati quei mali che la ragione aveva già preveduti.
Nel pensiero di Campanella, di Pagano, di Filangiero, di Romagnosi noi scorgiamo, o espressa, o sottintesa, o come conseguenza di quei principi, la rivoluzione sociale. Quindi il pensiero italiano raggiunse ben presto le sue ultime conseguenze. Ma come procede il popolo verso questa meta? Ora oppresso da esorbitanti gravezze sollevasi nella gigantesca Napoli, terribile come la natura in corruccio, e, condotto da un pescatore, sbaraglia il mal governo che l'opprime; ora si raccoglie in Lucca intorno ad un nero e stracciato vessillo, e minaccia i ricchi; ora assale, al segnale di Balilla, e caccia lo straniero dalle mura di Genova; ora favorisce il Francese per odio contro il Tedesco; poi favorisce questo per odio di quello; finalmente, dopo tanti esperimenti e tante delusioni, comincia a riconoscere la necessità di conquistarsi una patria, e l’idea d’indipendenza Italiana la personifica in un Papa, poi in un Re, ed ora attende i nuovi fatti che verranno a trarlo dall’incertezza in cui gli ultimi disastri l’hanno gettato. A traverso di tanti esperimenti raggiungerà la meta, e, distruggendo l'edificio incantato dei pregiudizii e delle opinioni, adatterà la sua costituzione alle leggi magistrali della natura, le quali già da lungo tempo servon di norma ai nostri pensatori. Quindi è assurdo che il progresso dell'idea faccia progredire i fatti; è assurdo pretendere di giudicare dalle idee espresse dagli scrittori, il progresso di cui un popolo in una rivoluzione è capace. Per giudicarne, bisogna studiarne la sua storia, e dallo studio delle peripizie a cui è soggiaciuto, potrà conoscersi ciò che esiste nella coscienza nazionale, ovvero quell'universal sentimento che si manifesta nel moto, lo regge e ne prescrive i limiti. Se un tal sentimento non sarà un’idea chiara e distinta, ma prenderà norma dai mali esistenti che a pena cercherà di toccare senza distruggerli, il moto sarà sviato, represso, infruttuoso, non sarà che una nuova esperienza, che un ammaestramento universale, che allargherà per l’avvenire i limiti di quel concetto esperimentato troppo angusto; in tal guisa si succedono le rivoluzioni, errori fatali dell'istinto nazionale, che la ragione corregge ed indirizza verso le leggi di natura.
Fin qui potrebbe conchiudersi che il progresso è continuato, che le nazioni percorrendo una sanguinosa via procedono sempre; ma bisogna considerare altri elementi, altre cagioni, che operano sull’indole umana e sulla coscienza dei popoli.
Se l’eccesso delle sensazioni, se le troppe delusioni logorano le fibre, e gettano la sfiducia nell'animo, se le soverchie ricchezze di alcuni e la miseria spaventevole dei molti troncano ogni nerbo alle moltitudini, e succede una solitudine di pensieri e d’interessi, che distrugge affatto la coscienza nazionale, allora le rivoluzioni sono impossibili. Allora manca quel sentimento universale d’onde i pensatori traggono le prime idee; mancano ai popoli le speranze, ai cospiratori i concetti; mancano le passioni che sospingono quelli a scrivere, questi ad agitarsi ad operarle. Cessa il moto, e con esso la vita: ed il difetto di ardenti passioni non è che preludio di morte. Una nazione giunta in tale stato, è condannata a perire per vecchiezza: essa sarà preda dei più forti vicini.
Dal nostro ragionamento possiamo conchiudere, che ogni nazione tende con le sue rivoluzioni verso le leggi di natura, ma nel suo aspro cammino, può incontrare ostacoli tali che ne logorano le forze e la distruggono, quindi il corso e ricorso delle nazioni, non è legge fatale ed inevitabile, ma nemmeno contraria all'indole dell'uomo e delle società. Né perché per lo passato ebbe luogo, dovrà necessariamente ripetersi al presente; può non avvenire, o almeno seguire un’orbita più eccentrica di quelle già percorse. Intanto le ricchezze sociali, dimostrammo che sono in continuo aumento, le scienze che scrutano i segreti della natura, e si giovano delle sue forze, volgendole allo accrescimento dell’industria, in continuo progresso; ed i popoli del mondo tendono sempre verso l’unità, quindi le diverse nazioni corrono tutte verso questa meta comune; uniforme prosperità mondiale; ma nel loro cammino ciascuna sottogiace alle proprie peripezie; alcune migliorano nelle loro istituzioni, altre decadono, certe si dissolvono, altre ingrandiscono: sono come tante navi che navigano verso il medesimo porto, ma non vi giungono senza che ognuna non abbia corso fortuna a sua volta.
II. Fin qui non abbiamo fatto altro che seguire la dialettica, e rimanere nell’astrazione; ora l'accurato esame dei fatti, ovvero della storia d’Italia, che nel primo saggio abbiamo adombrata, servirà di riscontro al nostro ragionamento.
Distrutto l'Imperio Etrusco, dal diluvio d'Ogige, dalla crisi di fuoco di cui parlammo, fra i martiri dell’Italia, e della Grecia, per quell’incontrastabile legge di natura per cui l’uomo tende all’associazione, come il grave al suo centro, cominciarono a raccogliersi in vari gruppi i dispersi selvaggi. Le leggi da cui vennero retti questi primi gruppi, il dispotismo di uno su molti, ci dimostrano chiaramente il primo suggerimento dell’istinto. I deboli, onde esser garantiti dalla prepotenza dei forti, cercarono la protezione di altro forte, al quale si diedero volontariamente schiavi. Forse fuvvi chi suggerì la lega di tutti i deboli contro i pochi forti, forse fuvvi chi fece riflettere che si sfuggiva un male, e se ne creavano degli altri con la volontaria schiavitù; ma queste ragioni, queste dottrine dell’epoca, questi voli del pensiero riuscivano infruttuosi; l’istinto diceva ad ognuno: donati ad un forte, e questi ti proteggerà: e così ognuno a schivare la probabilità d’un servaggio, rendevasi volontariamente servo.
Così si formarono i vichi ed ì paghi. I deboli si sentivano lieti del ritrovato di aver chiesto la protezione del forte, contenti lavoravano, ed il forte, loro protettore, godeva del frutto dei loro lavori; la ragione era d’accordo col sentimento; queste prime società prosperarono.
La guerra fra i vichi, e paghi fece che varii di questi borghi collegandosi formarono la città. I varii capi, re scettrati, e sommi sacerdoti dei loro dipendenti si raccolsero in congresso nella città onde accordarsi riguardo il modo come condurre la guerra solo pubblico interesse allora esistente.
Intanto dal consorzio dei vichi e paghi risultò un culto comune, ed un paragone fra il modo di esercitare l’imperio dei diversi capi; quindi nei più oppressi sorse desiderio di migliorare: ed ecco i primi sintomi di una rivoluzione. Certamente soffrì pene acerbissime quel primo schiavo che si lagnò della propria condizione facendone paragone coi più fortunati: questi fu un riformatore, un virtuoso: le sue ragioni furono soffocate con la violenza, e la virtù ignota a quella società si mostrò per la prima volta. Virtuosi furono quei primi plebei, che sfidando il corruccio dei loro padroni, proposero sottoporre alla concione dei forti le private contese; virtuoso fu quel primo nobile che l’approvò facendo prevalere il suo convincimento — motivo interno — alla seduzione, che lo attirava ai vantaggi del domestico imperio — motivo esterno. Fu questa una prima rivoluzione, un progresso; divennero più equi i rapporti fra i padroni ed i clienti, ma crebbe oltre ogni misura la podestà della concione, sovrana e giudice nel tempo stesso. Il suggerimento dell’istinto di surrogare all’arbitrio di varii capi il volere del congresso che essi medesimi componevano, si avvicinò assai più alle leggi di natura che la volontaria schiavitù, ma diede corso a» nuova tirannide.
Al crescere delle popolazioni e delle ricchezze, al moltiplicarsi dei rapporti fra gli individui, la podestà dell’oligarchia dei forti cresceva, pesava sempre più sulla plebe, le cui fibre d’altra parte venivano dirozzate dal crescente numero delle sensazioni. Cominciarono a sentirsi i dolori, che trassero a sé l’animo dei più accorti, e la ragione dichiarò ben presto un’ingiustizia, che i soli nobili fossero sovrani. Ecco la lotta della ragione coi pregiudizii e colle opinioni di quelle società. Da questa lotta cominciò a sorgere naturalmente l’idea della colleganza della plebe contro i nobili, idea dalla quale l’istinto aveva deviato, prima col volontario servaggio, poi col concedere ogni podestà alla concione dei forti, ed a cui la ragione rimenava la società. Questa prima colleganza ha in sé tutto l’avvenire della democrazia; dà principio alla lotta del popolo contro le caste ed i privilegii, ed entra nella sfera delle rivoluzioni dei popoli civili.
Quale sarebbe stato il suggerimento della ragione per risolvere questa prima contesa fra nobili e plebei ì Manomettere i nobili, e farsi la plebe arbitra della cosa pubblica. Ma conseguita la vittoria come reggersi da sé? Faceva d’uopo rifletterci, pensarci, ed il volgo non riflette, né pensa. L’istinto suggerì di non distruggere i nobili, ma limitare la loro podestà, sottoporla a regole, e queste regole furono le consuetudini, rudimenti dei codici di tutti i popoli; prima vittoria della plebe sui nobili, prima idea del giusto, e dell’ingiusto. Dunque sulle consuetudini primitive si basarono i codici, e queste consuetudini erano risultate dal volontario servaggio, dagli erronei suggerimenti dell'istinto; quindi il lungo cercare, le tante esperienze ancora in corso, onde giungere da principii così ingiusti al semplicissimo codice della natura, l’uguaglianza.
Nuovi danni, e coi danni i dolori, sospinsero la plebe a nuova conquista. Si moltiplicarono i rapporti, le faccende, gli utili; la macchina sociale si complicò, ‘ la difficoltà di reggerla crebbe. Alle qualità naturali dell'uomo, forza ed astuzia in guerra, si senti il bisogno d’una qualità nuova, saggezza in pace; se questa saggezza era difettiva nei nobili, la società non tardava a provarne le conseguenze; ed ecco che il sostituire ad essi altri governanti più degni, idea un tempo suggerita dalla ragione, ora per lo svolgersi dei fatti era suggerimento dell’istinto, effetto dei mali da cui la società era gravata, dei dolori, dai quali veniva stimolata. Quindi la storia dei tanti tumulti, dei martiri, delle rivoluzioni, con cui la plebe cercava conquistarsi il diritto di conferire ai suoi eletti i maestrati della repubblica. Dunque volontario servaggio; quindi il volere della concione dei forti sostituito all’arbitrio dei singoli capi; quindi la podestà di questa concione sottoposta alle consuetudini, ad una regola; finalmente gli eletti oi migliori sostituiti ai nobili; ecco il progresso delle interne istituzioni seguito dai varii popoli italiani, progresso che lo troviamo conforme a quelle leggi di natura, di cui abbiamo nel precedente paragrafo ragionato. Ora abbandoneremo per poco un tale argomento, e ci faremo a ragionare sulle scambievoli relazioni che si stabilirono durante questo tempo fra i varii popoli d’Italia e l’effetto che esse produssero sulle interne condizioni di ciascuno di essi.
Quando i selvaggi cominciarono a raccogliersi in vichi e paghi si trovarono in contatto in Italia con i civilissimi etruschi superstiti del distrutto impero; quindi il desiderio in quelli di procacciarsi le ricchezze che questi possedevano; l’avidità dell’indole umana faceva tendere quei nascenti popoli a raggiungere la prosperità dei loro vicini. Di qui le guerre continue, le scorrerie che quei semiselvaggi fecero contro i civili etruschi, dai quali furono sempre respinti; d’altronde le comunicazioni dirette fra' monti, e però sommamente disagevoli, fecero sì che lo scambio dei prodotti, delle idee, dei trovati dell'industria, fu lentissimo fra gli Etruschi ed i popoli montani; e quindi lentissimo fra questi lo svolgersi della loro prosperità.
Non così sulle coste: il mare li abilitò a facilmente comunicare coi civili orientali; lo scambio divenne facilissimo, ed arti ed industria rapidamente fiorirono, le ricchezze crebbero immense, ed ove erano agresti tribù si videro sorgere le Magno-Greche repubbliche.
Ma come testé dicemmo il codice di questi popoli, comeché civilissimi, era basato sulle consuetudini delle primitive società, in cui una parte erano servi destinati al lavoro, un’altra padroni i quali cautamente vivevano delle fatiche di quelli. Inoltre l’indispensabile gerarchia militare, in cui i privilegi di ogni grado venivano stabiliti dai medesimi capi, introdusse l’ineguale riparto del bottino, quindi tali consuetudini, quantunque la condizione dei servi migliorasse, la base furono, i principii su cui venne stabilita la legge di proprietà, e quindi il diritto, non già quello giustissimo di usare ed abusare del frutto del proprio lavoro, ma l’altro sommamente ingiusto, che alcuni potessero possedere più del bisognevole mentre altri mancassero del necessario. Un tal diritto fondato su di un principio affatto oligarchico venne scosso, temperato ad ogni rivolgimento a cui quelle società sottostettero, ma, rimasto fermo nella sostanza, conservò la sua tendenza all’oligarchia, e le immense ricchezze ammassate da quei popoli civilissimi, furono proprietà di pochi, e più non si videro che opulenti e mendichi, mentre fra gli abitanti dei monti, l'industria in difetto avendo impedito lo sterminato crescere delle ricchezze, serbossi una quasi uguaglianza.
Esaminiamo queste due società. I Magno-Greci e gli Etruschi dalla soverchia opulenza e dalla miseria di molti depravati; imperò i sensi di quei popoli erano dall’abuso o dall’inerzia attutiti, e le fibre per sopprabbondanza di sensazione rese flaccide, e se tese, per debolezza soverchiamente irritabili, e quindi gli umori dall’incostante tensione, o troppo impetuosamente sospinti, o troppo languidamente premuti; di quinci i loro vizii corrispondenti a questo stato dei loro sensi: sempre oscillanti ed incapaci di durevoli proponimenti: gli affetti o troppo concitati ed al minimo ostacolo repressi, o soverchiamente rimessi: la costanza, la calma impossibili: spesso li vediamo arroganti col nemico lontano, e se vicino codardi; i Tarantini derisero i legati Romani, all'avvicinarsi poi dell'esercito, tremarono e si diedero a Pirro. Inoltre, la miseria degli uni, e l’opulenza degli altri faceva abilità a questi di comprare il voto di quelli, ed ai ricchi, non già ai migliori, veniva conferita la suprema podestà, e le cariche della repubblica; e però più innanzi ancora crebbero i mali. L’oligarchia dei ricchi immersi nella mollezza cercò sempre di divezzare il popolo dalle armi; per loro difesa assoldavano Campani… Galli, ivi accorsi per amor di guadagno, terrore di quell'imbelle plebe, ed eziandio dei tiranni che li pagavano.
Se poi ci trasportiamo fra le robuste popolazioni che abitavano i monti, non troveremo né soverchia opulenza che attutisce i sensi, né miseria che logora le fibre, le quali, dotate di giusta irritabilità, premono e sospingono a regolare e costante corso gli umori: onde fermezza ne’ propositi, calma nel deliberare, costanza nelle opere; non insultavano, ma combattevano il nemico. Il valore in onore: e più del valore, la saggezza, e la disciplina dei guerrieri; eravi lusso, ma nei militari ornamenti. Inoltre l’agricoltura essendo la gradita occupazione di quei guerrieri, e le terre quasi ugualmente divise, l’utile privato trovavasi d'accordo con l’utile pubblico; i voti non venduti, e la suprema podestà, le cariche tutte della repubblica venivano conferite ai migliori. Ecco dunque nell'epoca medesima, nella stessa Italia due società, l’una pel rapido svolgersi della civiltà e l’accrescersi delle ricchezze, corrotta e decadente; l’altra ove erasi conservata una giusta uguaglianza, giovane e fiorente.
Proseguiamo le nostre considerazioni: in una società depravata gli scrittori non possono essere che dotti e correttori di costumi; tali i Pittagorici, i quali non furono, come alcuni opinano, riformatori, ma propugnatori delle antiche virtù, apologisti del governo dei migliori, che aveva già esistito, che esisteva presso i popoli montani, e che fra i Magno-Greci era degenerato, perché non bilanciate le fortune, e il governo dei più ricchi.
«Il migliore dei Governi, diceva Clinia, non debb’essere affidato ad un solo, perché un solo ha delle debolezze; non a tutti, perché fra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perché pochi sempre sono gli ottimi. — Se una città libera, diceva Aristotile, non avesse che un solo uomo virtuoso, chi potrebbe negare che in tale città la dominazione di un solo sarebbe necessaria?»
E Clinia, Aristotile, Platone, facendosi come è naturale all’uomo centro di ogni cosa, credettero scoverte del loro ingegno quelle massime, quei principii, che in quella società decadente erano un pallido riflesso, una debole eco di antichi costumi; e dando il nome di virtù, non già all’anione che oppone nuovi principii a vecchi pregiudizii, ma ai principii, stessi, si credettero i soli virtuosi, né dubitarono per fare il bene, come essi dicevano, spacciarsi quali inspirati da Dio; e così l’amor proprio trovò in essi ragioni, come accordare impostura e virtù.
Quindi diventarono sètta, società secreta; ma le loro dottrine non erano conformi alle istituzioni sociali, né cercavano riformar queste; ma rendere gli uomini con le istituzioni stesse migliori, opera vana e stolta; epperò li vediamo ora onorati e vezzeggiati, ora aspreggiati dai governi, ed in ultimo distrutti da Dionisio, quando da Sicilia passò a devastare la Magna-Grecia. Intanto quei principii, quelle massime dei Pittagorici si praticavano dai popoli montani: fra i Sanniti, forte federazione di tre milioni d’uomini raccolti intorno ad eccelsi monti, fra i Lucani, fra i Sabini... Sembrava strano ed inutile ragionare lungamente per dimostrare la giustizia di quelle massime; fra essi tali idee erano sentimenti, e simiglianti costumi erano quelli dei nascenti Romani. Dunque i fatti sono in perfetto accordo col nostro ragionamento; le istituzioni di ciascun popolo progrediscono esattamente secondo quelle leggi fatali che sono effetto dell’indole umana: e se nelle società avvi sovrabbondanza di sensazioni, peggiorano e decadono. Nei primi secoli di Roma, si riscontrano in Italia tre diverse gradazioni, tre diverse età della vita dei popoli: al settentrione i Galli sono in uno stato di completa barbarie; i più forti fra di loro sono duci in guerra, ed arbitri degli altrui destini in pace; fra gli Appennini, giovani e fiorenti società, governate dagli eletti del popolo; sulle coste, popoli peggiorati, e decadenti. I primi, secondo queste leggi, avrebbero dovuto raggiungete lo stato dei secondi; questi o passare ad una ignota, ma migliore condizione, o decadere; gli ultimi erano condannati a perire. E così avvenne; i loro destini si compirono, e si compirono nel tempo medesimo che, per le stesse leggi regolatrici dell'universo, cotesti popoli soggiacevano a nuova trasformazione.
Da isolati selvaggi, per propria conservazione e per avidità, erano giunti a costituirsi in forti federazioni, ed opulente repubbliche. La civiltà, la prosperità, non erano in Italia ugualmente sparse; ne difettavano i Galli, ne sovrabbondavano i Magno-Greci.
Guerrieri i Galli e gli abitanti dei monti, e le comunicazioni difficili, quindi impossibile che avessero atteso dal lavoro pacifico e lento del commercio quest'opera unificatrice. L’autonomia di questi stati, troppo recisamente costituita per sacrificarla all’unità, e sorgente di odi vicendevoli ’; niun nemico comune ed universalmente temuto che li avesse indotti per propria conservazione a confederarsi, quindi essi erano dal fato condannati a sottostare ad una forza prepotente che ne avesse formata una sola nazione. Intanto ad ognuna di quelle nazioni sarebbe stato difficile compiere tale iìnpresa, e perché avevano incontro avversarii di pari forza, e perché era vi in Italia stabilito un diritto pubblico, che garantiva la loro indipendenza. I Romani, in forza di questo diritto pubblico, perché nascente, ne vennero esclusi e sprezzati; essi per propria conservazione dovettero vincer tutti; prima dovettero essere guerrieri per procacciarsi il bisognevole; poi lo furono per difendersi da tante aggressioni, finché vinti i più forti avversarii, i Sanniti, divennero quella forza prepotente che unificò l’Italia.
Unificata l’Italia essa trovossi in quello stato fiorente, in quella purezza di costumi in cui erano i Romani, i Sanniti, i Latini, ecc., che formavano la parte preponderante; il patriziato romano, i migliori d’Italia fu la sovrana concione che governò tutta la penisola. In tal guisa Galli, Sanniti, Magno-Greci corsero verso la stessa meta che raggiunsero, ma, nel compiersi cotesta legge, le istituzioni, i costumi delle società fiorenti prevalsero; i Galli ancora barbari furono inciviliti per forza; i Magno-Greci e gli Etruschi per vecchiezza perirono nella lotta. Roma fu il centro ove concorsero le varie istituzioni e i costumi di tanti popoli italiani; Roma fu il centro d’onde queste istituzioni si sparsero ugualmente in tutta l’Italia.
Gl’italiani retti dal saggio e guerriero patriziato romano si trovarono in contatto della vecchia civiltà d’Oriente o della barbarie d’Occidente; conquistarono gli uni e gli altri e sparsero la civiltà dei primi egualmente sul loro vasto impero. Ma le tante ricchezze acquistate colla guerra cominciarono a far sorgere l’opulenza e la miseria; il governo passò nelle mani dei più ricchi; gli ordini sociali avevano compito il loro corso, i mali crescevano, quindi o dovevano con una rivoluzione rigenerarsi o peggiorare e dissolversi come era avvenuto ai Magno-Greci.
Le fibre non erano inflacidite, le passioni ancora esistevano; quella società presentò sintomi di rigenerazione; i Gracchi, i Saturnini, i Drusi furono i riformatori dell’epoca; essi mirarono a limitare i dritti di proprietà, ma i loro ragionamenti, i loro sforzi non furono compresi dal popolo italiano; questo seguiva i suggerimenti del proprio istinto e credeva cagione dei mali il potere usurpato dai romani. Tutti vollero essere romani, e lo furono. Ma i mali, in luogo di diminuire crebbero; le loro forze, le loro fibre si logorarono nella lotta. Noi vediamo la stessa cagione — opulenza e miseria — produrre i medesimi effetti, i medesimi vizii, dai versi di Lucano, espressi con impareggiabile maestà ed evidenza:
In poder vasto il campieri si estese
Ed estraneo arator fè lunghi i solchi
Dove brevi li fea l’irto Camillo.
E affondava le mani i Curi antichi
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Alla ragione
Fu misura la forza, e parto iniquo
Della forza, le leggi, i plebisciti:
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Allor fur compri i fasci, e mercatante
Dei suoi favori il popolo divenne.
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Allor l’usura, lupa che fa d’oro
Ricolta ad ogni luna: allor la fede
Violata e la guerra utile ai nudi.
Tutti i maestrati della republica si ridussero nelle mani dei pochi ricchi, e con essi il governo, il tesoro, la guerra, le provincie, i trofei, le glorie; le guerriere prede fra capitani si dividevano, erano i soldati plebe misera e vendereccia, e se le proprietà dei padri o figli di qualche soldato confinavano a quelle di qualche potente, ne rimanevano spogliati. Cosi spalancossi fra i patrizii e la plebe — quelli diventati opulenta oligarchia, questa moltitudine di codardi e mendichi — la stessa voragine da cui furono inghiottiti i Magno-Greci. Ben presto in Roma, come era avvenuto fra quelli antichi popoli, l’oligarchia dei ricchi fu a sua volta oppressa dal militare dispotismo.
La storia d’Italia diventa ora la cronaca sanguinosa dei suoi tiranni, e Roma nella decadenza non cessò di essere grande. Gli eroici e puri costumi che descrive Tito Livio e la corruzione ed i misfatti scolpiti da Tacito, rappresentano degnamente il sorgere ed il tramontare di un gran popolo. Lo stato di Sibari, di Cuma, di Cotrone, di Siracusa … è riprodotto su vastissime dimensioni. Sino a Nerone la cronaca è italiana, poi perde questo carattere di nazionalità, e diventa universale. Alle frontiere si creano gl’imperatori che si disputano il trono; il Senato, estraneo alla lotta, applaudisce al vincitore. Quest’impero cadente e ricco trovasi a contatto di Goti, Longobardi, Franchi, barbari affatto. Essi agognano d’impossessarsi di tante ricchezze, ma dubitano pel terrore che loro inspira il nome romano. Intanto per effetto della corruzione le feraci terre si spopolano, e si cangiano in deserti, gli uomini avviliti dalla miseria ed oppressi dalla tirannide cercano rifugio fra le caverne e le selve. I superstiti a questo cataclisma politico non differiscono gran fatto dai superstiti alle grandi crisi della natura; essi fuggono spaventati la violenza dei potenti, come questi lo scroscio della folgore ed il muggito della tempesta. Finalmente i barbari scacciano la paura e si rimescolano con le reliquie dell'Impero. I destini si compiono; i Romani periscono per vecchiezza, e la civiltà, che arrestavasi al Reno ed al Danubio spandesi sino all’Oder.
Siamo ora alla barbarie ricorsa, che vedremo progredire sotto l’impero di quelle medesime leggi di cui discorremmo. All’imbelle patriziato romano si surroga la robusta e guerriera aristocrazia dei barbari. Quest’aristocrazia componeva la concione sovrana da cui veniva eletto il re loro duce in guerra. I patrizii romani con l’usura e la frode vicendevolmente si distruggevano; i nobili barbari lo facevano con la forza, ed i piccioli proprietarii erano da questi baroni talmente oppressi che rinunziando ad un’effimera libertà,, si dichiaravano volontariamente vassalli del potente vicino onde esserne protetti; nella guisa stessa che nella primitiva barbarie quelli che meno potevano si donavano schiavi ai più forti. La società nuova che erasi sostituita all’antica con nomi e costumi diversi conservò la medesima tendenza ad un’oligarchia di proprietari che andavasi sempre restringendo, allargava quella fatale voragine che separavala dalla plebe. Intanto in questa barbarie ricorsa era rimasto superstite il comune romano; essa fu punto di rannodamento alla maggior parte degli oppressi; questi comuni sottostettero all’assoluto imperia dei baroni, ma essi furono tanti centri di Vita.
Il misero popolo dopo sei secoli cominciò a sentire i propri mali, venne scosso dalla lotta impegnata ira l’aristocrazia e la teocrazia, la rivoluzione cominciò; e questa rivoluzione che logorò le forze dei romani fece inabbissare tutto l’impero in quella voragine spalancata fra ricchi e poveri e trionfò dinante la barbarie ricorsa, imperocché le sue mire furono più recise. Allora gl’italiani volevano conservare l’impero, chiedevano solo di esser Romani. Vano rimedio allora mali. Ora che in diritto ed in fatto altro non esisteva che l’arbitrio dei baroni, il suggerimento dell’istinta fu di distruggere questi; non era vi nulla da conservare; i ricchi baroni vennero assaliti; le loro terre conquise,, diroccate le loro castella, ed essi furono costretti a chiedere rifugio ai trionfanti comuni.
L’Italia risorgeva. I comuni italiani, per loro interne istituzioni erano al medesimo punto in cui erano giunti i Sanniti e i Magno-Greci; quindi l’intera Italia sotta i Romani, il governo dei migliori, gli eletti del popolo. Quelli pel crescere delle ricchezze peggiorarono e perirono, questi corsero con più rapidità le vicende medesime. Nelle antiche città italiane formate dalla riunione di rozzi selvaggi, ed in cui l’agricoltura era in onore i migliori erano considerati i più laboriosi, i meno ignoranti; per contro nelle città italiane surte dalla ritornata barbarie, dal lezzo della comune depravazione cogli sforzi dell'industria e del commercio, i simulatori e gli scaltri erano quelli nelle cui mani veniva affidata la suprema podestà; nelle primitive popolazioni agricole tutto l'utile privato accordavasi con l'utile pubblico; in queste in cui tutto era industria e commercio, quello era in opposizione con questo, e vinto il nemico che li aveva costretti ad unirsi e concorrere al medesimo scopo, l’amor di patria cessò di fatto e fuvvi solitudine di pensieri e d’interesse. Le ricchezze degli antichi popoli italiani che abitavano i monti non poterono crescere che lentamente e per mezzo delle conquiste; ai comuni risorti invece che non aveano rivali nel resto d’Europa allora barbara, le ricchezze, come presso i Magno-Greci, crebbero rapidamente. Al XIII secolo le grandi fortune erano ammassate, la plebe compra, le città si dividevano in opulenti e mendiche; al XV secolo è riprodotto il medesimo fatto osservato presso i Magno-Greci ed i Romani. Alla cima della società un’opulenta e però molle e codarda oligarchia che sempre restringevasi, alla base plebe vilissima; dall’oligarchia si viene al dispotismo militare dei tirannelli. Sintomi delle rivoluzioni si manifestano; i tumulti si succedono, ma tutti mancano di un concetto dirigente. In quelle società parteggiate dall’oro, l’istinto altro non suggeriva che surrogare una tirannide ad un’altra; le forze si logorarono, e la voragine spalancata fra ricchi e poveri inghiottiva libertà, indipendenza, arti, industria, commercio, tutto insomma. Mentre l’Italia per le mal distribuite ricchezze perdeva ogni nerbo ed imputridiva nei vizii, la sua opulenza, la sua civiltà soverchiamente superiore a quella delle nazioni che l’accerchiavano, dando effetto a quella fatale legge per cui la prosperità tende continuamente a spandersi su tutti i popoli, produsse l'irruzione in Italia di quelle nazioni. L'Italia dei Romani era stata mirata dai barbari come schiavo mira il padrone; ora i semibarbari d’oltremonte la guatarono come il discepolo il maestro, come mendico guarda l'agiato; la preda era facile e ricca, all’ammirazione prevalse il desiderio di rapina; i nostri tardi discepoli gettandosi sul nostro corpo infralito da vecchiezza, lo sbranarono. L’ Italia venne disseccata dalla vitalità che assorbirono i conquistatori; noi ricevemmo da essi barbarismo, vanità ed ozio. In tale epoca la degradazione compresse in noi ogni elaterio dell’animo; lo splendido medioevo moriva, e per indolenza si amò da noi la stessa tirannide, si abborrì la libertà per amor dell'inerzia; obbedienza a chi comanda, disse con gran verità il Sismondi, fu la formola che raccolse in sé ogni precetto politico fondato sulla avversione alla lotta, e nel costante desiderio del riposo.
Dall’Italia gettiamo un rapido sguardo al resto d’Europa, che sorge anch'essa dalla rinnovata barbarie. Da per tutto vediamo la concione dei baroni sovrana, il popolo servo, il re magistrato. Il risorgimento dei comuni riformò in Italia questa società, ma presto cogli oltremontani, l’elemento barbaro prevaleva al romano, le città mancavano di quella vita che si svolse in Italia, e tale rivoluzione avrebbe dovuto compiersi su vastissimi imperi, e però le cose procedettero diversamente. Nelle città il re eletto dai forti, poco differiva da essi, né poteva per l’immediato contatto esercitare un grande ascendente. Quando il popolo sente il bisogno di distruggere l’oligarchia, la prima idea pratica che gli suggerisce l’istinto è quella di surrogare ad essi gli eletti del popolo; quindi la democrazia trionfa; per contro in un vasto impero in cui il re solo in una capitale si estolle agli occhi del volgo al disopra dei feudatari, i popoli per francarsi dalla prepotenza di questi divennero collegati del re, e poi si trasformarono da vassalli in sudditi della corona, e la regia potestà trionfò, e con essa venne stabilito il diritto divino; e questo diritto prova che l’opinione universale e la rivoluzione tendevano, come era naturale, al governo dei migliori; epperò i re per non concedere al popolo quel diritto d’elezione che aveano i baroni, si fecero dichiarare i migliori da Dio, onde cosi la loro podestà più non dipendeva dalla volontà dei governati.
Possiamo finalmente conchiudere che quelle leggi fatali che reggono i destini delle nazioni si verificano nei fatti con l'esattezza medesima con cui risultano dalla logica, e l’esperienza e la ragione si trovano in perfetto accordo. Ragionando della natura umana e del suo modo di essere nel mondo esteriore, dimostrammo nel paragrafo precedente, come essa con incessante trasformazione accresca sempre le ricchezze sociali; le quali poi per legge della stessa natura, tendono a spandersi egualmente su tutto il globo; e mentre la prima di queste leggi è per sé medesima evidente, l’altra la troviamo esattamente confermata dalla storia. La civiltà tende all'equilibrio fra due nazioni vicine come il fluido elettrico fra due nubi; quella degli Etruschi e Magno-Greci era molto superiore a quella dei popoli montani d Italia, quindi noi vediamo quelli conquistati da questi, e l’opulenza e l’industria spandersi egualmente in tutta la penisola; nella guisa stessa le conquiste dei Romani in Oriente stabilirono l’equilibrio fra le due civiltà, l’una scarsa, l’altra sovrabbondante; ed i Romani conquistando i barbari d’occidente la sparsero uniformemente sul vasto impero da essi fondato: finalmente l’irruzione dei barbari del settentrione fu conseguenza di questa mancanza d’equilibrio fra la civiltà corruttrice dei Romani ed i selvaggi costumi dei loro vicini, e con quest'irruzione i limiti dell'Europa civile non furono il Reno ed il Danubio, ma l’Oder; d’onde poi col mezzo stesso delle guerre e del commercio penetrò in Prussia, e mentre con moto incessante tali destini si compivano in un periodo di forse quaranta secoli vedemmo in Italia tre società progredire e poi pei loro vizi dissolversi, i Magno-Greci, i Romani, i Comuni italiani. Dunque il progresso continuo è un sogno, i fatti sono troppo eloquenti per sé medesimi, né possono distruggersi da studiati sofismi. Nell'Europa moderna la costituzione politica dei vari stati, ha raggiunto quel punto medesimo in cui si trovavano quei popoli decaduti, il governo dei migliori; codesto principio sotto diverse forme, e con diversi nomi regge tutte le nazioni: o lo sono dichiarati da Dio, o, eletti, tali li dichiara il popolo.
Questo limite fatale nessun popolo antico come moderno è stato capace di oltrepassarlo, quantunque moltissimi tentativi si fossero fatti per conseguire un tale iscopo. Le eloquenti orazioni dei romani tribuni contro il potere dei consoli, i tanti rivolgimenti delle repubbliche italiane del medioevo, e particolarmente di quella di Firenze, i tanti ritrovati dei moderni, ad altro non mirano che a garantirsi contro quella podestà dal popolo stesso conceduta, ma è forza confessare che lo scopo non si è raggiunto. Appena affidasi il maestrato supremo ad un uomo o a varii uomini, le forze di tutta la nazione si volgono a profitto di questi pochi, e dei loro seguaci, e la schiavitù delle moltitudini in varie gradazioni è permanente.
È questo forse il limite fatale dalla natura stabilito? Declinano i moderni come i Magno-Greci, i Romani, i Comuni italiani? Abbiamo dimostrato che la possibilità di andare oltre è attributo della natura umana; come essa ha necessariamente corretto le diverse costituzioni, ed è giunta allo stato presente, non havvi nessuna ragione per credere che sotto il pungente stimolo del dolore non possa stabilire ordinamenti migliori. Ma se è possibile migliorare, è possibile eziandio che i moderni si dissolvano come gli antichi prima di raggiungere il loro scopo. Ci faremo a svolgere tale argomento interrogando le tendenze della moderna società, ma prima di tutto fa d’uopo porre in vista, e richiamare l’attenzione del lettore su di una grande verità che risulta da quanto testò abbiamo detto. Quale fu la cagione per cui presso i Magno-Greci all'antica purezza di costumi successero i vizi che li corruppero? Quale fu la cagione per cui tutte le cariche della repubblica, un tempo concesse dal popolo ai più degni, caddero nelle mani dei pochi ricchi, i quali ad altro non pensarono che ad avvilire e tiranneggiare il popolo, e godersi la podestà usurpata e le esorbitanti ricchezze? Quale fu la cagione per cui presso i Romani avvenne precisamente lo stesso? E quale la cagione che rinnovò il fatto nei comuni italiani? La cagione fu sempre la stessa: la cattiva distribuzione delle immense ricchezze che divisero la nazione in opulenti e mendichi; di qui tutti i mali accennati, e quella voragine spalancata in cui questi imperi sprofondarono. Quale fu la cagione per cui presso i Magno-Greci, i Romani, le ricchezze nell'accrescersi si sono sempre più ammassate fra un ristretto numero di cittadini,, e la miseria della plebe è cresciuta in ragione diretta dell’aumento del prodotto sociale? La cagione è evidente, il diritto di proprietà, il diritto che dà facoltà a pochi di arricchirsi a discapito di molti, ma tale diritto è l’asse intorno a cui queste nazioni, queste società hanno compito il loro ciclo. Sofisti!... apologisti della proprietà, osereste negare quaranta secoli d’istoria? Sareste voi capaci di dimostrare che non fu la miseria della plebe e l’opulenza di pochi la sorgente di tutti i vizi che li distrussero; che la tendenza del prodotto sociale ad accumularsi in poche mani, e quindi cagionare la miseria della moltitudine, non sia una conseguenza inevitabile del diritto di proprietà?
III. Le rapide e numerose comunicazioni, che si aprono ogni giorno e traversano in ogni senso l’Europa, hanno fatto abilità, ai prodotti dell'industria di spandersi quasi uniformemente da per tutto, hanno reso le idee, le scoperte di comune ragione; hanno talmente intrecciato gl’interessi dei vari popoli che la guerra fra due stati europei viene considerata dalla numerosa turba dei commercianti ed industriali quasi come guerra civile.
Intanto le due diverse civiltà di Asia e d’Europa debbono in un avvenire non lontano compenetrarsi, unificarsi; questa è una legge che abbiamo visto confermata dalla storia. Ma come avverrà questo fattoi Sarà l’Europa che si rovescierà sull’Asia, o questa su quella? Né l’uno, né l’altro: l’Europa non abbandona, né le converrebbe farlo, il suo commercio e la sua industria per correre alla conquista dell'Asia, né questa ha tali moventi che la facciano sortire dalla indolenza per rovesciarsi sull’Europa; e se il facesse, il periglio comune unificherebbe le falangi di tutti gli eserciti europei, al cui urto gli asiatici verrebbero dispersi.
Se rivolgiamo lo sguardo all’America la vediamo posta fra i due continenti, fra le due civiltà, e parrebbe destinata a dar compimento a questa legge fatale, nella guisa stessa che l’Italia il fece fra l’Oriente e l’Occidente. Ma gli Americani sono dediti al commercio, all’industria e non già alla guerra; i loro prodotti trovano sempre mercati abbastanza vasti, e l’estensione e feracità del suolo di cui dispone, fanno si ch'essa non ha bisogno di cercare ventura per accrescere la Bua prosperità.
La Russia per la sua apparenza guerriera, e per la velleità dei suoi autocrati c’ indurrebbe a credere che un giorno fosse destinata a compiere con la spada i decreti del fato; ma non vi è popolo meno del Russo adattato alla guerra, esso non è abbastanza civile per sentire gli stimoli della gloria militare: né tanto barbaro d’abbandonare le proprie contrade e correre alla conquista di nuove regioni. La volontà dell’Autocrate basterà per esaltarlo in difesa del proprio paese, ma non già per trasformare in conquistatore un popolo di servi. La Russia contribuisce a compiere queste leggi fatali non già con la guerra, ma col lento lavoro del commercio.
La civiltà europea già varca gli Ural e penetra in Asia. Finalmente se ci faremo a considerare attentamente le condizioni dell’Inghilterra, ben lungi dal vedere in essa la Roma o la Cartagine moderna, noi crediamo che essi rappresenti ciò che era Venezia nel medio evo. L’Inghilterra vive d’industria, i suoi prodotti sono immensi e sempre crescenti, quindi essa ha bisogno di mercati vastissimi; essa deve, se le circostanze richiedono, aprire col cannone lo sbocco ai suoi prodotti. Quindi a noi pare che l’Inghilterra sia destinata a capitanare l'esercito di trafficanti, che unificherà la civiltà europea e l’asiatica se impreveduti avvenimenti non cangiano la condizione dei popoli.
Dunque, esclameranno i partigiani del continuo progresso, noi ci avviciniamo verso l'unità meridionale (?), che verrà quasi pacificamente attuata; noi ci avviciniamo ad un libero e facile commercio fra tutti i popoli della terra; i vari prodotti di tante nazioni, la loro industria, le attitudini speciali di ciascun popolo, di ciascun individuo, saranno volti a benefizio di tutta l’umanità; — questo è quello che desideriamo. Ma la storia e la logica ci conducono a queste incoraggianti conclusioni? Cerchiamo le sorti più vicine, a cui accenna la vita politica ed economica dei popoli moderni.
Sino allo scorcio del XV secolo l’Italia fu l’astro intorno a cui tutti i popoli hanno compiuto il loro giro, centro verso di cui tutti hanno gravitato. La sua luce offuscata, spenta questa signora delle genti, questo centro venuto meno, l'Europa abbandonata a sé stessa, per quasi tre secoli ha seguito un corso incerto e balenante. La Francia finalmente si è surrogata all’Italia per regolare il corso dei destini europei, ma il suo ascendente non è evidente, incontrastabile come fu quello dell’Italia, spesso è contrappesato, quasi sempre resta in ombra e si discerne appena, qualche volta sparisce affatto. Non di meno in Francia possiamo fare studio sulle tendenze delle moderne nazioni.
Sappiamo dalla storia come in essa i comuni non poterono mai completamente francarsi; la regia podestà distrusse il feudalismo e surrogossi a lui. Ma il popolo non essendo libero, come in Italia, l’industria, il commercio lentamente progredirono, e il protezionismo, conseguenza della monarchia, tutto interdisse. Finalmente sotto Sully ed Enrico IV fiorì l'agricoltura, sotto Colbert e Luigi XIV l'industria, a cui Turgot con l’abolizione delle corvaie e dei mestieri diede grandissimo impulso. Oggi i francesi, e quasi tutti gli oltremontani, raggiunsero quel grado di prosperità a cui erano giunti gli italiani allo scorcio del XIV secolo, e se presso gli italiani, in quest'epoca ogni cosa accennava decadenza, quali sono le tendenze dei moderni? Come!.... esclama Mercier de la Riviere, ch'è un partigano del despotismo, l'agiatezza è sconosciuta a coloro che la producono. Ah!! diffidate di questo contrasto. Ma spingiamoci innanzi alla ricerca dell'ignoto avvenire.
È innegabile che la presente società può considerarsi divisa in due classi: da una parte capitalisti e proprietà, dall'altra operai e fittaiuoli. Queste due classi sono in un’evidente e continua opposizione: quella prospera al deperire di questa.
«Invano, dice Filangieri, i moralisti han cercato di stabilire un trattato di pace fra queste due condizioni: quelli cercheranno sempre di comprar l'opera di questi al minor prezzo possibile; e questi cercheranno sempre di venderla loro al maggior prezzo che possono. In questo negoziato quali delle due parti soccomberà?... Questo è evidente: la più numerosa».
Cotal vero non può negarsi, che per ignoranza o per difetto di buona fede: il capitalista mira sempre ad accrescere il prodotto netto, quindi il ribasso della mercede alla ruina dell’operaio; il proprietario a trarre quanto più sia possibile dal fittaiuolo onde alimentare i suoi ozi, poco curandosi dei bisogni di quello. La proprietà fondiaria venne già scrollata dalle riforme del XVIII secolo, che scemarono molto il suo ascendente sui destini della società; oggi è il capitale l’arbitro dell'umanità, per esso corrono prosperi i tempi. L’umano ingegno datosi all'industria, non si tardò ad inventare macchine, strumenti, trovati che ne facilitano il progresso. Ma in questo progresso la vittima è stata l’operaio; le macchine e la divisione del lavoro hanno accresciuto il prodotto netto, e nel tempo medesimo ribassato grandemente il salario; e quello e questa riducendo l’opera dell’uomo ad un atto puramente materiale e costante, non è rimasto al misero operaio nessuna attitudine di cui possa avvalersi. Un tal fatto gli economisti noi niegano, ma come rimediarvi, essi dicono? Sostituiremo i viaggi sul dorso d’uomini alle strade ferrate, la vanga all'aratro, il copista alla stampa? Non si arriva, soggiungono, senea perdite sulla breccia! Né possiamo tener conto di coloro che il corso del progresso schiaccia nel suo cammino. E l'economista, atteggiandosi qual benefattore dell'umanità, con una gravità sotto cui nasconde la sua ipocrisia, vi dice: noi miriamo al bene pubblico non già il privato. Meno quest'ultimo asserto, le loro risposte sono giuste; sarebbe stoltezza pretendere di arrestare i voli dell'umano ingegno; a noi basta registrare un vero, un fatto, un risultato ch’eglino stessi non possono negare, ed è che: la miseria dell'operaio cresce al crescere della ricchezza sociale e del prodotto dell’industria. Inoltre maggiore è il capitale, ed in parità di lavoro, maggiore è il prodotto, questo è un assioma in economia; e però un vistoso capitale producendo sempre più a buon mercato che un piccolo capitale, ne risulta che questi dovrà indubitamente soccombere nella concorrenza. D’onde risulta un altro fatto, che gli economisti non possono disconoscere, ma non vogliono confessare, cioè: nella continua lotta che si fanno i varii prodotti, i varii capitali, la ricchezza sociale si accresce ed il numero di coloro che la posseggono diminuisce. L’Inghilterra produce quanto basta a 250 milioni d’uomini; solamente 9 milioni sono i possessori di queste immense ricchezze. Perché avviene ciò? per legge di natura: ricerca continua di prosperità; bisogni crescenti al crescere dei prodotti, facoltà inferiori ai bisogni, ecco l’umana natura; donde l’operosità, il progresso dell'industria indefinito, la felicità ad onta degli umani sforzi impossibile, ed in questo continuo ed istintivo moto l’uomo cercando di volgere in suo profitto quanto cade sotto i suoi sensi, in una società in cui i guadagni privati non sono cospiranti, ma contrari ed in concorrenza, e cercano vicendevolmente distruggersi, bisogna inevitabilmente, fatalmente tendere ad una oligarchia di ricchi e raggiungerla.
Dunque i principii su cui sono stabilite le leggi economiche, le leggi immutabili di naturali fatti in fine, ci dimostrano ad evidenza che le moderne società si avvicinano rapidamente a quelle condizioni medesime a cui giunsero i Magno-Greci, i Romani, i Comuni: cioè esse tendono a ridursi in un’opulentissima oligarchia, ad una moltitudine di mendichi.
Fin qui per ciascuna nazione in particolare. Ora ci faremo ad esaminare i destini dell’intera Europa. La giustizia, l’utile del libero cambio, astrattamente, è incontrastabile; esso è una conseguenza delle leggi naturali da cui viene regolato il mondo. Ma queste leggi naturali vengono esse osservate nel resto degli ordini sociali, nella distribuzione delle ricchezze? È questo il punto della questione dagli economisti studiosamente evitato. La varietà dei prodotti delle diverse regioni, la diversità delle attitudini di ciascuna nazione e di ciascun uomo sono fatti da' quali risulta l’utile, la necessità del libero cambio. Che ogni popolo fruisca dei prodotti degli altri popoli e faccia loro fruire dei suoi; che ognuno possa giovarsi delle diverse attitudini di tutti, e tutti di quelle di ognuno, è il problema umanitario, il problema che il libero commercio, e la facilità e rapidità delle comunicazioni risolvono. Il libero cambio, produrrà l’altro grandissimo vantaggio che una nazione, destinata dalla natura ad essere agricola, non abbandonerà certo l’agricoltura per l’industria, o viceversa, e cosi ogni popolo troverà il suo vantaggio rimanendo in quelle condizioni che natura gli ha fatto. Ma per ottenere cotesti risultamenti richiederebbesi che i prodotti sociali, le ricchezze insomma, scorressero e si diffondessero ugualmente in tutte le classi della società, e non già, come avviene, che si andassero restringendo in pochissime mani. Questo fatto che abbiamo dimostrato fa crollare l’edifizio incantato dei liberi cambisti; è questo lo scoglio ch'eglino vorrebbero nascondere curandosi poco, ottenuto l’intento, che la società si rompesse.
Discendiamo ai fatti: un paese abbonda di cereali, ed ivi la plebe vive a buon mercato. Si ponga in atto il libero cambio, ed immediatamente gli incettatori faranno acquisto di tutto il grano, e l’invieranno a quei mercati ove è maggiore il prezzo. Quale sarà la conseguenza? Il caro del pane! Ma vi rispondono i liberi cambisti: se il prezzo del pane sarà maggiore, vi sarà in compenso, una grandissima diminuzione nel prezzo de' panni, delle stoffe, dei tappeti; ed inoltre non contate l’oro che entra nella scarsella degli incettatori?
Tutto questo è vero, ma il popolo minuto, misero com'è, non ha bisogno per covrirsi de' panni forastieri, né gode della diminuzione di prezzo di questi generi; l’oro che entra nella scarsella degli incettatori, non arreca nessun vantaggio alle moltitudini, ma è volto ad affamarle l’anno seguente. Né qui finiscono i mali... La proprietà fondiaria è un monopolio permanente, ed in una nazione destinata dalla natura ad essere esclusivamente agricola, non tutti possono dedicarsi alla agricoltura; i posti sono occupati, quindi per necessità, alcuni capitali e moltissime persone si dedicano alla industria, che per l’indole nazionale, per le condizioni del paese mai potrà ingrandirsi e perfezionarsi in modo tale da sostenere la concorrenza di quelle fabbriche immense, di quei prodotti dei popoli esclusivamente industri, e però il libero commercio le distrugge immediatamente, e priva di lavoro quelli operai che già ha tormentato col caro del pane. I capitali poi escono immediatamente dallo Stato e passano allo straniero. Senza poter rispondere alle prime obbiezioni, i liberi cambisti credono di rispondere vittoriosamente a quest'ultima e dicono: Allorché il denaro passerà da A in. B, è segno che A ne abbonda; appena ne mancherà, il danaro ritornerà, per la ragione medesima che da A è passato in B. — Si, vi ritornerà, risponde Proudhon, ma vi ritorna nelle mani dei capitalisti stranieri, i quali acquisteranno terre, stabiliranno fabbriche, ed A diverrà una nazione che vive dei salari che percepisce dagli stranieri. L’ascendente dell’Inghilterra sul Portogallo è dovuto al libero commercio; il vasto impero delle Indie per questa ragione è divenuto proprietà di pochi mercanti. In una parola: se le condizioni e le relazioni sociali non mutano, il libero cambio facilita la concorrenza, e questa il monopolio di sua natura oligarchico; quindi facilita la tendenza delle ricchezze sociali a ridursi a poche mani, ed il crescere incessante dei mendichi e delle loro miserie.
Coteste verità che studiosamente si disconoscono fanno esclamare a Proudhon: «Il libero monopolio, è la Santa Alleanza dei grandi feudatari del capitale e dell’industria, è la mostruosa potenza che deve compiere su ciascun punto del globo l’opera cominciata dalla divisione del lavoro, dalle macchine, dalla concorrenza, dal monopolio, dalla polizia; schiacciare le industrie minori e sottomettere definitivamente il proletariato. È la centralizzazione su tutta la faccia della terra, è il reggimento della spoliazione e della miseria, è la proprietà in tutta la sua forza e gloria.
«È per conseguire l’adempimento di questo sistema che tanti milioni di lavoratori sono affamati, tante innocenti creature gettate dalla mammella nel niente, tante fanciulle e donne prostituite, tante riputazioni macchiate. E sapessero almeno gli economisti una» uscita da questo laberinto, una fine di queste torture.
«Ma no, sempre mai come l’orologio dei dannati è il ritornello dell’apocalisse economica. Oh! se i dannati potessero ardere l’inferno!!...»
Né qui si arrestano i mali, né qui cessa il potere che hanno le leggi economiche sui destini sociali; esse informano, danno norma, indirizzano verso la stessa meta a cui esse tendono qualunque politica istituzione, eziandio quelle che sembrano volte a migliorare le condizioni delle moltitudini. Il governo vive delle gravezze pagate da' cittadini, e queste, meno pochissime su taluni oggetti di lusso, tutte gravitano sui poverelli, sul minuto popolo che paga nella più gran parte, e più delle altre classi sociali ne risente il peso; mentre i ricchi, e coloro che assorbono i maggiori stipendi sono in proporzione i meno gravati. Questi governi dovrebbero almeno proteggere i miseri. Ma no: è il ricco che ne ottiene protezione, è il povero che popola le prigioni, che vive sotto la sferza e la prepotenza dei birri.
Nel governo assoluto il povero può alcune volte ottenere da un monarca un provvedimento arbitrario, ma repressivo, contro il ricco; nel governo rappresentativo, coverto con la maschera della legalità, ciò è impossibile; elettori quelli che posseggono, i nulla tenenti sono fuori la legge, sono in una condizione peggiore degli schiavi; il governo è nelle mani dei capitalisti e dei proprietarii, l’industria progredisce, la miseria cresce, e la società corre verso l’oligarchia dell'oro.
Passiamo al suffragio universale, amara derisione pel popolo minuto. L’operaio, il contadino, che non votano pel capitalista, pel proprietario, vengono da questi minacciati della fame. I capitalisti fanno monopolio del voto come d’una derrata; il popolo nel governo rappresentativo è abbandonato affatto in balìa del ricco, i suoi mali giungono al colmo. Il capitale dispoticamente governa: da ciò la codardia politica, co deboli superbi, e co’ forti umili; la non curanza per l’avvenire, guadagni pronti e grossi è la massima dei presenti uomini di Stato; nelle loro mani il telegrafo elettrico ed il vapore, grandi trovati dell'umano ingegno, volti a perpetuare l’usurpazione e la miseria. Il Sismondi scriveva alla Giovane Italia:
«Affiderete voi la» causa del proletario agli uomini che ne dividono le» privazioni? essi non hanno forza. L’affiderete quindi» ai ricchi? essi saranno i primi a tradire il povero».
Ecco il problema fatale che tutte riassume le future sorti dell’umanità. Né questo è tutto: le ricchezze dei pochi e la crescente miseria delle moltitudini producono l'ignoranza e fanno abilità agli usurpatori di salariare parte del popolo per opprimere il rimanente. Quindi le numerose soldatesche ed il militare dispotismo. La questione politica è nulla in faccia all'importanza della questione economica. Finché vi saranno uomini che per miseria si vendono, il governo sarà in balìa di coloro che più posseggono; la libertà è un vano nome. Invenzioni, scoverte, ordini nuovi, liberi reggimenti. altro non fanno che respingere la società in quell’abisso verso cui le leggi economiche inesorabilmente la traggano. In quali Stati è maggiore la miseria e più sensibile l’oligarchia dei ricchi? In quelli ove le moderne libertà e l’industria maggiormente fioriscono: più che altrove in Inghilterra, poi nel Belgio, poi in Francia. Gli europei dalla burrasca economica che gli travaglia sono cacciati a torme verso il nuovo mondo; e dall'Inghilterra emigrano il maggior numero perché, secondo i moderni, la più civile. Son fatti questi e non congetture che vengono in appoggio alla ragione: quindi il vantato progresso altro non è che decadenza. Ma ove giungeremo? Sarà un giorno l’affannata umanità governata da una gretta oligarchia di banchieri? È questa la domanda a cui risponderemo col ragionamento che segue.
Svolgiamo la storia: essa ci indicherà quali furono le sorti di quei popoli le cui ricchezze s’accumularono nelle mani di pochi patrizii. I Magno-Greci sono lontani da noi, e comeché la loro storia ci venga tramandata attraverso la nebbia dei secoli, pure vediamo che appena pochi divennero i possessori delle ricchezze sociali, cominciò in quelle repubbliche il parteggiarsi del popolo, sorsero i tumulti, donde risultò il militare dispotismo, quindi gli Aristodemi, gli Anapali, i Dionisii, i Faleridi Presso i Romani gli avvenimenti si disegnano con recisi contorni; appena la società vien divisa in pochi ricchi e numerosa ed ignorante plebe, cominciano, dai mali di questa suscitati, i tumulti; Tiberio e Caio Gracco, Saturnino Apullanio, Livio Druso, lo stesso Catilina sono generosi che tentano francare il popolo dalla schiavitù, alleviare le sue miserie; la guerra sociale, la servile, la spartacida, la mariana, la sertoriana, la Catalanizia, furono i conati di un popolo infelice contro l'usurpazione dei ricchi; ma la cagione dei mali non cadeva sotto i sensi, non poteva perciò suggerirsi dall'istinto il rimedio: mancò quindi il concetto che avesse unificata e diretta l'universal volontà; il popolo fu sempre vinto, ma non perciò gli opulenti patrizii gioirono delle loro usurpazioni; ad essi successe il dispotismo militare: quindi Mario, Silla, Cesare, poi l’impero, i pretoriani che spogliarono ed oppressero ricchi e poveri. E gli stessi avvenimenti li vediamo esattamente riprodotti nelle repubbliche del medio evo; l’oligarchia de' ricchi cade sotto il dispotismo dei venturieri. E presso i moderni quali sono i fatti che osserviamo? Chiunque senza spirito di parte si farà ad esaminarli potrà riconoscere ch'essi sono del medesimo carattere di quelli avvenuti presso i magno-greci, i romani, il medio evo; i tumulti, le guerre civili si succedono, il dispotismo militare fra noi, a cagione degli eserciti permanenti, più pronto, già s’estolle su tutti gli ordini, viola giuramenti, calpesta leggi, vuota borse... Banchieri! monopolisti! cercate gioire del presente giacché l'avvenire non vi appartiene: il popolo non può ottenere il trionfo che scrollando ed abbattendo tutto l'edilizio sociale, ed in tal caso voi perirete sotto le ruine; se poi il popolo è vinto, il dispotismo militare vi aspetta, la vostra morte sarà più lenta. Vedrete a poco a poco vuotare le vostre borse, e morrete consunti; altra alternativa non v'è; questo decreto del fato è incancellabile.
Ecco, o dottrinari! il progresso sognato dalla vostra beata schiera. È meravigliosa l'astrazione in cui questi cotali lontani dalla miseria e dall’opulenza vivono; essi credono in buona fede che dalle loro elucubrazioni fiorirà la libertà. Una catastrofe politica li sorprende, un soldato prescrive i limiti alle loro dissertazioni, come un pedagogo limita, minacciandoli della sferza, le ricreazioni dei fanciulli; essi senza perder coraggio velano le loro idee, le lasciano indovinare, e procedono sognando di far guerra al dispotismo. L’idea, il concetto, dominano, è vero, il destino dei popoli: ma esse sono conseguenze de' fatti e non si traducono in fatti che dalle rivoluzioni compite per forza d’armi, ed il popolo non trascorre mai alla violenza perché animato da un concetto, ma perché stimolato da' dolori. Cosa sono le idee senza le rivoluzioni, senza la guerra che le faccia trionfare? un nulla: sono le varie forme che i vapori prendono nell'aria, e che un zeffiro disperde.
Ma non bisogna arrestarsi alla superficie della società, su cui pur troppo chiaramente è scolpito un tale destino, fa d’uopo esplorare il fondo per pronunciare la sentenza. Discorremmo, come i pregiudizii e le false opinioni in origine più comuni, manifestando col tempo i loro attributi, cagionano, perché non concordi con le leggi di natura, mali gravissimi, ed il rispetto, anzi il culto che il popolo aveva per essi, cangiasi in disprezzo e derisione. Coloro che primi scrollano tali pregiudizii sono i riformatori; affrontano questi l’ira sociale, sfidano l’esecrazione di quelle moltitudini ch’eglino vogliono difendere, e tanti dolori immeritati, tanti martirii estremi vengono in essi ad alleviarsi pel convincimento di essere i propugnatori del vero.
Incontro a questi, dicemmo eziandio, sorgono gli apologisti del presente, dediti sempre a sacrificare ogni loro convincimento ai vantaggi che loro vengono offerti dal mondo esteriore; sono questi i propugnatori degli interessi che prevalgano, difensori delle classi che predominano, nascondendo sempre il male, sotto le apparenze del bene; — sono gli ottimisti. Queste due schiere nemiche possono dirsi il genio del bene e del male dell’umanità; quelli rappresentano il moto, la vita, questi, l'immobilità, la morte; sono due pleiadi che precedono sempre le grandi crisi sociali; una tramonta a misura che l’altra sorge sull'orizzonte. Queste due schiere nemiche vengono, fra i moderni, chiaramente rappresentate dai socialisti e dagli economisti, e noi ci faremo ad esporre per sommi capi la lotta che tutt’ora fra loro si combatte.
Tutti i riformatori osservando la cattiva ed ingiusta distribuzione delle ricchezze in una società che pretende di esser libera, cercano un mezzo acciocché essa venga ugualmente ripartita. Le idee di Campanella, nella Città del Sole, di Cabet nell'Icaria, le teorie di Owen, di Louis Blanc tutte si propongono lo scopo di creare una forza estrinseca, artificiale, la quale presieda alla divisione delle ricchezze. Carlo Fourier, superiore a tutti, rinviene questa forza nella natura stessa dell’uomo; sciogliete il freno alle passioni, concedete ad esse piena libertà: e l'equilibrio, egli dice, si stabilirà da sè. Nondimeno all'applicazione di questo trovato egli prescrive alcune regole; grande nel rinvenire questa forza di cui si va in cerca, erra nel modo di adoperarla. Gli economisti hanno francamente appiccata la battaglia, ed abilmente ferito l’avversario nel debole della corazza. I vostri sistemi, dicono essi, non sono che il ristabilimento del dispotismo con tanta pena abbattuto. Incontro ad essi il passato protezionismo può dirsi libertà: voi prescrivete il vestito, il cibo, la dimora, alcuni tra voi finanche l’ora del coito. La società sotto un tal reggimento perirebbe di languore: l'uomo non lavora che per sé; se distruggete la personalità distruggerete il prodotto. Pretendete forse con le vostre utopie cangiare le immutabili leggi di natura? Libertà a tutti e per tutti è la formola degli economisti, e quindi, osservate superficialmente le cose, eglino in questa lotta sembrano i propugnatori della libertà e del progresso. La libertà ridona la dignità all'operaio, vi dicono essi; noi non possiamo né vogliamo lasciar da parte la sua volontà, altrimenti sarebbe ridurlo alla condizione del bruto che opera sotto l’impulso della sferza. Continuano, né tralasciano di servirsi giustamente, ed abilmente del sarcasmo. I vostri sistemi, dicono ai riformatori, sono cosi complicati che solo il vostro grande ingegno che li ha concepiti può averne un’idea chiara e distinta; e però per attuarli fa d’uopo che la società abbandoni nelle vostre mani tutte le sue ricchezze, tutti i suoi diritti, che vi conceda illimitatissima podestà, acciocché voi possiate rigenerare l’umanità. Le vostre filantropiche pretese, è forza confessarlo, non sono piccole.
Fin qui la vittoria degli economisti è completa. Ma quando si trasporta la quistione sul suo vero terreno, cambiano le veci. I riformatori, a lor volta, dicono: Voi parlate di libertà e dignità dell’operaio? Quale libertà gli concedete voi se non quella sola di morir di fame? Quale sferza è più umiliante e più potente della fame, solo ed unico legame che aggioga il proletario al carro sociale? Quando i riformatori notano la profondità delle piaghe sociali, e la statistica alla mano, terribile scienza, contano in Parigi 360 mila persone immerse nella miseria, ed in tutta la Francia sette milioni e mezzo d’uomini che vivono con soli cinque soldi al giorno, e nel Belgio un milione e mezzo che vivono di pubblica beneficenza; quando spalancano innanzi ad essi quei tetri volumi delle ricerche fatte in Londra, delle condizioni dei poveri, quando scorgesi che quasi tutti i malfattori sono miseri ed ignoranti; quando si osserva, finanche un morbo distruttore rispettare il ricco ed unirsi con gli altri innumerevoli mali sotto il nero e stracciato vessillo della miseria; quando infine, la forza delle stesse leggi economiche, gli mostra ad evidenza che questi mali debbono immancabilmente crescere con ispaventevole celerità allora gli economisti rimangono atterriti. I loro sofismi sono impotenti, il sarcasmo cangiasi in ira, e prorompono alle onte; vi chiamano anarchisti, e parteggiatori; ma i fatti sanguinosi e minaccianti non cessano di protestare.
Fra gli economisti il solo Malthus, coraggiosamente si è svincolato dalle fatali strette: Non sono le leggi economiche, egli dice, non è l’ingiusta distribuzione delle ricchezze, non le condizioni ed i rapporti della società la cagione di questi mali; ma essi risultano da due leggi immutabili di natura, che regolano la propagazione della specie, e l’accrescimento del prodotto, e fanno sì che l’una proceda in una progressione geometrica, mentre quella cresce in una progressione aritmetica, e quindi conchiude:
«Un uomo che nasce in un. mondo di già occupato, se la sua famiglia non ha come nutrirlo, e la società non ha bisogno del suo lavoro, quest’uomo dico non ha il minimo diritto a reclamare una posizione qualunque di nutrimento, egli è realmente di soverchio sulla terra. Al grande convito della natura non vi è posto per lui, la natura gli comanda d’andarsene, né tarderà a porre essa medesima quest’ordine in esecuzione.»
Non è necessario dimostrare per ribattere l’argomento di Malthus che in natura non esiste cotesta legge fatale e terribile; ma basterà rispondere che se essa, esistesse, non dovrebbe aver effetto, se non quando ognuno non occupasse nel convito della vita che un posto solo; ma quella ingiusta distribuzione di ricchezze di cui si ragiona fa si che uno solo occupa i posti di più: che nove milioni per esempio, come avviene in Inghilterra, divorano la mensa che natura ha imbandito per 250 milioni. Or come impedire ai tanti esclusi di avvalersi di quella superiorità di forze dalla natura stessa concessagli, e calpestando quei pochi, farsi da loro medesimi giustizia?
Giunta la questione a tal punto, entra in lizza Proudhon; la chiave della volta, secondo Garnier, dell’edilizio sociale è... — La proprietà è un furto, è la netta evidente incontrastabile conseguenza a cui perviene Proudhon colla sua inesorabile logica. Gli economisti hanno consumate inutilmente tutte le loro forze per difendersi, ma l'impresa era troppo ardua, massime per la proprietà fondiaria. Sarebbe soverchio venir ripetendo in queste pagine gli argomenti di Proudhon; il certo è che l'uomo ozioso, semplice consumatore inutile alla società, che impone patti a suo capriccio a coloro ai quali essa deve tutto, è l'immediata, la legittima conseguenza del diritto di proprietà. L’ultimo fra i volgari, se i pregiudizi non l’acciecano, se la sua ragione può per un solo istante francarsi dall'imperio di fatti, è nel caso di comprendere questa verità. Come mai può dirsi giusta una legge dalla quale risulta il diritto di non far nulla, e scialacquare il frutto dell'altrui sudore? Gli economisti hanno alzata l'ultima barricata dietro cui si credevano invulnerabili: La terra, soggiunge Bastiat, non ha valore (quasi che la mancanza di valore in un oggetto da tutti desiderato potesse adonestarne l'usurpazione); la proprietà, egli dice, é un lavoro accumulato. Ma ad onta di questa ardita asserzione sono stati disfatti, e videro distrutte eziandio le ragioni con cui difendevano il capitale: L’uomo creato con facoltà inferiori ài suoi bisogni, non può bastare a sé medesimo, e solo associandosi coi suoi simili esce dallo stato selvaggio; isolato è inferiore a quasi tutti gli animali, associato diventa sovrano. Solo non può neppure procacciarsi il necessario; in società, ottiene subito dal lavoro collettivo un prodotto sovrabbondante, quindi comincia il risparmio, il capitale e siccome il lavoro, come afferma lo stesso Pellegrino Bossi, non essendo trasmissibile, non è neppure usufruì tabile, ne risulta che il risparmio, ovvero il capitale» conseguenza di un lavoro collettivo, non può essere che una proprietà collettiva. Il capitalista che paga otto di salario ad ogni operario che produce dieci, non solo ruba due ad ognuno di essi, ma ruba eziandio la loro potenza collettiva, quella potenza per cui l’azione simultanea di cento persone è superiore all'azione successiva di tutti gli uomini della terra; potenza per cui accrescesi oltre misura il prodotto, potenza generatrice del capitale. Per qual ragione adunque gli operai r padroni legittimi del prodotto del loro lavoro, padroni legittimi del capitale che la loro potenza collettiva ha accumulato, sottostanno alle esorbitanti e tiranniche esigenze d’un capitalista? La fame ne li costringe. Se nella presente società, cessasse la miseria, capitalisti e proprietari più non troverebbero né operai, né fittaiuoli che volessero lavorare per loro conto; cesserebbe ogni produzione, la miseria fa loro abilità di usufruttare gli altrui lavori; la miseria è il punto d’appoggio su cui librasi, è la base su cui poggia l’edificio sociale; è il solo movente che produce quella vantata armonia della società. I pochi si giovano del frutto dei lavori di molti. Gli economisti, vedendosi debellati, hanno eseguita un’abile evoluzione, sono ritornati sull’antico terreno; essi trascinarono nuovamente i loro avversari ad esaminare i sistemi che pretendono surrogare alle condizioni e relazioni presenti, e disser loro: voi non fate che distruggere; edificate, ed esperimentiamo se i vostri concetti sono attuabili. I riformatori in quest'ultima contesa mancarono di carattere, si mostrarono deboli: eglino, credendo sincere le proposte dei loro avversari, si fecero a chiedere ai proprietarii i mezzi come esperimentare una società senza proprietà, la facoltà d’abolirla,… ammirabile innocenza!! Eglino avrebbero voluto riedificare senza distruggere, vestire il povero senza spogliare il ricco… vana speranza! Lo stesso Proudhon pretende riformare la società con alcune istituzioni che tutti potrebbero accettare. I loro avversari risposero con un sorriso di scherno, ed ascosero il loro veleno per servirsene a miglior tempo. Noi troncheremo il nodo della quistione, non essendovi alcuna necessità di scioglierlo.
Riscontrasi forse registrato ne' fasti dell'umanità che le rivoluzioni si compiono con una discussione o con un’esperienza? Gl’interessi oppositi da cui viene l'urto si salvano entrambi. D’onde, se non dal torrente degli affetti che sgorgano dalle rivoluzioni, e travolgono nel loro rapido corso ogni ostacolo, sorte inaspettato il nuovo ordine sociale? A me basta d’aver provato, né ciò possono negare gli economisti, che i mali, le cagioni de' presenti dolori, esistono non solo, ma crescono continuamente, e questo fatto, scritto a caratteri indelebili negli eterni volumi del destino, racchiude in sé la rivoluzione, come i corpi il calorico. Quando il popolo non avrà più nulla da mangiare, mangerà il ricco.» In questi termini, con queste parole Rousseau ha preveduto e definito la rivoluzione, e così avverrà. Inoltre le nazionalità compresse, le ingorde tirannidi, l’agitarsi delle sette, sono altre ragioni, effetti, e cause della rivoluzione, le quali ne avvicinano il momento, e vestono delle loro apparenze, alcuni rivolgimenti, il cui movente principale, la miseria, il bisogno di migliorare, rimane nascosto.
Dunque, risponderanno esterrefatti gli economisti, la rivoluzione preveduta, desiderata è la strage, la spogliazione? Si, tale sarà; ma le sue vittime saranno in numero assai minore di quelle che voi spegnete coi lunghi tormenti della miseria. E fossero più, noi ripeteremo le vostre frasi: non si giunge senza perdita sulla breccia — «non possiamo tener conto di coloro che il carro del progresso schiaccia nel suo cammino.» — Concludiamo: la rivoluzione è inevitabile, essa si avvicina con caratteri chiari e distinti, e procede indipendente dalle discussioni dei dotti. — Noi ci faremo ad esaminarne più minutamente le tendenze.
«La Provvidenza, esclama Alessio Battiloro in Palermo nel 1649, fa le campagne ubertose per tutti, né noi dobbiamo morire di fame perché alcuni ladri s’impinguano.»
È questa la formola della rivoluzione — che esiste latente da due secoli — dal momento che al popolo del medio evo successe il popolo moderno. Tutti i rivolgimenti che hanno avuto luogo da quell’epoca, che avranno luogo in avvenire, tutti, comeché in apparenza vestiti di altri caratteri, sono l’effetto del medesimo movente: i bisogni materiali del popolo. Questi varii rivolgimenti sono stati vinti e sviati, imperocché lo istinto appigliandosi alle apparenze ha trascurata la realtà; sollecito della riforma politica non ha curato la sociale: ma il movente principale sino ad ora occulto, sconosciuto, non compreso dalla moltitudine, già comincia ad emergere dal fondo della coscienza sociale. Chi oggi è cosi semplice da supporre che un popolo corra alle armi per surrogare qualche scaltro ad un re, per inalberare uno straccio dipinto in un modo piuttosto che in un altro, per ottenere con le stesse misure un pomposo nome? Chi negherà che il popolo armasi perché spera in cuor suo, senza dirsi il come migliorare le sue materiali condizioni? Chi negherà che, libertà, patria, diritti, siano vani nomi, amare derisioni per costoro, dannati in perpetuo dalle leggi sociali alla miseria ed all’ignoranza, inerenti al diritto di proprietà come l’ombra ai corpi? Perché amerà la libertà della persona, del pensiero, della stampa colui che non ha mezzi onde esistere, che, per ignoranza, non pensa e non legge? Sorrideva Metternich quando i sovrani spaventavano della quistione politica; il suo arguto ingegno scorgeva che la vittoria era certa pel dispotismo, finché la quistione non diventasse sociale. Ed oggi chi non vede che la quistione sociale comincia a prevalere alla politica? Gli stessi uomini tenacemente ristretti fra le antiche idee sono loro malgrado obbligati a concederle qualche pensiero, qualche frase. Non era la quistione sociale che scriveva nel 33 sulle bandiere dei ribelli di Lione: Vivere travagliando o morire combattendo? Non era la quistione sociale quella a cui Cavaignac nel giugno del 48 rispondeva a colpi di cannone? E le associazioni che si creano, appena ne hanno facoltà quasi istintivamente non accennano forse a cotesto avvenire? E l’indifferenza con cui il popolo francese mirò violata la costituzione dello stato, arrestati isuoi rappresentanti, diroccato il palazzo dell’assemblea, non dice chiaramente che egli sperava con la repubblica migliorare le proprie condizioni, e, rimasto deluso, non trovò ragione sufficiente per difenderla contro l'Impero? Sono scorsi quasi due anni dacché ho scritto queste pagine, al cominciare del 1856; con mia soddisfazione posso aggiungere nuovi fatti in conferma del mio asserto. Ora che le dottrine socialiste più non si manifestano, ora che i dottrinanti d ogni colore predicano l'assurda concordia de' partiti contro il comune nemico, il socialismo s’ eleva alla pratica, è l’aspirazione di una società secreta, la Marianna.
Le concioni popolari in Londra già prendono questo carattere, aspreggiano i ricchi. Nella Spagna, ove non erasi mai scritto di socialismo, esso mostrasi nei tumulti popoleschi; e la sollevazione di Lione, quella di giugno, la Marianna, le concioni d’Inghilterra, i tumulti di Barcellona.... sono quelle serie di fatti che spiegano trasformarsi l'idea in sentimento, ed in cui sembra suggerimento dell'istinto ciò che a pena un tempo, antivedeva la ragione. Quando un tal fatto avverrà, in men che balena, crollerà il moderno edilizio sociale, e su le sue rovine si vedrà sorgere l'era della libera associazione.
A cotesti fatti sappiamo quale sarà la risposta dei conservatori. Noi speriamo, dicono essi, che tutti i rivolgimenti vengano, come per lo passato, soffocati nel sangue; noi non daremo campo alla rivoluzione di ergere il capo; noi cercheremo di comprimere ogni elatere dell’animo e vinceremo. Ed io rispondo: forse lo potrete; ma nell'aspra lotta le forze della società si logorano, e di vittoria in vittoria vi troverete inevitabilmente sotto il giogo del militare dispotismo, e quindi della decadenza e dissoluzione.
L’avvenire è già inesorabilmente stabilito: o libera associazione, o militare dispotismo. Quale di queste due condizioni sociali avrà il trionfo, è dubbio. Noi porremo fine a questo paragrafo paragonando le forze contrarie che debbono venire in lotta, e così manifesteremo una opinione, se non esatta, almeno probabile, rispetto al nostro avvenire. Se il popolo si riscuote, rovescia facilmente nobili, ricchi, preti che l’opprimono; questa imbelle schiera d’oppressori non può paragonarsi alla gagliarda aristocrazia feudale; essi verrebbero fugati dal solo fragore della plebe in corruccio. La sola forza che li protegge, la sola forza che si opponga alla rivoluzione, sono gli eserciti permanenti; ma quale è la loro natura? Possiamo paragonarli ai satelliti armati di cui si circondarono i tiranni della Magna Grecia, a' pretoriani de' romani imperatori, a' venturieri del medio evo? No; pei moderni ufficiali la milizia è un mestiere, ma non lo è pei gregarii, per questi è un peso a cui con riluttanza si sottomettono. La disciplina adopera ogni meglio onde, quasi direi, affatturarli, e farne un sostegno alla tirannide, di cui i soldati sono le vittime più che le altre tormentate, ma non cessano di esser popolo, dal cui seno sono svelti a forza, e sempre agognano farvi ritorno. Perché dunque credere che il fascino, l’incanto che li aggioga al dispotismo, non possa cadere, né possa sorgere in essi la speranza di un migliore avvenire da conquistarsi non già al prezzo di una battaglia, ma solamente rifiutandosi di combattere contro i proprii concittadini ed amici? Chi più del semplice soldato deve desiderare un miglioramento nelle condizioni della plebe? Egli non è che plebe. Inoltre quell’amor proprio di corpo in cui risiede tutta la forza dei moderni eserciti è eziandio efficacissimo conduttore d’ogni nuova idea; un solo, in quei difficili momenti, in cui gli spiriti esaltati ondeggiano nell'incertezza, momenti nelle guerre civili comunissimi, un solo basterebbe per trascinare col suo esempio un reggimento intero, ed un reggimento, un esercito. Aggiungi che la polvere da fuoco ha reso facilissimo l’armeggiare; ha diroccato le torri dei feudatarii; ha sfondata la loro corazza, ha uguagliato il povero al ricco, il forte al debole; ha reso impossibile alle soldatesche sostenersi in una città, in cui i cittadini padroni degli edilizi son decisi a combattere; e finalmente il vantaggio al numero sul valore pare che abbia favorevolmente decisa la causa della umanità.
Concludiamo: la moderna società trovasi in quel punto fatale d’onde le antiche hanno rapidamente declinato. Ma facendo qualche considerazione sulle condizioni di quelle, vi osserviamo una grande differenza in confronto delle attuali. Il popolo è misero come l’antico, ma non come quello parteggiato da' ricchi e legato alle loro persone; il prestigio di cui godevano gli oppressori più non esiste; le questioni sulle riforme, vaste, nette, non vaghe ed oscure come le antiche — esse dall’astrazione di pochi cominciano già a diventare idee pratiche, sentimento di molti; facili gli armeggiamenti, la trasformazione del cittadino in guerriero facilissima, prontissima; per nemici i soli eserciti permanenti, popolo anch'essi; e però può sperarsi che la società non declini, ma ascenda all’era della libera associazione, scorrendo così un’orbita più vasta di quella percorsa dai popoli che ci hanno preceduto.
IV. — Discorremmo come i varii rivolgimenti trasformino la società, ed illuminati da fatti delle moderne condizioni e relazioni degli uomini, abbiamo sospinto lo sguardo nell'avvenire. La religione fra coteste vicende molto opera, ma pochissimo le modifica; quindi preferiremo per semplicità separatamente discorrerne.
La religione è un effetto dell’ignoranza e del terrore; l’uomo deifica ogni forza ignota che lo spaventa, e personifica coteste forze dando loro le proprie forme, le proprie passioni; quindi mutano i costumi, e gli attributi de Dei al cangiar de costumi dei popoli.
I primi numi furono i reggitori dì quelle forze che la natura manifesta nel suo tremendo corruccio, e cotesti numi così possenti la sconvolgevano, al credere di stupidi ed attoniti mortali, per muover guerra all’uomo. Di qui la credenza di averli offesi, il desiderio di placarli, e siccome la sola vendetta accheta l’uomo sdegnato, per placare gli Dei offrivano loro la vita dell’offensore, ed il culto manifesta vasi con gli umani sacrifizii. Isolati gli uomini, ogni uno ebbe i propri Dei, quindi gli Dei penati. Raccolti in città, surse il pubblico culto, come surse la pubblica opinione, il pubblico costume.
I popoli si mansuefecero, si assottigliarono le menti, e la religione cangiò! L’agricolo e placido Etiope adorò le costellazioni, che annunziavano le stagioni avverse o propizie ai suoi campi ed il dilagare dei fiumi fecondatori; le nominò con simboli conformi alle sue idee, ed adorò la Fede, la Pace, la Guerra... Infine coll’ingentilirsi dei costumi i sacrifizii umani cessarono.. Nell'assottigliarsi della religione surse la Greca e l’Italica filosofia la quale era in opposizione, come ogni filosofia, coi principii religiosi. Gli Dei dei Greci e dei Romani non erano gli arbitri del destino degli uomini, ma di aiuto efficacissimo, se propizii alle loro imprese, nemici terribili, se irati; al disopra di essi eravi l’immutabile destino, alle cui leggi sottostavano Dii, e mortali. La filosofia naturalmente concentrò tutti i suoi studii su questa forza, su questa legge suprema, e riconoscendo la frivolezza degli altri simboli, l’assurdità della numerosa turba di Dei, li dichiarò falsi, ed altro non riconobbe che questa potenza superiore, che fu l'unico Dio, le cui leggi essendo eminentemente giuste, e però immutabili, distruggono qualunque culto, qualunque relazione tra Dio e gli uomini, e così, come era naturale, la filosofia stabiliva l'Ateismo.
Il riconoscere una legge suprema giusta e fatale regolatrice dei destini degli uomini, era idea che poteva allignare solamente fra un popolo puro e conscio della propria dignità, ma la buona semente fu sparsa su cattivo terreno, il degradato popolo del cadente impero; popolo avvilito, popolo schiavo, che le miserie avevano ridotto quasi nello stato medesimo del selvaggio, atterrito dalla sconvolta natura, venne naturalmente dal proprio scetticismo condotto a rimettere le sue sortì nelle mani di quest'unico Dio, e ne fece il vendicatore degli oppressi, l’arbitro degli umani destini; e siccome i popoli credonsi fatti ad immagine sua, cosi gli attributi di esso furono i loro, l’abbiettezza, l’umiltà, la pazienza, l’indifferenza per le cose terrene. Il culto onde adorarlo, i misteri, i riti li trassero dagli Orientali, quanto i Romani di quell’epoca schiavi ed indolenti. Intanto le solitudini degli animi e degli interessi, l’egoismo umano, volto solo all'utile privato: questo in diretta contraddizione con l’utile pubblico, produsse naturalmente la reazione negli animi degli scrittori, i quali come vogliono i correttori de costumi, senza comprendere che que’ vizii erano l’effetto dello sfacelo in cui andava la società colle istituzioni che la reggevano, credettero porvi rimedio predicando contro di essi ed opponendovi a bilanciarli massime di fratellanza ed abnegazione; e cosi da questa morale predicata, impraticabile, e dalla teologia orientale nacque il Cristianesimo, le cui regole e massime mostrano benissimo che sursero fra un popolo eccessivamente degradato ed in balia di uno sfrenato egoismo.
Quindi giustamente Hegel dichiara la modestia cristiana nel sapere il grado supremo dell’immoralità. Immorali e contraddittorie alla natura umana dovevano essere tali massime perché surte fra un popolo in cui ogni elatere dell'anima era spento, e predicate in contraddizione alla realtà dei fatti ch'erano effetti delle immutabili leggi di natura. Gli uomini deificati formarono, ad imitazione del paganesimo, la turba dei Dii minori, che, come gli antichi, presiedettero a tutte le operazioni della vita, a tutti i fenomeni della natura. Alcune madonne, alcuni santi con attributi speciali, gli amuleti, le reliquie, specie di feticci, si surrogavano agli dei penati, ai lari; e così con diversi principii e nomi, ma quasi con le stesse forme, alla religione di un popolo giovane e fiorente, si sostituì quella che convenivasi ad un popolo degradato e corrotto.
Gli Dei antichi erano eroi, perché eroico il popolo che li adorava: quelli dei cristiani, eran martiri, perché schiavi ed oppressi gli adoratori. Avvezzi gli antichi a vedere il trionfo ed a rispettare il giusto, lo riguardavano come legge immutabile a cui sottostavano dei, e uomini; i cristiani, per contro, che la miseria aveva sospinti allo scetticismo, ne perdettero ogni idea, e deificarono l'arbitrio, abbandonando i destini dell’umanità in balìa d’un Dio, secondo la preghiera degli uomini mutabile, e così al padrone che si creavano nel Cielo davano gli attributi medesimi che avevano i loro padroni sulla terra. La morale degli antichi risultata dall'azione era pratica, e però d’accordo con l'umana natura; quella dei cristiani impraticabile, perché volta a frenare le sue leggi.
La nuova religione, umile in prima, si propagò strisciando fra i potenti, ma, divenuta padrona della forza, mostrossi oltre ogni credere feroce e codarda. Inorridiscono i moderni in pensando a' terribili riti druidici ed agli umani sagrifizii degli antichi; non conoscono, tanto da pregiudizii è oscurato il loro intelletto, quanto più atroci e codardi sono gli assassinii del cristianesimo commessi nei tetri recessi dell’inquisizione.
Coronata di fiori, resa ebbra dallo stesso sentimento religioso, alla splendida luce del sole, fra devota e festosa moltitudine, invitavasi la vittima degli antichi, la cui vita, in men che balena, veniva spenta dal colpo che vibrava il destro sacerdote.
Carica di catene, estenuata dalla fame, sotto oscure e solitarie volte de' sotterranei, circondata da carnefici, non già addestrati a recar pronta la morte, ma raffinati nel lento incrudelire, frusto a frusto consumavano fra tormenti atrocissimi la vittima dei cristiani.
Ne’ sacrifizii degli antichi l’aria risuonava dei canti dell'inneggiante e devoto popolo, ed era profumata dalle nuvole di fumo che s’innalzano dai brucianti incensi. Fra cristiani invece, veniva percossa dalle strida acutissime della vittima, ed appestata dal lezzo insopportabile di carni lacerate ed arse. E quindi i principii, i misteri, gli attributi degli dei, i riti, i sacrifizii, tutto insomma rivela un popolo generoso, e nel cristianesimo un popolo codardo e servo.
Fin qui della religione.
Ora diremo de' sacerdoti. Ogni eroe fu sommo sacerdote nella propria famiglia e fra i suoi clienti. Formati i vichi, i paghi, le città, la concione dei forti, spesso non potendo occuparsi delle cose divine concernenti il pubblico culto, delegò altri a compiere tali ufficii, ma costoro con tali facoltà acquistarono ben presto un grande ascendente sulla credula moltitudine, e l’aristocrazia si vide osteggiata, contrappesata dalla teocrazia; onde la lotta fra queste due caste, che si disputavano la sovranità. Uno dei fatti più antichi, che ci rammenta questa lotta accanita, è l’esterminio che Nob fece d’Achimelech con altri ottantacinque sacerdoti. E le mille volte presso i celti incalzati dal fulmine, brando de' prodi aristocratici, i tremanti sacerdoti dovettero riparare nelle caverne.
In Italia l’aristocrazia prevalse presso i Magno-Greci come presso i Romani, i Numi obbedivano alla suprema podestà dello Stato.
Le medesime vicende si riscontrano nel cristianismo. Surto in uno stato già costituito, fu al principio indipendente dal governo. Come fra i vichi ed i paghi della primitiva barbarie il capo era sommo sacerdote, cosi ogni villaggio, ogni città de' primi cristiani elesse un cittadino a tale ufficio, il vescovo. In tal guisa cominciò la teocrazia, la quale, crescendo il suo potere, si rinserrò in una casta e si attribuì que diritti che ad essi venivano dal popolo ed erano inerenti al popolo.
La lotta con l'aristocrazia non tardò a dichiararsi; quindi i guelfi ed i ghibellini. La spada vinse il prete fra moderni, ove il reggimento è nelle mani di uomini né codardi, né devoti; se non di diritto, di fatto il pergamo è soggetto a chi impera; i miracoli, le preghiere sono ai comandi del trono. Cerchiamo ora di scorgere quale sia l’avvenire a cui accenna la religione. Vedemmo come essa ha seguito i destini de popoli e sia conforme ai loro costumi.
In quella de' selvaggi sta impresso il terrore di cui è figlia, e il loro ingentilirsi ne rammorbidisce gradatamente, i troppo duri contorni; la religione di una società fiorente è quale si conviene ad un popolo di eroi, ed è sempre in perfetto accordo con l’utile pubblico, come quella nata fra uomini dediti al bene ed alla grandezza della patria.
Nella decadenza delle società poi si riscontrano in essa le contraddizioni e la viltà d un popolo degradato, e, cercando rapire l’uomo alle cure di un mondo in cui soffre con la promessa di un futuro ed immaginario godimento, deve sempre trovarsi in opposizione con l’utile pubblico.
Dunque, affinché una nuova religione potesse sorgere, sarebbe indispensabile che un cataclisma confondesse la nostra mente, ne cancellasse ogni tradizione, e riproducesse in noi la meraviglia stessa, lo stesso terrore che i selvaggi sentirono al rombar del tuono. 0 pure è indispensabile che la corruzione e la miseria, comprimendo affatto l’elatere di nostra vita ci prostrino talmente che, disperando delle proprie forze, ci costringano ad invocare potenze imaginarie; non v’è che
l’uomo atterrito e degradato che riponga le proprie sorti nelle mani di Dio. Nel primo caso si riprodurrebbero le primitive religioni con nomi diversi perché spontanee sono quelle tradizioni. Nel secondo, esistendo ancora una religione surta in simili condizioni non potrebbe che riprodursi, rifiorire la medesima. Quindi se la società moderna declina risorgerà il Cristianesimo e raggiungerà nuovo splendore con rifiorire il cattolicismo, stato di sua perfezione; e viceversa, se questa religione perde il suo prestigio è indizio che la società si avvicina al suo risorgimento. Apriamo l’anima alla speranza, esso non dovrebbe esser lontano. Ma quale sarà la religione della società rigenerata? È questa l’ultima domanda a cui ci faremo a rispondere. La religione è fondata su di un’idea di podestà suprema, di dipendenza, senza della quale non potrebbe esistere.
Senza preghiere, senza credenze senza culto, senza autorità non v'è religione. Dunque sono indispensabili i sacerdoti che parlano in nome degli dei, che predicano la virtù che gli dei richieggono. È egli mai possibile che ciò avvenga? In una società la quale tende verso la libera associazione e l’eguaglianza, ove ogni gerarchia sarà abolita, potrà mai allignare l’idea di dipendenza da una somma sapienza? Chi oserà dirsi delegato da Dio a predicare la virtù? Chi nelle presenti condizioni può farlo senza essere deriso? Il popolo, di Mazzini, sarà il solo interprete di Dio; ma in simile caso Dio che cosa diverrà? I suoi voleri saranno quelli del popolo né potranno essere differenti, imperocché per esprimerli sarebbe d’uopo d’interpreti che non fossero popolo, quindi Dio diventa un vano nome, e non altro. Se poi, come soggiunge lo stesso Mazzini, Dio è la legge, allora fa d’uopo dichiarare di quale legge parlasi: se di una legge naturale, allora essa debbe assolutamente esistere nel popolo, quindi Dio sparisce, Dio è il popolo. Se poi questa legge è differente da quelle di natura, sarà indispensabile un rivelatore, ma chi l’oserà? Ognuno al giorno d’oggi potrebbe dire: Italiani! ascoltatemi! io vi dirò le migliori leggi possibili, ma ninno avrà tanto ardire, o sarà così stolto d’aggiungervi: esse mi sono state rivelate da Dio!
La religione non è, come asseriscono alcuni, il desiderio, il bisogno di venire alla conoscenza dell'assoluto; la religione è un sentimento di debolezza che rendeci creatori ed adoratori di potenze sovrumane, e quando la ragione dimostra che queste forze non esistono, o almeno non impongono doveri, né accordano premii, né infliggono castighi, né avvi mezzo come placarle, e renderle a noi propizie, la religione più non esiste. Dicono alcuni: il simbolo della nuova religione sarà l'umanità, la ragione, la libertà. Ma coteste idee non essendo né mistiche, né sovrumane, non hanno in sé alcun sentimento religioso. Ma, senza andarci ravvolgendo in inutile giro di parole, domandiamo a costoro se nella nuova società a cui eglino medesimi accennano vi potrà essere un’idea mistica che ne modifichi la costituzione ed i costumi degli uomini. La risposta non può essere che negativa, quindi la società rigenerata dovrà essere indubitatamente irreligiosa.
Chiamare religione e deismo l’aspirazione alla conoscenza dell’infinito è un’improprietà di linguaggio, è oscurare le nuove idee con voci antiche destinate ad esprimere tutt’altro sentimento. Non ammettere che queste aspirazioni, dichiarare ogni simbolo di Dio assurdo, negargli ogni ingerenza nella vita dell’uomo altro non è che irreligione, ateismo.
In tutte le religioni sino ad ora esistite la fede ha creduto alla certezza e verità obbiettiva della parte sovrumana. La ragione altro non aveva fatto ohe distruggere un simbolo e sostituirne un altro accettato come verissimo. Ma oggi siamo trascorsi più innanzi: studiando sul passato e scorgendo una successione di simboli religiosi, ogni uno a sua volta dichiarato falso, si è dedotto che tutti erano egualmente bugiardi, che tale è il presente, che tale sarebbe un nuovo simbolo che ad esso si sostituisse. Dunque la nuova fede qual’è? Il non aver fede in nessun simbolo perché chimere della nostra immaginazione; ovvero, la nuova fede è l’irreligione. Tutti i riformatori, tutti gli apostoli del progresso sono irreligiosi ed atei, ma tutti non vogliono accettare questa conseguenza della loro dialettica e si dichiarano con enfiasi religiosi e deisti. Per contro non tutti sono socialisti, ma tutti, comeché professando dottrine opposte al socialismo si compiacciono dirsi tali, e perché? La ragione è evidente: l’irreligione è già sentimento; quindi tutti la professano; ma sono riluttanti a confessarlo; il socialismo riguardasi ancora dottrina, e tutti cercano farne pompa senza comprenderlo o approvarlo. Un’altra ragione per cui la religione si dichiara indispensabile è che la storia la registra come un fatto universale e costante. Ma questa ragione non dovrebbe avere alcun peso per coloro che credono al progresso indefinito, imperocché tale credenza non può ammettere che una qualsiasi istituzione debba esistere per la sola ragione che ha sempre esistito; anzi la dottrina del progresso indefinito stabilisce il contrario. La religione ha sempre esistito imperocché tutti i popoli della terra hanno percorso sino ad ora la medesima orbita, sono soggiaciuti alle medesime vicende. Gli orientali, gli etruschi, i magnogreci, i romani, i moderni tutti, partendo o dallo stato selvaggio o dalla barbarie ricorsa, hanno raggiunto le medesime condizioni. Al termine poi di questo ciclo sociale percorso da tutti i popoli del mondo, si è accennato ad una legge di fraternità ed eguaglianza, quasi sintesi dell'idea sociale: vi accennarono le dottrine di Zoroastro e di Confucio, vi accennò Platone, vi accennò il cristianesimo, vi aspirano più recisamente i moderni. Quei popoli decaddero, né poterono raggiungere questo nuovo stato: noi, raggiungendolo, varcheremo un punto che nessun popolo ha varcato, quindi ninna delle istituzioni passate o presenti ci può esser norma ad indovinare le future. L irreligione sarà nuova, come è nuovo il socialismo.
Daremo fine a questo capitolo richiamando l’attenzione del lettore su di un fatto da cui moltissimi sono tratti in un grossolano errore.
Quelle aspirazioni alla fratellanza, che abbiamo scorto in tutte le società che cominciavano a dissolversi, la comunità de' beni predicata nel vangelo, ha lasciato credere quasi a tutti che quelle antiche idee fossero i rudimenti del moderno socialismo: ma quest'aspirazione ad un migliore avvenire che sentiva un popolo avvilito, un popolo in cui era spenta ogni energia, era conseguenza delle condizioni di quella società, che doveva o progredire o decadere. Ma essa non fu che una semplice aspirazione; le massime che prevalsero furono quelle dell’umiltà, dell’indifferenza alle cose terrene de' cristiani, effetto di loro degradazione e causa che ne accelerò la caduta; una tale aspirazione fu il crepuscolo d’un tramonto, o piuttosto fu l’alba di nuovo giorno.
L’avvenire immaginato da' cristiani in tale aspirazione sarebbe stato la trasformazione del mondo in un convento. Il fanatismo condusse que’ popoli al martirio, ma non potette elevarli alla battaglia. Per contro fra le dottrine de' moderni socialisti, fra le massime ricevute, non avvene alcuna che dissolva od avvilisca; gli uomini oggi si associano non già per pregare e soffrire, ma per prestarsi vicendevole aiuto, lavorando per acquistare maggior prosperità e per combattere; l’aspirazione del socialismo non è quella di ascendere in cielo, ma di godere sulla terra. La differenza che passa fra esso ed il vangelo è la stessa che si riscontra fra la rigogliosa vita d’un corpo giovane, ed il rantolo di un moribondo.
V. Senza obbliare le verità economiche rammentate nelle precedenti pagine, e le conseguenze da esse dedotte, restringeremo le nostre considerazioni fra i confini che le alpi ed il mare segnano alla nostra patria: e prima di farci a scrutare l'avvenire verremo svolgendo quei popolari concetti che sembrano riassumerlo, mentre essi non potranno ch essere la conseguenza e l'effetto.
In Italia il concetto sociale appena albeggia, traspare appena fra i voti e le speranze universali, il politico predomina, e la ragione èpersè medesima evidente; un popolo a cui negasi una patria crede un tal fatto cagione assoluta dei mali suoi, e conquistandola spera alleviarli; nondimeno i fugaci esperimenti del 48 e 49 hanno fatto scemare fra gli italiani, e per essi non intendo una setta, ma l’intera nazione, il prestigio che aveva il politico concetto. Se malamente sopportansi le presenti miserie, sentesi eziandio che un cangiamento di forme, di nomi, d’uomini non è rimedio efficace; ed un tal sentimento comeché sconfortante pel presente è segno indubitato di migliore avvenire, avvegnaché sarebbe impossibile abbracciare nuove idee, nuovi ordini, prima che il fatto non avesse distrutto le presenti illusioni e gli antichi pregiudizii. Inoltre sono le relazioni di stato a stato così intime e così intrecciate in Europa che gli esperimenti in politica fatti da una nazione, del pari che le invenzioni e le scoperte sono di utile universale, non potendo rimanere inosservate ed infruttuose per gli altri popoli; epperò l’Italia va ammaestrandosi non solo con le proprie esperienze, ma ancora con quelle de' suoi vicini.
Gli stati europei navigano di conserva verso la stessa meta; il primo a giungervi determinerà la linea sulla quale gli altri verranno ad arringarsi.
La Francia, più che ogni altra moderna nazione, ha fatto numerose esperienze nelle varie forme del suo reggimento.
Gli italiani hanno visto, tremendo esempio, crescere i loro mali senza verun vantaggio. Un tale fatto e le nostre passate speranze sono cagioni abbastanza gravi a determinarci allo studio accurato 'delle conseguenze a cui potrebbero condurci le nostre istintive aspirazioni. A coloro che credono che la buona scelta degli individui o qualche piccolo cangiamento facesse fruttare in Italia felicità quelle stesse istituzioni cadute in Francia nel dispotismo, è inutile rispondere: io non scrivo per costoro, i quali se non sono ignorantissimi, sono indubbiamente in mala fede.
Nazionalità è una parola che all’iniziarsi i rivolgimenti del 48 corse di bocca in bocca, ed è tutt'ora per gli italiani di grandissima efficacia, ma sempre è stata malamente definita né mai profondamente meditata.
La nazionalità è l’essere di una nazione. Un uomo che liberamente opera, liberamente vive, ed esprime i propri pensieri, possiede completamente il suo essere, ma se un ostacolo qualunque impedisce lo sviluppo delle sue facoltà, ne interdice la volontà, ne arresta i moti, l’essere più non esiste. Nella stessa guisa per esservi nazionalità bisogna che non frappongasi ostacolo di sorta alla libera manifestazione della volontà collettiva, e che veruno interesse individuale non prevalga all'interesse universale; quindi non può scompagnarsi dalla piena ed assoluta libertà, quindi non ammette classi privilegiate o dinastie o individui, la cui volontà, attesi gli ordini sociali, debba assolutamente prevalere; è nazionalità quella che godesi sotto il giogo d un assoluto sovrano? Quale utile ebbero i popoli dalle guerre che da tre secoli e mezzo si combattono in Europa! guerre di rivalità dinastiche e non d’altro? Gli austriaci, i prussiani, i piemontesi, gli spagnuoli quali ragioni avevano di correre alle armi, e d’assalire i francesi per vendicare la morte di Luigi XVI! Il popolo sotto tali governi è un gregge vilissimo, tosato in pace con balzelli, stromento in guerra di vendetta e di odio personale fra i principi. La ricca vita nazionale si riassume e si angustia in quella ignobilissima d’un despota o d’un suo favorito, e diventa però mutabilissima; quindi la stessa nazione la vediamo ora superba, ora umile, ora bigotta, ora religiosa, ora debole, ora forte, il continuato progresso impossibile; ogni ministero distrugge, o sceglie via diversa da quella del predecessore, sempre suo rivale, e la nazione è condannata ad un perpetuo ondeggiare. Tutto ciò ch'è collettivo, epperò nazionale, abborrito, interdetto. La storia della nazione riducesi ad una cronaca menzognera o scandalosa delle virtù o de' vizi dei principi. Ove adunque trovasi la nazionalità? Quali vantaggi otterrebbe l’Italia con l’unità monarchica assoluta? Nuovi mali e non altro.
Tutte le miserie ed umiliazioni che ora si riscontrano in ogni principato in cui è divisa l’Italia non cesserebbero, ma a queste altre verrebbero aggiunte dell’accentramento del potere e dell'amministrazione che naturalmente risultano.
Come ora languono le provincie d'ogni stato, languirebbero allora egualmente le città che oggi sono capitali, eccetto una. Il male e l’ingiustizia che le provincie sieno governate da uomini spediti da lontane corti crescerebbero d’assai con l’unità. Gli abitanti delle varie capitali oggi usufruttano quasi tutte le cariche di ogni stato: in allora ad una sola città restringerebbesi un tale vantaggio. La probabilità di rinvenire fra tanti principi uno che sia meno cattivo, la loro debolezza che rende meno ardua l’impresa di rovesciarli, cesserebbero. Scapiterebbe l’industria che ora in ogni stato ha un centro di moto, scapiterebbe per la ragione medesima il commercio, non contrappcsando i doni dell’accentramento, della più libera circolazione interna. Ogni governo, eziandio dispotico, è costretto alcune volte o perché l’epoca il comporta o per l’indole del principe, a proteggere le scienze ed avvalersi dei distinti ingegni; quindi in ragione del numero de' governi, cresce la probabilità che abbia a splendere qualche face tra le fitte tenebre della tirannide. Né Boccaccio, né Filangieri, né Pagano, né Romagnosi conterebbe l’Italia se fosse stata una sola monarchia. Avvegnaché in un solo centro troppo lontano dagli estremi sarebbesi favorito lo sviluppo dell'ingegno, e difficilmente un sol governo sarebbesi mostrato in breve tempo più di una volta propenso alle riforme, né avrebbero avuto luogo le varie vicende che le promossero da capo. La forza è l’apparente vantaggio dell’unità; dico apparente, perocché l’esercito ed il tesoro sono mezzi di cui dispone il re, non già la nazione; volti ad opprimerla e non già a difenderla; non pegno di prosperità, ma incentivo a capriccio di qualche despota avventuroso.
Qual monarchia può reggere al paragone del nostro splendido medio evo coi suoi torreggianti edifizii, col suo Dante, col suo Macchiavelli, coi suoi guerrieri di ventura, e raggiungere in sì breve tempo quel grande sviluppo dell’industria e del commercio? L’Italia surse dalla barbarie, raggiunse l’apogeo della civiltà, decadde: ed allora le altre nazioni vennero ad attingere dalle sue ruine una scintilla di vita.
Non prima dell'epoca di Luigi XIV la Francia s’avvicinò a ciò ch'era stata l’Italia nel XIV secolo. La storia di Francia sarà sempre la cronaca di una corte dissoluta; e quella d’Italia la storia di libere genti; l’una è l’immagine de' dispotici governi asiatici, l’altra della libera Grecia. Perché tanta differenza? Perché l’indole svegliata degli Italiani ed il loro spirito d’indipendenza, non si prestò mai, né mai si presterà a seguire come stupido greggio le sorti di una dinastia. La libertà e non già la forza potrà unificare l’Italia; esempio la Francia, ove la fazione che ora trionfa in Parigi dispone a suo talento di 34 milioni di francesi. Nelle grandi monarchie, salvo la capitale, le altre province languono quasi membra inaridite e dogliose; minori assai sono i nostri mali, divisi come siamo in tanti principati di quello che sarebbe se fossimo tutti sottoposti al medesimo tiranno.
Passiamo ora a far paragone fra la monarchia assoluta e lo stato di conquista. Un paese governato dispoticamente subisce una perenne conquista. I principi non hanno patria: loro patria è il mondo che si parteggiano. Ove cercano le spose, ove gli amici? fra i connazionali forse? mai no! fra questi cercano sgherri e cortigiani; loro amici sono gli altri principi, pronti a muovere le armi in loro difesa.
Quale interesse possono avere gli italiani di favorire una dinastia piuttostoché un’altra? il medesimo di un condannato a cui fosse concesso di scegliere il carnefice. Se mai siamo destinati ad essere tiranneggiati ed oppressi, è meglio che i satelliti del despota, i sostegni del dispotismo siano stranieri. Ne verrà risparmiato, il dolore di veder rivolti contro noi stessi i nostri concittadini, ed essendo maggiore il distacco fra il governo ed il popolo, più sentito sarà l’odio, più pronta e terribile la vendetta. Non è forse più onorevole pe’ Romani che il papa debba sostenersi per forza d'armi straniere anziché appoggiarsi alle armi nazionali? Non sarebbe stato per la Francia meno vergognoso il sottostare ad una conquista, che vedersi oppressa, umiliata, venduta da francesi stessi? Sì sarebbe disgraziata la Francia, non già corrotta. La conquista può essere l’effetto di una momentanea prepotenza di forza, né dura, se lo spirito nazionale esiste. La tirannide domestica, per contro, sorge dalle viscere stesse della nazione e vi tiene profondate e sparse le barbe. In una parola, quando i tempi sono maturi a libertà, che un despota scacci un altro despota o si sostituisca alla conquista straniera, il popolo, senza nulla guadagnare, sopporta infruttuosamente tutti i mali della guerra. Col dispotismo non v’è nazionalità; qualunque lingua parli il tiranno, qualunque sia il luogo ove ebbe i natali.
Della monarchia costituzionale dico brevemente, non perché dopo il già detto poco sia necessario, ma ad evitare l’accusa d’averne taciuto ad arte. Tal forma di governo è assurda: altro non è che un’ipocrita tirannide. Il principe capo delle armate, padrone del tesoro, distributore di tutte le cariche, di tutti gli onori dello stato, negoziatore con le potenze straniere, sorgente di tutte le grazie, solo inviolabile ed irreprensibile di qualunque atto, mentre non avvene alcuno che non sia sua emanazione e sua volontà. Adunque, gli attributi, la forza, i privilegii del principe sono i medesimi che nella monarchia assoluta. Quali sono incontro ad essi le guarentigie del popolo? Un patto, ovvero il giuramento del principe stesso, ed un congresso che il governo, forte di tutti i favori, facilmente rende ligio a si stesso. Credesi guarentigia la guardia nazionale? Questa istituzione è un accrescimento di forza al governo e non già una difesa del popolo. I suoi capi sono a scelta del re, e sarà perciò facilissimo se non d’avvalersi dell'opera di questi armati, paralizzare almeno la loro azione; perocché essi, loro malgrado, subiranno, quantunque leggermente, l’influenza dell’autorità dei loro capi, e moltissimi cittadini, che in qualche avvenimento prenderebbero parte attivissima, se ne astengono, se guardie nazionali. Inoltre l’inutile servizio ad essa imposto è, ai più, di gravissimo peso, sovente non proporzionato, attesa l’indole e la condizione dell’individuo ai vantaggi che esso ottiene dalle franchigie accordate dal governo.
Dalla sola volontà del re dipende l’esistenza di un tal governo, quindi è stabile per quanto può esserlo la volontà d’un individuo che un matrimonio, il credito di un favorito, la paura, o qualche impreveduto avvenimento, cangia. Si attengono i ministri alle forme perché da esse dipende il loro utile personale, la loro carica; ma se credono necessaria una misura arbitraria come ne’ governi assoluti, e non altrimenti l'eseguono; sparla il pubblico, ne scrivono i giornali, qualche deputato ne chiede conto a' ministri, e qui finiscono le opposizioni; a questo si riducono i diritti, le guarentigie del popolo.
Credo inutile distendere più oltre un tale ragionamento, non parendomi necessario addurre ragioni quando sonovi i fatti che parlano chiaramente. La storia delle monarchie costituzionali é contemporanea, ricca, notissima. La Francia, dopo essersi dibattuta per ventun’anni sotto un tale governo (che tale eziandio deve considerarsi l’ultima sedicente repubblica), é ritornata al puro dispotismo; nella Spagna sono corsi infruttuosi fiumi di sangue; moltissime costituzioni. Nell’anno 1848 le abbiamo vedute soffocate in fasce da' principi medesimi che le avevano concesse e giurate.
Non è l'Inghilterra eccezione a questa regola generale; le sue grandiose apparenze non fanno che nascondere le cancrenose piaghe di quella società. Ora che scrivo, il governo inglese è una piramide alla cui cima pochi sessagenarii si ripartiscono le cariche dello stato, più sotto un congresso parteggiato non da principii politici, ma dal credito personale di quelli, quindi gli elettori, commercianti ed industriali che mercanteggiano eziandio il loro voto; alla base infine una plebe ignorante. e misera oltre misura. Se meno che altrove hanno luogo nell’Inghilterra gli arbitrii del governo, ciò dipende dall'indole pacifica di quel popolo, dalle tradizioni di alcune leggi, che l’avvicinano ad una repubblica aristocratica più che ad una monarchia.
Inoltre la monarchia costituzionale è corruttrice per eccellenza, è un armistizio segnato fra i principi ed i monopolisti, in danno dell'onestà. Il dispotismo non cerca l’appoggio della pubblica opinione, la nazione soffre e tace, ma non mentisce; il governo costituzionale ha bisogno del plauso e dell’approvazione di pochi per opprimere i molti; la compra, e l’approvazione e le lodi si trasformano sotto tal governo in merci. Di qui l’ignobile e puerile schiera de' soddisfatti ad ogni costo, che si atteggiano, parlano, scrivono, lodando sempre, come se fossero davvero liberi cittadini, e le loro opinioni avessero peso nelle determinazioni governative. Vantano i loro dritti e la loro libertà che riducesi al dritto ed alla libertà di applaudire al governo. Tra costoro, quelli che sono venduti materialmente rassomigliano a quei fanciulli i quali con elmo di carta, e spada di legno credono rappresentare Scipione o Marcello.
Il despota regna con la sciabola, il re costituzionale con l’oro; quindi appena il reggimento d'uno Stato d’assoluto cangiasi in costituzionale, le gravezze crescono in modo esorbitante. Il dispotismo incatena i capi, il costituzionalismo perverte il morale; quello comprime l’elatere dell’animo, questo lo logora e lo distrugge, ed abitua il cittadino ad una continua transazione, a quel cinismo di cui la Francia è scuola e sentina e che da lei si sparse sull’Europa intera. Sotto nome di libertà favorito e protetto il monopolio, e quindi il proletario abbandonato affatto all'avidità dei monopolisti ed incettatori. La politica esteriore codarda ed ipocrita, dovendosi tutelare gl’interessi di una dinastia, facendo le viste di propugnare i dritti della nazione. Conchiudo, monopolisti, dottrinarii, giornalisti, editori… vantaggiano col reggimento costituzionale, mentre le sorti dei proprietarii, e quelle del minuto popolo peggiorano. Sovente una tal forma di governo è d’impaccio ad un principe, ad un ministro riformatore; se gli Stati napoletani avessero avuto uno statuto al tempo in cui Tanucci ne resse le sorti, probabilmente a questo ministro sarebbe riuscito impossibile attuare le tante riforme. Questo governo ermafrodito impaccia un principe che voglia far del bene, ma non frena le nequizie di un despota.
Parmi di aver dimostrato che sia l’Italia divisa in varii principati, sia riunita sotto una sola monarchia dispostica o costituzionale, la nazionalità italiana non esisterà per questo; l'Italia sarà scudo di varii principotti o di uno solo, e gl’italiani non altro che vassalli.
Ma voglio supporre erronee le ragioni esposte, e concedere che la nazionalità esista ogni qualvolta le dinastie o la dinastia regnante siano indigene, e farmi a studiare sui mezzi e le sue probabilità di scacciare gli stranieri dal suolo italiano, e francare il paese da ogni loro ascendente.
Autorità, tradizioni, e forza sono i principii su cui sono costituiti tutti i governi d’Europa. La sola differenza che passa fra loro dipende dalle diverse gradazioni con cui la libertà individuale accordasi con essi; perciò nella sostanza differenza non v’è. Cotesti principii sono già in discredito; libertà, nazionalità, diritto sorgono ad osteggiarli; quinci la lega dell’Europa intera contro le nuove idee. I governi occidentali più del nord temono queste idee, e quindi più immediatamente interessati ad osteggiare ogni rivolgimento; questa triade rivoluzionaria non può essere mutilata in modo alcuno, sconvolte le passioni popolari è impossibile arrestare il torrente, ed è assurdo per parte nostra il pretendere che ci facessimo a combattere per giovare altrui, i principii su cui basano la sua esistenza; può mai suscitare la rivoluzione chi la teme più di qualunque altro nemico? Potranno esservi momenti come è accaduto, in cui le potenze occidentali, per loro mire particolari, facessero le viste di proteggere i rivolgimenti popolari contro la prepotenza del nord; ma appena ottenuto il loro intento, s’unirebbero co’ nostri nemici per opprimerci, spezzare dopo essersene servito, un pernicioso strumento, e punire come delitto di maestà i fatti da loro promossi, e le speranze che hanno fatto sorgere. Se l'Austria che francamente ci osteggia merita l’odio nostro, Francia ed Inghilterra (parlasi qui del governo, non già del popolo} meritano odio e disprezzo perché nemiche occulte. Ali Tèbèlen diceva ai Greci:
«Non contate che su voi soli; Russi, Inglesi, Francesi, tutti vi saranno nemici dal momento che sapranno che volete essere un popolo; non perdete mai di vista questa importante verità.»
Ed è cosa naturale che la sola ragione d’impedire che un altro stato dalla condizione di vassallo venisse a sedere a canto a loro nei congressi europei, sarebbe bastante per far volgere contro di noi tutte le loro armi. Dunque il risorgimento italiano altro non potrà essere che la vittoria delle nostre armi sull'Europa dei re. In qual modo compiere una tale impresa? Quali mezzi posseggono i principi italiani per combattere l’Europa è quello che verremo ora studiando.
Il primitivo e naturale concetto è una lega dei principi italiani contro l’Austria che dirige la loro politica, che protegge i deboli dall’ambizione de' forti e tutti dalla rivoluzione. Quale utilità avrebbero essi di cacciarla dall’Italia privandosi cosi del più saldo sostegno de' loro troni? Del Lombardo-Veneto dovrebbero creare uno stato indipendente o spartirselo, cose entrambe di somma difficoltà ed imbarazzo. Il supporre che tutti cooperino all’ingrandimento d’un solo, è un assurdo inutile a discutersi, che il senso comune ed i fatti hanno dichiarato impossibile. Ma ponghiamo che i popoli con mezzi violenti e più stabili che nel quarantotto costringessero i principi a scendere nell’agone; quale speranza potrebbe porsi in una lega che porta con sé il germe della dissoluzione, il mal volere? Concedasi vinto anche questo ostacolo; restano sempre le discordie, il dubbiare, la poca energia, con cui operano le armi collegate; la storia registra fatti innumerevoli che ne dimostrano l’impotenza. L’Europa s’è collegata con Federico II contro l’Inghilterra durante la guerra americana, contro la Francia durante la rivoluzione; Federico uscì vittorioso dalla lotta, l’Inghilterra conservò sempre una grande superiorità sui nemici; fu la costanza degli americani e la abilità di Washington che la vinsero. I francesi vinsero sempre; caddero per propria stanchezza e non già per virtù del nemico. Chi è solo, ha il vantaggio incommensurabile dell'unità, e di comando. Furono leghe coteste in cui ogni collegato da sé solo pareggiava se non superava di forze il comune avversario. Che sperare adunque da una lega di principi italiani di cui tutte le forze messe insieme sono inferiori alle austriache, e fra cui contasi il Papa cosmopolita e centro di dissoluzione e discordie?
Se l'Austria abbandonasse la sua abile politica e minacciasse di voler conquistare d’un sol tratto l’Italia, sarebbe il solo caso di una lega sincera, ma durevole quanto il periglio. Le leghe fra i despoti non sono mai concertate da mire comuni e durature; l’indole d’un principe, il suo capriccio, un matrimonio cangia la politica, e si violano i patti. Basta promettere ad uno dei collegati vantaggi in preferenza degli altri per staccarlo dalla lega, e forse da amico farlo nemico. La colleganza dei re contro i popoli è la sola possibile e conseguente; essa esiste di fatto, essendo il periglio comune e durevole.
Facciamoci ora a discorrere del caso in cui udo solo de' principi italiani voglia assumere l'impresa di unificare l’Italia; numeriamo i nemici. Prima l’Austria, che tre o quattro disfatte non debellano; mentre la perdita d’una battaglia prostra le forze d’un piccolo Stato; con l’Austria si uniranno gli altri principi italiani facenti ogni sforzo per salvare i loro troni, ed il Papa con essi che, oltre di chiamare l’Europa intera in sua difesa, lancerebbe in campo la livida schiera dei clericali con le armi che loro son proprie, tradimento e raggiro. Armi efficacissime in quello sciame di cortigiani di cui circondasi il trono, e che temono scapitare se il padrone vien costretto a spandere in circolo più ampio i suoi favori. Non trattasi di un re che caccia gli stranieri dai proprii Stati; ma di un piccolo Stato che conquista e debella Stati ad esso molto superiori di forze. A contrappesare tanti nemici, il principe conquistatore si rivolgerà alle simpatie dei popoli italiani, che in un baleno potrebbero rovesciare i troni, soffocare le mene de' clericali, e schierarsi sotto il suo vessillo. Ma il trionfo del popolo in ogni Stato non basta ad ottenere l'unità di voleri e di sforzi che richiede l'impresa. Il volontario cangiamento di dinastia è per sé medesimo illogico: chi può rispondere della virtù di una schiatta? In parità di potere la miglior dinastia è sempre la regnante e perché la più affine, e perché il paese non sottogiace all’invasione d’uomini nuovi ed ignoti. Allorché tali cangiamenti non avvengono per forza d’armi, sono tranelli di pochi imbrogliatori, che il futuro ed il presente bene della patria sacrificano a vantaggi personali che sperano dalla nuova corte. Arrogi che nel caso di cui parliamo, siccome gli Stati a conquistare cesserebbero d’esser monarchia per diventare provincia di monarchia, maggiori sarebbero le difficoltà. A tali unificazioni ripugnano popoli e più che gli altri con ragione gli italiani. Adunque ogni città, ogni Stato imporrebbe a questo principe patti, chiederebbe tali guarentigie da suscitare in esso gravi preoccupazioni; egli vedrebbe il trono de' suoi avi abbandonato in balia de' muggenti flutti de' popolari rivolgimenti, che potrebbero trarlo a guerra lunga e terribile.
Suppongasi ora cotesti ostacoli rimossi, ed il popolo italiano con illimitata fiducia abbandonarsi all’arbitrio di questo principe; e che niun partito, niun uomo sorga a propugnare idee contrarie, o a spargere diffidenza. In tale ipotesi, impossibile a verificarsi, esaminiamo se questo principe potrà osteggiare e vincere l’intera Europa. Quanti ostacoli e di sommo rilievo non si opporrebbero al rapido andamento dell’impresa? Delle tasse, della coscrizione, due muscoli della guerra, per mancanza d’ordinamento e d’unità, per diversità di leggi, d’usi, di tradizioni sarebbe quasi impossibile valersi. L’Italia deve costituirsi e guerreggiare nel tempo stesso; son miracoli questi che fanno le monarchie? Sperasi forse nell’esaltazione universale? Essa, senza dubbio alcuno, è arma terribile contro il nemico; spiana nell’interno ogni ostacolo, tien luogo di leggi e di magistratura; ma potrà un principe valersene senza temere di rivolgerne in sé medesimo le punte?
I liberi e popolari oratori che suscitano le passioni, le promesse e le speranze d’un miglior avvenire, schiusa la via a brillanti e rapide carriere, il magico nome di libertà che agita gli animi e li sospinge in cerca di moto e d’azione, l’amore che tutti sentono per la cosa pubblica, perché a tutti è dato liberamente parlare, farà correre a torme gli uomini alle bandiere, ed entreranno nel pubblico tesoro le sostanze deprivati. Ma potrà un principe avvalersi di questi mezzi? ordinerà invano ai suoi agenti di far suonare le parole di patria e libertà; il suono sarà fioco, il senso oscuro nella bocca di un cortigiano; mentre con le lodi della magnanimità del principe formeranno una discorde mistura. Gli uomini che fra l’universale esaltazione corrono alla pugna non possono che esser prodi; come sfuggire, se codardi, alla pubblica esecrazione? La libertà, facendo d’ogni cittadino un censore del governo, ne forma eziandio un sostegno. È cosa notissima come erano onorati presso le antiche repubbliche que’ cittadini che si facevano a scoprire e rivelare le trame dannose allo Stato e fra i moderni stessi, non appena viene adottato il reggimento a popolo, ogni cittadino non dubita farsi il persecutore de' contumaci, opera vilissima in una monarchia. La repubblica non escludendo nessuno dal sindacato, ogni cittadino avendo il diritto di censurare la condotta del generale, non esiterà denunziare il soldato a qualunque ufficiale, e la stampa la libera parola ne circoli e nelle piazze, offriranno il modo onde farlo dignitosamente ed eziandio acquistarne fama. Per contro, un severo e pubblico censore trasformasi sotto il principato in un vile delatore; il silenzio è imposto, o almeno la parola limitata, è inviolabile il principe; e non è ragionevole, dicono i monarchici, trovare difetto d(9) ingegno, di carattere, di patriotismo negli uomini che il principe chiama a reggere lo Stato. Adunque la censura non colpirebbe efficacemente che il povero gregario e dovrebbe esporsi a voce bassa nelle anticamere delle EE. LL. Quindi, quantunque rivolto al bene del paese, diverrebbe atto obliquo e degradante. Inoltre è natura dei cuori generosi, il non sentire simpatia pei re o altro potere che 8’impone al paese, e sotto tale reggimento i refrattari i trovano protezione e compatimento e non già riprovazione. Questa è una delle tante cause per cui gli eserciti regii, ad onta di pene rigorosissime, non sono mai saldi come le schiere repubblicane.
Né qui finiscono le cagioni che danno il primato agli eserciti di un popolo libero. È istituzione fra questi il dare campo al valore ed all'ingegno di palesarsi, e d’aspirare a balzi ai primi onori: da ciò l’universale operosità e l’ambizione madre d’eroi. Un generale d’esercito avido di conservare l’aura popolare, stimolato dalla forza di una stampa libera e severa, sollecito di soddisfare alla pubblica aspettazione ed impedire che un rivale con arditi disegni lo soppianti, precipitasi in quelle audacissime imprese che sono l’impeto di un popolo corrente verso la libertà. Nei regii eserciti è ben diverso il modo di governarsi: il campo della scelta angustiato fra un cerchio di favoriti; il duce supremo contento del favore del re, scudo e difesa sicurissima a qualunque errore; un ciondolo inviato dai penetrali della reggia, segno di schiavitù più che d’onore, tenuto in maggior conto che l’opinione pubblica. Da queste varie ragioni risulta la paralisi, il dubbiare continuo, il temporeggiare, la prudenza spinta alla pusillanimità, e per conseguenza meschine imprese, disastri o patti vergognosi.
Ne’ rivolgimenti popolari, egli è vero che accanto agli eroi si veggono codardi ed impostori, ed il disordine spesso accompagna le grandi imprese: ma non perciò viene turbato il rapido corso degli avvenimenti.
Le rivoluzioni sono come le onde d'un rapido torrente che, quantunque torbide dalla mota sollevata dal fondo, non s’arrestano perciò, né cessano di sgombrare con fremito gli ostacoli che contrastano il loro corso. Appena un principe o un potere qualunque sorge a reggere il movimento, e dice farò io: immediatamente ogni cittadino d’attore diviene spettatore, l’impeto della rivoluzione s’ammorza.
Suppongasi che dall’ignobile schiera de' moderni cortigiani, da quella turba di generali cresciuti fra le pedantesche discipline dei quartieri, sorga come dalla brillante nobiltà del medioevo, non serva, ma partecipe degli splendori del trono, un Condè, un Turenna, un Montecuccoli: esso non potrebbe menare a buon fine la guerra italiana; avvegnaché dovendo, durante la guerra, creare la nazione, gli farebbe d’uopo d’un potere più che sovrano. La sola libertà può risolvere il complicato problema, abrogando ogni legge, dichiarando libero ed indipendente ogni comune, ogni cittadino; si spezzano le pastoie domestiche, le differenze; i limiti de' varii stati spariscono, e dall’eguaglianza l’unità risulta di fatto, e così non sarà l’effetto d’un nuovo patto imposto agli italiani, ma la naturale conseguenza dell’abolizione di ogni patto. Reso libero ed indipendente ogni comune avrà il solo obbligo che gli viene imposto dalla necessità di conservare l'acquistata libertà ed indipendenza di concorrere con tutti i suoi mezzi a liberare l’Italia da' nemici esterni. Una Convenzione italiana ripartirà sui diversi comuni, ma senza ingerirsi della loro interna amministrazione, proporzionatamente le gravezze volte ad alimentare la guerra; e l'esercito eleggendosi, come è suo diritto, i capi, sarà l’esecutore de' voleri della nazione sgomberando l'Italia dalle alpi al mare, da ogni elemento straniero tirannico. Potrà mai un principe operare in tal modo? non potendo accordare illimitata libertà o dovrà bandire in Italia nuove leggi, o pretendere che tutti si uniformino durante la guerra a quelle di uno stato; cose entrambe impossibili ad effettuarsi. In ogni provincia, in ogni Stato giungeranno i regii commissarii, ed il malcontento o l’indifferenza li accompagneranno come l’ombra i corpi. L’Italia non subirà mai il giogo d’un potere che abbia il benché minimo carattere d’uno de' presenti Stati in cui essa si divide. Tutto ciò ch'è esclusivamente piemontese, napoletano, romano, non è italiano. Un principe durante qualche disastro (essendo puerilità supporre una sequela non interrotta di vittorie) può scendere a patti per salvare il trono degli avi; e però all'Italia fa d’uopo una rappresentanza nazionale, per cui non siavi altro utile se non quello dell’intera Italia, e che dirà: tutto o nulla. Se vi fosse una città che venga dall'esercito considerata come capitale, sarà lo scoglio cóntro cui romperebbero i nostri sforzi. Carlo Alberto pensò a difendere Torino, i veneziani Venezia, i romani Roma.... tutti furono vinti perché angustiarono l'idea italiana fra le mura d’una capitale. Durante la guerra l’Italia non dovrà averne altra, che il punto strategico determinato dal corso delle operazioni militari. Un principe non può con animo sgombro da sospetti armare l’intero popolo italiano e trasformarlo in un esercito, e per tema di non poterlo padroneggiare, e perché la natura del suo governo noi comporta. Il principe dovrà guerreggiare con l’esercito, e la nostra è guerra da combattersi dall'intera nazione.
Solo un Alessandro, un Cesare, un Napoleone.... potrebbe menare a compimento una simile impresa; ma questi grandi sempre o quasi sempre sorgono dalla rivoluzione; ed inoltre la monarchia italiana, fondata da un Alessandro, facendo cedere il fato alla prepotenza del suo genio, sfascerebbesi alla sua morte, come si sfasciano tutti gl'imperi fondati per conquista. I vantaggi che può offrire la monarchia non sono tali da far dimenticare agli italiani le loro splendide tradizioni municipali, le rivalità e l'odio fra i diversi popoli, con tale reggimento non si spengono, ma crescono, e le detronizzate famiglie non mancherebbero usufruttarle in loro favore; soltanto la libertà assoluta e l’uguaglianza ponno cancellare le rimembranze del passato. I re che da disgregate baronie formarono regni, sonovi riusciti distruggendo ed assorbendo nella corte le famiglie baronali, ed unificando i popoli con abolire il vassallaggio; ma i tempi sono mutati, ed assai diverso è il caso in Italia. La più larga promessa che farà un principe è uno statuto; cosa sia il sappiamo; promessa che non tarderebbero a fare, e più largamente, i suoi rivali, ed in parità di circostanze ognuno preferirà di essere monarchia piuttosto che provincia di monarchia. In una parola la storia e la ragione hanno dimostrato abbastanza che la forza non fonda nazione, ma conquista schiavi.
Finalmente se la sola guerra di popolo, e guerra affatto rivoluzionaria, può sola riscattare l'Italia dal suo servaggio, non vi è luogo più a dubbii se debbasi o pur no lasciar campo alla monarchia d’immischiarvisi. Una rappresentanza popolare che sorgesse in uno degli stati in cui è divisa l’Italia non potrebbe né dovrebbe porsi d’accordo per cacciar lo straniero con una delle monarchie italiane; troppo discordi sarebbero i mandati dei due poteri, troppo discordi le mire, per sortirne un buono effetto. Il principe più che all’indipendenza italiana, dovrebbe mirare alla salvezza del proprio trono, che il reggimento repubblicano, ricco in Italia di splendide tradizioni, minaccerebbe di mina. Un potere nazionale, per contro, col mandato di sgombrare l’Italia di quanto osta alla sua nazionalità e libertà, dovrebbe in ogni modo impedire che il principato acquistasse credito e potere. L’uno direbbe: meglio io re, e l'Italia schiava, che questa libera ed io esule; l’altro non dovrebbe riconoscere altri limiti che le alpi ed il mare, altro patto che l'assoluta libertà. Ma concediamo che, o sconoscendo ognuno la propria politica, o per valore della nazione, s’ accordassero: quale potrebbe essere il patto? Interrogare il paese a guerra vinta, siccome nel 48; né pare che lo spirito di conciliazione potrebbe spingersi più oltre di quello che lo fu in quell’epoca fatale. Si mantenne il patto fra tanta concordia? No; Fatto della fusione il ruppe; e così avverrebbe sempre; da' regi o da repubblicani, (a chi prima capitasse il destro) sarebbe infranto. Ed è poi da supporsi che un re, eziandio nella certezza di essere eletto, rinunzierebbe al diritto divino, per surrogargli quello del popolo? Dio non può interrogare il popolo sempre; concedere al popolo il diritto di fare un re è, vogliasi o no, concedergli il dritto di disfarlo.
Ma ammettiamo tutto possibile, la colleganza, il patto, la fede al patto. A chi verrebbe affidata la suprema direzione della guerra? Ai generali regii o ai repubblicani? Permetterebbero questi che le loro forze venissero logorate e distrutte dall’indubitata incapacità e dalla dubbia fede di quelli, o affiderebbe il re il proprio esercito a generali d’un partito avvèrso? Egli è facile in simili momenti gridare concordia, arrestandosi alle fallaci apparenze del caso, senza discernerne i veri rapporti, ma nella pratica poi si veggono sorgere gli ostacoli che generano disordini, codardia, illusioni, disfatte.
Finalmente le speranze di vedere ingranditi i possedimenti di casa Savoia con l'aiuto delle potenze occidentali, non essendo se non calcoli ed utili parziali, o tutto al più di una provincia d’Italia, non entrano nel quadro di questo libro. Nondimeno ne parleremo di volo. Un forte regno boreale, se non è vassallo della Francia, è dannoso per essa.
La Francia ogni qualvolta muove guerra all’Austria, debbe, per ragioni strategiche, dirigere i suoi sforzi nella vallata del Po, mentre all’Austria, per contro, conviene tenersi in questa sulle difese, e schierare sul Danubio l’esercito maggiore; quindi alla prima rileva sommamente che in Italia, fra essa e l’Austria, non s’inframmettesse altra potenza capace, se non d’altro, di mantenere la propria neutralità. Il supporre questo regno sempre ligio a Francia è puerile concetto che non merita risposta. Una volta costituito, esso avrebbe proprii interessi, i quali attese le frontiere e la natura de' prodotti, ravvicinerebbero più alla Germania che alla Francia. E questo regno italiano’ non potrebbe giammai dar norma (come asseriscono i suoi propugnatori) alla politica degli altri stati: Napoli, Toscana, il Papa, per non subirne la preponderanza, si getterebbero nelle braccia del Russo, dell’Austriaco, del Francese. Negarlo è disconoscere l’istoria deLongobardi, degli Angioini, dei Visconti, di Venezia. Mai gli stati italiani non vollero subire un protettorato italiano, perché natura de' principi come de' popoli è, allorché son costretti di avere un protettore, di scegliere sempre il più potente ed il più lontano. Quindi questa utopia che sperano o fingono di sperare i cortigiani, non vantaggerebbe, e forse ben poco, che solo i Lombardo-veneti. Dò fine a questo ragionamento persuaso di aver dimostrato abbastanza che la nazionalità chiesta ad una lega di principi, ad una monarchia, è un fantasma, una illusione, non è nazionalità, né potrà mai attuarsi perché leghe principesche, o principi, non possono né conquistarla, né conservarla. L’Italia per vincere i suoi numerosi e potenti nemici bisogna che combatta svincolata dalle pastoie domestiche, la guerra del risorgimento: gli italiani debbono guerreggiarla da uomini perfettamente liberi: richiedere all’esaltazione le schiere, ed al bollore delle passioni popolari quei genii che mai non mancano nelle rivoluzioni, come le folgori non mancano alla tempesta. Il credere che la libertà debba seguire l’indipendenza è funestissimo errore, è quello che nel 1848 ci ricacciò nella schiavitù.
VI. Affermano alcuni, ma non molti, che potrebbesi, benché privi di nazionalità, godere libertà. La più parte di costoro sono dotti, pei quali, a loro credere, è patria il mondo, e cotesta vanità può, in parte, adonestare il loro asserto, che, assurdo quanto quello di nazionalità senza libertà, male adequerebbesi colla loro dottrina.
L’essere privi di nazionalità vuol dire che un elemento straniero debba, nella nostra patria, preponderare, ed in tal caso è indubitato che la libertà individuale verrà lesa. L’Italia, o parte di essa, dicono costoro, potrà formar parte di un’altra nazione libera, e godere di una tal libertà. In primo luogo, come l’utile, le attitudini, le cognizioni non si riscontrano mai identiche fra due individui, del pari avviene fra due nazioni. Un italiano non sarà mai né francese, né tedesco senza una forza estrinseca che violenti il suo naturale. È questa una verità comunemente sentita, un assioma che non ha bisogno di dimostrazioni; una provincia italiana o l’intera Italia, che facesse parte di liberissimo impero, non potrebbe perciò dirsi libera; gli italiani non sarebbero che schiavi beati (per quanto possa esservi beatitudine fra le catene), ma non altro che schiavi. Se poi l’Italia, o parte di essa, fosse confederata ad un’altra nazione, in tal caso sarebbe libera se unita da volontario patto, ed allora di fatto esisterebbe la nazionalità; ma se una ragione qualunque imponesse questo patto, nazionalità e libertà sparirebbero entrambe. Tali furono i cisalpini, vergogna maggiore del bastone tedesco. Tra i cisalpini ed i moderni lombardo-veneti havvi la differenza medesima che fra un vile cortigiano ed un fiero e dignitoso cittadino condannato per delitto di maestà. Se la semplice centralizzazione italiana può intaccare la libertà, come essa può mai rimanere intera sotto l'attrito che eserciterebbe su noi un popolo straniero? eziandio riducendo il tutto alla sua libertà di stampa, pure gli scrittori che si faranno a propugnare l’utile della propria nazione, giungeranno ad un punto che intaccheranno il protettore, e la forza li farà tacere se l’oro non giungerà a comprarli.
Facciamoci ora a considerare la libertà nel suo vero aspetto, nel suo vero significato: dritto di eleggersi i propri magistrati, di essere giudicati da propri conterranei; di essere legislatori di sé medesimi, di non sottostare ad alcuna determinazione senza che venga ascoltato il proprio parére, o di chi eleggerà quale suo rappresentante. Possono tali condizioni verificarsi senza una recisa nazionalità? Oltrecché, come un individuo per esistere deve sentire il proprio essere, la propria sensibilità, ed avere un pensiero tutto suo, attributi che non solo non possono essergli comunicati, ma vengono distrutti o mutilati dalla benché minima influenza altrui, del pari ogni influenza straniera non potrà mai favorire, ma ritarderà il nostro risorgimento.
Sperano altri che un popolo straniero ci conquisti per poi donarci libertà: ed è questa delle utopie la più assurda e codarda ad un tempo stesso. Il forte troverà maggior vantaggio nel comandare, che nel francare completamente il debole, senza che la libertà ottenuta in dono non potrà essere che condizionata, quindi mutilata; non è libera una nazione convinta ch'altri, volendo, possa rapirgli la sua libertà. La piena fiducia nelle proprie forze è una condizione indispensabile; fiducia, che solo dai fatti può emergere: quindi la libertà deve non solo conquistarsi, ma conquistarsi senza aiuti. Se gl’invasori d’Italia, ritirandosi, l’abbandonassero a sé medesima, non per questo l’Italia sarebbe libera: senz’alcuna fiducia, o almeno dubitando del proprio valore, ad ogni incontro non potrebbe che trattare umilmente con l'antico padrone temendo che questi gli rapisse il dono concesso: ed è spettacolo della schiavitù più umiliante lo scorgere una nazione che vantasi di essere libera subire le violenze d’un prepotente vicino. L’Italia per essere libera deve essere indipendente, e libertà ed indipendenza non altrimenti si ottengono che conquistandole; l’Italia deve: fare da sé, e tanto più salda sarà la sua futura libertà quanto più numerosi saranno i debellati nemici, più superbi i monumenti di gloria meritati per conquistarla.
Dicono i dottrinarii, i quali temono che i marosi della rivoluzione non li sommerga insieme alle lor dottrine, che bisogna educarsi al vivere libero, ottenere la libertà per gradi e non per salti, ed accettare una mezzana libertà come sgabello all’intera, come pegno di migliore avvenire. Strano ed assurdo argomento! La brama di libertà è sentimento, è aspirazione naturale dell’uomo, e non già dottrina; ed i ripetuti sforzi del dispotismo non bastano a distruggerla. L’uomo soggiace all'altrui dipendenza, non già perché manchi in lui il desiderio di francarsene ed il convincimento di usare utilmente di sua libertà, ma perché teme maggiore tirannia ed altri mali, che la propria immaginazione, guasta dal desiderio della quiete, gli figura; ed è al bisogno, al desiderio di conservare parte di sua libertà, ch'egli sacrifica la rimanente. Lo schiavo è forza sia educato ai voleri del padrone; ma per vivere da uomo libero basta seguire gli impulsi della propria natura, né havvi necessità di educazione.
L’uomo, appena sentesi soverchiamente gravato dal peso della tirannia, e scorge la probabilità di rovesciarla, senza più insorge, ed i progressi della scienza, lo sviluppo della ragione che cosa valgono all’insurrezione ed alla battaglia? Quali dottrine sospinsero gli Svizzeri alle armi, o inaugurarono la guerra degli Olandesi, degli Americani? Quali dotti contava la barbara Grecia allorché dava l’esempio del più eroico coraggio e del più sentito patriotismo?
Ghermita la vittoria, il soccorso della scienza sembra indispensabile; essa può, svolgendo i tesori dall'esperienza accumulati, additare i mezzi come consolidare le conquiste. Ma questi vantaggi il fatto li dimostra più effimeri che reali; perciocché le nazioni non accettano i suggerimenti della scienza, ed il volgo di niun progresso è capace se non vi è balzato dall'imperiosa necessità; né havvi ragionamento oltre il fatto che valga a convincerlo; i mali sofferti, il bene acquistato, sono i soli argomenti che fruttano. La discussione, le opinioni, i sistemi emergono dai mali che soffre la società: e la dottrina, in politica, segue e non precede i fatti. Essa dimostra di quanta levatura sia il pensiero della nazione, ma non già la maggiore o minore probabilità d’un rivolgimento. Una nazione senza dottrina sarà come un uomo semplice, e di soverchia buona fede, che facilmente cade nell'inganno, ma non mancherà per questo di forza, di coraggio, d’eroismo e dell’ardente desio di migliorare la propria condizione. E può eziandio avvenire che un popolo dottissimo imputridito nei vizi, abbandoni non curante il proprio destino al primo venuto. Né le nazioni si addottrinano e sortono dalla loro semplicità a furia di libri e di giornali, ma progrediscono, attuano una serie di fatti terribili e sanguinosi. L’opinione la più assurda è il supporre che una mezza libertà possa a grado, e senza veruna scossa, menarci all'intera; mentre cotesto vantato progresso legale mena dritto alla corruzione. Facciamoci a sviluppare un tale asserto.
Le condizioni indispensabili ad un popolo per conquistare una libertà duratura sono: lo sforzo per rovesciare la tirannide determinato dai mali presenti, e per evitarli nell'avvenire; la piena conoscenza della causa di questi mali ricercati dalla scienza.
Esaminiamo la mezza libertà quanto favorisca coteste cagioni determinanti e dirigenti.
I reggimenti moderati per loro natura nascondono e leniscono i mali, che non essendo abbastanza sentiti per obbligarci a ritorcere in noi medesimi lo sguardo, ci sospingono alla ricerca dei mali di popoli più infelici, che dalla nostra imaginazione esagerati, ci sembrano molto più di quello che realmente sono, facendoci perciò benedire le dorate catene.
Il morale non compresso, ma logorato, illanguidito, perde la sua elasticità, ed a suoi beati, l’insorgere riesce impossibile. Accettasi senza dolore la derisione, i nervi del pensiero e dell'imaginazione sono intorbiditi affatto; metodicamente vengono i sudditi a non pensare diversamente da quello che vogliono i governanti; si avvezzano per mancanza di dolore a non rimontare all'origine delle cose; d'onde la mollezza. Per converso, dolori, afflizioni e ostacoli, l’isolamento stesso a cui astringe la tirannide, ritorcono il pensiero in sé medesimo; per la propria conservazione l’uomo tenta ogni via, si fa alacre e consideratore, e suscitandosi le passioni s’accelera la reazione.
La congiura del Rutli che divampava con la battaglia di Morganten, ed inaugurava la libertà svizzera, non avrebbe avuto luogo senza l'avversione che Alberto d’Austria ebbe per le franchigie, e l’efferata tirannide di Gesster suo proconsole. Né l'Olanda senza il S. Uffizio ed il duca d’Alba sarebbesi francata dal terribile giogo sotto cui gemeva. E se l'Inghilterra avesse rispettata l’indipendenza amministrativa delle sue colonie, l'America farebbe parte del suo impero. Avendo dimostrato come i reggimenti moderati allontanano le cagioni dell'insorgere, ci faremo a studiare sino a che punto essi favoriscono lo sviluppo delle idee.
Pochi oggi giorno sono i cultori delle scienze economiche e politiche; la noncuranza che generalmente si ha per la cosa pubblica, Futile individuale affatto disgiunto dall’universale, sono cause di cotesto male. Quei che se ne occupano non già per farsi ripetitori, ma per trarre nuove conseguenze, scovrire nuove verità, ed elevarsi all'applicazione, riscontrano nella società, in cui vivono, non solo le cagioni determinanti a farlo, come è naturale, ma eziandio le istituzioni, i costumi di essa società prescrivono i limiti alle loro ricerche a guisa che la scienza si distende, secondo l’intensità e la purezza delle cagioni determinanti. Tra le nazioni che godono qualche franchigia le cagioni determinanti sono numerosissime, ma valgono tali studii non già all’esplorazione dei mali, si piuttosto alla ricerca del bene; oltrecché soddisfatto un gran numero, pochissimi attaccano radicalmente il governo, e la libertà del dire da questo concessa facendo screditare presso il pubblico gli attacchi e gli attaccanti si limita il campo della critica. Infatti presso queste nazioni il frutto che si ottiene dalle migliaia di volumi che si pubblicano da tante accademie, da tanti dotti e dottrinarii, riducesi a qualche microscopica riforma politica o ritrovato economico in apparenza utile. Gli onori, gli stipendii, di cui largheggiano questi governi coi dotti, sono incentivo a tali lavori che, mascherati da qualche umile osservazione, sono le più sfrontate apologie del presente. La tirannide, per inverso, tutto interdice; il mistero o la forza possono solamente salvare da' suoi artigli colui che ardisce alzar la voce; rarissime perciò le cause determinanti a scovrire le piaghe della nazione; ma se sorgono purissime, e fortemente sentite, altre non possono essere che i mali da cui è oppressa la società e la nobile ambizione dell'aura popolare comprata a caro prezzo. La moderazione dà niuna difesa a chi osa; l’opinione pubblica pronta a favorire colui il quale con più ardire muove i suoi attacchi, quindi libero, franco, appassionato il dire. Per lunghi anni si tace in uno stato dispotico, ma se la pazienza del popolo comincia a scuotersi appariscono quegli opuscoletti che suscitano una rivoluzione. Vi sarà poca erudizione e sfoggio di dottrina, ma questa a che giova se non scende ai fatti? Concludiamo, che la mezza libertà, le concessioni, non sono stato di transazioni per giungere a liberarsi da ogni giogo, ma efficace mezzo di cui giovasi la forza per garantire le sue usurpazioni; è uno stato di continua paralisi. Né qui finiscono i mali dei moderati reggimenti.
I rivolgimenti di un popolo risorto sotto un duro dispotismo sono più terribili, più recisi e più atti a gettar radici che quelli di uno stato già a metà libero. Quale differenza fra la repubblica francese del 91 e quella del 48, l’una surta sulle radici d’un lungo regno assoluto, l’altra basata sul fango d'un moderato reggimento! Quella, terrore dell'Europa, e sola pagina onorevole di quel popolo; questa oggetto di scherno e disprezzo universale, e macchia indelebile all’onore della nazione. Inoltre, istituzioni, caste, privilegi, culti, tutto è odioso sotto il peso della tirannide; perché tutte armi volte ad opprimere le moltitudini, però tutte nei rivolgimenti distrutte; quindi sgombero il cammino da ogni ostacolo.
Invece negli stati a metà liberi, quasi tutto salvandosi, la rivoluzione da mille impacci è arrestata o sviata dal suo corso. Dottrinarii! che a voi convenga la mezza libertà, che l’industria ed il commercio fiorisca alla sua ombra, concedo; ma non asserite che essa giovi al minuto popolo, e che ci meni ad un migliore avvenire. L’uomo ha bisogno di lunga e laboriosa esperienza per giungere alla conoscenza di quelli ordini (che sono le leggi naturali) i quali guarentiscono la conquistata libertà; ma per francarsi dalla tirannide che l’opprime, procede a salti; lo schiavo non ismaglia lentamente le catene, ma le spezza.
Conchiudiamo: la libertà non ammette restrizioni di sorte alcuna, né fa d’uopo d’educazione o di tirocinio per gustarla; essa è sentimento innato nell’umana natura: le franchigie concesse dai despoti nei momenti che non si vedono sicuri della vittoria non sono che un narcotico somministrato al popolo per addormentarlo fra le lentate catene ed annebbiarne l’intelletto; quindi senza la nazionalità la libertà non può esistere Ma oltre la nazionalità, essa per non dirsi una menzogna, una derisione, richiede un’altra condizione per molto tempo ignorata, ora ad arte disconosciuta,la uguaglianza. Egli è falso che l’uomo associandosi co’ suoi simili debba sacrificare parte di sua libertà; questa può definirsi il libero esercizio delle proprie facoltà fisiche e morali, che viene limitato dal mondo esteriore, dai bisogni, dai mezzi di soddisfarli. La società mediante la sua forza collettiva, trasforma in mille guise il mondo esteriore, giovandosi in infiniti modi delle forze naturali, e dei loro prodotti, quindi Offre all'uomo un campo sempre più vasto per l’esercizio delle sue facoltà, accresce i suoi bisogni, facilita i mezzi di soddisfarli; la vita dell’uomo associato deve necessariamente essere più ricca di sensazioni di quella dell'uomo isolato, ovvero quello godrà di una libertà maggiore che questo. Proudhon scrive «la libertà di ciascuno, riscontra, nella libertà altrui, non un limite, ma un aiuto; l’uomo il più libero è quello che ha maggior numero di rapporti coi suoi simili.» Quindi se per un individuo o per una classe di individui non si verifichi tale verità, è forza conchiudere, che i loro rapporti con l’intera società non sono equi, ma vi è indubitatamente ingiustizia.
Se da un uomo non richiedesi lavoro, mentre si costringe un altro a lavorare eccessivamente, havvi privilegio per quello, ingiustizia per questo, che sarà schiavo della società.
Il solo lavoro, che ogni mano senza distinzione alcuna deve per proprio utile compiere, è quello che le sue naturali attitudini indicano, ed i suoi bisogni richieggono. Con questa legge e non altra, tutti gl'individui componenti una società dovrebbero contribuire all'accrescimento del comune prodotto. Inoltre cotesta società dovrebbe porre a disposizione di ognuno dei suoi membri, senza veruna eccezione, tutti quei mezzi che essa possiede, onde facilitare lo sviluppo delle loro facoltà fisiche e morali e porlo in grado di riconoscere e utilizzare le proprie attitudini. Solo in tal caso dall’assoluta libertà d’ognuno risulterebbe massimo prodotto e massima felicità. Ma quanto siamo lungi da un simile stato!
Come provvedasi all'educazione del proletariato? In un modo negativo, costringendolo dall'infanzia a continuato lavoro che aggiunge alla mancanza dei mezzi, quella del tempo e delle forze. E sotto qual pena cotesta numerosa classe vien condannata all'ignoranza? la più terribile: la morte per fame in mezzo all’abbondanza! E mentre la fame interdice lo sviluppo delle facoltà, che la natura concesse al proletario, e lo spinge, suo malgrado, sulla via faticosa ed aspra percorsa dal padre; uno stolido, un idiota, dal quale mai potrà cavarsi frutto, perché ricco, avrà tempo e mezzi esuberanti per la sua educazione che verranno inutilmente sprecati. E’ uguaglianza politica è derisione, allorché i rapporti sociali dividono i cittadini in due classi distintissime, l’una condannata a perpetuo lavoro per miseramente vivere, l’altra destinata a godersi il frutto dei sudori di quelli. L’uguaglianza politica non è che un ritrovato per isgravarsi dall'obbligo di nutrire gli schiavi, per privare il fanciullo, il vecchio, il malato d’assistenza, è un ritrovato per concedere al ricco, oltre i suoi diritti politici, la facoltà d'usurpare quelli dei suoi dipendenti.
Sonosi sciolte le catene degli schiavi recidendo loro i garetti. Una tale ingiustizia, che sacrifica a pochi i moltissimi, è eziandio danno manifesto all’intera società, perché riesce impossibile ai null'abbienti ingegnarsi, ed ai troppo facoltosi manca ogni stimolo per farlo, e, crescendo cosi la disuguaglianza, essa corre, siccome dicemmo, al deperimento, alla dissoluzione.
In una società ove la sola fame costringe il maggior numero al lavoro, la libertà non esiste, la virtù è impossibile, il misfatto è inevitabile; la fame e l'ignoranza, sua conseguenza immediata, rendono la plebe sostegno di quelle medesime instituzioni, di quei pregiudizi! da cui emerge la loro miseria, rivolgono la spada del cittadino contro i cittadini medesimi a difesa di una tirannide che opprime tutti. La fame imbriglia il pensiero, aguzza il pugnale dell’assassino, prostituisce la donna. La società intera viene abbandonata al governo di coloro che posseggono, ed il suo utile, la sua volontà sarà sempre quella di cotesti pochi i quali ammolliti dalle ricchezze che temono di perdere, sacrificheranno sempre l’onore, la dignità, l’utile universale ai loro ozi beati, e l’ignoranza e la miseria interdicendo al maggior numero la libera espressione della loro volontà distruggono affatto la nazionalità espressa dalla volontà collettiva senza eccezione e senza prevalenza di classi.
Concludiamo; la libertà senza l'uguaglianza non esiste, e questa e quella sono condizioni indispensabili alla nazionalità, che a sua volta le contiene,' come il sole la luce ed il calorico.
VII. — Gl’italiani sono unitarii; tali furono gli antichi, ed una tale aspirazione fra moderni comincia da Dante. L’idea che nel 1814 ha cominciato a farsi popolare, che ha progredito sempre, che s’è mostrata dominante in tutti gl’istanti di vita vissuti dal popolo italiano è l’unità; ma gli ostacoli per attuarla sono più che moltissimi.
Un governo unico, pei più liberali, emanazione diretta dal popolo, responsabile, e revocabile, e per tutti poi, energico, compatto, distributore di cariche, premiatore del merito, è il concetto volgare. Ma se non vogliamo disconoscere l’umana natura, sarà facile scrivere le conseguenze di una tal forma di governo.
L’uomo o gli uomini componenti il governo, non potranno spogliarsi delle loro passioni, rinunziare ai loro concetti, abdicare infine alla loro individualità; questa pretesa sarebbe assurda e ridicola. Chi il crede possibile non legga questo libro, io non scrivo per esso. Eglino, come tutti gli uomini, vedranno le cose sotto quell’aspetto, che le loro passioni lor presentano, ed adattando i provvedimenti alle loro convinzioni opereranno coscienziosamente, e faranno quanto ad un uomo è dato di fare; quindi i loro desiderii, i loro concetti prevarranno su quelli dell’intera nazione, ed avverrà precisamente che, volendo il bene pubblico, conseguiranno uno scopo affatto contrario, imperciocché i desiderii, i concetti, le passioni di pochi non potranno essere quelli di tutti; inoltre tal governo dovrà essere forte; quindi diverrà immancabilmente tiranno, imponendo con la forza ciò che egli con fini rettissimi vuole, e la tirannide sarà più dura per quanto maggiore sarà la forza dell’ingegno e della volontà degli uomini prescelti al reggimento; in altri termini, per quanto migliore sarà stata la scelta fatta. La nazione sarà libera nel momento delle elezioni, poi abdicherà la prppria sovranità nelle mani di coloro che l’aura popolare condurrà al potere; i candidati saranno varii, quindi il popolo si scinderà in partiti ed avverrà quello che è sempre avvenuto; il partito prevalente sarà tirannico con gli altri, e questi schiavi ed in permanente cospirazione contro di esso; e le continue lotte intestine roderanno le viscere della nazione e sarà impossibile la continuità di sforzi, la perseveranza, la costanza che formano la felicità e la grandezza dei popoli, come nel medio evo; l’opera di un partito verrà distrutta da quello che lo soppianta. Questo scoglio contro cui rompe immancabilmente la democrazia, lo scansarono gli antichi popoli italiani, poi i romani, più tardi i veneziani con l’istituzione del patriziato; questo potere dava a tutta la macchina sociale un continuato ed uniforme impulso, che solo può condurre a grandi risultamenti. Adunque, democrazia ed unità cosi, concepite conducono al governo dei partiti, e nazionalità e libertà sono nomi che servono loro di maschera, di pretesto onde lacerare la patria; né qui finiscono i mali. L’unità, facendo fluire tutti ad un centro gli umori vitali della nazione, ne consegue, come dicemmo nelle pagine precedenti, che l’altre parti d’Italia deperiranno quasi membra inaridite e dogliose.
VIII. — La federazione è concetto di pochi ma di uomini di svegliato ingegno e solleciti di libertà. Credono costoro, dividendo l’Italia in vari Stati, che un patto comune unisca nella politica esteriore, garantirsi dal dispotismo; ma una tale opinione non ha fondamento. La tirannide del governo in un piccolo Stato non è diversa da quella che opprime una grande nazione; anzi è peggiore, spesso, e più tremenda perché più difficilmente si sfugge dai suoi artigli; e se eglino credono con una sana costituzione evitarla, in una piccola repubblica; perché in tal caso non applicare tale costituzione all’intera Italia? Lo stesso potremmo dire per la proprietà materiale del paese; se i privilegi d’una capitale sono dannosi al resto della nazione, in ogni stato avverrà lo stesso, il male sarà minorato, è vero, ma non evitato; e nel caso che potranno esservi provvedimenti da evitarlo in un piccolo Stato, questi provvedimenti stessi saranno applicabili ad uno Stato più vasto.
Oltrecciò, se i varii Stati, in cui si dividerà l’Italia, avranno simili interessi, perché non potranno reggersi coi medesimi ordini? se interessi diversi, allora gli stranieri saranno arbitri fra noi. Vedremo riprodotto il miserabile spettacolo delle repubblichette del medio evo, che civilissime com'erano, chiamavano i semibarbari a decidere le loro contese. Gli Stati che soccomberanno in una lotta parlamentaria, in un congresso federale, se non forti abbastanza per farsi ragioni con le armi, invocheranno l’aiuto straniero. È questo un fatto storico innegabile, è un fatto che lo vediamo riprodotto nell’Elvezia, e ciò vedrebbesi eziandio in America, se il vasto Oceano non la separasse dall’Europa. Non appena troncasi una parte di una nazione, per costituirne uno Stato, questo immediatamente prende la propria autonomia, sorgono i suoi interessi, che non sono quelli dell’intera nazione, e ne sono tanto più discordi quanto maggiore è la sua estensione, e più sentita la possibilità di esistere da sé. Non havvi una teoria più assurda e volgare nel tempo stesso, di quella, che nell’ingrandimento successivo degli Stati italiani, e nel minorarsi il numero di essi, scorge la tendenza all’unità; avviene precisamente il contrario. Se l’Italia si dividesse in due soli Stati, l’unità diverrebbe quasi impossibile, i loro sacrifizii sarebbero troppo grandi per sottomettersi volontariamente ad un tal patto: l’uno dovrebbe conquistare l’altro, che dopo esaurite le proprie forze chiederebbe l’aiuto straniero; un grande Stato vuol conservar sempre l’esistenza propria, quantunque meno splendida. Per contro, se l’Italia venisse suddivisa in tanti Stati per quanti sono i suoi comuni, ne risulterebbe di fatto l’unità, i sacrificii che gli verrebbero imposti da un patto comune non potrebbero essere che lievi, e non sperando di reggersi e grandeggiare, ognuno da sé, in faccia agli stranieri, troverebbero un giusto compenso nel patto comune, nonché nell’unità.
Finalmente, se il concetto di una federazione di Stati italiani, è assurdo, e ruinoso nei particolari, lo è eziandio se vien riguardato sotto un aspetto più generale. La federazione altro non è che uno Stato di transazione per giungere all'unità, e quando i costumi, il clima, le razze, la lingua, la religione, la geografia non costituiscono che una sola nazione, l'unità è un fatto superiore ad ogni calcolo, che non può disconoscersi senza rinnegare le leggi della natura. La federazione, come dice il Mazzini, sarebbe in tal caso: «simulacro di patria e non patria, un gretto calcolo d’aristocrazia o di partiti.» E nobilitando questa idea, non avremmo che gretto municipalismo. Fra il contrastare la sovranità d’una capitale per non volerne alcuna, e contrastarla per diventar capitale, corre la medesima differenza che fra due individui, di cui l’uno attacca il governo per sostituirvi libertà, e l'altro l’attacchi per sostituirsi in sua vece; il primo è un eroe, il secondo è bassamente ambizioso.
IX. I legami indissolubili che esistono fra nazionalità e libertà, le condizioni da cui quest'ultima non può scompagnarsi, gli inconvenienti che si riscontrano nell'unità, come nella federazione, sono stati svolti nel precedente capitolo. Opera, diranno molti, di sola distruzione, perocché ninna sostituzione s’è fatta in loro vece. La risposta è semplicissima: voi, che dagli individui pretendete sapere con quali ordini la società debba ricostituirsi, sconoscete affatto le leggi dell'eterna repubblica naturale, sconoscete i diritti dell'intera nazione, e pretendete sostituire il concetto di un uomo, alla ragione universale.
Ogni nazione, lo abbiamo provato con la storia, deve sottostare al proprio fato, che, i rapporti sociali, il suo passato con le sue tradizioni, il presente, l’indole del popolo, le sue correlazioni co’ vicini costituiscono. Ogni nazione prossima ad un rivolgimento, nasconde nel suo seno il futuro reggimento, le sue future sorti; esse non attendono a svilupparsi, che una causa, la quale turbando l’equilibrio la precipiti nel moto. L avvenire d’un popolo, facendo accurato studio sulla sua ragione storica, su i suoi rapporti sociali... può comprendersi nel suo insieme, come uno scienziato comprende la scienza, ma non può manifestarsi, che da una serie successiva di fatti, come la scienza non può esporsi da quello, se non pigliando le mosse dalle semplici, e facendo seguire le une alle altre, le varie preposizioni.
Tale manifestazione comincia dall'apparire de riformatori, sagaci interpreti della loro età, di cui esprimono il sentire. La missione di costoro non è di formulare nuovi ordinamenti, ma distruggere gli esistenti, esplorando sin nel profondo, e ponendo a nudo le piaghe della società. I riformatori sono la manifestazione della ragione collettiva, dal dolore costretta all'esame de' mali sociali; sono piloti, che non determinano la meta del viaggio già stabilita, ma indicano gli scogli contro cui la nave potrebbe rompere; sono quelli che fanno studio, che scrutano, registrano le sanguinose esperienze fatte dal popolo, ne traggono le conseguenze, le presentano ad esso dicendogli: rifletti, non fidarti, se non vuoi soffrire i medesimi mali.
Intanto i riformatori, non solo distruggono, ma non tralasciano di proporre nuovi ordini, di creare sistemi; ma la prima parte del loro lavoro è sempre incontrastabile, è la ragione universale che predomina; nella seconda, sempre o quasi sempre, errano; è l’individuo che parla; non raggiungono mai il vero, ma tanto più vi si accostano, quanto più vicino è un rivolgimento. Meno sentiti, meno gravi sono i mali, più calmi sono gli animi, più profonda, più vasta è la dottrina de' riformatori, ma nell’applicarla, eglino poco o nulla si distaccano dagl’instituti vigenti. Se, invece, gli animi sono concitati, se l'odio al presente è fortemente sentito, i riformatori saranno meno dotti, ma di tempra più gagliarda, d’indole più audace; le conchiusioni vogliono esser recise, non vaghe; tali le richieggono i tempi, e l’applicazione de' principii, scostandosi dagli instituti in vigore, perché universalmente odiati, più si avvicinano al futuro che prevedono.
La schiera de' riformatori surse in Italia assai precocemente: l'Accademia Telesiana, come accennammo nel primo saggio, quindi Bruno, Vannino, Campanella riconobbero i mali da cui veniva roso l’edilizio sociale, e dalla cima vollero diroccarlo. Cominciarono dal riscattare il diritto della ragione, e sostituirlo all'autorità; era questa l’arma che dovevano guadagnarsi onde compiere la loro missione; questa prima tenzone costò loro la vita. I conservatori surti a combatterli, eziandio d’ingegno potente, furono i gesuiti rincalzati dalla schiera fratesca. La discussione condusse Bruno e Vannino al rogo, e Campanella soffrì la tortura e ventisette anni di carcere; e se oggi ne annunziamo il profondo e splendido ingegno, i contemporanei ne ammirarono il sovrumano coraggio. Se i filosofi francesi del XVIII secolo poterono lietamente abbandonarsi ai voli del loro ingegno, ed oggi i socialisti disputano, senza tema del carnefice e del rogo, devesi ciò ai riformatori italiani, che comprarono col sangue il diritto di ragionare.
Ai sullodati riformatori tenne dietro il Vico, il Gravina... e tutta la nobile schiera dei nostri filosofi che termina con Romagnosi. Le leggi, come fugacemente dicemmo, che regolano le società, non furono più ignote, e la filosofia civile come un maestoso fiume, che raccoglie nel suo placido corso i spumeggianti torrenti, riunì le sparse membra dello scibile umano e formonne un tutto.
Intanto oltr’Alpe s’inaugurò il governo costituzionale, ecletismo politico, epperò sursero gli eclettici in filosofia, e la paralisi che da mezzo secolo ci opprime dalla Francia si sparse sull’Europa intera. L’incerta e pallida luce dell'eclettismo riverberò in Italia, quindi venne interrotto il maestoso lavoro, che seguitava continuo da Telesio a Romagnosi. Le dottrine di Gioberti, Mamiani, Rosmini, Ventura vennero in luce. In esse non riscontrasi nulla del gran pensiero italiano, ma, invece, uno strano connubio de' più contraddittorii principi: ragione e fede, autorità e libertà, diritti dei popoli e diritti dei principi: né costoro, che intrecciano la loro filosofia sull'orditura imposta loro dai birri e dai preti, meritano il nome dei filosofi italiani. Durante i rivolgimenti del 48, ligia l'Italia a tali dottrine, naufragò prima di prendere il largo.
Se ci faremo a svolgere le pagine dei nostri filosofi, vi troveremo consacrate le leggi magistrali della natura. Eglino tentarono applicarle, ma troppo lontani dal risorgimento, subirono l’ascendente dei tempi, epperò vollero raddolcire i mali, rammorbidire le parti soverchiamente rigide, e non già sbarbicare quelli e rompere queste. Ma oggi le passate esperienze, le tendenze della società, i suoi mali cresciuti, ci danno facoltà a farlo. Quelle leggi debbono formare i cardini su cui dovrà equilibrarsi l’edificio sociale. Ricercare le istituzioni contraddittorie con esse, annientarle, e sostituire in loro vece i principii che ne emergono, sarà lo scopo del ragionamento che segue.
La prima verità che non può disconoscersi, senza negare l’evidenza, senza negare quaranta secoli di storia, è, che la ragione economica, nella società, domina la politica; quindi senza riformar quella, riesce inutile riformar questa. «Conservazione e tranquillità, scrive Filangieri, è il primo dato, e questo e non altro, è l’oggetto unico ed universale della scienza della legislazione. Ma l’uomo non può conservarsi senza i mezzi, la possibilità dunque di esistere, e di esistere con agio.» A che servono infatti i diritti dalle leggi accordati se la miseria rende impossibile il profittarne? Inoltre il difetto de' mezzi materiali necessarii ad esistere annulla la vita politica della più gran parte della nazione, ma l’eccesso delle ricchezze, che si accumulano fra pochi, non produce danno minore: ingigantiscono le voglie, succede all'operosità l’ignavia, ed in putredine di vizii si marcisce. La società dall’ingiusto riparto delle ricchezze vien divisa in due parti, i pochi e i molti, e questi da quelli dipendenti; proclamare i diritti della democrazia è un’impostura, un’ipocrisia. Chi in buona fede può negare che i capitalisti ed i proprietarii sono i soli a cui è dato godere de' diritti politici, che la società è governata dalla gretta aristocrazia dell'oro, inspiratrice della codarda e ruinosa politica moderna? Si rimedierà, dicono alcuni, a questi mali, con istabilire più eque relazioni fra il proprietario ed il fittaiuolo, fra il capitalista e l’operaio: sparirà la miseria, dicono altri, con lo sviluppo dell’industria, con l’aumento del prodotto sociale. Abbiamo discorso nei precedenti capitoli dell’efficacia di tali mezzi; è cosa chiara come la sostituzione d un nuovo protezionismo all’antico riuscirebbe inutile tirannide, inutile inceppamento all'industria, e dimostrammo come la miseria cresce al crescere del prodotto sociale. Finché i pochi sono proprietarii dei mezzi, onde soddisfare agli incalzanti bisogni de' molti, questi saranno servi di quelli, qualunque siano le leggi; basta che esse riconoscano e proteggano il diritto di proprietà.
L’assicurare a tutti un’agiata esistenza, sarebbe al certo un mezzo efficace, ma ove cercare le ingenti somme? non potrebbesi che spogliare parte della società, per togliere all'altra ogni stimolo al lavoro; la società perirebbe; e riconoscendo il diritto di proprietà, come potrà mutilarsi, come limitarlo? non potranno essere che leggi complicate e contraddittorie, incentivo alla frode ed all’ingiustizia.
Non resterebbe che l’uguale riparto delle ricchezze, ma spaventati rispondono gli economisti: in Francia, nazione ricca, avrebbesi appena 78 centesimi per caduno. Un tale asserto è assurdo e ridicolo; lo spirito di partito, o meglio l’amor dell’oro li costringe a mentire con inconcepibile impudenza. Se fosse esatto, la Francia altro non sarebbe che una nazione di mendichi. Avvegnaché sarebbe tale il numero di coloro, che posseggono meno di si tenue somma, che appena raggiungerebbesi una tal cifra, facendo un eguale riparto di tutte le ricchezze di coloro che posseggono più di 78 centesimi. Questo calcolo deve essere assolutamente falso; ma noi vogliamo ammettere, che rappresenti il riparto del prodotto netto. In tal caso un operaio con moglie e cinque figli avrebbe il suo salario, più sette volte 78 centesimi; né questo è tutto, sarebbevi un aumento non picciolo, riducendo ad un medio salario tutti i pingui stipendii, che i capitalisti insaccano come compenso alla fatica che durano per arricchirsi; epperò saremmo al disotto del vero affermando che un tale operaio percepirebbe un dieci lire ài giorno, ovvero un vivere agiato. E chi negherà essere più giusto che tutti vivano agiatamente, invece di far perire nella miseria nove decimi della nazione, acciocché pochissimi abbiano a possedere oltre il bisogno? Ma la ragione che rende impossibile la pratica di tale idea è più potente di questa ridicola menzogna.
Una tale ripartizione sarebbe operazione complicatissima, né mai potrebbesi evitare la frode; la società dovrebbe sottostare ad una continua forza tirannica, che spigolasse tutte le borse, altrimenti la materiale uguaglianza stabilita non durerebbe che un giorno solo.
Sortono alcuni da questo campo, che per essi lo trovano troppo gretto e materiale, e dicono; noi allevieremo, anzi distruggeremo i mali del proletario con l’educazione. Strana utopia di questa buona gente, condannata dalla natura a vivere d’astrazioni! Come vi procaccerete le grandi somme necessarie all’educazione dei proletarii, alla loro esistenza durante tale educazione, ed al compenso che bisogna pagare albi famiglia privata del guadagno che avrehbele fruttato il lavoro del giovane che voi gli rapite per educare? Con le gravezze forse? Ma non sapete che, rispettando il diritto di proprietà, esse ricadono precisamente sul proletario, nel modo stesso che la base sopporta tutto il peso e le pressioni del soprastante edifizio? Voi l’affamerete per educarlo. Ma vogliamo ammettere possibile la vostra utopia; cosa guadagneranno con l’educazione? Condannati, come Sisifo, ad un perpetuo lavoro, non avendo che qualche ora necessaria a rinfrancare le forze, l’educazione ricevuta li farebbe più infelici. Se hanno da vivere da bruti, è meglio lasciarli bruti quali or sono.
I più positivi propongono l’associazione, ed esaltano la sua innegabile potenza, ma più che l’associazione è potente il capitale. Non vale proporre come regole alcune eccezioni; egli è una delle cardinali verità di economia pubblica, non solo che l’associazione del lavoro deve soccombere in contro alla potenza del capitale, ma eziandio che i piccoli capitali sono inesorabilmente condannati ad essere inghiottiti dai grandi. L’associazione del capitale e del lavoro non conviene al capitalista, specialmente se fa uso di macchine. Alcuni il negano asserendo che l’associazione del capitale e del lavoro, accrescendo il prodotto, debba riuscire eziandio vantaggiosa al capitalista, senza riflettere, che il guadagno individuale del capitalista con tale associazione scema moltissimo. Infatti, eglino medesimi aggiungono: se questa associazione non è libera, ma imposta da una legge, i capitali saranno trafugati. Contraddizione manifesta, imperocché se reali fossero i vantaggi del capitalista, sarebbero ben presto conosciuti, ed ognuno, senza contrasto, contentissimo sottoporrebbèsi a tal legge. Quindi per fornire di capitali il lavoro, altro mezzo non v'è che imporre gravezze a coloro che posseggono; ma quale ne sarebbe il risultamento il dicemmo: gli operai verrebbero affamati e non soccorsi.
Concludiamo, che l’offrire a tutti un vivere agiato, cardine su cui, giusta la sentenza del Filangieri, debbono poggiare gli ordini sociali, non solo non è in uso nella moderna società, ma non v'è alcun mezzo onde soddisfare a tale condizione. La società è divisa in due parti, possessori e nullatenenti, che il diritto di proprietà determina. L’economia pubblica, pigliando le mosse da questo diritto, sviluppa le sue leggi, che si basano su di esso. Queste leggi regolano inesorabilmente il rapporto fra queste due classi, e conducono a conseguenze inevitabili e funeste. Cotesti rapporti che risultano di fatto non possono modificarsi, sotto pena di un deperimento universale; unica legge possibile è la libertà: conseguenza di essa, miseria sempre crescente. Se togliete al ricco parte del suo avere onde soccorrere il povero, egli, mentre con una mano sborsa il denaro che gli vien chiesto, con l’altra lo rapisce di nuovo; ben presto incarisce il vivere, e la miseria s’accresce. Dunque: la causa che volge tutte le riforme in danno del povero, la causa che accrescendo continuamente la miseria, mena, come altrove vedemmo, alla dissoluzione sociale, e contrasta allo scopo principale, che si propone la società, il benessere di tutti, o almeno de' più, è il mostruoso diritto di proprietà. La logica adunque impone di rimuovere l’ostacolo, poco curandosi delle conseguenze; la società riprenderà da sé l’equilibrio, dal caos naturalmente verrà il cosmos. Verremo ora a rincalzare il nostro ragionamento, per sé medesimo abbastanza chiaro, con l’opinione di due illustri uomini, Cesare Beccaria e Mario Pagano.
«Il furto, dice Beccaria, non è per l’ordinario che il delitto della miseria e della disperazione, il delitto di quella infelice parte di uomini a cui il diritto di proprietà (terribile e forse non necessario diritto) non ha lasciato che una nuda esistenza.»
Molto più a lungo ed esplicito ne ragiona Mario Pagano:
«Quello che viene occupato, posseduto ed ingombro dal nostro corpo è pur nostro, perché ivi si estende la nostra fisica potenza, e morale benanche. Quell’aria che respiriamo, e ch’ebbe eziandio, sotto la tirannide de' greci imperatori, a riscattare con un dazio l’avvilito mortale; quella porzione di terra che premiamo col piede, la quale è solo retaggio di gran moltitudine d’uomini; quello spazio cui riempie il nostro corpo, il quale neppure ci si toglie con la vita stessa, è così nostro come le proprie membra. Quei prodotti della terra che, per sostenimento della nostra vita occupa la nostra mano, per la medesima ragione sono nostri, che della pianta sono non solamente il tronco, i rami, le radici, il suolo ove quelle vengono confinate, ma ben’anche quel nutrimento, quell'umore, quei succhi, che beono le sue radici, e servono al conservamento suo.
«Ma come poi si appropria un uomo solo quelle ampie foreste, quegl'immensi campi che non misura il suo piede, la mano sua non occupa, e neppur signoreggia lo sguardo?
«La natura un patrimonio comune ha conceduto agli uomini tutti, ha legato loro un’ampia eredità, la quale è questa terra, dal cui seno prodotti gli ha, e nel seno della quale, gli ha piantati e radicati. Come alle piante per nutrirsi ha dato le radici, cosi le mani all'uomo per estendere la sua forza sul retaggio comune, e far proprio ciò che alla sua sussistenza faccia d’uopo. Ma queste naturali potenze dirette dalla sua sensibilità, e svilupate dalla sua mano, hanno un termine ed un confine, tra il quale quando esse sono racchiuse, divengono morali potenze, e diritti originali dell’eterna immutabile legge delle l'ordine.
«E quali sono mai questi confini, e quali gli stabiliti scopi? I limiti delle azioni sono, come si è detto, dalle reazioni degli altri essere circoscritti. Quando l’essere dalla sua sfera uscendo invade ed occupa lo spazio e la sfera d’un altro, quello reagisce e riurta, e nella propria situazione lo ripone. Quando un corpo vuol penetrare nell'altro, cioè passare in» quella parte dello spazio occupato da quella, ritrova la resistenza che impenetrabilità diciamo, prova la reazione, o se mai persiste nello sforzo di compenetrarvi, vien finalmente distrutto. Così se tu mortale, distendi la tua mano e la tua forza di là dei con» fini che ti segnò natura, se occupi dei prodotti della terra tanto che ne siano offesi gli altri esseri tuoi simili, e manchi loro la sussistenza, tu proverai il riurto; il tuo delitto è l’invasione, il violamento dell’ordine; la tua pena è la tua distruzione»
Così i fatti, la ragione, l’autorità d accordo protestano e dichiarano il diritto di proprietà la causa dei mali, alla cui piena indarno la società oppone argini e serragli. Egli è cosa mostruosa scorgere la proprietà del frutto dei proprii lavori, non solo non protetta dalle leggi, ma annullata, manomessa, in vantaggio dell'usurpazione dichiarata proprietà sacra ed inviolabile. Si garantisce la proprietà, e più tosto che violarla si lasciano migliaia d'infelici perire nella miseria; ma non proteggono le leggi il frutto de' lavori d’un operaio, i sudori di un contadino, contro l’usura e l’avidità dei capitalisti e dei proprietarii. È dichiarato assassino colui che uccide per rapire un pane necessario alla sua esistenza; uomo onesto chi, divorando il vitto sufficiente a dieci famiglie, lascia che queste periscano d’inedia. E ciò avviene in nome della giustizia; prova evidente che essa altro non è che una parola, il cui significato cangia al cangiar dei rapporti sociali: quello che oggi dicesi giusto, i posteri lo vedranno con l'orrore mede' simo che noi riguardiamo il diritto di vita e di morte che accordavasi al padrone sugli schiavi. Il frutto del proprio lavoro garantito; tutt’altra proprietà non solo abolita, ma dalle leggi fulminata come il furto, dovrà essere la chiave del nuovo edifizio sociale. È ormai tempo di porre ad esecuzione la solenne sentenza, che la natura ha pronunciato per la bocca di Mario Pagano: la distruzione di chi usurpa.
X. «L’essere senziente, scrive il Romagnosi, nel sentire, non può mai uscire da sé medesimo. Egli non può sentire che con la propria sensibilità, non può sentire che il proprio piacere o dolore; non può amare o odiare che in sé e per sé; agire cogli altri, ed a pro degli altri, o contro gli altri ma per sé,... Avviene che l’amor proprio d’ognuno trasportato inscietà è un centro d? attrazione. che tende ad appropriarsi il maggior numero di beni, e di servizii; e» per sé solo opera anche quando agisce a pro d'altrui, benché di ciò egli per avventura non si avvegga».
Ecco in poche parole messa a nudo l'umana natura, trovata la cagione di ogni speranza, d’ogni pensiero, d'ogni atto: ricercare il piacere, fuggire il dolore; piaceri e dolori, che secondo l'indole dell’uomo ed i rapporti sociali variano in mille guise, dall'epicureo che cerca il godimento nell’ozio e nella crapula, a Bruno, che preferisce il rogo al dolore di rinnegare le proprie dottrine. Ogni atto è preceduto dalla volontà, e la determinazione di essa è un effetto relativo e proporzionale alla specie ed all’energia de' moventi, che si riscontrano nel mondo esteriore. Una grande efficacia in questi motivi, esercitata in un individuo d’un’indole capace a sentirla, genera le forti passioni, che richieggono fortissima dose d amor proprio. Queste forti passioni formano gli eroi e gli scellerati, i grandi genii nelle scienze e nelle arti, ed i grandi corruttori delle une e delle altre.
In una società in cui la fama, il potere, le ricchezze.... non possono sperarsi che dalla guerra, o dal bene operato a pro del pubblico, nascono gli Scevola, gli Attilii, i Curzii. «Chi più di loro, esclama Filangieri, fu agitato da una forte passione, chi più di loro amò per conseguenza sé stesso, chi più di loro servì la società e la patria!» Se poi un governo si farà il distributore di onori, di ricchezze e di ogni altro bene sociale, tutti gli sforzi degl'individui saranno rivolti, non già a guadagnarsi il pubblico plauso, ma le grazie di questo governo: quindi cortigiani, adulatori, sicari; e quanto più l’indole della nazione sarà capace di forti passioni, tanto più impudenti e tiranni saranno i satelliti, che si stringono intorno a questo centro, usurpatore degli universali diritti. Quel popolo, che durante il suo splendore sarà stato ricco d’eroi, nella sua decadenza i seidi avrà numerosissimi, e numerosissimi i martiri se comincia ad accennare al suo risorgimento. Per contro, ove tardo è il corso degli umori e le passioni rimesse non vi saranno né eroi né scellerati; all'apogeo come al perigeo tutto sarà pedestre e volgare.
La virtù ed il vizio adunque, nulla hanno d’assoluto; lo loro sede non è nell'uomo ma nella società; i significati di queste parole cangiano al cangiar degli ordini sociali. Infatti, facendo astrazione della società, le virtù ed i vizii spariscono, l’uomo isolato non ha che due qualità; forza ed astuzia. Marco Bruto vicino a morte esclamò: Oh virtù, tu non sei che un nome, io ti seguiva come fossi cosa; ma tu sottostavi alla fortuna. Ingannavasi Bruto: essa non sottostava alla fortuna, ma ai tempi. L’antica Soma riverberava nel suo cuore le virtù già tramontate all'epoca di sua vita: esse erano sentite dall’universale come l’ultima e debole vibrazione di un suono che muore; alle virtù de' Bruti erano successe le virtù de' Cesari a cui la società destinava il trionfo.
Queste leggi magistrali della natura, svolte da Vico, da Beccaria, da Pagano, da Filangieri, da Romagnosi e dagli altri filosofi italiani non imbastarditi dall'eclettismo d’oltremonte, sono l'ordito su cui debbono adattarsi gli ordinamenti sociali, sono i veri che debbono dar norma a tutte le istituzioni; e noi su tali principii baseremo il ragionamento che segue.
Il fine che si propone la società nel costituirsi, altro non dovrebb’essere che assicurare il pieno e libero sviluppo di queste leggi, facendole tutte concorrere al pubblico bene. Se esse vengono violate o interdette nella benché minima parte, l’opera non solo è tirannica, ma stolta, perché invano combattesi contro le forze della natura.
Da questo vero il principio d’autorità viene completamente distrutto; chiunque vuole insegnarmi la virtù, o costringermi a seguirla, è un impostore o un tiranno; un impostore se a convalidare le sue dottrine chiama in aiuto il misticismo, un tiranno se ricorre alla forza, e se non giovasi, o non può giovarsi di alcuno di questi due mezzi. Le dottrine de' pitagorici, quelle di Platone, il manuale d’Epiteto, la morale del Vangelo, non hanno per tanti secoli non dico modificata, ma neanche scossa l’umana natura; gli uomini usando diverse parole hanno sempre operato nel modo medesimo. Il Vangelo, non solo ha predicato la fratellanza e la mansuetudine, minacciando le pene dell'inferno, ma ha ricorso alla spada, ai tormenti, al rogo... e che cosa ha ottenuto con tali mezzi? Ha costretto la natura umana che sempre ubbidì alle medesime leggi, a covrirsi con la maschera dell'ipocrisia. Invano verrà inculcato l’amor di patria ove la patria non dona che miserie e stenti; né vi sarà bisogno inculcarlo quando la felicità del cittadino dipenderà dalla grandezza e prosperità di essa. A che predicherete l’amore della gloria, il disprezzo delle ricchezze, in una società ove, non curata la fama, potentissimo è l’oro? E se i beni maggiori saranno conseguenza della fama e delle virtù, tale dottrina non avrà bisogno di apostoli. Concludiamo, che il pubblico costume, assolutamente indipendente dalle dottrine, dalla fede, dalle pene, scaturisce immediatamente dai rapporti e dagli ordini sociali; voler cangiare i costumi, senza cangiar questi è impossibile, quindi: un governo regolatore de' costumi è la più stupida ed assurda tirannide che mai uomo possa immaginare.
L’origine del governo fu il dominio eroico de' forti, sui deboli. Le prime leggi, l’arbitrio di quelli, in seguito trasformaronsi in consuetudini. I famuli resi potenti per numero, impedirono i nuovi arbitrii, obbligarono i forti a sottomettersi alla ragione storica, a rispettare le consuetudini, le quali furono, perciò, il rudimento del patto comune, del codice. Questo patto, comunque modificato, non ha potuto, né potrà mai librare su giusta lance i diritti di tutti: imperciocché trae origine dalla violenza e dall’usurpazione, e dovrà esservi sempre qualche parte che preponderi, qualche altra che minacci reazione. A mantenere nella società questo labile equilibrio, ebbesi uopo del governo, che può definirsi l’ostacolo allo sviluppo delle leggi naturali, il sostegno de' privilegii. Ma se ogni privilegio cessasse, se i diritti risultassero dai rapporti reali e necessarii delle cose, il dovere diverrebbe un bisogno; l'uomo non servirebbe più al? uomo ma, come scrive Romagnosi, solamente alla necessità della natura, ed al proprio meglio. In altri termini il Filangieri esprime l'opinione medesima: «L’uomo non può essere felice, dic’egli, senza esser libero. L’uomo non può essere felice senza convivere coi suoi simili. L’uomo non può convivere co’ suoi simili senza governo e senza leggi. Dunque per essere felice deve esser libero e indipendente. Ma il dovere senza la volontà esclude la libertà; la volontà senza il dovere esclude la dipendenza. Il nesso che unisce queste due opposte condizioni non può essere che, la volontà di far ciò che si deve». Quindi la società costituita ne’ suoi reali e necessarii rapporti, esclude ogni idea di governo, e come ben equilibrato edilizio regge da sé, senza aver bisogno di fasciature o di rinfianchi. Questi principii de' nostri padri ora cominciano a discutersi eziandio in Francia; ivi esclama Proudhon: «chiunque mette la mano su di me per governarmi, è un usurpatore, un tiranno, io lo dichiaro mio nemico...»; ed altrove: «chi siete voi per sostituire la vostra saggezza di un quarto d’ora, alla ragione eterna ed universale!»
Ciascuno nasce con speciali attitudini ed inclinazioni, ed una società ben costituita dovrebbe offrire ad ogni individuo i mezzi onde soddisfar queste ed utilizzar quelle, e così, seguendo l’uomo la propria volontà ed il proprio utile, seconderà la volontà collettiva e l’utile pubblico. Derogare a questa legge e costringere l’uomo ad un lavoro forzato è una tirannide. Quindi il governo, che lo abbiamo trovato assurdo e tirannico, tanto come correttor di costumi, quanto come sostegno del patto sociale, come educatore è inutile; l’educazione altro non deve essere, che una legge generale, con la quale pongansi a disposizione d’ogni cittadino, onde facilitare lo sviluppo delle sue facoltà fisiche e morali, tutti i mezzi di cui dispone la società.
Ma ancora più innanzi vanno i mali, che, senza utile veruno, sgorgano inevitabilmente dal governo. Se ad esso non concedansi né altra forza, né altri mezzi onde esercitare il potere, se non quelli che potrà trarre dall’universale appoggio, che i cittadini darebbero ai suoi atti, credendoli giusti, ne risulterà un governo inutile e ridicolo: lo si vedrà darsi cura di educazione, di costumi, di patto sociale; fatti, i quali risultano e si sostengono in forza de' rapporti medesimi delle cose, che esso, privo di forza, non potrà menomamente modificare; epperò quanto più operoso, tanto più sarà ridicolo; se poi gli concederete forza materiale, e lo farete distributore di cariche, di premii, di onori, allora cominciano i perigli per la società. Colui o coloro nelle cui mani verrà affidato il maestrato supremo, come nel precedente capitolo dicemmo, dovranno, perché uomini, soggiacere all'impero delle passioni e delle loro imperfezioni fisiche e morali: quindi il giudizio e le determinazioni di questo governo dovranno, senza dubbio, trovarsi in disaccordo coi giudizii e le determinazioni del pubblico, che, essendo la media di tutti i giudizii e le determinazioni individuali, resta scevra da tali influenze. Dichiarare un governo rappresentante la pubblica opinione e la pubblica volontà, è lo stesso che dichiarare una parte rappresentante del tutto. Inoltre, l’uomo per sua natura sdegna i rivali e l’opposizione, e gli amici del governo non saranno certamente coloro, che manifestano i suoi errori, che contrastano la sua opinione, ma bensì quei che lo piaggiano; gli oppositori saranno occultamente odiati, e, se lo si potrà impunemente, oppressi; negarlo è un disconoscere l’umana natura, è negare la storia, negare i fatti che tuttodì si riproducono; quindi questo governo sarà sempre un’ulcera che tende a spandere la cancrena sull’intera società.
Se, cessando dal ragionare, ci faremo a scendere nel fondo della nostra coscienza, ad interrogare l’intimo nostro sentimento, vi troveremo la condanna d'ogni governo. Quella complicazione di ruote, aggiunte alla macchina sociale, per tutelarsi contro l’usurpazione e la tirannide de' governanti, ha già fatto pessima prova; senza impedire i mali, li accresce, e rende il procedere lento ed incerto. La pubblica opinione è affatto cangiata su tale riguardo; ognuno, nei tempi passati, sforzavasi ad aggiungere qualche pezzo alla macchina, o come regolatore, o come moderatore, mentre ora, per contro, tendesi alla semplificazione, il cui ultimo termine è l’anarchia, ove l’umano intelletto s’accheterà. I propugnatori de' governi forti fanno fine ad ogni loro diceria, ad ogni loro ragionamento, col proporre le misure da cui eglino sperano la pubblica felicità; ed il convincimento che riscontrasi in ogni individuo, che i soli provvedimenti per reggere con successo la cosa pubblica, son quelli che egli nasconde nel proprio cuore, è la condanna la più aperta d’ogni forma di governo.
Da quanto esponemmo possiamo desumere, che le numerose esperienze registrate dalla storia, che nelle leggi regolatrici della natura trovano piena conferma, additano come terribili sorgenti di male, come ostacoli all'umana felicità, come scogli di sicuro naufragio, il diritto di proprietà ed il governo. Ma come la società, diranno molti, priva di questi mali, potrà reggere? Cosa verrà ad essi sostituito? Non sono questioni che deve farsi il rivoluzionario, né che si fanno le moltitudini. Quello addita la causa dei mali, gli ostacoli al bene pubblico; queste irrompono come marosi mugghianti e li rovesciano. La società, come le acque che tendono sempre a livellarsi, riprenderà da sé l'equilibrio; egli è strano pretendere che un uomo dia conto di ciò che l’universale volontà potrà compiere. Nondimeno, dalle leggi stesse naturali ed eterne, che ci hanno condotti a queste conclusioni, emergono alcuni principii inconcussi, che violati in tutto o in parte dalle varie società antiche. e moderne, sono state e saranno la ragione di loro mina; questi principii, che ora verremo svolgendo, sono superiori ai diritti de' popoli, e sono gl’incastri fra' quali l’umanità, dopo tante penose oscillazioni, verrà ad assettarsi.
XI. La natura avendo concesso a tutti gli uomini i medesimi organi, le medesime sensazioni, i medesimi bisogni, li ha dichiarati eguali, ed ha, con tal fatto, concesso loro uguale diritto al godimento dei beni, che essa produce. Come del pari, avendo creato ogni uomo capace di provvedere alla propria esistenza, lo ha dichiarato indipendente e libero.
I bisogni sono i soli limiti naturali della libertà ed indipendenza; quindi, se all'uomo si facilitano i mezzi a soddisfarli, la libertà ed indipendenza è più completa. L’uomo s’associa onde più facilmente soddisfare ai suoi bisogni, ovvero ampliare la sfera in cui si esercitano le sue facoltà, e conseguire libertà ed indipendenza maggiore: epperò ogni rapporto sociale che tende a mutilare questi due attributi dell'uomo, non ha potuto, perché contro natura, contro il fine che si propone la società, stabilirsi volontariamente, ma dovette subirsi a forza; esso non può esser l’effetto di libera associazione, ma di conquista o d’errore. Dunque ogni contratto, in cui una delle parti, dalla fame o dalla forza, viene costretta ad accettarlo e mantenerlo, è violazione manifesta delle leggi di natura; ogni contratto dovrà perciò dichiararsi annullato di fatto, appena mancagli il liberissimo consenso delle due parti contrattanti. Da queste leggi eterne ed incontrastabili. che debbono essere la base del patto sociale, emergono i seguenti principii, i quali riassumono l’intera rivoluzione economica:
1° Ogni individuo ha il diritto di godere di tutti i mezzi materiali, di cui dispone la società, onde dar pieno sviluppo alle sue facoltà fisiche e morali.
2° Oggetto principale del patto sociale, il guarentire ad ognuno la libertà assoluta.
3.° Indipendenza assoluta di vita, ovvero completa proprietà del proprio essere, epperò;
a) L’ usufruttuazione dell’uomo all’uomo abolita;
b) Abolizione d’ogni contratto ove non siavi pieno consenso delle parti contraenti;
c) Godimento de' mezzi materiali, indispensabili al lavoro, con cui deve provvedersi alla propria esistenza;
d) Il frutto de' proprii lavori sacro ed inviolabile.
Determinata con tre principii fondamentali la rivoluzione economica, passeremo alla politica.
I bisogni sono i limiti della libertà ed indipendenza. Questa legge è innegabile ed universalmente sentita. Ogni altra legge o principio, non sentito ma predicato, non può essere altro che impostura di qualche scaltro che tenda profittare dell'altrui semplicità, ovvero effetto dell’ignoranza di chi predica e di chi ascolta, e la gerarchia, che viola direttamente libertà ed indipendenza, è contro natura.
La sovranità risiede nella nazione intera. Gli atti di ogni uomo sono proporzionati e conseguenza della facoltà di sentire,, variabile in ogni individuo; del pari, gli atti della sovranità sono proporzionati e conseguenza della media fra tutte le facoltà di sentire de' varii individui che la compongono: media in cui son distrutte tutte le particolari influenze alle quali ogni essere più o meno soggiace: la sovranità è il senso comune, ovvero, come dice Vico, quel giudizio, che senz’alcuna riflessione viene comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutto il genere umano, ed il delegarla è un assurdo, come sarebbe quello di delegare la propria sensibilità; essa è inalienabile, risiede nell’intera nazione, né mai può essere legittimamente rappresentata da una parte di essa. Le leggi di natura, sotto pena di gravissimi mali, proibiscono il comandare del pari che l’ubbidire. Un popolo, che per esistere più facilmente delega la propria sovranità, opera come uno, che, per meglio correre, legasi gambe e braccia. Da queste verità emergono i seguenti principii, che fanno seguito à quelli già stabiliti.
4° Le gerarchie, l’autorità, violazione manifesta delle leggi di natura, vanno abolite. La piramide — Dio, il re, i migliori, la plebe — adeguata alla base.
5° Come ogni italiano non può essere che libero ed indipendente, del pari dovrà esserlo ogni comune. Come è assurda la gerarchia fra gl’individui, lo è fra i comuni. Ogni comune non può essere che una libera associazione d’individui, e la nazione una libera associazione dei comuni.
Intanto molti ostacoli materiali e morali vietano in molte occorrenze le funzioni della sovranità. I principii stabiliti, conseguenza delle leggi di natura, non sono che il primo ordito degli ordini sociali e non bastano: bisogna discendere a determinare i vani rapporti che dovranno essere d’accordo con essi. In questa laboriosa ricerca, la nostra natura, vinta dal costume, e, smarrita nel suo corso, ad ogni passo cade nell’errore; quindi richiedesi una continuità d’attenzione, una serie di ragionamenti, cose per le moltitudini impossibili, e soventi mancherebbe il luogo e il tempo, onde far agio a si numerosa assemblea di riunirsi e deliberare.
Cotesti lavori sono da individui, ed uno solo dev’essere dichiarato legislatore. Inoltre, è una verità dimostrata all'evidenza da Romagnosi, che il giudizio di tutti i savii del mondo’ può essere erroneo nel sindacare il lavoro compito da un solo; quindi un congresso di delegati del popolo avrebbe l’incumbenza, non già di svolgere, di sopraccaricare di clausole ed emendamenti le leggi proposte, ma solo di verificare scrupolosamente se i principii immutabili, dichiarati base del patto sociale, vengano in qualche parte lesi da queste leggi. Fatto ciò pubblicarle; né può andar più innanzi il potere del legislatore e del congresso; la nazione le adotterà se vorrà, e quando vorrà, non avendo il diritto di concedere ad uno o a pochi il potere d’impor le leggi: l’attuazione di esse è atto della sovranità, e la sovranità non può delegarsi. I concetti di un individuo possono definirsi i pensieri della nazione; è il modo di cui essa si vale a manifestare il suo concetto collettivo. Per la ragione medesima, che la sovranità non può abdicarsi o trasmettersi, non potrà determinarsi la durata delle funzioni del legislatore e del congresso; esse cesseranno, appena la nazione il vorrà; e la volontà del mandante dovendo costituire la legge del mandatario, ogni deputato non può essere che sempre revocabile da' suoi elettori. L’imporsi per un dato tempo un governo o un’assemblea, è un assurdo, come lo è per un individuo il costringersi con un voto. È lo stesso che dichiarare la volontà e la determinazione di un momento arbitra e tiranna della volontà che progressivamente può manifestarsi in avvenire. Di qui i principii che seguono.
6° Le leggi non possono imporsi, ma proporsi alla nazione.
7° I mandatarii sono sempre revocabili dai mandanti.
Di più la natura stessa, che ha creato l’uomo indipendente e libero, ha dotato ogni individuo di attitudini speciali: d’onde la potenza del lavoro collettivo, la sociabilità. Coteste attitudini sono quelle appunto che, nelle varie operazioni della vita, costituiscono la diversità delle incumbenze. Dichiarare un’incumbenza più nobile che un’altra è un assurdo degno di una società che ha vanità e privilegio per base. «Ma qual si è l’arte vile, esclama Mario Pagano, quando ella giova alla società? vile è l’opinione degli uomini,» che avvilisce gli utili mestieri». Ed è eziandio assurdo dichiarare una funzione più che un’altra faticosa; la meno faticosa è quella che meglio armonizzi con le proprie attitudini ed inclinazioni, epperò esse solamente debbono dar norma alla distribuzione delle varie cariche e mestieri che nella società si riscontrano.
In tutte le varie operazioni dell’intera società o di un nucleo qualunque di cittadini, sono indispensabili gli ordini, e la distribuzione delle funzioni; egli è impossibile operare tumultuariamente. Ciò deve aver luogo nelle grandi, come nelle piccole cose, tanto nella guerra e nella pubblica amministrazione, come in qualunque altra speculazione o industria. A conservare illesa la sovranità nazionale, nel caso che una parte di cittadini debba compiere un’impresa che riguarda l’intera società, due condizioni si richieggono, cioè: che l’impresa da eseguirsi e gli ordini d'adottarsi siano il risultamento della volontà nazionale, il che emerge di fatto dai principii 6.° e 7.°; e che la distribuzione delle varie funzioni fra quel nucleo di cittadini operanti venga fatta da que’ cittadini medesimi. Se la nazione volesse indicare i capi che debbono dirigerli, violerebbe manifestamente la libera associazione. Quindi i principii seguenti:
8° Ogni funzionario non potrà che essere eletto dal popolo, e sarà sempre dal popolo revocabile.
9° Qualunque nucleo di cittadini i quali sieno dalla società destinati a compiere una speciale missione, hanno il diritto di distribuirsi eglino medesimi le varie funzioni, ed eleggersi i proprii capi. Finalmente l’uomo, facendo parte di una società, è immedesimato con essa; e questa società proponendosi come fine principale non solo di guarentire, ma di ampliare quanto più sia possibile la libertà ed indipendenza individuale, ed ogni offesa di individuo riducendosi alla violazione di questi due attributi, ne segue che le offese private debbono tutte considerarsi come offese pubbliche; ogni misfatto, ogni delitto, ogni errore offende direttamente l’intera società, la quale giusta il tacito patto che ha con ognuno de' suoi membri, ha il dovere di vendicare l’offeso, e con l’esempio contenere i male intenzionati; e questo dovere della società, per la natura medesima dell’uomo, portato a vendicare altrui a tutela di sé medesimo, diventa, come dice Romagnosi, contro-spinta, ma non già criminosa; imperocché l’urtato ha il diritto di riurtare, ed il riurto risulta, evitando la riproduzione del delitto utile. Se poi ci faremo a considerare come ogni delitto trovi la cagione promotrice negli ordini sociali, o nell’indole dell’individuo, dovremo conchiuderne che il patto sociale debba esser volto a rimuovere le cagioni del delinquere ed all’educazione dei colpevoli, onde non venga distrutto dalla società medesima uno de' suoi membri.
Egli è indubitato che le leggi scritte, invariabili, fra il continuo mutar dei tempi e dei costumi riescono, in alcune epoche, soverchiamente rigide, e troppo forte il loro contrasto con la pubblica opinione; quindi l’utile della giurisprudenza, che cerca rammorbidirle ed adottarle ai tempi. Ma se riesce soverchiamente duro il non. lasciare al giudice altra facoltà, se non quella di pronunciare la sua sentenza, dietro il sillogismo prescritto dal Beccaria, è cosa egualmente perigliosa il dar luogo alla giurisprudenza, che conduce all'arbitrio. Come evitare entrambi questi inconvenienti che risultano dall’ordine stesso sociale, dallo svolgersi e modificarsi dei rapporti? rimandate il reo ai suoi giudici naturali, al popolo. Le leggi scritte siano di norma, e non d’altro; le decisioni del popolo superiori ad ogni legge. Potrà il popolo eleggere dal suo seno alcuni cittadini e costituirli giudici; ma i giudizii di questi saranno sempre annullati dalla volontà collettiva, a cui deve riconoscersi come diritto inalienabile,inerente alla sua natura, alla sua sovranità, la decisione suprema di ogni contesa. Così non potrà più avvenire, che vengano inflitte punizioni contraddittorie alla pubblica opinione ed ai tempi; così avverrà che le leggi seguiranno lo svolgersi ed il mutare dei costumi, né mai questi verranno in lotta accanita o sanguinosa con esse. Adunque:
10° La sentenza del popolo è superiore ad ogni legge, ad ogni maestrato. Chiunque credesi mal giudicato può appellarsi al popolo.
E così prendendo le mosse da due semplicissime ed incontrastabili verità: 1(a) L’ uomo è creato indipendente e libero, e solo i bisogni sono assegnati come limiti a questi attributi. 2(a) Per allontanare da sé questi limiti, a rendere sempre più ampia la sfera di sua attività H uomo si associa epperò la società non può, senza mancare al proprio scopo, ledere in minima parte gli attributi dell'uomo; siamo stati condotti alla dichiarazione di dieci principii fondamentali, de' quali un solo che non venga rigorosamente osservato, la libertà e l’indipendenza saranno violate. Dunque ogni contratto sociale, volto, non già a confermare l'usurpazione di una classe, ma la felicità dell’intera nazione, deve aver come base questi principii.
XII. Pria di procedere più innanzi, rileva rammentare per sommi capi quello di cui sino ad ora discorremmo in questo saggio. Ragionando del progresso abbiamo scorto come le società tendono nelle varie loro evoluzioni ad assettarsi fra le leggi naturali, e quando, per errore dell’istinto, per disaccordo del sentimento con la ragione, se ne allontanano, esse rapidamente declinano.
Indi osservammo, come lo scambio facilissimo delle idee e dei prodotti, abbia fatto di tutt’Europa un popolo di costumi, di leggi, di propensioni quasi uniformi; e noi abbracciandolo nel suo insieme ne siamo venuti scrutando le tendenze, si economiche che politiche. Il continuo aumento del prodotto sociale, il restringersi il numero de' possessori di esso, il crescere incessante dei miseri e della miseria, sono cose evidenti, innegabili; e quindi i mali, la necessità di migliorare, la reazione de' miseri, contro i pochissimi ricchi, certa, immancabile. Quinci, sotto varie cagioni mascherato il connubio dei pochi agiati co’ despoti; e ad ogni minaccia, ad ogni rivolgimento, crescere le milizie perpetue, solo argine contro la numerosa plebe, e da questa lotta emergere indubitamente il despotismo militare, o il trionfo della democrazia, l’uno seguito dalla licenza e dalla dissoluzione, l’altro dal rinnovamento sociale. Altra alternativa non v’è.
Incerti, ci siamo fatti a cercare quale delle due soluzioni fosse la più probabile. L’atteggiamento, i tentativi, il cupo premere del proletario, fanno fede che la sua fibra è rozza, non flacida; l’elatere n’è compresso, ma non spento; quindi havvi speme di vita. Il soldato che lo fronteggia non è pretoriano, non avventuriere, ma proletario anch'esso, affatturato da magica forza, che lo costringe a sacrificare sé medesimo in sostegno delle proprie catene e di quelle de' suoi eguali, epperò la speme che la sua ottenebrata mentre possa balenare per un istante; e ciò basterebbe alla società per risorgere. Questi incerti e pallidi raggi di luce ci sembrarono fulgidi, scorgendosi quasi nunzi del nuovo giorno la splendida pleiade de' socialisti, la tendenza delle moltitudini all'associazione, la preponderanza, che giornalmente il concetto sociale acquista sul politico. Ristorato l’animo, ci siamo ristretti all’Italia solamente.
Abbiamo fatto studio sulle varie questioni politiche, che si agitano in seno della nostra patria, e dimostrammo quanto vana ed inutile sarebbe la loro soluzione, se non si sbarbicassero le due cagioni da cui la miseria, la schiavitù, la corruzione irraggiano, proprietà e governo. In ultimo abbiamo stabiliti dieci principii, conseguenza immediata delle leggi di natura come base del futuro contratto sociale. Ora non verremo esponendo un sistema, proponendo ordini, promettendo felicità, né esorteremo con gonfie declamazioni gli italiani alla concordia o alla battaglia. Studieremo le forze che operano nel seno della nazione, ne cercheremo l’intensità, la direzione, la risultante, onde conoscere cosa l’Italia sarà, non già cosa i partiti vogliono che essa sia. Epperò cominceremo dall’esaminare quale sia lo stato dell’Italia relativamente alle altre nazioni dell’Europa.
XIII. Il volgo, il quale senza esaminare minutamente le cose, giudica dalla fallace apparenza di esse, considera la Francia e l’Inghilterra come le due nazioni, dalle quali debbono partire gli impulsi, che sospingeranno i popoli ad un migliore avvenire: quasiché la rigenerazione politica-sociale dipendesse dal progresso industriale di esse. Per non dilungarci soverchiamente su tale argomento, e perché cotesta missione rigeneratrice si attribuisce alla Francia più che all'Inghilterra, noi faremo paragone fra la prima di queste due nazioni e l’Italia. La rivoluzione francese del 1789 fu una grandiosa esperienza, che mise a nudo la poca importanza delle varie forme di governo relativamente ai mali che la società, ammiseriscono. Coloro che governarono quella rivoluzione, cercarono guarentire la libertà, proponendosi a modello Grecia e Roma, e mostrarono ignorare affatto quelle storie. Se con maggiore oculatezza avessero cercato le cagioni di quello splendore, le avrebbero scorte ne’ rapporti sociali, nello stato economico di que’ popoli, per cui legavasi strettamente l’utile pubblico al privato; ed in quelle forme di governo, credute origine d’ogni bene, avrebbero riscontrato la causa della non tarda ruina di quelle nazioni.
Se avessero fatto studio sui tanti esperimenti che fecero que’ popoli, e tutti invano, per impedire l’usurpazione di chi reggevali; se avessero meditata la storia di un’epoca meno remota, quella degl'italiani del medio evo, che pel loro stato economico, religioso, morale, si rassomigliavano ai francesi più che i greci ai romani, si sarebbero convinti facilmente come sia cosa impossibile limitare l’abuso ed evitare il despotismo, allorché delegasi a pochi la sovranità ed il potere che risiede in tutti, e per sollecitudine delle forme lasciasi sfuggire la sostanza delle cose.
La Francia al novantatré subì l’esperienza medesima, che già avevano subito gli italiani nel medio evo. I nobili, domati dal regio potere, avevano smesse le armi, ed il re aveva vinto un rivale, ma perduto un sostegno. Intanto come in Italia il popolo, combattendo a difesa del papa, conobbe di avere diritti, così in Francia, assumendo la difesa del re, imparò a difendere sé stesso. Parteggiando pel re, egli credette migliorare, ma svincolato dalle strette del feudalismo, videsi abbandonato, privo di mezzi ed appoggi, in una lotta ineguale coi ricchi; sospinto dai suoi dolori rovesciò il trono; in tal modo la rivoluzione si compì, rivoluzione, che, come quella del mille in Italia, fu il trionfo del comune sul medio evo. Agli italiani bastarono sei secoli per cangiare in popolare il barbaro reggimento, ai francesi ne bisognarono quattordici. L unità, l’indipendenza assoluta, le superstizioni del cristianesimo scrollate, il prestigio de nomi caduto, resero, all’estremo, la Francia più maestosa dell’Italia; furono idee, non famiglie, che parteggiarono il popolo. Ma la stessa unità, la minore energia della plebe, lo spirito di libertà poco comune, insomma lo spirito repubblicano, universale in Italia, e difettivo in Francia, e per contro le tradizioni della monarchia fortemente sentite, distrussero in dieci anni tutte quelle conquiste del popolo, che gli italiani conservarono per quattro secoli.
La rivoluzione francese scosse dal loro letargo i popoli d’Europa, ed il governo, che i moderni chiamano rappresentativo, fu la barriera, l’ostacolo che gl’impotenti troni opposero all'esigenze del popolo. Abbiamo parlato abbastanza largamente di una tal forma di governo, quindi non è mestieri ritornare sull'argomento; diremo solo che da tale epoca cominciò a germogliare l’ulcera che minaccia di cancrena l’Europa. Intanto l’industria, il commercio, le scienze progredirono; il secolo XIX venne chiamato il secolo del progresso, ed i dottrinarii credettero, o loro convenne credere, che, sotto tale reggimento si compisse gradamente l’educazione del popolo, navigandosi a vele spiegate verso la libertà; strana aberrazione, o strana menzogna. Il secolo decimonono sarà famoso nei fasti dell'umanità, non già per la servile e codarda schiera dei dottrinanti scaturiti dal suo seno, ma perché in tal epoca il socialismo, d’aspirazione fattosi sentimento ebbe partito, ed avrà attuazione.
La grandezza, la dignità della nazione non va misurata dal numero dei libri che in essa si pubblicano, come la dottrina non è la sola qualità, che determina il conto in cui debba tenersi un individuo. Un dotto, che pone la sua penna a disposizione del maggiore offerente, lambisce la mano che lo sferza, bacia le catene che l’avvincono,' e con facile viltà maledice chi cade, né mai osa di biasimare il potente, non può certamente preferirsi ad un ignorante, che, domo dalla forza, guarda torvo l’oppressore, minaccia ne’ ferri, né lasciasi intimorire dalla spada, né dall'oro corrompere; il primo sarà un uomo culto ma degradato, il secondo rozzo ma pieno del sentimento della propria dignità; nell’uno possiamo rappresentare il basso impero e l’Italia al secolo de' Medici; nell'altro la Roma dei Scevola, e l’Italia del mille; nel primo possiamo scorgere l’odierna Francia, nel secondo l’Italia moderna. Colui che si crea un padrone è schiavo per natura, chi lo subisce non è che disgraziato.
Se i rivolgimenti avvenissero in ragione de' libri, non sarebbe stata la Sicilia la prima ad iniziare l'moti del 48, né la dotta Germania sarebbesi rimasta quasi inerte fra l’universale sconvolgimento. Quali dotti contava la Grecia all’epoca della sua memorabile rivoluzione? Gli Hoche, i Moreau, i Kleber, i Marco Botzari, i Canaris.... eroi da rivoluzione e non già da poltrona, non sono parto di dottrine. Primogeniti di queste sono i Guizot, i Thiers. La probabilità di un rivolgimento è in ragione diretta dei mali che opprimono il popolo e del grado d’energia che esso conserva. Faremo studio su ciò onde discernere se in Italia l’abilità al moto sia minore che in Francia.
In Italia, come in Francia, la vita pubblica è difettiva, non curato l’utile nazionale, a cui viene sempre preposto l’utile privato. La vita pubblica de' moderni consiste nelle geste da romanzo, che la gioventù si propone nel suo esordire; una brillante comparsa, come dicono i Francesi, dans les tourbillons du monde, è l'ambizione de moderni eroi, de' lions, è la gloria che per essi adegua, anzi sorpassa quella de' Scipioni, e de' Marcelli. All'operosità succede il riposo, il lion si trasforma e comparisce nel mondo sotto il carattere d'homme blasé. Il lion ama i rischi del duello, di una corsa a cavallo e... ma si guarda bene dal mischiarsi in politica; se le barricate ingombrano le strade, chiudesi in casa curandosi poco dell’esito della lotta, ed aspetta tranquillo quando les affaires ont repris, per essere richiamato all’azione. Allora si fa di nuovo ad usare in quelle numerose brigate ove lo scambio degli affetti è impossibile, ed in quei teatri ove con mostruosi drammi si tenta invano scuotere la placida e logorata fibra dell'annoiato ascoltante. In Italia i lions, i grandi ridotti, quel genere di produzioni teatrali sono piante esotiche. Ci sforziamo, egli è vero, di affettare i medesimi gusti, e farci imitatori degli oltremontani, ma fortunatamente con pochissimo successo. Quanto ristretto è il numero de' romanzi e dei romanzieri in Italia. E perché? mancano forse gl’ingegni?!... o la favella, come alcuni asseriscono, non prestasi a tali letterarie produzioni? mai no; se esse venissero chieste dalla pubblica opinione, tutte le difficoltà sarebbero superate, né la tirannide le interdice. Ma quello poi che maggiormente ridonda a gloria nostra si è che i pochi romanzi italiani sono quasi tutti di fama imperitura, quasi tutti hanno uno scopo politico, ed i più accreditati fra essi, come l’Assedio di Firenze, Nicolò de' Lapi, Ettore Fieramosca,... suscitando un torrente di affetti patrii, affogano, attutiscono ogni affetto privato.
Il prestigio del fasto è immenso in Francia; in Italia abborrita la pompa. Perciò gradirono i Francesi il brillante corteggio di Bonaparte, più che la semplicità del provvisorio del 48, e di Cavaignac. In Italia, per contro, il modesto vivere di Mazzini e di Manin riscossero plauso ed universale simpatia.
La superstizione religiosa, in Italia come in Francia, non esiste che fra le donnicciuole; la religione è ridotta ad atti esterni, è una abitudine, non già un sentimento; e sentimento religioso vi fosse ancora al giorno d’oggi, la sua sede sarebbe in Francia e non già in Italia. Proudhon rinnegava la storia scrivendo Le bigot italien; egli non rammenta vasi come i francesi, da Carlo Magno, sono stati sempre i difensori del papa, non per ragione di stato, ma per fanatismo; ed i nemici de' pontefici sono stati e sono gl’italiani, ai quali è riserbato d’inaugurare il trionfo su tutte le idee religiose.
Si eccettui il Piemonte, in cui, per soverchia docilità del popolo, il reggimento costituzionale dura, nelle altre parti d’Italia non ha potuto gettare le sue barbe; la violenza, la corruzione non sono bastate in Napoli, in Roma, in Toscana ad ottenere una camera suddita del ministero. Troverete in queste provincie satelliti efferrati ed impudenti della tirannide, ma quei trafficanti in politica, pronti ad inchinarsi ai fatti compiuti, non esistono, feccia e non cima di società, come essi si compiacciono credere; in Napoli sonovi i Windishgratz e gli Haynau, ma invano si cercano i Magnan, i Saint-Arnaud, i Maupas... Gli ex-triumviri, gli ex-ministri, gli ex-generali italiani vivono tutti nella indigenza, mentre non trovasi in Francia, un ex-impiegato, che non abbia sa petite fortune.
Secondo il proprio stato, i proprii bisogni, le proprie inclinazioni producono le nazioni gli uomini che le rappresentano, e viceversa dal carattere di questi uomini potrà inferirsi lo stato in cui esse si trovano. E se non volesse considerarsi come passaggiero il presente stato della Francia, in vedendola padroneggiata dai Guizot, da' Magnan, da' Saint-Arnaud, da' Bonaparte — bisognerebbe conchiudere, che essa si dissolve, e che le ultime virtù rivoluzionarie sonosi spente con Armand Carrel. In Italia, per contro, si trovano esseri spregevoli; ma non sono che i rappresentanti de' varii governi locali, vicini a ruinare; mentre la nazione intera non onora, non apprezza né costoro, né i dottrinanti che predicano rassegnazione, ma i martiri suoi. Quindi essa è nazione, che sente il peso de' proprii mali, che onora quelli che danno la vita per combatterli, e dal martirio alla battaglia non havvi che un passo.
L’attacco di 170 mila stranieri contro Italia divisa, quasi non bastò per ristabilire il despotismo; essi per vincere hanno dovuto ricorrere eziandio al raggiro ed alla menzogna. Tre battaglie, quattro assedii, sessanta combattimenti, tre città messe a ferro e fuoco, sono i gloriosi monumenti di nostra resistenza; mentre gli esuli, i prigioni, le vittime che muoiono col nome d’Italia sulle labbra sono la nostra continua e gloriosa protesta. Come difese Francia la sua libertà? un pugno di compri francesi, in poche ore, da libera la fanno schiava; e la nazione, ben lungi dal resistere, col suffragio universale sancisce l’usurpazione ed appoggia la spregevole tirannide. Come negare che i rivolgimenti avvenuti in Francia, il 1830, il 48, il due dicembre, sieno l'effetto d una vittoria ottenuta da un ristretto partito in Parigi? Essi somigliano moltissimo alle congiure di palazzo del basso impero, a cui non prendevano veruna parte le popolazioni delle provincie; mentre in Italia, non v'è movimento che non trovi un eco in tutte le valli dell’appennino.
Tre volte nel breve spazio di cinquanta anni, la Francia è stata arbitra de' suoi destini, tre volte da sé medesima si è foggiata le catene, mentre, se non vi fosse stato intervento straniero, l’Italia, forse, sarebbe libera da molto tempo. I gusti adunque, i costumi, i fatti la dimostrano meno indifferente a' suoi mali, meno degradata che Francia; quindi maggiore probabilità di risorgere, accresciuta eziandio dal desiderio ardente, che sente ogni italiano, di conquistare la propria nazionalità, efficace movente di cui difettano i francesi, perché credono possederla.
Esaminate le forze che sospingono al moto, ci faremo a studiare quelle che resistono. La nobiltà, la borghesia, i preti, gli impiegati d’ogni genere, un forte e numeroso esercito, sono una base di granito, che in Francia sorregge ogni genere di despotismo; ma ove sono queste forze in Italia? La più famosa nobiltà italiana, la vera nobiltà feudale venne distrutta al sorgere dei comuni; solo nell’Italia cistiberina durò ancora lungamente, ma fu in continua lotta col trono. Doma da Federigo, riprese vigore per l'avarizia degli Angioini; di nuovo perseguitata dagli Aragonesi, durante il regno del perfido Ferdinando d’Aragona, fece l’ultimo sforzo con la famosa congiura. Dieci Baroni de' più famosi lasciarono la vita sul palco, altri fuggirono, furono occupate le loro castella, disarmato il vassallaggio. I discendenti non ebbero più forza; e per tradizione, e pel continuo cangiare della dinastia regnante essi non furono mai gli amici del re; undici nobili di primo rango perirono nel novantanove come repubblicani; fra questi il formidabile campione della libertà, Ettore Carafa conte di Ruvo. In Piemonte la nobiltà non conta che i fasti di sua docile servitù, nobiltà di secondo rango, perocché i grandi feudatarii si estinsero successivamente, e sulle loro ruine s’innalzò il trono di Casa Savoia. I numerosi titolati, che brulicano nei varii stati d’Italia, sono nobili nuovi, ovvero non nobili (né formano casta), i cui privilegii li lega per utile proprio al trono; sudditi, come il resto de' cittadini, sono regii se percepiscono stipendio, liberali in caso contrario. I veri nobili d’Italia sono i patrizii delle varie repubbliche, ed in primo luogo i veneziani, e cotesta nobiltà potrà essere municipale e non regia. La, borghesia italiana, non solo non sostiene, ma odia i presenti governi, e se non è sollecita al muovere, non avversa i movimenti. I preti, non essendo salariati come in Francia, contano moltissimi liberali, ed anche soldati della libertà. Infine possiamo conchiudere che se togli dall’Italia gli stranieri, l’appoggio dei troni riducesi alla codarda schiera degli impiegati e dei poliziotti.
Solo in Napoli ed in Piemonte havvi un esercito, ma esso non si è mostrato in certe circostanze, inaccessibile alla brama di libertà. Quindi la tirannide non si sostiene che in virtù di forze straniere; aggiungale tradizioni degli italiani repubblicane tutte, quelle dei francesi regie, e potremo senza errore conchiudere che l’esercito conservativo, potentissimo in Francia, in Italia quasi non esiste.
La sola cosa, che in apparenza favorisce la Francia, è lo scorgere, che in essa le idee di riforma sociale sono più generalmente sentite, sono già sorrette sulla bandiera d'un partito. Ma questo partito non è reciso ne suoi concetti e nella sua propaganda; lo stesso Proudhon spera accordare l’utile del proprietario a quello della borghesia; tutti sono, nella pratica, dubbiosi e timidi.
I riformatori, che svolgono le dottrine, foggiano sistemi, altro non fanno che delineare la prima orditura, che stabilire de' principii; un numero ristrettissimo di persone s’inspirano, ne’ loro volumi, e questi volumi possono dirsi un retaggio europeo. Ma nulla apprende il numeroso volgo, ché, eziandio le cose volte a migliorare la sua condizione e minorare la sua fatica non le accetta che stretto dall'estremo bisogno, e non si lascia convincere se non dal fatto. I giornali, i ragionamenti e le corrispondenze pubbliche o private, gli scopi che si propongono, le congiure, le persecuzioni, le vittime, gli avvenimenti, sono quella serie di argomenti per cui le astrazioni de' riformatori divennero concetti popolari. I discorsi di Proudhon all'assemblea, i suoi articoli sul giornale da esso redatto, le lezioni di Louis-Blanc al Lucemburgo, le manifatture nazionali, le barricate del Luglio, hanno formato la propaganda, la quale cominciò a trasfondere nelle masse il socialismo; il popolo forse non ha compreso il significato dell’ordinamento del lavoro, ma sa di essersi battuto per esso, e quindi può non sembrargli strano il ritentare l’impresa.
Il due dicembre ha spaventato ogni partito; tutti avrebbero desiderato far tregua alle contese onde abbattere il nemico comune, i socialisti tacquero ed hanno quasi perduto il terreno che avevano guadagnato. Le dicerie pubblicate dai rivoluzionarii francesi non sono vuote declamazioni. Non si scrutano i varii rapporti, non si dimostra al minuto popolo quale sarebbe l'avvenire, che, volendo, può conquistarsi: coloro sono formalisti e non altro. Tutti, si eccettui Proudhon, persistono nel grave errore di pretendere iniziare le riforme dall'alto al basso; imporle al popolo, e non farle sorgere spontanee dal basso in alto; e siccome ogni caporale di partito credesi il solo atto a praticare le proprie idee, che egli crede le sole vere e giuste, tutti si fanno propugnatori della dittatura, perché ognuno la spera per sé, non per ambizione, ma pour faire le bien dicono i francesi, per educare il popolo, dicono gli italiani; epperò, comecché il moderno socialismo fosse nato in Francia, non è la Francia più innanzi dell'Italia nella pratica di tali dottrine. Inoltre il compimento della sociale riforma deve in Francia superare ostacoli assai maggiori che in Italia, e perché il grande sviluppo dell’industria, accumulando grandi capitali, ha creato potenti e numerose forze che resistono; e perché bisogna ridonare la vitti al comune, spenta affatto dall'unità francese, mentre in Italia essa è latente, ma vigorosa e pronta a svilupparsi. Quindi non solo l'Italia ha in sé probabilità di moto maggiori che la Francia, ma la soluzione del problema sociale è molto più facile ed omogenea all’Italia che alla Francia.
Seguiamo il confronto fra le due nazioni, e cerchiamo discernere per quale delle due, ammesso il moto, è più facile il successo. Parigi è la sola città della Francia ove l'insorgere è possibile; ivi, egli è vero, sono raccolti grandi mezzi di resistenza, ma il popolo parigino è numeroso ed arrischiato, il vacillare delle soldatesche facilissimo in una si grande città; quindi facile la vittoria, che menerà un partito al potere. La Francia pensa ed opera come Parigi; a Carlo X succede Luigi Filippo, a questi la repubblica, poi Cavaignac, Bonaparte, l’impero... ed in tutti questi cangiamenti, solo di nomi, la Francia intera si rimane tranquilla. Cangiano i pubblici funzionarli, più per premiare i partigiani del nuovo potere, che per punire quelli del caduto, pronti sempre ad inchinarsi al vincitore, tanto è cieca la disciplina. Ubbidienza a chi comanda è la formola che regge la Francia intera, il re, il governo provvisorio, il presidente, l’imperatore.... qualunque, infine, sia il nome del potere che siede sovrano a Parigi, esso disporrà arbitrariamente delle forze di tutta la nazione. Fra i moderni, i suoi ordini militari sono ottimi, le schiere istrutte e consumate a fatica, il francese per indole prode e facile all'esaltazione, le tradizioni militari brillanti e recenti, la fiducia nelle proprie forze grandissima, quindi egli è formidabile, rispettato. Dopo l’esempio del 93 nessuna potenza d’Europa attaccherà la Francia per sostenere un partito: anzi tutti gli stati crederanno di avere ottenuta una grande vittoria, se, dopo un rivolgimento, la Francia si rimane nelle sue frontiere. Per essa, adunque, il cangiar forma di governo è un fatto il quale con pochissimo rischio compiesi in pochi giorni. Ma quale è il vantaggio di tali rivolgimenti? sotto altre vesti, forse più luride, il despotismo è permanente.
La forza cade nelle mani di uomini che, parlando libertà, si sostituiscono al despota, ne calcano le orme, ne seguono il sistema, e fannosi scudo, contro i cittadini, di quell'esercito stesso, che pochi istanti prima riguardavano loro nemico. Inesperti nel trattare un tanto terribile strumento di tirannide, ne rivolgono contro loro medesimi le offese; un soldato o il discendente di un soldato, legittimo possessore e vero rappresentante del diritto della forza, impone silenzio al loro importuno garrire, e col piatto della sciabola li caccia ignominiosamente di seggio. Quando dittatura vi è in un paese, questa non può essere che militare, e se tale non la crea la nazione, essa per la natura stessa delle cose tale diventa; sono vani gli ostacoli, i raggiri dei curiali per garantirsi. Di un tal genere di rivolgimenti, cioè ad una fazione sostituirne un’altra al potere, la Francia può compierne uno l’anno; all'Italia sono impossibili. Ci faremo a dimostrarlo.
Non già in una sola città italiana, ma in ognuna d’esse, perché piene di vita municipale, potrebbesi iniziare un movimento, ma con poca speranza di successo. L’Italia intera seguirà l’esempio, ma senza unità; gli uomini nelle cui mani, in ogni regione, verrà affidato il potere, non vorranno sottomettersi gli uni agli altri, ed ogni stato, forse ogni comune, spererà salvezza isolando la propria causa. Ma poniamo il caso, che gli italiani, resi dotti dalle passate vicende, affidassero ad un centro comune la somma delle cose; questo governo unico, a quanti bisogni deve provvedere, e prontamente provvedere? Insorgere e vincere le prime prove non basta agli italiani; essi debbono combattere una delle più formidabili potenze militari, che possiede in Italia una munita e forte base d’operazione, alla quale s’appoggia un numeroso esercito; quindi è forza che, ad onta del difetto di milizie e di armi, un esercito italiano sorga in un baleno numeroso e compatto. Come provvederà il governo?... ricorrerà al terrore? Coloro i quali credono, che un illusorio potere, concesso da pochi ad alcuni uomini, possa far loro abilità di comandare d’un capo all'altro l’Italia, s’ingannano; essi conoscono l’Italia, come può conoscerla un francese o un inglese, i quali giudicano dal proprio l’altrui paese.
La formola ubbidienza a chi comanda, che ora regge la Francia resse eziandio l’Italia, nel secolo passato e ne’ due precedenti; ma il concetto del risorgimento italiano, fatto sentimento, dal quattordici, cangiolla. Il costume che ora dalle Alpi al Lilibeo hanno i popoli italiani, è, sempre che lo possano, resistenza a chi comanda, né esso può cangiarsi in un istante. Il terrore produrrebbe l’immediata reazione, favorevole al nemico già accampato fra noi: le passioni in Italia non sono tiepide; la forza medesima di esse rese gli italiani padroni del mondo, e ne fa un popolo ch'è assai difficile governare. Ed ammessa l'ubbidienza, cosa valgono que’ battaglioni per forza raccolti? Ne’ tumulti ardenti, sono codardi in ordinate battaglie. La Francia stessa, su cui il terrore ebbe grandissimo successo, non ebbe esercito prima del 94; per cinque anni rimase esposta ai colpi nemici, fu salva non già per propria virtù, sì per gli errori di quelli. Ma l'Italia non può sperare tale fortuna; appena qualche mese sarà concesso all’insurrezione italiana, per poi trasformarsi in esercito.
Inutile, inefficace, ruinoso è il terrore in Italia. Quali mezzi rimangono, adunque, agli uomini eletti a governarla in sì difficile emergenza? Uno solo: fare un fervido e continuato invito al paese, e proporre i mezzi come provvedere a tutto; dico proporre, imperocché, non potendo abusare della forza, i comandi non si ridurrebbero che a semplici proposte, il cui risultamento dipenderà dalla volontà del paese, epperò dalle cagioni, che determineranno questa volontà.
L’odio ai presenti governi, bastante ad insorgere, trionfata l’insurrezione, s’ammorza, quindi bisogna suscitare una passione, onde bilanciare i rischi e gli stenti della guerra. Il desiderio di libertà, d’indipendenza, l’amor della patria, hanno forza grandissima nei cuori di quella balda ed intelligente gioventù, che è sempre prima ad affrontare i pericoli delle battaglie, ma essi soli non bastano; l’Italia trionferà quando il contadino cangerà volontariamente la marra col fucile; ora, per lui, onore e patria sono parole che non hanno alcun significato, qualunque sia il risultamento della guerra, la servitù e la miseria lo aspettano. Chi può, senza mentire a sé medesimo, affermare, che le sorti del contadino e del minuto popolo, verificandosi i concetti de' presenti rivoluzionarii, subiranno tal cangiamento da meritare le pene ed i sacrifizii necessari a vincere? Il socialismo, o se vogliasi usare altra parola, una completa riforma degli ordini sociali, è l’unico mezzo, che, mostrando a coloro che soffrono un avvenire migliore da conquistarsi, li sospingerà alla battaglia. Quindi, le difficoltà che presenta la guerra del nostro risorgimento, i numerosi nemici, l’indole italiana assai difficile a governare, la vita municipale prima a manifestarsi nelle rivoluzioni, il costume, ornai reso seconda natura, di resistere a chi comanda... costituiscono il fato della nazione; inesorabilmente le è segnato il destino. Schiavitù o socialismo; altra alternativa non v’è.
Poniamo ora il caso che in un rivolgimento il popolo italiano vegga la possibilità di migliorare il suo avvenire, ed animato da una passione forte e popolare, che unifichi e determini la sua volontà e la sua azione, corra volenteroso incontro al nemico; e facciamoci a ricercare, seguendo il paragone con la Francia, se i suoi mezzi materiali sieno tali da vincere..
La Francia, avanti la rivoluzione, contava 250 mila uomini, dei quali 10 mila erano milizie dorate della corte, sparite con essa; 77 mila erano battaglioni provinciali; 20 a 25 mila stranieri; quindi i soldati regolari nazionali si riducevano a 150 mila. In Italia, ammessa una rivoluzione universalmente sentita, che ne raccolga le forze sotto la stessa bandiera, non manca certamente un tal numero di soldati. Aggiungi' che li abusi, dopo quell'epoca riformati, hanno reso gli eserciti più mobili e più compatti, e 150 mila uomini in oggi valgono assai più che 150 mila uomini in allora, e la superiorità di ordini e d’istruzione, che avevano gli eserciti alemanni sul francese, nel caso nostro non esiste, perocché gli eserciti stanziati, all'epoca presente, si pareggiano in Europa. Le schiere francesi rimasero quasi dissolte pel numero rilevante d’ufficiali che seguirono le sorti del re; in Italia, per contro, probabilmente non se ne avrebbe che alcuno. Quindi le nostre forze materiali, possiamo dirlo, sono per numero ed ordinamenti superiori a quelle che possedevano i francesi al cominciare della rivoluzione.
Negare agli italiani il primato nelle armi, è negare la storia, che perciò siamo venuti rammemorando nel primo saggio. La nostra temperie fornita di una quantità sufficiente, ma non eccedente, di sangue igneo accoppia il sangue all’ingegno, qualità che spesse volte si escludono; l'italiano discerne il pericolo, studia il proprio vantaggio, ed opera. Se noi siamo degeneri dagli antichi, lo sono dal pari gli altri popoli d’Europa; quindi il vantaggio che deriva dall’indole nostra, dono della natura, rimane il medesimo. Ma il valore individuale non ci viene negato, tutti sono convinti che un italiano valga assai più, o almeno quanto un francese. Ci faremo a discorrere del valore delle soldatesche.
Un contadino che difende il suo tugurio con coraggio da leone, un brigante che combatte valorosamente la sbirraglia, può, fatto soldato, mostrarsi codardo, perché non vede la ragione, non sente la necessità di arrischiare la propria vita; e qualunque sia la severità della disciplina, le pene da cui viene minacciato non controbilanciano mai i perigli immediati della battaglia. La disciplina, bastante a rendere il russo e l’inglese ottimo soldato, non basta, con diverse gradazioni, all'italiano, al greco, allo spagnuolo, al francese eziandio; questi popoli debbono combattere sotto il pungolo d’una passione che li esalti; questi popoli hanno troppo discernimento per sacrificarsi come ciechi strumenti dell'altrui volontà. I Suliotti di eroico valore fra le loro montagne, arrolati dalla corte di Napoli come soldati, non corrisposero alla fama che era corsa di loro; al 99 l'esercito napoletano frigge, ed il popolo napoletano combatte strenuamente il nemico in ogni vallata; Capua difesa da un esercito, e la fortissima Gaeta, non indugiano la marcia dello straniero, che vede in periglio la sua facile vittoria innanzi alla città di Napoli, aperta e priva di ogni genere di milizia. Non appena in Francia cessa il feudalismo, ed ai guerrieri feudali, guerrieri eroici, successero le regie milizie, i francesi perdettero il primato nelle armi, i lanzi e gli svizzeri vennero a loro preferiti. Fate paragone tra le gesta dei francesi durante la guerra dei sette anni e quelle durante la guerra della rivoluzione, e scorgete quanta differenza passi fra le milizie regie e le repubblicane, quelle strumento d’un despota, queste animate da una forte passione. Paragonate le battaglie di Rosbach e Jemappes, la prima combattuta dal fiore delle regie milizie, l’altra da inesperti volontarii tumultuariamente accozzati. Paragonate il soldato italiano a Pastrengo e lo stesso soldato a Novara, e scorgete ad evidenza come il convincimento e l’esaltazione siano per tutti i popoli di svegliato ingegno moventi assai più efficaci, che la disciplina ed il terrore. In virtù del loro discernimento cotesti popoli, e particolarmente gli italiani, combattono da eroi in lontane regioni, e mollemente, se manca l'esaltazione, nel proprio paese.
Nel primo caso essi veggono nella disfatta la loro mina, nel secondo un pretesto per tornarsene a casa. Solamente dopo una lunga carriera sui campi di battaglia ed una serie non interrotta di vittorie possono formarsi quelle schiere di veterani, che amano la guerra per la guerra, che tutto il loro utile riassumono nell'utile della vittoria, come erano le schiere napoleoniche; ma senza la rivoluzione, e per essa dieci anni di prospera guerra, non sarebbero esistite né quelle schiere, né Napoleone, né le vittorie di cui la Francia incoronasi degnamente. Adunque, la cagione medesima, la nostra temperie, che assicuraci il primato in guerra, è stata quella per cui i moderni eserciti italiani fecero cattiva prova; gli italiani discernono troppo il periglio, per incontrarlo in forza di una virtù negativa, l’ubbidienza. Questa virtù è efficacissima pei popoli del nord, che, dotati di una grande abbondanza di sangue caldo, sono stupidi e coraggiosi, atti ad essere menati come massa inerte contro il cannone, ma, per contro, incapaci di quegli sforzi che richiede la virtù ardita e libera allorché inspirasi sulle grandi passioni. In tali sforzi gli italiani non hanno pari che i greci; seguono con maggiore impeto, ma minor costanza, i francesi,
Un esercito regio d’italiani guerreggiando per conto di una dinastia e per cagioni che non comprende, sarà il peggiore degli eserciti europei; se poi combatterà per una causa sentita e popolare, sarà invincibile. Senza una passione universalmente sentita, gli italiani non potranno combattere con valore; se poi la passione e l’esaltazione esisteranno, le nostre schiere saranno tanto superiori a quelle degli altri popoli, per quanto lo furono i romani, i quali non vissero sotto clima diverso dal presente, né ebbero un maggiore numero d’organi sensorii, né temperie diversa da noi. Essi nella guerra vedevano un utile che noi non veggiamo; questa differenza, e nulla più, passa tra noi e loro.
La popolazione dell’Italia, oggigiorno, è quanto quella della Francia nell’89, mentre l’estensione della nostra frontiera è poco più del terzo di quella. La Francia mise in armi 800 mila uomini, ma questi ripartiti in quattordici eserciti (così richiedeva la ragion di guerra) non poterono in alcun punto ottenere sul nemico una significante preponderanza di forze; gli eserciti a' confini di Spagna, d’Italia, del Belgio, della Germania non potevano certamente operare con un comune disegno, ed ognuno d essi rimase abbandonato alle proprie forze. La posizione degli italiani è molto migliore; difesi essi dalla cerchia delle Alpi, il nemico è costretto a raccogliere le sue forze in paese sterile e dirupato, mentre gli italiani si trovano nella valle del Po, regione ubertosa, ove popolose e ricche città, numerose strade, un maestoso fiume, forniscono, trasmettono facilmente le vettovaglie. Gli attacchi che le diverse potenze potrebbero intraprendere sui varii punti della frontiera, non possono riuscire simultanei, perché non sono prevedibili tutti gli ostacoli, che, attraverso i monti possono indugiare la marcia d’un esercito. Impossibile riescirebbe loro il darsi un vicendevole soccorso, perché l’asprezza del terreno noi comporta, ed ogni attacco, non solo rimarrebbe isolato, ma, sboccando dalle valli, non potrebbe che presentare delle teste di colonna agli italiani, i quali possono facilmente far massa contro il più vicino de' nemici; di modo che i francesi con 800 mila uomini si difesero contro tutta l’Europa, né poterono sempre pareggiare in numero il nemico, sui diversi campi di battaglia, mentre agli italiani basterebbero 250 mila uomini, per conservare in ogni scontro la loro superiorità. I nemici della Francia, finalmente, ebbero uno scopo alle loro operazioni, Parigi; i nemici d Italia non ne avrebbero alcuno; l’importanza delle varie capitali sparirebbe con la rivoluzione; né potrebbesi questa, ad onta degli sforzi che farebbero gli stolti, attribuire ad una sola fra esse, sia anche Roma, perché l’indole nazionale noi tollera; quindi il nemico sarebbe costretto vincere in ogni vallata, in ogni borgo; troverebbe tante capitali innanzi a sé, quanti sono i punti strategici del nostro suolo.
Facendoci a riassumere il detto conchiuderemo che le tendenze e le probabilità di moto sono in Italia maggiori che in Francia, e minori le forze resistenti; che, quantunque i moderni socialisti siano francesi, la propaganda pratica di quelle idee non è in Francia più avanzata che in Italia. Nondimeno i vantaggi che esse promettono sono tali, che, se un rivolgimento ne permetterà la benché minima applicazione, esse diverranno in un tratto popolarissime in Italia come in Francia. Ammesso il moto prodotto da cagione universalmente sentita, abbiamo discorso del numero e valore delle soldatesche, delle frontiere, della guerra che dovremmo sostenere, e che la Francia sostenne, ed il vantaggio, evidentemente, è dalla nostra parte. Possa questo confronto rilevare gli animi, generare la fiducia in noi stessi, che è forza confessarlo, manca; imperciocché gli italiani hanno il torto di confondere le imprese dei nostri tirannelli con quelle della nazione. Perché essi non s’ispirano in quelle gesta, che l'Italia tutta unita compì? in esse, la cui memoria dura da tanti secoli e durerà lontana, avranno la giusta misura delle nostre forze, né ci sarà luogo a scoraggiamento.
Le nazioni, durante le medesime fasi di loro vita, sono sempre le stesse; credi tu, o lettore, che siano in decadenza? non leggere oltre, non perdere il tempo, caccia le mani nella corruzione che ti circonda, usa ogni mezzo per arricchirti e godere della vita, inchinati ai tiranni, basta che ti assicurino i materiali godimenti, e se poi credi che possiamo risorgere, devi assolutamente credere che saremo grandi come furono i nostri progenitori; se noi credi ti compatisco, il tuo animo poco gagliardo non regge alle impressioni delle conseguenze estreme, tentenni nel mezzo, e sei fra la turba di coloro che visser senza biasmo e senza lode: sarai poco utile alla patria ed increscioso a te stesso.
Inoltre, il nostro ragionamento farà risaltare sempre più la stranezza di alcuni italiani di pregievole ingegno, di ottimo cuore, i quali credono fermamente adoprarsi per lo bene della patria, col tessere una continuata apologia di Francia, mostrandocela quale astro, che dovrà dar norma e rischiarare il nostro avvenire. E perché abbiamo qualche chilometro di meno di strade a rotale e di telegrafi elettrici, perché l’aristocrazia bancaria non è così potente come in Francia, perché il monopolio, tra noi, non ha raggiunto l'apogeo, perché in Francia si pubblica qualche migliaio di più di bugiardi volumi, n’inferiscono che l’Italia non regge al confronto di quella nazione. I loro scritti, eziandio nel cuore dei più imparziali non possono che suscitare un certo disgusto; pure considerando ogni libro che si pubblica come espressione di un sentimento nazionale, e lasciando all'intolleranza religiosa e regia la ripartizione fra libri buoni e libri cattivi, noi ci siamo dati alla ricerca delle cagioni, che possono suscitare simili dottrine. L’apparenza degli eventi trasse fuori dal loro proposito cotesti scrittori. Eglino, onde scrivere come rivoluzionarii italiani, sonosi dati a fare profondo studio sulle cose e sulle idee di Francia, che, al momento, avevano vita più rigogliosa, e tutti invasi di quelle idee si son fatti a ricercare in Italia; cercavano Francia, ad essi notissima, han trovato Italia, che poco conoscevano; e come se le nazioni durante la loro vita dovessero calcare le medesime orme, han dichiarato Italia in ritardo. Intanto la loro posizione, dovendo scrivere d’Italia con idee francesi, era falsa, e la conclusione non poteva essere che una: l'Italia non è Francia. Allora colorirono diversamente il loro disegno, resero francese l'Europa, ed in questo quadro generale, in un posto affatto secondario, quasi totalmente in ombra, si scorge l’Italia in lontananza. Ma chi parte da falsi principii deve essere condotto naturalmente a false conseguenze. Infrancesato il globo intero, ne derivava la supremazia francese, e l'avvenire da essi pronosticato sarebbe, come dice V. Hugo, il mondo francese; e quindi la rivoluzione, la rigenerazione umanitaria risultando d’un carattere speciale, e non già umanitario, veniva da essi, che se ne dicono i propugnatori, rinnegata affatto.
E tratti ancora innanzi da' loro ragionamenti additano la Francia come nostra protettrice, come fonte di ogni nostro futuro bene, e predicano la fratellanza con essa; assurdo manifesto. Avvegnaché tra il protettore ed il protetto, il maestro ed il discepolo, il difensore ed il difeso, fratellanza non può esservi mai, una dipendenza. Senza che essi se ne accorgano, i loro ragionamenti pronosticano che un giorno Parigi sarà la nuova Roma, e come ora la Francia china il capo ai vitelli sublimati da compri pretoriani, nel felicissimo avvenire al quale ci avviciniamo, tutta l'Europa farà lo stesso. Se questo è il progresso auguriamoci il regresso, e regresso prontissimo.
Non si affretta né si propugna la rivoluzione con dottrine che la distruggono, od almeno la travisano, e sgagliardiscono l'animo; l'unità mondiale vi sarà, ma non già come pretendono costoro, distruggendo le nazionalità, incorporandosi insieme, o assorbite dalla preponderanza di una fra esse. Come un individuo associandosi co’ suoi simili viene abilitato ad uno sviluppo maggiore delle proprie facoltà, del pari, nell’associazione universale, ogni nazione, lungi dal perdere la sua individualità e l’indole propria, troverà campo più vasto a svilupparla; e nel modo stesso che una nazione non sarà libera, in tutto il significato della parola libera, se ogni suo individuo non sente fiducia nelle proprie forze, dignità ed uguaglianza assoluta col resto dei cittadini, così l’associazione universale non potrà aver luogo se prima ogni nazione non si costituisca strettamente ne’ proprii caratteri, e non ci sia fra tutte che un’uguaglianza universalmente sentita. Quindi, perché si attui la nostra fratellanza con la Francia, bisogna combatterla e vincerla; o almeno è indispensabile, che in parità di circostanze e di forze, sul medesimo campo di battaglia, contro un nemico comune, meritassimo la palma in una nobile gara di gloriose gesta.
XIV. Se per numerare i partiti in Italia ci facessimo con microscopica diligenza a discuterne le minime gradazioni, e volessimo tener conto di una turba di persone che affannose brulicano intorno ai troni, l’impresa riuscirebbe faticosa ed ingrata. Cotestoro non sono che individui, le cui opinioni mutano al mutare degli eventi; ora veggono il re di Sardegna cacciare d’Italia stranieri, principi, papa ed incoronarsi re d’Italia, ora promettono corone ed assicurano successi in virtù d’un credito che mai ebbero o più non hanno; oppure distribuiscono l’Italia ai varii principi d’una dinastia, e cangiano il pensiero italiano in servitù per una schiatta principesca, e vorrebbero richiamare a vita antichi regni, coi loro baroni, i loro pari, i loro prelati, e tutta la pompa del feudalismo. Altri — e sono i più abbietti — cercano un re oltre Alpi invocando l’appoggio d’un avventuriero e degli assassini di Roma. Sono tra questi certi dottrinarii, paghi di esprimere moderatamente i loro pensieri, badando, come essi medesimi dicono, che la scienza non esca dalla sua innocenza ovvero si riduca ad una pura perdita di tempo; vi sono banchieri e commercianti le cui faccende prosperano, quindi temono qualunque rivolgimento, che ne ristagni il corso. Ma questi non sono partiti, neppur sètte, sono individui, ripeto, esuli i più, a' quali l’esilio, sorgente per la maggior parte di miserie e dolori, fruttò loro onori, considerazioni, lucri che mai non ottennero nel proprio paese. Rispettando in questa numerosa schiera i pochissimi illusi perché non vogliono darsi la pena di pensare, e perché natura li creò d’animo poco gagliardo, spregiamo la generalità.; né ci faremo a rimescolare un tal fango. Le nostre riflessioni si rivolgeranno su coloro che meritano il nome di partito.
I regii bramano la guerra europea; e leggendo come casa Savoia, barcheggiando fra Austria e Francia, abbia ingrandito i suoi Stati, sperano che si possa porre ad effetto la cacciata dello straniero, e costituire un forte regno boreale arbitro de' destini italiani. Il principio loro è quello sviluppato dal Balbo, tendere all'unità col successivo ingrandimento de' varii Stati italiani. Noi riteniamo, e l’abbiamo dimostrato, che questo successivo ingrandimento è di ostacolo all’unità; che uno Stato italiano non darà mai norma agli altri, ma accrescerà in quelli l’occulto potere ed il credito degli stranieri. Abbiamo emessa distesamente la nostra opinione riguardo al significato che diamo alla parola nazionalità, epperò non possiamo incontrare la nazionalità italiana negli abitanti della vallata del Po, retti secondo i capricci d’un principe ed in ultimo, insegnandoci la storia con severissima lezione, che le guerre regie combattute in Italia sono sempre state scaturigine di miserie ed umiliazione, rispettiamo una tale opinione, ma la logica ed il cuore si ricusano a dichiararla italiana.
L’altro partito che raccoglie sotto la sua bandiera la più ardita e generosa gioventù, è il repubblicano. Assennati da' passati disastri non hanno fede alcuna ne’ principi; il risorgimento d’Italia, la cacciata dello straniero, la sperano dalle proprie forze, da una rivoluzione.
Si distacca alquanto da questi un numero limitatissimo d’individui che si dicono federalisti. Per li unitarii lo scopo principale è la nazionalità, pei federalisti la libertà; quelli escludono qualunque intrusione straniera, questi accetterebbero la libertà dalla Francia, quasiché la libertà potesse riceversi in dono; e così federalisti ed unitarii, per soverchia esclusività ne’ loro sistemi errano, non potendo esistere, come nei precedenti capitoli abbiamo dimostrato, nazionalità senza libertà, né questa senza quella. I federalisti hanno più chiari e recisi concetti politici, sono repubblicani di principii; gli unitarii sentono più fortemente la dignità nazionale, ma non sono repubblicani che di forme. Quindi repubblicani unitarii, federalisti e regii sono i tre partiti che si riscontrano in Italia; ma i due ultimi aspettano l’impulso altronde, e sono ben rari fra loro gli uomini d azione, i più sono dottrinarii; i primi invece vanno fastosi di una schiera nobilissima di martiri, e contano quaranta anni di vita operosissima. Inoltre tanto i regii, come abbiamo detto, quanto i federalisti, appartengono quasi tutti all'Italia boreale o alla Sicilia, gli uni contenti di un regno, gli altri di una cisalpina; mentre gli unitarii abbracciano nelle loro mire l’intera Penisola dalle Alpi al Lilibeo; epperò se non vogliasi disconoscere il vero, i soli che abbiano un carattere reciso di partito italiano sono i repubblicani unitarii. Gli avversarii accusano questo partito di debolezza e discordia, che corre dietro una chimera. Ma è forza riconoscere che sono i soli i quali si adoperino a dar corso a cotesta chimera, senza attendere che la manna piombi dal cielo.
Dal detto possiamo conchiudere che, quantunque l’energia arricchisca l’Italia di tanti diversi concetti per quanti uomini pensanti essa conta (il che dal volgo è tolto quale disgrazia), fatto studio sulle diverse opinioni, tre soli partiti abbiamo visto nettamente definirsi, de' quali due si limitano a sperare, uno solo è operoso. Senza che, fra queste tre parti, che in apparenza sembrano escludersi, havvi eziandio un punto di contatto; l’odio agli stranieri; sentimento ad ogni altro prevalente, in un cuore italiano. E fatta eccezione di alcuni servili, o salariati, o baroni,, che ambiscono essere senatori, o strisciare nelle anticamere de' re, il partito regio in Italia ha un carattere affatto diverso da quello che hanno i realisti d’oltr’alpe. Non è simpatia per la monarchia, o per una schiatta, ovvero, come dicono i francesi, dévouement, che li leghi al trono, ma è il bisogno che essi sentono d’un appoggio, per la poca fiducia che hanno nei rivolgimenti popoleschi. Del pari, le opinioni de' repubblicani, meno pochi, accostansi assai più al dubbio, ovvero ad un’oscura ed incerta percezione di rapporti, che all'evidenza. Sono repubblicani perché convinti che i principi non vogliono né possono volere l’unità e l’indipendenza italiana; ma regii e repubblicani saranno tutti con quelle insegne, che prime muoveranno arditamente e lealmente contro gli stranieri. Il modo adunque per discernere quale partito è il più forte, non è, in Italia, quello di numerarlo, l’azione indubitatamente farà sparire i partiti, li raccoglierà sotto la medesima bandiera; ma invece bisogna studiare quale abbia maggior probabilità d’iniziativa, quale, pei principii che propugna; potrà superare più facilmente i tanti ostacoli che si presentano.
Nel ragionare della nazionalità abbiamo visto come lo stato presente d’Europa, le questioni che vi si agitano, l’energia italiana, le tradizioni municipali, le difficoltà dell’impresa, non rendano possibile il risorgimento italiano, che da una rivoluzione radicale e sentita; epperò l’utile delle masse, come un torrente, che trarrà seco alla battaglia gli italiani d’ogni opinione.
Seguiamo ora il successivo sviluppo di queste opinioni in tutte le diverse loro fasi, facciamo studio sugli insegnamenti del passato, onde scorgere ove la forza delle cose, ovvero il fatto della nazione ci condurrà.
XV. Allorché una forza prepotente opprime un rivolgimento qualunque, nel cuore de' vinti, privati dei loro beni, sorge a rattemprare i mali una fervida speranza della riscossa, che lo scorrere degli anni, in luogo di rafforzare, scema e dilegua. Imperocché essendo allora il disquilibrio dell'utile e delle affezioni private grandissimo, la natura umana creasi su puntello, la speranza volge tutta la sua operosità alla cosa pubblica, che, in que’ fugacissimi momenti, riassume eziandio l'utile privato, mentre in seguito, l’imperiosa necessità lo separa di nuovo, e l’abitudine scemando i mali ammorza il desiderio della riscossa.
Queste naturali ed universali disposizioni, cessata la repubblica romana, trovarono in Mazzini chi diede loro forma ed azione. Cosi surse l’Associazione Nazionale, poi il Comitato Nazionale, la cui importanza basta a farli entrare nel dominio storico, e meritevoli di riflessioni. Epperò, innanzi tutto, ci renderemo esatto conto, e sottoporremo a severa critica le dottrine che professa il Mazzini, inspiratore di tali fatti e degli avvenimenti che ne emersero.
Giuseppe Mazzini è una indole nobilissima. I suoi piaceri, i suoi godimenti si riassumono nel farsi strumento del risorgimento italiano; sospingere gli italiani alla conquista della loro patria fu il primo forte pensiero che balenò nella sua mente giovanile, poi la stella polare della sua vita, e sarà l’ultimo suo voto.
Se ragiona assistito dalla verità, ha logica potentissima; il suo discorso è colorito e convincente; ma se qualche pregiudizio lo trae fuori di strada, allora declama, ripetesi sovente, quasiché delle idee fisse, dei punti di fede, angustiassero il suo grande ingegno in picciolissimo giro.
Facile all'amicizia, generoso, inaccessibile all’odio, e coi suoi nemici personali magnanimo.
La sua temperie non è robusta, ed a ninno meglio che a lui converrebbero gli agi della vita; nondimeno niuno più di lui li sprezza; per esso la vita materiale non esiste.
Durante la sua laboriosa e tribolata carriera, esposto alle ingiurie ed alle persecuzioni dei governi, essendo privo d’appoggio in sulla terra, ha inteso il bisogno di rivolgersi al cielo, ha ricorso alla religione, e perciò ne’ suoi concetti politici avvi un poco del misticismo. La religione l’ha fatto propendere un poco verso il principio d’autorità; quindi le accuse mosse contro di lui, ora di assumere un tuono dittatoriale, ora profetico, mentre la sua indole lo rende capace della più pacata discussione e della più ampia tolleranza. Quindi i suoi difetti, i suoi errori prendono tutti origine da' suoi sentimenti religiosi; se Mazzini fosse irreligioso sarebbe l’ideale del cittadino. Su lui il mondo esteriore non ha potenza di sorta alcuna; mutano i tempi, cadono e sorgono troni, ognuno in questi mutamenti cerca fortuna, o salvarsi dalla caduta, egli invece, costante ne’ suoi principii, marcia attraverso le rovine, come attraverso le ricchezze, verso il fine proposto. Il sentimento interno ha sempre la prevalenza sulle impressioni esteriori. Parlerò delle sue dottrine, esporrò più diffusamente quello di cui tante volte parlammo insieme.
Il fato di una nazione Mazzini noi cerca nei rapporti sociali ed internazionali, d’onde scaturiscono le guerre, le conquiste, le rivoluzioni, ma abbandona la terra, e lo cerca nel cielo. La legge, dice egli, è una emanazione di Dio, che impone di vivere nel vero, nel reafe, nel giusto. Cotesto dovere non è, secondo lui, verso noi medesimi, ma verso l’umanità. Quindi la vita una missione a compiere, un continuo sacrifizio, che necessariamente deve aspettarsi un premio o una pena; altrimenti non avrebbe scopo. Ma ove conducono questi principii?
Questo dovere, questa missione, questo sacrifizio, secondo Mazzini, oggigiorno sono disconosciuti. Dal che risulta un fatto che gli è forza ammettere: il dispotismo, forza mondana e materiale, ha soffocato un’idea, una tendenza celeste, che Dio avrebbe dovuto infondere in tutti i cuori.
Per compiere la rivoluzione bisogna adoperare ogni sforzo onde far rivivere questo sentimento, questo germe divino, che trovasi in ogni cuore. Ma se la rivoluzione avvenisse quando esso sarà risorto, avverrebbe precisamente quando più non sarebbe necessaria, giacché se ognuno, trascurando sé medesimo, s’interessasse non d’altro che del bene pubblico, allora ad onta de' despoti e degli stranieri, la nazione, pare, dovrebbe essere felicissima; senza che, despoti e stranieri, uomini anch'essi, e perciò soggetti alla potenza di tale legge diverrebbero nostri padri affettuosi, nostri fratelli; e gli austriaci, volontariamente, senza bruttarsi le mani di sangue, andrebbero a compiere, ne’ loro paesi, la missione della vita. Tutta questa dottrina, altro non é ohe la sognata fratellanza del Vangelo. Mazzini sfugge questa conseguenza; il despotismo, egli dice, impedisce che questa legge si trasfonda nell’umanità (così poco curasi Dio di propagare le sue leggi); solo pochissimi eletti, i migliori per senno e per virtù, hanno il privilegio di comprenderla, e nel tempo stesso il dovere di rovesciare gli ostacoli materiali, e fare agevole ai molti il riconoscere ove si trovi il vero.
Suppongasi che alla voce, all'impulso di pochi, tutti rispondessero, e la patria fosse conquistata: cosa ne seguirebbe? Il passato avendoci insegnato quanto sia facile corrompere gli animi e cancellare da essi la percezione del vero e del giusto, bisogna che, in avvenire s adoperi ogni mezzo onde evitare, impedire ogni trista tendenza. D’onde emerge per necessità il governo dei migliori, de' padri della patria, che terranno le anime sotto la loro tutela, che diranno al cittadino: tu hai un’anima immortale, una missione da compiere, un vincolo con quanto ha vita, un dovere verso tutti, un diritto all’amore ed all’aiuto di tutti. Chiunque affermasse che l'anima non è immortale; che non abbiami missione da compiere, ma un istinto, che si sospinge continuamente verso il nostro meglio; che, verso altrui,, non abbiamo né doveri né diritti, ma vincoli di libera associazione che il nostro personale vantaggio determina, sarebbe un cretino, meriterebbe l'ostracismo, ed infamati dovrebbero essere i nomi di Beccaria, di Filangieri, di Romagnosi.
Conseguente a tali principii, Mazzini attribuisce i mali, sotto cui ora geme la Francia, al cattivo apostolato; e perciò l'apostolato non potrà esser libero, ma bisogna in ogni modo adoperarsi onde l’anima non venga illaqueata da sofismi de' materialisti; — indice adunque de' libri proibiti, censura, financo il rogo, per gli ostinati, se fa bisogno; eterno, inesorabile assurdo in cui cadono coloro, i quali riconoscono come una necessità imporre de' limiti alla libertà.
I libri e le azioni, ripetiamolo, che risultano dalla lettura di essi, altro non sono che la manifestazione della vita sociale, ne sono i pensieri e le opere. La tirannide che cerca interdire codesta manifestazione onde sostituirsi in sua vece, è naturale che la tema. Ma riconoscere il diritto e la sovranità della volontà nazionale, e declamare contro i cattivi libri è un grossolano errore; un popolo libero che volesse limitare la stampa, sarebbe come un individuo che per limitare i propri pensieri, le proprie azioni, mutilasse il suo essere.
L’ imperatore delle Russie, Alessandro I, dichiarò esservi al disopra di lui il principio della giustizia, ma chi proclamava questo principio ì egli medesimo; chi n’erano i custodi? i suoi satelliti. Ogni epoca annovera il suo giusto ed il suo vero: di quali, fra' tanti, parla Mazzini? Riconoscere doveri è, né può negarsi, ammettere il diritto di limitare la libertà, e questo principio, più o meno largamente applicato, è quello su cui si fondano i moderni governi d’Europa. Voi siete liberi, vi dice la monarchia costituzionale, fintantoché la vostra libertà non eccede i limiti dell'equo e del giusto; il fisco è incaricato di additarvi cotesti limiti.
Chiunque mi dirà: devi compiere il dovere di conquistarti la patria, assume su di me un tuono di superiorità e di comando; io noi patisco, e rispondo: chi sei tu che il dici? — Dio lo vuole. — Ed io: dimostrami prima che esiste Dio, e poi dammi le prove che tu sei l’interprete della sua volontà, altrimenti, se puoi costringermi con la forza, non sei che un tiranno; nel caso contrario non posso che compatirti. Per con. tro, ogni individuo può farsi il propugnatore dei diritti universali senza arrogarsi autorità, e senza intaccare la libertà di alcuno. L’ uomo nasce libero ed indipendente, dunque ha diritto all’esistenza, diritto di sviluppare ed utilizzare le proprie facoltà, diritto al pieno godimento del frutto de' suoi lavori.... ecco delle verità, che non hanno bisogno d’essere interpretate e svolte da' migliori per senno e per virtù; chiunque le propugna, sia egli l’ultimo o il primo per senno, sia egli cultore della virtù o del vizio, esse non perderanno mai la loro evidenza, non cesseranno mai di. essere verità. Costui potrà aggiungere: la tirannide che sostiene i privilegi è quella che vi rapisce questi diritti; abbattiamola!» ed ognuno senza fare atto di ubbidienza, potrà afferrare un fucile e seguirlo.
La società non impone doveri, ma li crea, promettendo solamente guarentigia de' diritti d’ognuno; il che limita di fatto i diritti altrui. La dissoluzione della società conducendo per conseguenza immediata alla perdita di questi diritti, ne emerge, senza aver bisogno d’apostolato o di educazione, l’impegno, la volontà d’adoperarsi con ogni possa onde difendere questa società. Ma se questi diritti si riducono a quelli del proletario, morir di fame, od essere tratto in prigione, allora la sola forza, favorita dall’ignoranza, potrà indurre cotesti iloti a difendere quel sistema e quelle istituzioni che li opprimono.
Questi diritti sono quelli che mantengono l’equilibrio sociale, senza vi sia bisogno di governo; ma non appena questi diritti vengono lesi nella benché minima parte, il governo diventa indispensabile, perché sostegno d’usurpazioni e privilegi, non di leggi eterne e naturali, che si reggono da sé.
Tanti fratelli messi sotto la tutela de' migliori, — è la società, la nazione sognata da Mazzini, ovvero l’attuazione del cristianesimo.
Quale teoria ha un sì lungo apostolato, come l’evangelica, ed in quale epoca si è mai verificato il sogno della fratellanza? I selvaggi in mortali duelli si disputano il vitto e la donna, si sbranano l’un l’altro; in essi è la natura che parla in tutta la sua purezza, e secondo i religiosi è Dio che manifesta le sue leggi. Le famiglie combattono fra loro. Dall'unione delle famiglie, prodotta dal bisogno di difesa, sorgono le città, le nazioni, che si conquidono, si distruggono, si fanno serve, quasi senza veruna ragione sufficiente, il più sovente pel capriccio di un despota.
Un soldato, per uno scarso guadagno, si dà al mestiere di uccisore d’uomini che non conosce, e con cui non ha astio veruno, anzi ha spesso vincoli di parentela e di amicizia. Il forte cerca sempre di opprimere il debole; l’astuto profitta dell’altrui semplicità; il dotto dell'altrui ignoranza. Non havvi fortuna che non si elevi sulle altrui ruine. Fratelli contro fratelli, figli contro padre si armano, disputandosi il possesso di ricchezze che hanno usurpato al povero. Un mercante vedrebbe ad occhio asciutto cadere a migliaia i suoi simili, piuttosto che ribassare il prezzo di una sua merce. Insomma, il mondo sempre in possesso dd’ più forti e de’ più astuti è la storia dell’umanità. Finalmente, i primi cristiani, i più fanatici adoratori di Cristo, discutevano nella Tebaide di fratellanza e mansuetudine a colpi di pietre e di bastone. E più tardi gli ortodossi cattolici ponevano ad effetto il dogma della fratellanza con ardere vivo chi non voleva dirsi loro fratello. L’uomo, ben lungi dal propendere a dividere il suo con altri, mai sempre scontento di quel che ha, desidera ciò ch'altri possiede; da ciò l’infaticabile operosità. Il coraggio, in qualunque epoca, in qualunque nazione, dall'uomo timido come dal valoroso, nel1 assassino e nell'eroe, è sempre ammirato; da ciò le ardite imprese. Sono queste le due propensioni, che danno norma alla vita dell’uomo, e sono in contraddizione manifesta col dogma della fratellanza.
Un uomo, in passando, scorge un moribondo per fame, oggetto che produce in lui, in ragione della delicatezza di sua fibra, una sensazione dolorosa; a sfuggirla, soccorre l’infelice. Il domani, esaurito il magro soccorso, quegli muore per fame, e questi che non è più sotto l’impressione dolorosa del giorno innanzi, neppur pensandovi, banchetta lietamente. Un solo fatto, argomento validissimo contro l'istinto della beneficenza, è tolto dai propugnatori d’essa dallo stesso Rousseau come una dimostrazione favorevole, tanto scarsi sono gli argomenti che rincalzano la loro asserzione.
Ai Romani ed ai Greci non venne mai in mente di dirsi fratelli, e ne ammiriamo, stupefatti, l'amor di patria, gli atti generosi, il continuo prevalere dell'utile pubblico al privato: laddove il mondo cristiano, che si disse un mondo di fratelli, presentaci il miserando spettacolo d’una solitudine di voleri e di mire, scaturigine d’ignobili fazioni e guerre civili atrocissime. Egli è adunque ben meraviglioso il pretendere rigenerare il mondo, predicando la fraternità, che dopo diciotto secoli di apostolato è rimasta infruttuosa. L’indole umana, le sue propensioni, i suoi istinti sono inesorabilmente invariabili, e sono le forze di cui il sistema sociale deve valersi per produrre la pubblica felicità, la quale sarà necessariamente nulla, se coteste forze si combattono e si elidono perché applicate in opposta direzione, e massime se tutte cospireranno al medesimo scopo. Quindi non è l'uomo che deve educarsi, ma sono i rapporti sociali che debbono cangiare affatto, e ciò basterà per trasformare un popolo di egoisti e dissoluti in un popolo d’eroi; amor di patria vi sarà quando l’utile privato verrà indissolubilmente legato coll'utile pubblico, quando ognuno adoperandosi pel proprio bene, farà eziandio il bene dell'universale. Consolantissima verità, che sostituisce al lento, impossibile, assurdo sistema di educazione, quello prontissimo della rivoluzione, e che in luogo di escludere, come irriducibili, un numero considerevole d’individui, e restringere gli eletti a pochissimi, allarga in vasto campo la nostra coscienza, ed abbraccia senza eccezione di sorta l’universalità de' cittadini; il traditore, l’assassino, il ladro... tutti potranno diventare utili al paese allorché saranno sparite le cagioni del delinquere e l’utile che dal delitto traevano. Il fine è l’unità d’interesse, la fratellanza; il mezzo, la riforma completa degli ordini sociali operata con la forza.
Inoltre, sarà sempre un enigma inesplicabile, come alcuni trovano nelle pagine del Vangelo l’inno delle battaglie; come il vangelo, ove è scritto: obedite principibus etiam discolis, racchiuda massime favorevoli alla libertà. Gli stranieri, i satelliti del dispotismo sono nostri fratelli, bisogna convincerli, non già ammazzarli! quale orrore!! versare il sangue fraterno!... Ma questa è l’estrema contraddizione del mondo cristiano. I fiorentini dichiarando Cristo patrono della città ed armandosi contro il principe d Orango, mentivano a loro medesimi; lungi da voi que’ micidiali brandi, calpestate i fregi dei vostri cimieri, inginocchiatevi e pregate, umiliatevi dinanzi al vostro nemico! il vostro regno è nel cielo, tanto più splendido quanto più umiliati in terra! ecco la dottrina di Cristo. Su, combattete innalzando il vessillo della croce! voi non siete che degli ipocriti o degli stolti, che non sanno quel che si fanno. Un valoroso polacco, durante la rivoluzione di Polonia, fece scrivere sul vessillo della sua legione: tutti gli uomini sono fratelli; e questa legione fu il terrore dei fratelli russi. E bene, metterò de' guanti, rispose un soldato francese il due dicembre ad un popolano, che dicevagli di non bruttarsi le mani di sangue fraterno; sarcasmo meritato alla stupida ed ipocrita proposta.
Allorché il popolo insorge, i soldati potrebbero fargli il medesimo rimprovero; nulla giustifica il fratricidio; è a Dio, secondo la vostra dottrina, il punire i colpevoli. Ma la digressione sulla fratellanza è già lunga e noiosa; — riprendiamo il filo delle idee, e continuiamo il ragionamento sul Comitato Nazionale.
Tutti coloro che speravano il risorgimento per mezzo delle forze della nazione, e non altrimenti, applaudirono unanimemente all'instituzione del Comitato Nazionale. Tutti rivolsero lo sguardo a questo nuovo faro; tutti fidavano nella candida fama degli uomini che lo componevano, guarentigia solenne della rettitudine di loro intenzioni. Il comitato non ebbe in suo potere alcun mezzo per farsi riconoscere, anzi v'era la minaccia di prigionia e d’esilio contro chiunque facessegli adesione. E nondimeno le adesioni furono numerosissime; prova incontrastabile di sua legittimità. Si confortarono le speranze, e generale era l’aspettativa. Il comitato esordì col prestito nazionale, e comeché il risultamento non abbia corrisposto alle speranze, fu un atto logico e necessario. Sarebbe stato follia sperare di più; ottenere denaro è cosa più difficile che ottenere combattenti; ed in simile circostanza tratta vasi di sborsarli correndo rischi gravissimi. La fama ne’ membri del comitato prestavasi egregiamente ad ogni operazione finanziaria, come quella superiore ad ogni villano attacco, che si potesse muovere in materia d’interesse. Egli è cosa indispensabile per determinare quale avrebbe dovuto essere la condotta del comitato nazionale, il rendersi conto esatto dello stato in cui trovavasi il popolo italiano alla caduta di Roma. E poiché gli individui giudicar non si possono dalla vita monotona ed abituale a cui le circostanze li costringono, ma bensì da certi rarissimi momenti ne’ quali tutta e liberamente manifestano la forza della loro tempra, così i popoli non dalle leggi, non dai costumi, non dall'inerzia, in cui oppressi trascorrono molti anni prima di manifestare la nuova vita, ma dai tumulti, dai martiri, dai grandi misfatti, dai tratti d'eroismo, si giudicano. Epperò senza troppo distenderci, e sorvolando sugli avvenimenti, prenderemo le mosse alquanto da lungi.
Le sollevazioni di Masaniello, di Balilla, degli Straccioni.... avevano, come dicemmo, annunziato un nuovo popolo italiano sulla scena politica del mondo, il popolo moderno. A Cosenza si concepiscono i primi forti e liberi pensieri, che poi Bruno, Campanella e Vico svolsero. Ma questi rapidi slanci furono ben tosto repressi, ché le armi straniere arrestarono l’azione nel popolo, ed i gesuiti spensero ogni scintilla di libertà che manifestavasi nel pensiero. L’Italia palpitò, ma i suoi palpiti furono repressi dalla barbara Europa, e l’Italia ritornata cadavere, tale si fu sino all'ottantanove. Poco prima della rivoluzione francese i monarchi, non ancora atterriti dallo spettro della rivoluzione, scossero tanto torpore. Tanucci, Leopoldo, l’imperatore, si diedero a migliorare la condizione dei popoli, e sursero scrittori che d’un balzo superarono gli oltremontani, ma il ruggito del popolo fecesi sentire, e le riforme ristagnarono di botto. I principi ripresero le armi antiche; la tirannide, avendo a maestra la paura, mostrossi più atroce che mai.
La guerra tenne dietro alla rivoluzione; i principi italiani essendosi adoperati a tutto potere a spegnere ne’ popoli ogni sentimento nazionale, non poterono opporre al nemico che schiere di servi vestiti da soldati, che vennero sbaragliati al primo urto dei liberi irlandesi. Vinti, atterriti, si videro costretti ad invocare quella passione medesima, che prima avevano combattuto; i loro editti poco differiscono da quelli de' rivoluzionarii moderni, ed il popolo rispose al generoso invito a Domodossola, a Pavia, a Lugo, a Verona, a Napoli, in Calabria. Gli stranieri cadevano sotto il brando italiano; tutte le valli dell’Alpi furono intronate dal fragor delle armi.
Approfondiamo un istante la nostra riflessione, e vedremo una riproduzione de' fatti del mille. In quell’epoca il papa scosse il popolo dal letargo, lo eccitò ad essere italiano, e l’oppose all'imperatore. Il popolo, che per legge di natura fa sempre precedere i fatti al pensiero, senza riflettere, combatté lo straniero; nel modo stesso adoperò nel 96. Al mille sursero in Italia due partiti: guelfi e ghibellini. Questi, che avevano privilegi da conservare e difendere dall’avidità, della teocrazia, parteggiarono per l’imperatore; quelli, che non avevano nulla da conservare, lo combattevano perché straniero. Similmente nel 96 i pensatori, gli amanti di libertà, erano coi francesi, considerandoli quasi difensori di essa; il popolo, invece, che altro non vedeva in essi che invasori, osteggiavali. Al mille appena i popoli cominciarono ad avvertire ciò che avevano solamente inteso. combatterono nobili e prelati, vollero governarsi da sé, e, dopo mezzo secolo, al cominciare dell'undicesimo, il popolo era risorto. Dal 96 in avanti noi scorgeremo nel popolo italiano un continuo progresso, e lo stesso cangiamento, la stessa unificazione di partiti avvenuta nel mille.
Nel 1805 e ne’ quattro anni seguenti, l’agitazione contro gli stranieri manifestossi in diversi luoghi d’Italia, nel Polesine, nel basso Po, nelle Calabrie, a Parma, nel Tirolo; e questa volta il partito liberale, che sostiene gli stranieri, più non esiste, e ne sono partigiani non altri che gli impiegati. In tale epoca, gradatamente, la controrivoluzione comincia ad assumere i caratteri di rivoluzione; nel 14 la trasformazione è completa. Il popolo cominciava a comprendere il bene della libertà ed apprezzava le pretese dei liberali; questi, d’altra parte, s’erano convinti che i francesi con pompose e mendaci parole non portavano che tirannide, e si erano ravvicinati al popolo. Murat e Beauharnais venivano assaliti dagli italiani al nome di libertà. Gli inglesi, fondatori del dispotismo e della schiavitù d’Italia, per acquistare le simpatie dei popoli della Penisola, sbarcando a Livorno, scrivevano sulle loro bandiere, libertà ed indipendenza italiana. Al 14 gli sforzi degli italiani cominciarono ad avere unità, e la storia del nostro risorgimento comincia colla lotta continua fra la Giovane Italia, e l’Italia ufficiale; come quella che ebbe luogo dal 1056 all’undicesimo, fra i comuni, ed i feudatari ed ecclesiastici. I popoli ne’ loro risorgimenti seguono le stesse evoluzioni. Ugo Foscolo, prima che Bonaparte distruggesse Venezia, giura odio agli stranieri. Poi, rivolgendo un mesto sguardo all’Italia, e scorgendola priva di forze e di sentimento, dispera, ed accetta l’invasione come una crudele necessità; quindi la combatte con la parola, cospira contro di essa, e vorrebbe trarne profitto per la sua patria. La sua vita, le sue opere, le sue speranze, riassumono la vita, le opere, le speranze del popolo italiano dal 96 al 14, di cui Ugo Foscolo è la personificazione.
Qui cade in acconcio una digressione (cogliamone il destro) per combattere gli infrancesati, e distruggere il turpe vezzo d idoleggiare gli stranieri, ed esaltarli in nostro paragone non solo, ma dichiararli nostri benefattori. Dalle continue irruzioni che han fatto i francesi in Italia, sino dall’epoca di Carlo Vili, traggono alcuni argomento a dimostrare la loro influenza; e trascinati dall’amor di un sistema, veggono sempre in Italia partiti, che, secondo le varie epoche si agitano in favore 0 contro cotesti stranieri; una tale asserzione è assurda. La storia, durante tre secoli di guerra, ci mostra l’Italia cadavere; essa non era rappresentata che da varie corti codarde e dissolute; in Italia non v'erano che individui; popolo e partiti più non esistevano. All’epoca della rivoluzione francese s’iniziò il nostro risorgimento, non già perché di Francia si trasfondessero in noi idee di libertà, leggi, istituzioni, come alcuni asseriscono; coteste intrusioni non furono che dannose. Il regno di Napoli, ove furono maggiori, quali vantaggi ne trasse? Nessuno. Perdette invece le franchigie municipali di cui sempre aveva goduto. H fragore di quella rivoluzione servì a risvegliarci dal nostro letargo, e non altro; fu lo scroscio di fulmine del Vico. I francesi altro non furono in Italia che predoni e tiranni. Gli uomini che governano l’Italia durante l’occupazione francese furono quali il Foscolo li difinisce: antichi schiavi, novelli tiranni... La regia autorità era in essi senza il coraggio e senza il genio d’esercitarla; vili cogli audaci, audaci coi vili... I francesi in quell'epoca ci disarmarono perché temevano di noi; quindi ci dissero codardi, perché, così disarmati, gli italiani non combatterono i loro nemici.
Ripetiamo, senza mai credere d averlo detto abbastanza, quale è la vantata superiorità della Francia su noi? forse perché havvi fra essa più vasta erudizione? No, un uomo potrà essere eruditissimo, dottissimo, non perciò essere grande, esser uomo modello. La vita della Francia, dal risorgimento alla rivoluzione dell’ottantanove, altro non è che un continuo strisciare dietro lo splendore, le dissolutezze di una corte. Nell'ottantanove una fazione la sospinse sul sentiero della gloria e della grandezza; ma il popolo stesso la rovesciò, e volle farsi sgabello a nuovo trono. Al 1830, padrona un’altra volta delle proprie sorti, fu suo primo pensiero crearsi un padrone. Nel quarantotto per la terza volta, nel torno brevissimo di mezzo secolo, la Francia è l’arbitra de' suoi destini. Quali sono le sue gesta? conserva nella sua costituzione tutto l’ordito d’un governo assoluto, ed affida il supremo maestrato ad un ambizioso e goffo pretendente, e suo primo pensiero è quello di assassinare l’Italia. Finalmente l’esercito, dopo poche ore di strage, proclama l’impero; e la Francia affida i suoi figli ed i. suoi tesori con codarda rassegnazione al più ridicolo regime, al più incapace fra gli usurpati governi. Non è nostro proposito ragionare dell’erudizione francese; a noi basta avere dimostrato che non abbiamo bisogno di cercare oltremonte le leggi magistrali della natura, in Italia proclamate prima che altrove. Ma concediamo sotto tale riguardo qualsiasi superiorità alla Francia. Essa rappresenterà un dotto, la cui dottrina è al servigio del successo, di fatti compiuti, e di chi meglio paga. Il dottrinario che trovasi bene in tutte le epoche e sotto qualunque reggimento, e smaltisce con guadagno la propria dottrina, è precisamente la personificazione della Francia. L’Italia invece è un colosso, cinto da catene, circondato d armati a soffocare in lui ogni palpito di vita; se il gigante svincola uno de' suoi membri, sbaragliagli oppressori; ma immediatamente tutta l’Europa corregli addosso per opprimerlo. Facciamo fine alla digressione, che i gallomani hanno provocata, e rispettiamo tutti i popoli, ma senza ammettere né popoli modelli, né popoli arbitri delle sorti d Europa. Il carattere con cui si annunzia la futura rivoluzione, noi comporta. La prima nazione che senza curarsi dell'avvenire abbatterà tutto l’ordine sociale che l’opprime, estirpando fin l’ultime sue barbe, sarà la testa di colonna dell'umanità, e questo popolo potrà essere l’italiano, come il greco, come il francese, come il tedesco; e questo popolo non sarà il più dotto, ma il meno degradato, e quello che maggiormente sente l’oppressione attuale.
Le sanguinose e tristi esperienze che gli italiani fecero dal 96 al 14 racchiudono importanti e gravissimi ammaestramenti. I liberali sperarono nei francesi, e n’ebbero invece disarmo, taglie di guerra e schiavitù; sperarono nella ristaurazione, ma mancando l’Austria alle promesse, le loro condizioni peggiorarono. Gli stranieri ci chiamano codardi se, fidando in loro, ci sottomettiamo al loro giogo; ribelli se insurgiamo. Quindi da essi non bisogna sperare che disprezzo o martirio: combatterli e vincerli è la sola risorsa che ci resta.
Dopo questi fatali disinganni, l’Italia comincia a vivere nelle società segrete che tutte vanno ad incorporarsi in quella famosissima de' carbonari, che dal 19 al 21 fu oltre ogni credere potente. Al 20 il movimento si manifesta nel regno di Napoli, in vaste proporzioni, poi in Piemonte venne oppresso dalle baionette straniere. Le file de' settari, quantunque decimate dalla paurosa tirannide, conservarono ordini e forza. I Capozzoli generosi, che dal 20, più tosto che inchinarsi alla ferocia del governo, battevano la campagna, si fecero iniziatori di una sommossa, che, non secondata e quasi preveduta e desiderata dal governo, fu soffocata nel sangue di numerosi cittadini e sotto le ruine di Bosco. Nel 31 Ciro Menotti muore da eroe a Modena; Bologna sollevasi. Tutti gli occhi si rivolgono alla Francia, essa proclama il non intervento; nuova menzogna per tradire i popoli. Gli italiani ebbero la stoltezza di credervi, ed osservarono il patto. I bolognesi non soccorsero perciò i modenesi, e non accolsero Zucchi, incalzato da forze straniere, che disarmato.
Gli austriaci, ad onta de' francesi, intervennero; più tardi intervennero eziandio i francesi in aiuto dei primi, e secondo il loro costume, intervennero mascherandosi con bugiarde proteste.
Questi fatti furono nuovi ammaestramenti. Le società segrete sono mezzi poco efficaci. Esse, avvolte nel mistero, tolgono a modello il dispotismo; come questo ad un cenno muove i suoi battaglioni, aggregato di armati uniti per disciplina e per utile, e materialmente concentrati, così quelle vorrebbero disporre de' loro ascritti, separati non solo materialmente, ma eziandio dalle circostanze e dall'utile di ognuno. Vane speranze: sono sempre pochi che muovono; la nazione rimane indifferente spettatrice. Se qualche volta trionfano, allora hanno nel loro seno il germe della dissoluzione; la gerarchia della setta; e le sue esigenze si sostituiscono al governo, in cui prevalgono le cupe e torte abitudini de' cospiratori. Il cospiratore viene costretto a simulare, e la simulazione al governo trasformasi in moderazione e diplomatici raggiri; il cospiratore è avvezzo ad infiltrare gradatamente le sue idee, quasi mascherandole; mentre coloro che sono chiamati a reggere una rivoluzione, debbono apertamente proclamarne i principii, e dai primi istanti affermare le ultime conseguenze; imperocché ivi solo si riscontra l’utile che può convincere le moltitudini. La Giovine Italia sorse come conseguenza di tali ammaestramenti. Non fida più ne’ governi stranieri ma nepopoli; non più nelle società segrete, ma nelle masse popolari; ad esse, e non a capi, vuole affidare il risultamento della rivoluzione. Respinge perciò ogni idea di dittatura, e sminuzza il popolo in bande. Mazzini, non tace, non asconde i suoi principii, come i carbonari: Mazzini, da rivoluzionario, tuona, e fa noto all’Europa dei popoli le miserie degli italiani, i loro diritti, le loro speranze. Le cospirazioni cangiano carattere; i vendicatori del popolo, gli amici del popolo non hanno il mistero e le discipline dei carbonari; sono più adattati all’epoca, ma più esposti agli attacchi dei governi. La cospirazione del 33 è soffocata al nascere; la spedizione di Savoia, come doveva, aborti. Nel 41 l’Aquila e la Civita di Penne rimangono isolate. Nel 43 il movimento doveva essere vasto, non iscoppiò; i Bandiera, se non estranei alla cospirazione, lo erano almeno per quella regione, ove sbarcarono; e ne furono le vittime. Attraverso a tali esperienze, e sacrificando numerosi e nobili martiri, l’Italia compiva la sua propaganda; di fatti non di parole. Dietro i fatti sempre tardi, sempre incerti sorgono gli scrittori. I primi scrittori cominciarono per rinnegare le nostre tradizioni: Mario Pagano aveva già dimostrato come arti, scienze, industria, tutto emerga dalla vita politica dei popoli. Romagnosi aveva raccolto tutto lo scibile umano nella filosofia civile, la scienza del cittadino: ed essi, invece, si dissero letterati, e si dichiararono estranei alla politica. «Voi siete, diceva loro Mazzini, prosatori, verseggiatori, pedanti, non mai cittadini.» Epperò con Mazzini e Guerrazzi comincia la letteratura italiana ad assumere un nuovo carattere. Ma i loro scritti in Italia sono soppressi sul nascere, e la voce d’Italia non può sentirsi che fuori d’Italia. Allora gli scrittori, per ottenere il favore alle loro dottrine, si rivolsero ai principi, sperando eziandio di aver un nuovo e saldo appoggio alle loro speranze. Eglino riassumevano le passate esperienze, dichiarando nostri nemici gli stranieri, impotenti le cospirazioni: d’onde le dottrine di Gioberti, di Balbo, «l’Italia deve far da sé, uniamoci tutti popoli e principi; — eziandio i gesuiti», scriveva il Balbo.
I rivolgimenti del 48 ebbero precisamente questo carattere; tutto il popolo che si agita, i principi sono travolti nel turbine, ed al termine di questa nuova fase succede una disfatta; ed un nuovo ammaestramento. Popolo e principi hanno mire opposte: quindi diffidenza, dubbia fede, spergiuro, incapacità, ne’ capi; e, dopo tanti sforzi, il popolo altro non guadagnò che persecuzioni ed efferata tirannide.
A Roma, a Venezia, il popolo combatte solo, quasi svincolato dalle pastoie domestiche; ivi combattesi con tutta l’anima; gregari e capi non vogliono che la vittoria; hanno unità di mire, unità d’interessi; la disfatta è egualmente ruinosa per tutti; non vi sono cagioni estranee alla causa italiana, che distornino l’impeto de' combattenti; non v’è nulla da conservare. Nondimeno Roma e Venezia cadono, e perché? perché angustiarono i loro sguardi fra le mura di una città; si combattè per Roma e per Venezia, non già per l’Italia. Come in Ugo Foscolo si personifica la vita del popolo italiano dal 96 al 14, in Mazzini si personifica la stessa vita sino al 48. Mazzini esordì per essere Carbonaro; poi osteggiò questa setta; fondò la Giovine Italia. Vinto in ogni tentativo nel 48, egli, repubblicano, fu costretto, come tutti i repubblicani, a rassegnarsi all’opinione universale. A Roma fu troppo romano.
In questi quarant'anni di storia rinviensi l’avvenire d’Italia. E se ogni italiano appuntasse il suo intelletto sulle gloriose pagine di un tale libro, troverebbe in esso la soluzione di ogni dubbio che adombra la sua mente. Dalla vita de' nostri, dalla narrazione di tutti gli sforzi fatti dagli Italiani, scaturisce un corpo di dottrine, donde dovrebbero prendere, le mosse i ragionamenti, e trarsi le conclusioni, che i dottrinanti, con poco senno e poco decoro, cercano altronde. In questo periodo di nostra storia, Mazzini, che vi occupa un posto glorioso, avrebbe dovuto trarre le norme per la condotta a tenersi dal Comitato nazionale, ivi scritto a caratteri indelebili; gli stranieri ed i principi nostri nemici; le sette impotenti; il municipalismo ruinoso; non eravi che un altro passo a farlo, ed egli lo avrebbe potuto, studiando sui passati avvenimenti, senza lasciarsi deviare da ciò che detestava presso gli oltremontani.
La prima esaltazione rivoluzionaria creò que’ battaglioni, che valorosamente difesero la romana repubblica. Quella ammorzata, quantunque tutti applaudissero al governo repubblicano, esso non trovava soldati. Il volgo in un tale fatto, altro non iscorge che un mal volere, una ripugnanza alla milizia, mentre esso emerge da più lontane fonti, da più importanti cagioni. È la quistione economica, che sotto vari aspetti padroneggia l’Europa, e reclama la sua supremazia. Il popolo non ottenne dalla repubblica vantaggi tali da impugnare le armi a sua difesa; in esso prevaleva l’odio al passato più che l’amore al presente. Mazzini, oltre a ciò, avrebbe dovuto ridursi alla memoria la lettera che Sismondi scriveva alla Giovine Italia: «Finalmente la stessa libertà, scriveva l’insigne pubblicista, offre il più tremendo di tutti i problemi, quello della protezione del povero e dell’ignorante... affiderete voi la causa del proletario agli uomini che ne dividono le privazioni? Essi non hanno forza. L’affiderete quindi ai ricchi? essi saranno i primi a tradire il popolo.» Di questo problema Mazzini avrebbe dovuto fare il cardine principale dei suoi sforzi, della sua propaganda: avrebbe dovuto svolgerlo, ventilarlo. L’adesione di molti sarebbe per ciò mancata al comitato; ma le sue file in luogo di diradarsi, sarebbero andate sempre ingrossandosi dell’immensa moltitudine che soffre, e che sola combatte.
Mazzini avrebbe dovuto essere quale fu allorché iniziava la Giovine Italia; combattere i Governi, le ogni specie di dittatura; richiedere tutto alle masse popolari, ed aggiungervi una franca propaganda dei diritti del povero, una guerra accanita alle usurpazioni del ricco. Ma egli non ha presentito allora la morte della borghesia, la supremazia della plebe; si diresse alla prima, questa gli è venuta meno di fatto; ed egli Che credevasi isolato, ha visto sorgere spontanea la plebe e sostituirsi a quella.
Il mandato del Comitato nazionale era rivoluzionario; quindi era suo principale carattere quello di escludere la guerra regia, guerra antirivoluzionaria, e già dichiarata dagli avvenimenti del 48 e 49 impotente e volta solo a spegnere l’esaltazione nazionale. Il Comitato nazionale sorgeva per sostituirsi a quel trono, verso cui fugacemente s’eran rivolte le speranze d’Italia; accordarsi con esso era rinnegare la propria legittimità; era assurdo, era ridicolo. Il governo Sardo, quando voglia operare, non ha mestieri dell’adesione d’un comitato di esuli residenti a Londra. E se gli Italiani vogliono seguire le sorti del Piemonte, non dimanderanno certamente, per farlo, l’adesione del comitato; e non volendolo, quell’adesione valeva poco. Il comitato, in luogo di farsi un organo, pel cui mezzo la pubblica opinione poteva manifestarsi ed operare, pretese darle forma e carattere; se ne credette l’arbitro, e parlava come un governo costituito, che offriva patti al governo Sabaudo. Un tale errore fu di breve durata; il comitato, dopo poco tempo, si disdisse.
Unificare la volontà, sgomberando i dubbii, avrebbe dovuto essere l’opera principale del comitato; era seconda quella di ajutare con mezzi materiali l’azione ovunque spontaneamente sorgesse. Il primo lavoro avrebbe dovuto essere quello di distruggere l’antico errore. La rivoluzione non era, e forse non è compresa nel suo vero senso. Il prestigio di un nome superava quello delle idee; ed il nome di Mazzini aveva tanta autorità da aggiungere grandissima forza alla verità per sé medesima potente.
«Italiani, avrebbe dovuto esclamare — in Roma io e tutti coloro che mi circondarono, non fummo rivoluzionari, non fummo all’altezza delle circostanze, e per legge fatale noi potevamo essere; l’Italia doveva subire l’esperienza del 41. Noi avremmo dovuto con un decreto rovesciare l’antico edifizio, proclamare i diritti che ad ogni uomo le leggi di natura accordano. Lasciare ai cittadini libera la scelta de magistrati, all’esercito la scelta dei generali e degli ufficiali d’ogni grado: chiamare tutta la nazione alle armi, bandire la guerra, intraprenderla con audacia; così operando, se il popolo secondavaci, l’Italia era salva; nel caso contrario, saremmo eziandio caduti, ma con la coscienza di aver fatto il proprio dovere. Noi invece calcammo le orme de passati governi; aggrediti, abbiamo resistito, ecco il merito. Facciamo studio su questi errori; per non incorrervi nell’avvenire.»
Ben lungi dell’esserne oscurata, sarebbesi accresciuta immensamente la fama di Mazzini. Invece la repubblica romana venne dichiarata repubblica modello.
Mazzini, se erra, conserva sempre la coscienza la più pura, e le intenzioni le più rette. Egli non tradisce mai i suoi principi; sono i suoi principi che qualche volta tradiscono lui. Egli propende a credere che gli individui non rappresentino le nazioni, ma che le nazioni seguano l’impulso de pochi; e cotesto è gravissimo errore. Mi spiego più chiaramente. L’individuo non potendo avere idee, che non siano state generate in lui dalla impressione che riceve dal mondo esteriore, non può mai svelare verità, il cui germe non si trovi già abbastanza sviluppato nella società. La fama immediata è retaggio di colui che afferra il concetto collettivo e lo svolge all'occhio dell'universale; o di quello che, nel campo dell’azione, non trae la nazione dietro di sé (cosa impossibile), ma la regge in quel cammino, che la nazione medesima presceglie. La vanità dell'uomo lo induce a credersi creatore di quei concetti, che ha semplicemente svolto, inspiratore di quelle imprese, che, dall’universale volontà sospinto, produsse a fine; e mentre l'uomo cosi favorevolmente giudica sé stesso, Ogni altro non trovando in sé o in altri tali concetti, conferma un tale giudizio, e di qui la personificazione de' principii, la deificazione degli uomini; mentre la società nell’onorare gli eroi, altro non fa che onorare le sue più eccelse opere; è un artista che ammira il proprio lavoro. Quando la fama di uno scrittore è universale, e finanche il volgo comprende le sue idee, esso sarà onoratissimo, produrrà alla patria beni incommensurabili; se poi questa fama restringesi nel picciol mondo di dotti, allora verrà dimenticato, non frutterà alcun bene, o tutto al più lo rammenteranno ed onoreranno i posteri. Eppure il secondo ha merito molto maggiore del primo. Questi ha schiusa la via ad un erme quasi impercettibile e diede un frutto tanto precoce che la società non vuol riconoscere come suo; quegli ha trovato la pianta già rigogliosa e grande, ed il frutto già maturo; ha durato poca fatica a coglierlo. Secondo la teoria dei deificatori di uomini, se Romolo, Cesare, Carlo Magno, Napoleone... non fossero nati, l’umanità non avrebbe storia. Così l’uomo per non riconoscere la potenza collettiva, cade nel puerile.
Gli eroi sono effetti, non causa degli avvenimenti sociali; i loro caratteri sono il complesso de' vizii, delle virtù, delle tendenze dell'epoca; la società può riconoscersi in essi, come un uovo nell’imagine che si restringe sul breve cerchio dello specchio di una picciola lente, n popolo che vi addita come suoi duci i Scipioni, gli Attila, i Cincinati è un popolo libero; la gloria e la grandezza della patria ne sono le passioni predominanti Se, per contro, sono i Cesari che primeggiano, potete inferirne che la nazione inclinasi allo splendore guerresco ed alla forza; se volontariamente lasciasi reggere da nomini inetti e corrotti, la nazione declina. Facciamo fine alla disgressione, per ritornare al Comitato.
Il concetto, non solo il finale, ma le prime linee dell’avvenire, mancavano all'Italia. Le questioni di unità e di federazione pendevano incerte, né sono ancora risolute. Per unità s'intende la francese, per federazione quella adottata nell'Elvezia o nell'America. L’opinione prevalente senza dubbio è l'unitaria; ma i fatti danno ragione ai federalisti; nei passati rivolgimenti fu impossibile tradurre in atto il concetto. Roma, Firenze, Genova, Venezia, Palermo furono libere; e ad onta degli sforzi fatti dal partito unitario, non si unirono. Il modo come operare ne' primi istanti d’un' insurrezione incertissimo; gli Italiani, vittoriosi in una città, non sanno come governarsi, non sanno quale sia il prossimo avvenire che li attende. Dà ciò la deificazione de' nomi; insurgiamo, concediamo al tale tutti i poteri, ed egli penserà al resto. Strana e ruinosa aberrazione è questa. Per essa si rinunzia alla libertà con tanti sacrifizi acquistata; si ammorza l'esaltazione; e noi che manchiamo di un prossimo e splendido passato, epperciò manchiamo d'uomini, e fondiamo sugli uomini il nostro avvenire!! Questi dubbi, questi errori, in luogo di venir attenuati con un esteso lavoro di propaganda, furono dal Comitato nazionale confermati.
La propaganda rivoluzionaria in Italia, pel numero dei nemici, per le varie divisioni politiche, per le sentite e numerose tradizioni municipali, è lavoro difficilissimo, che solo la potente voce della nazione può compiere. E questa voce solenne viene espressa da ogni italiano, che parla, scrive, opera come meglio crede, in un campo libero e non già angustiato dalle tiranniche esigenze dei governi e delle sette. Dalle discordi voci, dalle tante idee che si manifestano emerge il concetto collettivo, che notifica le tante volontà latenti «ino all’istante dell’azione, i fatti che si svolgono lo manifestano. Tanto il federalista, quanto l’unitario che propugnano le loro dottrine, hanno eguale diritto alla gratitudine della patria, perché entrambi, manifestando i pregi ed i difetti di due sistemi, rischiarano l’argomento, ed entrambi sono sotto l’ampio vessillo della rivoluzione, che il comitato avrebbe dovuto inalberare. Egli, elevandosi al disopra di tutte le opinioni, avrebbe dovuto avere per missione il facilitare cotesta propaganda, che sorge spaventosa fra i cittadini, facendo abilità ad ogni scritto rivoluzionario, senza prediligere una dottrina più tosto che un’altra, di circolare liberamente nell’interno. Il comitato non avrebbe dovuto credersi un governo, aggiunti a tanti che opprimono l’Italia, ma un mezzo di eludere la vigilanza di èssi, e scrollarne l’autorità, non crear ceppi, ma rompere gli esistenti; non chiedere silenzio, ma libertà di dire; non fare né dire ma lasciar fare, lasciar dire: non governare ma rivoluzionare. Il Comitato volle imperare: la sua formula fu tacete e fate, avrebbe dovuto essere; fate e dite come meglio credete.
Le città d’Italia, varie d’indole e di tradizione, e variamente oppresse, non possono astringersi ad un unico organamento, né da un sol centro dipendere, ma solo riceverne aiuto. Il popolo che in varie foggie vede sorgere i patiboli e cadere le vittime, è solo giudice del come i cittadini debbano tra loro intendersi, ed a quali uomini debbano fidarsi. Il comitato volle tutto accentrare nelle sue mani, e che tutti muovessero ad un suo cenno.
L’intolleranza nelle opinioni crebbe a tale, che il Comitato toscano escluse pubblicamente dalle sue file coloro i quali erano unitari, dicendosi abbastanza forte, e mostrandosi quale fazione dominante in Italia, ingenua confessione della più assoluta mancanza d’idee pratiche.
Fu concetto di carbonari (ed allora era idea comunemente accetta) che liberata l'Italia, s’ abbia a conservare, per un certo tempo, una dittatura, educatrice. Ora le opinioni sono cangiate; non si fa guerra ai governanti ma al governo, al principio d’autorità; ed intanto Mazzini, il fondatore della Giovine Italia, che avea combattuto la dittatura in quell'epoca, se ne fece al giorno d’oggi il propugnatore. Dittatura, dice il Mazzini, che preparerebbe l’educazione iniziatrice, con la stampa ordinata ad un fine; con l'associazione pubblica concentrata ad una sola bandiera, con l'esercizio delle facoltà elettorali sin dove è possibile ai militi. Ed è questo appunto il principio su cui fondasi il dispotismo; il quale non dice voi dovete essere schiavi, ma ammette la necessità di ordinare e limitare la libertà. Non anarchia, continua Mazzini, non tentativo di sovvertimento nelle condizioni sociali, predicazioni inconsiderate di sistemi stranieri, esclusivi, imperfetti, tiranni. Quindi la censura, la persecuzione, lo spionaggio per conoscere se alcuno secretamente si facesse l’apostolo di tali sistemi, erano le conseguenze immediate di coteste massime. Egli è certo che scrivendo queste parole soggiacque ad un momento d’aberrazione. E chi sei tu, può rispondergli ogni italiano, che pretendi proibirmi di propugnare tali sistemi? D’onde traggi il convincimento che questa sia la volontà della nazione? se questi sistemi sono contrari al voto pubblico, essi saranno respinti; io, italiano quanto te, sono di opinione diversa, e quale altro giudice se non l'universale volontà, ed il fatto, può decidere la nostra contesa? Tu dici che la nazione in ceppi non può esprimere la sua volontà; ed ammesso questo, come puoi asserire che il tuo e non già il mio sia il concetto nazionale? E poniamo il caso che l’Italia risorga; che trascurando la sostanza delle cose ed attenendosi alla forma, ti conceda assoluti poteri, e col potere la forza, tu mi costringerai a tacere, ma non perciò avrai ragione, e ne avrai tanta, quanto ne ha Buonaparte contro i socialisti di Francia. È vano il dire, la nazione mi ha concesso la forza; tutti i tiranni possono dir altrettanto, allorché non reggono in virtù di forze straniere. Furono francesi quelli che compirono il colpo di stato, francesi quelli che votarono; e se la Francia non volesse davvero, potrebbe reggere Bonaparte sul trono? Nel potere a te, o a chiunque altro concesso, io non vedrei, se questo potere restringe la mia libertà individuale, che il momentaneo trionfo d’una tirannica fazione. Come adunque decidere la questione? Se dal primo istante che in un angolo qualunque della terra italiana cesserà il presente stato di cose, avremo tutti prima libertà di dire, e nessuno la forza per porre altrui il bavaglio e la nazione accetterà le tue e non già le mie idee, allora io ti darò ragione. Ma finché tale prova non sia fatta, chiunque vorrà imporre una sua opinione dicendo: «così vuole il paese» se ha forza materiale non è che un tiranno. La tirannide, la semitirannide, o qualsiasi specie di governo, esprimendo sempre la prepotenza di una parte più o meno numerosa della nazione, deve, per sua natura, temere le manifestazione dell’universale volontà; essendo dessa che l’osteggia e tende indefessa a sostituire la sovranità del tutto all’usurpazione della parte. Ma bandire la sovranità del popolo, e limitare la manifestazione del pensiero, è un chiedere la luce con favorire le tenebre. Le opere ed i pensieri di una società non possono mai minacciare l’esistenza di essa società, ma tendono sempre d'assettarla ne’ suoi incastri, e contrastano a tutto ciò che vuole spostamela, per mantenerla in un equilibrio 'che non gli è naturale.
Conchiudiamo. Al Comitato Nazionale è avvenuto quello che avviene ad ogni governo, cui non sia tronca affatto la possibilità di usurpare. Per istinto invariabile dell'umana natura, gli uomini che lo compongono cercano farsi centro d’attrazione di quanto succede, e sempre, comecché spesso con rattissimi fini, pretendono che tutto pieghi alla loro volontà. Essi praticano e non dicono ciò che il XIV Luigi diceva e praticava: «lo Stato son io.» Il Comitato fece solitudine intorno a sé, allontanandosene tutti coloro che non volevano abdicare alla ragione e credevano assurdo e ruinoso errore il rinunziare alla libertà per conquistarla.
La stampa che rappresentava il partito, in luogo di richiamarlo con severa critica sul diritto sentiero, sacro debito d’italiano, credette migliore tattica adularlo. Disconobbe così la propria missione, e prese norma dagli scrittori ministeriali, i quali, in luogo di correggere, lodano a cielo gli atti del governo. I pochi utili atti che un governo o un centro qualunque può compiere portano scritta in fronte la loro apologia; sono innumerevoli i dannosi che la stampa dovrebbe energicamente attaccare. Ogni governo, ogni centro, a cui per necessità viene concesso un potere superiore a quello che per loro medesimi avrebbero gli individui che lo compongono, è un ulcera che tende a spandersi sulla società; e bisogna che la pubblica opinione si adoperi ad arrestarne il progresso.
Intanto se, per aver visto gli Italiani uniti a rovesciare la monarchia, adattarne i principi, le forme e i costumi, bisognò conchiudere che la rivoluzione non era compresa; nella guisa stessa, scorgendo come il comitato cessò, perché successivamente gli vennero meno tutti gli appoggi, se ne deve inferire, che vi è stato progresso significante nelle idee. Come il cristianesimo è sceso nel sepolcro coi panni da filosofo di cui l’hanno vestito Gioberti e Rosmini del pari il Comitato Nazionale (speriamolo almeno) è stata l’ultima prova del principio monarchico, che, trasformandosi in mille forme, mascherandosi con vari nomi, si è spento con quello di comitato rivoluzionario.
Pongo fine a questo capitolo consacrando a Mazzini le ultime parole. Ho fatto tacere ogni simpatia personale, e com’era mio debito, l’ho severamente giudicato. Ora mi sarà caro il dire, che il suo nome, ad onta della mia censura, avrà sempre meritate le più splendide pagine della nostra storia. Ninno, durante l’intera vita, ha operato con fini più retti; niuno ha rivolto con maggior costanza tutti i pensieri e tutte le opere ad un sol fine, così grandioso come è quello del risorgimento italiano. Una tale idea ha inspirato la sua giovinezza e ne ha assorbito ogni affetto. Nella storia antica e moderna non si riscontra un uomo, che abbia sacrificato tutto l’utile privato ad un utile pubblico sperato. Cotesto tipo i di cui tratti i pensieri e gli affetti si riassumono indefessi e costanti nell'amore alla patria, è frutto di terra italiana, è una gloria di più da aggiungersi alle tante che noi contiamo.
XVI. Cessato il Comitato italiano, gli Italiani ondeggiarono nell’incertezza. Surse in alcuni l’idea di ricostituire un nuovo centro; fortuna che non si rinvennero uomini, che avessero raccolti i suffragi universali, altrimenti saremmo ricaduti nel fatale errore per cui tutte le rivoluzioni riescono infruttuose: cangiare gli uomini ritenendo i principii.
Il più grande amatore di libertà, non appena assume il potere, se non è uomo dappoco, vuole che tutto pieghi alla sua volontà; epperciò il nuovo centro, come il caduto, avrebbe personificato in sé medesimo la patria, dichiarando ambiziosi e corrotti coloro che si fossero opposti alle sue mire. Il comitato aveva fatto un gran bene; aveva incarnato il convincimento sugli Italiani, di operare la loro salvezza dalla cospirazione e dalle proprie forze; aveva poi prodotto un gran male, quello di dare alle cospirazioni un carattere passivo, che, invece di operare da sè, aspettavano sempre e l’imbeccata e gli ordini altronde. Per determinare il modo come governarsi in tale bisogna, è d’uopo esaminare come operino queste forze latenti che si nascondono nel seno d’un popolo, e che in alcuni giorni fatali si manifestano terribili.
Le nazioni funzionano come l'individuo, che prima avverte appena, poi con turbamento, quindi riflette, in ultimo opera. Ma sovente il dolore troppo vivo precipita l’uomo dal turbamento all’azione, senza dargli campo a riflettere, mentre altre volte gli stimoli essendo leggieri, ne prolungano oltre il bisogno la riflessione. Nella guisa medesima, in una nazione ove godesi una certa libertà di pensiero ed ove i mali sono leggieri, si svolgono fra un importuno cicalio molte dottrine; per contro, ove forti sono i dolori ed interdetto il pensiero, i fatti abbondano e quasi sempre prendono le parole. Da ciò s’inferisce quanto sia assurdo il voler decidere se una nazione debba ragionare o combattere; egli è lo stesso che pretendere di voler regolare secondo la propria volontà il moto degli elementi.
Le idee, i ragionamenti, le dottrine politico-sociali, non sono che lo studio dei mali che opprimono la società, e la ricerca dei modi come lenire questi mali. Secondo le circostanze e l’ingegno dell'autore più o meno inclinato all'astrazione, le dottrine si allontanano, e si avvicinano alla pratica, dai mali che opprimevano la sua patria, fu mosso a cercarvi un rimedio» e non potendo appigliarsi agli immediati e pratici, perché l’epoca glielo avrebbe interdetto, e la natura del suo ingegno noi comportava, si elevò ad altissime regioni; e l'animo suo achetossi, trovando che una legge e non il caso reggeva i destini dell’umanità; legge ch’egli nominò provvidenza; e determinò così la periferia di quel circolo, su cui le nazioni dovevano compiere il loro giro. Mentre Vico rivela un fatto che riconosceranno sempre con maggiore evidenza le future generazioni, vi sarà altri d’animo rimesso e d’ingegno pedestre, che, stimolato dai medesimi moventi, dopo lunghi ragionamenti, chiederà il cangiamento d’un ministro o qualche insignificante concessione. Fra questi due estremi trovasi tutta la diversa gradazione degli scrittori. Or dunque scrittori le cui idee potranno giovare alla costituzione sociale non potranno esistere senza mali sociali. Oltrecché fra placidi affetti e debili passioni è assai raro che si promulghino, in tale materia, grandiose idee ed ardite verità, l’operosità umana manca di stimoli sufficienti; durante la tempesta, e non già durante la calma il pilota manifesta la sua abilità. Quegli scrittori medesimi, che ora imprecano contro le insurrezioni, senza le tempeste del 48 e 4& sarebbero un nulla; sarebbero rimasti ai Prolegomeni di Gioberti. Epperò, ammettere il facile e lento progresso, fra il continuo prosperare della società, è un pretendere l’effetto senza la causa.
Come i mali sociali fanno sorgere gli scrittori, i medesimi mali producono le sette, le congiure, le insurrezioni. La gradazione che scorgesi fra gli scrittori, si osserva eziandio fra i cospiratori, essendo stimolati dai medesimi moventi. Avvi congiura per conquistare una patria libera, e solo per l'abolizione di una tassa. Cosi procedono le nazioni col pensiero e con le opere; e siccome l’uomo compie i più grandi fatti quando esegue energicamente ciò che maturatamente ha pensato; così le nazioni sono mature, e toccano quasi la meta alla quale aspirano, allorché gli scrittori ed i cospiratori tendono al medesimo fine. Quale è in questo svolgersi delle umane vicende l’opera ed il dovere del rivoluzionario? Con la penna trattare tutte le quistioni che conducono al fine bramato; con la congiura far cospirare l’azione al medesimo fine, e cercar di legare strettamente il pensiero e l’azione. Dire fucili e non libri è un errare, come il dire, libri e non fucili.
Abbiamo già veduto in una sequela non interrotta di fatti, dal 1814 al giorno d’oggi, le varie esperienze attraverso le quali ha proceduto il popolo italiano. Da queste esperienze, e non già dai libri, risulta la coscienza nazionale. Ma questa coscienza ove si manifesta? negli scrittori o nei cospiratori? Indubitamente nei secondi. Cotesta coscienza, cotesto sentimento è vago nella generalità, in pochissimi è reciso; esso per conseguenza è soggetto a vacillare sotto l’impressione dei fatti. Gli avvenimenti sotto tanti diversi aspetti, sono sempre erronei; come i gruppi dei monti, i quali sembrano cangiare la loro dispositura, al cangiare del sito dell’osservatore; quindi quel mutare continuo delle opinioni. Una nota diplomatica, le parole di un ministro, la morte di un principe possono dar ragione ad una quantità d’opuscoli; sono essi l’espressione della coscienza nazionale? no. Ma mutano la coscienza nazionale più o meno modificata da tale avvenimento, secondo la gagliardia d’animo di chi scrive. La cospirazione, per contro, non prende le mosse da tali avvenimenti, ma molto più da lungi; le sue aspirazioni e le sue forze non le cerca in ciò che mostrasi nella società, ma in quei sentimenti, in quelle aspirazioni occulte non solo, ma osteggianti; inoltre il congiurare richiede fermezza di proposito e gagliardia d’animo più dello scrivere; quindi tutte le circostanze concorrono a mantenere salda cotesta coscienza nazionale più nel cospiratore che nell’autore. Epperò le aspirazioni di quello sono prove più evidenti che le ragioni di questi.
Quanti libri, discordi fra loro, sonosi stampati in Italia dal 49 al giorno d’oggi? Chi vuole l’Italia una; chi il regno boreale; chi due Italie; chi spera tutto dalla Francia; chi tutto dal Piemonte. Quale sarebbe la coscienza nazionale? impossibile a dirlo. Ma osservate le cospirazioni, le congiure, i martiri tutti indistintamente ed in tutte le epoche hanno accennato al medesimo scopo: Italia una e libera; e quindi è forza inferirne che, ad onta dei colpi di stato, dei protocolli, dei memorandum, la coscienza nazionale è rimasta salda. Sarebbe stoltezza attribuire al solo Mazzini, ispiratore della maggior parte di questi tentativi, tale fermezza di proposito. Mazzini non avrebbe potuto trovare mai tante braccia pronte ai suoi voleri; egli, cessato il Comitato, ritornò ad essere semplice cittadino, e, come tale, fece molto più bene di quello che non aveva fatto come membro del Comitato; la sua operosità, la sua fortuna, il suo credito personale furono al servizio di coloro che volevano tentare di salvar la patria. Forse avrebbe potuto accettare con più riserva, o rifiutare certi progetti che non promettevano riuscita; ma da questo picciolissimo torto, all'accusa stolta di mandare la gente al macello, avvi un abisso. Egli avrebbe dovuto, a parer mio, scegliere una sola regione d’Italia, evidentemente il mezzogiorno, © su quella accentrare tutti i mezzi di cui disponeva.
Invece preferì farsi centro universale, a cui ricorrevano tutti coloro che volevano trarre in atto un pensiero generoso. Cori governandosi, forse, avrà ritardato una rivoluzione; e se avesse negato agli operosi i suoi soccorsi, cosa non facile per chi sente sviscerato amore di patria avrebbe risparmiato qualche vittima; ma non perciò il bene che egli ha fatto può disconoscersi. Poniamo il caso che non fosse esistito il Comitato nazionale, né l'opera sua, né Mazzini, o altri come lui che avesse continuamente fomentato le cospirazioni e le congiure; è che in Italia, secondo avrebbero voluto i dottrinanti, niuno avesse pensato a muovere; chi parlerebbe d’Italia? Forse l’Austria, rassicurata dallo spirito pacifico delle sue popolazioni avrebbe imposto al Piemonte delle restrizioni alle sue libertà; ed il Piemonte stesso in una tranquillità generale, non avrebbe inteso il bisogno di mostrarsi ostile all’Austria. Sa che si fondarono le ragioni addotte al congresso di Parigi, per chiedere riforme? sugli articoli di giornali e sui libri stampati in Italia, o sulle vittime, sui condannati, sui processi continui, che sono poi l’effetto delle congiure, di quella resistenza organizzata in Italia? Ed a quale partito è dovuta la presente agitazione in Inghilterra in favore d’Italia? Ai dottrinanti o ai cospiratori? Ripetiamolo; sono i fatti e non le dottrine che manifestano la vita della nazione.
Una nazione, ripeteranno i dottrinanti, che risorge senza un concetto politico reciso, ricade nella schiavitù. D’accordo in questo. Ma questo concetto politico non si forma né diventa popolare coi libri ma coi fatti; i rivolgimenti del 48 falliti sono quelli che hanno convinto gli italiani di non aver fede nei principi, perché casta, la quale ha degli interessi affatto staccati dal popolo; e, come nel 48 coloro i quali dimostravano questa verità non erano ascoltati, anzi maledetti, cosi in un nuovo rivolgimento rimarranno delusi coloro che vorrebbero rifare il 48. Il popolo progredisce nelle sue idee, ma i soli fatti lo balzano da un concetto in un altro.
Se dai libri dipendesse il progresso di una nazione, gli scrittori sarebbero gli arbitri delle sorti dell'umanità. Invece sono gli uomini d’azione che imperano; e tutti gli usurpatori da Cesare a Bonaparte, hanno sempre trovato un grandissimo appoggio sulla coscienza nazionale, di cui quasi potevano dirsi i rappresentanti secondo i mezzi più o meno violenti, più o meno obliqui, con cui hanno raggiunto il fine.
Quale scrittore in buona fede può affermare che la plebe, che non sa leggere, si educhi coi libri? Non parliamo di coloro che sotto il despotismo pretendono che il popolo si educhi a libertà per poi esserne degno; tanto vale dire ad un uomo legato: prima di scioglierti è d’uopo che impari a correre; né diciamo degli altri che, vedendo un popolo corrotto, pretendono renderlo morale, non già sbarbicando ogni germe di corruzione, ma proponendo un reggimento fondato precisamente su di un sistema corruttore; ma di quelli i quali credono possibile, a furia di scritti, spandere le idee rivoluzionarie.
La plebe non è dotata di quelle eroiche qualità che alcuni le attribuiscono; la plebe sovente, traviata dai pregiudizi ed angustiata la mente dall'ignoranza, ondeggia fra la temerità e l’abbiettezza. Stimolata dai materiali bisogni, la sua mente non può elevarsi a pensieri sublimi. Ma se tra la moltitudine uno giunge ad appuntare l’intelletto sulle questioni politiche che agitano il paese, quasi per istinto ragiona con maggior esattezza che il migliore fra gli scrittori; imperocché tutte le impressioni che il mondo officiale, o che l’attuale ordinamento sociale produce, sulle altre classi della società non hanno presa, come non hanno ascendente sull’uomo del popolo. Questi non è stimolato che da' mali; ragionando, riconosce senza fatica dove è il bene. Ma coloro i quali non sentono il bisogno di migliorare, ed anzi temono che una scossa improvvisa li balzi fuori da quella nicchia ove godono, se non altro, l’inerzia, amano ragionare dell'avvenire, ma vorrebbero placidamente raggiungerlo, non rischiare per esso il placido presente; di qui l’innumerevole schiera dei conservatori, degli eroi da poltrona flagellati dal Giusti.
Tutti gli sforzi per sospingere un popolo al risorgimento debbono consistere nello svolgere e rendere popolari le idee, adattandole alla loro intelligenza e traendone quelle conseguenze che debbono condurre ad un utile materiale immediato, onde siano sempre fomite maggiore alle passioni, che debbono, essenzialmente, esistere nel popolo. Il rivoluzionario debb’essere apostolo e cospiratore.
«La passione, scrive Beccaria, è un’impressione sempre costante della sensibilità nostra, tutta rivolta ad un medesimo oggetto; essa è un desiderio di ottenere o di fuggire qualche cosa che sempre si riproduce, ed è sempre riprodotta nella nostra mente quasi ad ogni circostanza.» Quindi, perché un desiderio si trasformi in passione, fa d’uopo che vi sia mancanza e percezione della cosa desiderata, il che troveremo verificarsi nel minuto popolo, se ci facciamo a riflettere sul suo stato. La mancanza è la miseria in cui esso geme; una vita più agiata è la cosa desiderata e percepita; e siccome la mancanza del necessario è continua, continuo eziandio è il dolore ed il desiderio del benessere, venendo perciò riprodotto ad ogni istante di sua vita; le passioni esistono e non resta che giovar sene eccitandole e dirigendole ad un giusto fine. L’impossibilità di conquistare il desiderato benessere le ammorza, la mancanza d’un obbietto determinato le svia dal diritto sentiero; e perciò il popolo, o adagiandosi nei difetti si rassegna, oppure con la forza e con la frode tenta rapire ad altri quello che esso agogna e corre cercando l'agiatezza, dall'ignoranza sospinto al patibolo. Scuotiamo adunque gli addormentati, ed agli sviati, mostriamo il cammino. Se il despotismo promette come premio di loro rassegnazione i beni celesti, il rivoluzionario, con la spada della vendetta e la bilancia della giustizia, dovrà promettere beni terreni ed immediati, additando il modo come conquistarli. Esploriamo ogni piaga sociale, richiamiamo su di essa la pubblica attenzione, ed additiamo un solo mezzo come rimedio: la conquista della patria, ma non già di un pomposo nome e di vani diritti, ma la conquista del suolo della nazione e di quanti prodotti vi esistono. Ognuno diventi un Socrate, in piazza, ne’ trivii; al deschetto del ciabattino, al pancone del falegname, si faccia ad interrogare quelle rozze menti e le conduca passo passo alla scoverta della verità. Io sono simile a mia madre, diceva Socrate figlio di una levatrice, non creo nulla, ma aiuto gli altri a produrre. È questo il solo mezzo di rischiarare, in parte, la mente del popolo, di educarlo, e non già tenendolo a forza nelle scuole, o stampando libri che esso non legge. Ma neppur questo mezzo medesimo di propaganda volgare, ed adatto alla sua intelligenza, e che trae argomento dai suoi più pressanti bisogni, neppur esso è bastante a conseguire lo scopo desiderato.
La plebe non si lascia convincere che dai fatti, ma la propaganda di cui discorremmo, elabora, fra un numero ragguardevole di giovani, la conoscenza dei diritti che ad ogni uomo accorda la natura; e codesti giovani, appena il popolo, sotto la sferza del dolore si precipita nel moto e dubbioso non sa ove dirigere gli attacchi e come colorire i desiderii, facendosi tutti oratori di circostanza dureranno pochissima fatica a far loro comprendere quello che in un secolo di calma ed in mille volumi non avrebbero mai appreso dai dottrinanti. Non già la profonda dottrina richiedesi in cotesti oratori, ma forza di carattere che non li faccia retrocedere di fronte alle conseguenze ignote de' principii da essi propugnati. Guai se essi si accostano alla spregevole schiera de' così detti moderati, se si atteggiano da rivoluzionarii, da riformatori, da amici de popoli, perché si fanno a sostenere alcune franchigie che servono a riempiere le loro casse e soddisfare la loro bassa e puerile vanità. Il rivoluzionario di buona fede sospinge lo sguardo sulle moltitudini, e non mira che al trionfo della vera democrazia. Discendere alla benché minima transazione è un rinnegare la rivoluzione; come la minuta polve che il turbo solleva, o poggiasi sulla corona de' re e sulle eccelse torri, o pure ricade sotto i piedi dei passanti, così il minuto popolo o acquista pieni ed interi i suoi diritti, o ritorna turba di vilissimi servi derisi con pomposi nomi. Quando non mirasi al trionfo d’una setta, o d’una classe di cittadini, il mezzo termine, qualunque esso sia, tronca i nervi della rivoluzione e l’uccide.
Finalmente agli spiriti rimessi e timidi, a cui è spavento l’assoluta libertà, e che chiedono programmi e nome, risponderemo che il programma già esiste. Siete voi rivoluzionarii? mirate al trionfo della vera democrazia? In tal caso per voi non può esservene altro che gli aforismi di cui ragionammo nel terzo capitolo. Se pretendete limitarne, nella benché minima parte, il significato, cesserete d’essere rivoluzionarii, non sarete che opportunisti o faziosi.
XVII. Fatto studio sul modo con cui la nazione elabora le idee ed opera onde prorompere all'azione, è mestieri segnarne, supposto iniziato il moto, le prime orme. I principii da cui bisogna prender norma, sono quei medesimi accettati da' rivoluzionarii; quindi ognuno altro non dovrà fare che mostrarsi consentaneo a sé medesimo, e respingere qualunque misura, comunque temporanea, che li leda nella benché minima parte.
Da. tale base prenderemo le mosse, e ei faremo a sviluppare un tale argomento.
La più importante quistione a risolversi è il determinare il potere che dovrà reggere quella parte d’Italia, che prima sarà sgombera da' nemici, e quindi, mane mano, l’Italia tutta sino al termine della guerra.
La sovranità del popolo, che tutti bandiscono, a cui tutti aspirano, è, col governo, la sostituzione del concetto collettivo all'individuale. Il concetto collettivo emerge dallo stato di progresso della nazione, costituito da' svariatissimi rapporti sociali. Chi parlasse di libertà a gente che avesse servo il cuore, non sarebbe compreso, i suoi sforzi tornerebbero vani; a gente di spiriti liberi, farebbe schifo il linguaggio di uno schiavo. Il concetto della nazione è fatale esso è il solo giusto ed il solo possibile, esso sarà, indubitatamente, l’arbitro delle nostre sorti; lasciamo adunque che si manifesti liberamente. Il pretendere di mutarlo è vano. Diremo solo che un popolo, il quale per esser libero vuol esser dominato, o erra o non è degno di libertà; e tanto nell'uno quanto nell'altro caso non sarà mai libero, e più che ogni altro popolo l’italiano, perché maggiori ostacoli si frappongono al suo risorgimento, e per superarli gli fa d’uopo libertà maggiore.
La dittatura debbe esser potente; se non è tale non è dittatura. Essendo scopo di un tale maestrato, il far prevalere la propria volontà a quella dell’intera nazione, bisogna che i capi dell'esercito e tutti i pubblici funzionarli siano di sua scelta; gli è mestieri di una polizia onde spiare i passi ed i pensieri de' cospiratori, de' ribelli, immancabili, perocché essi sono alla dittatura come l’ombra ai corpi; e dovendo rivolgere in suo favore l’opinione pubblica, deve, per conseguenza, spiare i pensieri di ognuno; ed infine dovrà possedere a sua tutela una potente forza materiale. Un tale governo sarà divenuto ancora più solido per le ottenute vittorie; e quando l’epoca della sua missione sarà compita, chi potrà imporgli di cedere il posto alla Costituente? Così la libertà conquistata a prezzo di tante vittime, di tanti sacrifizii sarà in balìa di uno o più individui, dalla cui buona fede dipenderà la sorte della nazione.
Ma chi ignora quanto sia facile che nella mente dei dittatori surga l’idea che essi siano necessarii all’Italia, che abbiano una missione da compiere? Se tale idea diventa sentimento, eglino trucideranno e si lascieranno trucidare prima di abbandonare il seggio dittatoriale. L’amore stesso del paese, e la natura umana generano un tale sentimento. Ognuno credendo le proprie idee le migliori, crederà fare il bene della patria costringendola ad accettarle. Chiunque è al potere (esclusi quei tiranni che per salvezza personale cercano tutto colpire perché di tutto temono) crede in ogni suo atto fare cosa utile o almeno necessaria al paese. Nel 1494 i fiorentini cacciarono i principi, e per porre rimedio a' tanti mali da cui erano gravati, confidarono pieni poteri a coloro che credevano atti a governarli. Ma ad onta del continuo cangiar di governanti, scegliendo coloro i quali con maggior veemenza declamavano contro cotesti mali, andarono sempre di male in peggio. D’onde l’adagio italiano: costoro hanno un'anima in piazza ed un(9) altra in palazzo. E pure il torto non era di coloro che erano assunti al potere. Un uomo non può cangiare mai totalmente i rapporti stabiliti dal lungo lavoro de' secoli. Solo una rivoluzione può farlo. I Fiorentini avevano nelle loro mani il modo di sciogliere il problema, dichiarandosi e rendendosi di fatto liberi ed uguali: la nazione sola poteva far ciò, non mai un individuo. I mali scaturivano da un solo fatto, i pochi straordinariamente ricchi, moltissimi mendichi, né vi erano governanti che valessero a dissipare tale mostruosità.
Ogni cittadino ha il diritto di proporre leggi e riforme, ma chiunque dice: «abbiate fede in me, affidatemi il potere, ed io vi renderò liberi e felici», costui non merita neanche di essere ascoltato. Libertà ed uguaglianza sono i cardini su cui deve poggiare l’umana felicità; tutte le leggi che favoriscono questi principi, ottime, quelle che tendono a limitarli, pessime; la fede negli individui spalanca alla nazione l’abisso, imperocché la fede senza convincimento turba l’uguaglianza.
«L’autorità libera nel potere, limitata nel tempo, scrive il Machiavelli, è pericolosissima, perocché nell’uomo nasce brama di perpetuarla, né gli mancano i mezzi; ma questi non essendo dati dalla legge a quel fine al quale egli l’indirizza, debbono per necessità diventare tiranni.»
Ammettiamo che in Italia vi siano uomini di una tempra diversa di tutti gli altri, e che, debellati i nemici, educati tutti noi a libertà, essi ritornino, all'epoca stabilita, a confondersi nelle file del popolo. L’orditura del loro governo, l’innesto del governo dittatoriale, il principio che l’informa, l’ubbidienza; gli interessi creati da questo governo non potranno certamente sparire; quindi vi sarà sempre la dittatura. Cangeranno i nomi, le forme, ma non già la sostanza delle cose. Il popolo continuerà ad ubbidire, i pubblici funzionari a comandare, lo spirito della nazione sarà monarchico; ed ogni governo che gli succederà, eziandio non volendo comandare (e chi non lo vuole?!), comanderà come quelli comandavano, Delle due cose l'una; o la dittatura non giungerà a comprimere ed aggiogare gli spiriti nazionali; ed in tal caso riesce inutile; o vi riescirà, ed allora, per rilevarli, fa d’uopo d una seconda rivoluzione. Dopo lunghissimi anni di sforzi, di sangue sparso, di patimenti durati onde esaltare lo spirito nazionale, noi medesimi mentre ci affatichiamo a ciò, andiamo in traccia del mezzo, come comprimerlo. Oh nullità dell’umana ragione!!!... Terminata la guerra sotto il reggimento dittatoriale, ci troveremmo una monarchia senza re, ed i re facilmente si trovano. Guai quando non si confermano da' primi momenti le conquiste del popolo!
Fino ad ora abbiamo ragionato ed abbiamo ammessa possibile la dittatura civile, ma essa non può distinguersi dalla militare. Le forze armate della nazione saranno, oppur no, sotto la sua immediata giuri edizione? Se vi saranno, la dittatura militare di fatto, se non vi saranno non esisterà dittatura. Ma ammettiamo eziandio cotesta anomalia, vi Sarà dittatura di uomini non militari La loro sorte è irrevocabilmente decisa; eglino verranno cacciati di seggio col piatto della sciabola dal vincitore delle prime battaglie. Quei giovanotti medesimi, che ora parteggiano da fanatici per la dittatura, allora saranno gli strumenti che la cangeranno. La gloria militare eclissa qualunque altra, rapisce l’animo de guerrieri in favore di colui, dal cui braccio, dalla cui mente riconoscono l’inebbriante piacere della vittoria; quindi il generale disporrà dei soldati. Intanto questo generale che periglia in campo» e oredesi giustamente la salvezza di sua patria, con riluttanza riceverà ordini da un governo civile; egli Crederà, e non a torto, che durante la guerra, da cui la nazione spera salute, sia più giusto, più logico, più utile, che un guerriero abbia questo assoluto potere, non mancherà di ghermirlo, eziandio con la forza. Non Senza ragione i principi cercano fra i più fidi servitori i capi dell'esercito, si circondano di prestigio, si rin calzano col diritto divino, si dichiarano guerrieri essi medesimi, anche Benza esserlo.
I convenzionali francesi, uomini al certo di somma energia, caddero inesorabilmente sotto la spada di Napoleone; vissero otto anni, e vissero a prezzo di moltissimo sangue, imperocché richiedendo la Francia quattordici eserciti, poterono contrapporre gli uni agli altri i varii generali; ma non appena la riputazione di uno elevossi su gli altri, quest’uno ghermì il potere. In Italia richiedesi un solo esercito, epperò dopo la prima battaglia vinta, il generale non avrà rivali. Nei 48 in Ungheria la dittatura finì per passare nelle mani di Georgey. La repubblica francese del 48 creò una presidenza civile, ed essa ben presto si è trasformata in dittatura militare. Pare impossibile come l’amor proprio faccia disconoscere le verità più evidenti, i fatti più noti. È un assioma, è un fatto evidente, che ripetesi tuttogiorno, e può dirsi esistere nell’ordine naturale delle cose, che la forza militare s’impadronirà sempre della dittatura se essa esiste. Con facilità ed indifferenza cangiasi di padrone; anzi natura del popolo è, se lo accostumasi, ad ubbidire, di scegliere colui che più imperiosamente comanda, e tutto quello che viene creato( )dalla forza, presto o tardi in potere della forza ritorna. Per contro, se dai primi istanti cominciasi ad assaporare la libertà niuno soffrirà ch altri venga a rapircela; e quanto è naturale e facile il sostituirsi in luogo d’un altro, tanto è difficile cangiare le istituzioni, ed un reggimento libero trasformarlo in dittatoriale.
Risuona nella bocca di molti il nome di Washington, quale argomento che dimostri l'utilità della dittatura, la possibilità d evitarne i perigli. Ma un tale fatto che verrebbe a rincalzare le nostre asserzioni (imperocché sarebbe stata una dittatura militare), non ha mai esistito, e chi il crede ignora affatto quell'interessante storia. Le leggi, le istituzioni da cui venivano rette le colonie inglesi in America, erano liberalissime, quasi come lo sono al presente, eziandio prima della guerra. In ogni Stato i pubblici funzionari erano eletti dal popolo, le leggi, le tasse decretate dalle assemblee, liberissima la stampa, garantita la libertà individuale. Scacciati i governatori che dall’Inghilterra venivano inviati in ogni Stato, le colonie furono di fatto liberissime, senza aver bisogno di mutare la costituzione, o di far nuove leggi. Un congresso assunse il potere supremo, non di far leggi, non di educare. non di limitare i diritti di cittadini, ma incaricato solo di riunire gli sforzi dei varii Stati, richiedendo ad ognuno uomini e danaro per osteggiare il nemico comune.
Ogni Stato, con riprovevole costume, ebbe le sue milizie; era vi poi un esercito comune a tutti, e qualche volta due dipendenti dal Congresso. Di questi due eserciti, uno solo, il maggiore, fu capitanato da Washington; ma egli non ebbe mai ingerenza alcuna nelle faccende civili, ed il suo potere, come semplice generale, fu inferiore a quello che concedesi comunemente ai condottieri di eserciti; la sua opinione, eziandio nei disegni di guerra, doveva sottostare a quella della maggioranza de' generali.
In un momento assai difficile il Congresso gli conferì sei mesi di dittatura; ma il suo potere in altro non consisteva che nell'eseguire gli arrotamenti, provvedere l’esercito nel modo il più spedito possibile, e, senza dirigersi al Congresso, scorsi i sei mesi, i suoi poteri furono di nuovo limitati. Solamente la sua opinione ne disegni di guerra fu dichiarata prevalente, e cori corressero un grave errore. Washington non fu mai dittatore nel vero senso in cui s’interpreta questa parola. Egli, per carpire in America un potere dittatoriale, non bastava che si fosse costituito al Congresso, ma sarebbe stato costretto a debellare ad uno ad uno i diversi stati e cangiarne le istituzioni. Washington salvò l’America, non già per gli estesi poteri a lui accordati, ma pel suo gran carattere mostrato come generale. Egli (concedasi a tale eroe una breve digressione) rimase saldo durante le avversità e le difficili congiunture in cui mettevalo la dissoluzione del suo esercito. Egli fu gran generale, e la sua condotta, forse, fu superiore a quella di Fabio Massimo. Questi ebbe forze sempre superiori al nemico, e comandava a Romani, per indole e tradizione guerrieri per eccellenza; quello comandò esercito sempre minore del nemico, e composto di gente raccogliticcia, a cui mancavano tradizioni ed abitudini militari.
Fabio non impedì le scorrerie del nemico; Washington, senza combattere, interdisse tutte le operazioni agli inglesi; ed in ultimo, ghermita l’occasione, e col semplice soccorso della flotta francese, distrusse un esercito nemico, e pose fine alla guerra.
La Svizzera, le Fiandre, l’America, la Francia, la Grecia, hanno compito memorabili rivoluzioni; martiri, eroi, battaglie, combattimenti, ostinate difese di città, nobili sacrifizii; nulla ad esse è mancato, e le gesta delle due ultime nazioni sono, è cosa innegabile, più brillanti, gli eroi più sublimi, e maggiore lo sviluppo delle passioni; nondimeno Grecia e Francia sono schiave, le altre libere; d’onde questa differenza? Le prime non dovettero far altro che rovesciare il giogo che interdiceva lo sviluppo delle loro libere istituzioni comunali, non concessero mai ad alcuno il potere di comandare a bacchetta, e noi potevano concedere senza ledere le libere leggi che si trovavano in vigore, e perciò il despotismo non trovò terreno da gettare le sue radici. Per contro, tutte le nuove costituzioni francesi non hanno distrutta ma riformata l’antica, la quale è pura emanazione della tirannide, e corrivi i francesi perché d’indole servili, a concedere estesi poteri, a crearsi le pouvoir fort, confessi dicono, ad onta delle goffe e stolide complicazioni aggiunte alla macchina governativa per garantirsi, essi sono stati sempre schiavi, sempre tiranneggiati, durante la rivoluzione, e dopo la rivoluzione. La Grecia ebbe tutto a creare, ed in luogo di abbandonarsi liberamente alle proprie ispirazioni, prese norma da Stati che si dicevano inciviliti, ritornò serva. In Italia, le istituzioni in vigore sono tali, tali le abitudini dei pubblici funzionari, i quali si credono i padroni, non già i servitori del popolo, che se concederemo dieci gradi di potere ad un governo, esso, indubitatamente, ne usurperà altri dieci. Guai a noi se d faremo a ritoccare e correggere l’antica legislazione, a conservare le vecchie basi, la vecchia orditura, noi non Usciremo dalla schiavitù, ma stringeremo, complicheremo le nostre catene. Gli Italiani debbono spianare affatto il vecchio edilizio, e lasciare che i rapporti fra i cittadini nei comuni, e quelli de comuni fra loro, vadano creandosi da sé, non assegnando loro altra norma che leggi di natura ed il Cristo passato. La nazione essa medesima prenderà l'equilibrio sul suo vero centro di gravità. Per condurre la guerra, basta un centro, come diremo, ove facendo capo i mezzi che la nazione vorrà impiegarvi, verranno diretti contro il nemico.
Nell’antica Roma il potere dittatoriale non poneva in nessun rischio la libertà; il paese era già costituito, le leggi quali si convenivano ad un popolo libero, e queste leggi tacevano pel breve tempo che durava la dittatura, quindi riprendevano vigore. Eravi, inoltre un potente patriziato, quasi tutti già generali di eserciti, guarentigia bastante contro ogni usurpazione. Né la dittatura doveva dar leggi o educare un popolo; essa era dittatura militare e non civile, e fu creata dai patrizii onde contrapporla al potere tribunizio Propugnare in Italia una dittatura educatrice ed educatrice a libertà, è tale enigma, è tale frase che altro non racchiude, che una manifesta contraddizione.
Dimostrato come la dittatura altro non sia che una contraddizione con sé medesima per un popolo che aspiri a libertà, come sia impotente a produrre il bene e scaturigine d’ogni male, come nasconda in sé medesima grandissimi perigli, ora ci faremo a dimostrarla impotente affatto a dirigere la guerra.
L’Italia potrà vincere solo a patto, il dice Mazzini, che la lotta sia lotta di giganti; abbiamo adunque bisogno di capi, i quali suppliscano con l’ingegno è con l’energia al difetto del materiale, alla propria inesperienza ed a quella delle soldatesche; di capi i quali non si credono impacciati, non Banno giovarsi della passioni che bollono nel popolo. Tali capi, ora che rivoluzione non v’è, non esistono, ma non manche ranno certamente fra i 25 milioni d’italiani. Quale stoltezza cercarli prima? I generali sono figli, e non padri della rivoluzione. Ma come sperare che sorgessero cotesti eroi, coteste folgori, se la dittatura verrà ben tosto a calmare la tempesta, ad ammorzare col suo soffio tiepido le passioni? Gli eroi non escono né dai guardinfanti delle corti, né dalla camera d’un dittatore, ma dal fermento delle passioni popolari. Se tutto dovrà piegarsi al volere d un uomo, le forti passioni sono impossibili, ed impossibili per conseguenza gli eroi.
Oltrecché, i dittatori, che verranno sostituiti alla nazione, come conosceranno le numerose capacità che l'Italia nasconde dalle Alpi al Lilibeo? La loro scelta dovrà aggirarsi nell’angusto campo dei loro aderenti, éd a questi, non già ai più capaci, verranno affidate le sorti della nazione, perché, non essendo militari, non potranno essere giudici competenti, e perché la preferenza verrà naturalmente accordata a colui che sia più amico più simpatico, per docilità e per dottrina ai dittatori.
Infine cotesti dittatori civili preferiscono, quasi sempre, generali stranieri a' nazionali, imperocché temono il credito di questi, e più facilmente conservano il predominio su quelli, e cosi decretano la ruina e la vergogna della nazione; ed atterriti dalla popolarità ohe acquista un generale, sono riluttanti a condurre di forza la guerra, e se scorgono una probabilità di terminarla, senza più, eziandio con danno della causa, transigono. Finalmente è mestieri riflettere, comunque voglia supporsi perfetto un tale governo, che, in caso di rovesci, il governo non essendo fondato su principii, ma sul carattere e l’opinione degli uomini presso cui trovasi il maestrato supremo, si ricorrerà al volgare e puerile mezzo, quale è quello di cangiarli; e quindi un solo disastro, probabilissimo in simile lotta, basterà per sostituire al potere uomini d’altra gradazione di colore, che daranno alla rivoluzione un nuovo indirizzo politico, e da tale continuo ondeggiamento verrà strozzata. La dittatura in Italia, come in Europa, ha fatto le sue prove. Il governo provvisorio di Milano, quello di Venezia, di Firenze, di Roma, di Sicilia.... potevano decretare tasse, provvisioni militari, far la pace o la guerra, creare cariche (e ne crearono infinite), furono insomma poteri dittatoriali. Che cosa avvenne? Lo stato delle cose rimase ove la nazione l’avea condotto. Nel primo periodo di sua vita la rivoluzione non avanzò d’un passo, anzi, come è natura d’ogni potere, si curò reprimerne, gli slanci, senza accrescerne le forze. Se con la dittatura siamo stati mai sempre vinti, perché non provare la libertà?
Faremo fine a questo ragionamento con affermare, come cosa per sé medesima evidente, che se la dittatura fosse necessaria all'Italia, in tal caso bisognerebbe disperare affatto del nostro risorgimento. La dittatura in Italia è impossibile; sarebbe lo scoglio della rivoluzione, renderebbe inattuabile l’unità degli sforzi, n fato che ha decretato per l'Italia la schiavitù o l’assoluta libertà con la grandezza che l'accompagna, ha reso impossibile la dittatura. Come supporre che tutta Italia 8’ inchinasse al potere assoluto surto dalle barricate di una città? Palermo, Napoli, Milano riderebbero degli ordini che si emanassero da Soma. Questa dittatura non solo dovrebbero combattere gli stranieri, ma per unificare l’Italia dovrebbe conquistare i varii stati e tenerli soggetti, fare in un mese assai più di quello che l'antica Roma non fece in sei secoli. Quale erroneo giudizio dell’indole del paese!!
Dimostrata l’assurdità di tale concetto, e come in esso senza vantaggio veruno si riscontrino tutti gli inconvenienti e tutti i rischi della tirannide, e come le tradizioni e l’indole del paese sieno con esso riluttanti, ora verremo a discorrere di quello che [bisogna sostituirvi. Lo stato presente d’Italia, il fine a cui tendiamo, i sacri principii che emergono dalle leggi di natura, determinano recisamente la forma e le attribuzioni del potere, che dovrà amministrare gl'interessi della nazione durante la lotta.
Le diverse condizioni in cui trovansi i diversi stati non solo, ma le diverse città d’Italia, rendono quasi impossibile un insorgere simultaneo; ed eziandio che, per una favorevole circostanza ciò avvenisse, non in un tratto, ma successivamente ne verrebbe sgombro il suolo da' nemici. Quindi è forza che non già l’Italia tutta, ma una parte di essa, debba, prima che le altre, inalberare la bandiera comune, e nominare un maestrato, non municipale, ma italiano. Questi italiani, primi ad essere liberi, che dovranno al caso o alle loro speciali circostanze l’iniziativa, non potranno certamente pretendere che la nazione intera confermi o si sottometta al potere da essi eletto. Tale pretesa non solo sarebbe tirannica, ma vana; si vedrebbero sorgere tanti altri governi quante sono le diverse provincia, o almeno i diversi Stati in cui ora è divisa. Il maestrale che dovrà amministrare l’Italia, deve assolutamente procedere per addentellati, facendo così abilità ad ogni parte di essa, fatta libera, d’unirsi alle provincie iniziatrici del moto, non già sottomettendosi, ma trovando pronto il proprio incastro onde comporne un solo tutto. Quindi altro non potrà essere che una convenzione, un Congresso nazionale, eletto con suffragio universale, il quale verrà completandosi a misura che la rivoluzione proceda. Resta ora a determinare le attribuzioni di questo Congresso.
Se ci faremo a considerarlo con quelle idee, che oggi si hanno in Europa del governo parlamentare, ognuno ne troverà, nel fondo della propria coscienza, la condanna. Garrule, lente, tumultuanti, snervate riescono coteste congreghe, ed esse o cagionano la ruina del paese, o si restringono in una dittatura, essendo cosa impossibile ottenere l'unità dei fatti in tanta disparità di pareri. Ma ciò non è difetto di queste adunanze, bensì errori di popoli che loro concedono poteri, e ne richieggono opere con la loro natura riluttanti. Un tale Congresso debb’essere non imitazione della Convenzione francese, ma tutt'altro; avvicinarsi piuttosto al Congresso americano, a quello delle Fiandre, al greco, cercando la maggiore unità, ed energia, non già in esso, ma nell'ordinamento delle altre parti dello Stato. Prima d’ogni altra cosa, non bisogna mai perdere di vista il principio, che un popolo, per esser» libero, bisogna che fino dal primo istante spezzi le sue catene, ed assicuri la libertà.
La sovranità per legge di natura è inalienabile, né havvi circostanza che possa giustificare la violazione di questa legge; concederla ad altri è un suicidarsi; consumato il suicidio è vana speranza il pretendere di ritornare in vita; quindi ogni membro di questo Congresso è sempre revocabile da' suoi elettori, e la stessa durata del Congresso non può prestabilirsi, dovendo dipendere dalla libera volontà della nazione.
Il suo compito è quello di mandare ad effetto il concetto collettivo della nazione, concetto chiaro ed innegabile, il quale comprende in sé la rivoluzione; né ammette restrizione di sorte alcuna; guerra allo straniero qualunque lingua esso parli finché non sia fuori d’Italia; guerra a tutto ciò che inceppi l’assoluta libertà. Questo concetto è il despota, il dittatore degli Italiani. Se eglino trasgrediranno i suoi assoluti ed imperiosi comandi, la pena sarà certa e terribile: schiavitù e miseria. I limiti poi, nei quali dovrà sperare cotesto Congresso, o Convenzione nazionale, vengono tracciati dalle leggi di natura, che sono le basi del patto sociale espresse nel terzo capitolo di questo saggio, ed esse non danno luogo a dubbio di sorte alcuna. Essendo sacra la libertà individuale e quella de' Comuni, il Congresso non avrà la benché minima autorità sulla loro interna amministrazione; e nella nomina de' pubblici funzionarii; i Comuni assolutamente indipendenti provvederanno come meglio credono alla loro amministrazione, uniformandosi ai dettati di quelle sole leggi naturali, che formano l’unico patto costituente l'unità italiana. L’esercito essendo un nucleo di cittadini destinati dalla nazione a compiere una speciale missione, in virtù delle medesime leggi testé citate, ha il diritto di eleggersi i proprii capi, ai quali, come nel quarto saggio ampiamente svilupperemo, per ragione di guerra s’addice il concetto de' disegni militari e la esecuzione di essi. Svincolati dalle mille spine in cui la diplomazia si va ravvolgendo, questo Congresso non ha alcun trattato da lacerare in volto al nemico; finché esso sarà sul suolo d’Italia altra ragione oltre il cannone non v'è; cacciato d’Italia, compiuta la missione dell'esercito, allora solo pacatamente il Congresso potrà discendere a ragionare, non avendo il diritto di nulla stabilire senza il consenso della nazione.
Adunque questo Congresso non ha cariche od onori da conferire; non leggi da fare, non trattati da conchiudere, non eserciti da dirigere. È sua missione accusare al cospetto della nazione ed eccitare a riprendere il diritto sentiero quel Comune o quell'individuo il quale violasse i principii da noi stabiliti come base del patto nazionale; è sua incombenza il determinare, secondo la popolazione e la ricchezza d’ogni comune, la porzione contingente in uomini e denari con cui deve concorrere alla guerra, e così equamente ripartire i sacrifizii. È sua speciale opera raccogliere tutte le risorse materiali e dirigerle ove l’esercito il richiede, onde fornire incessantemente il campo. In tal guisa la nazione assolutamente libera, appresta in ogni comune tutte le sue forze; il congresso le raccoglie, e le invia all'esercito; questo, secondo la ragione di guerra, le dirige contro il nemico. Il congresso non è governo, ma centro su cui la nazione equilibrasi, verso cui tendono le sue forze, e vigile guardiano del patto nazionale. Esso può, in virtù di quelle medesime leggi, che gli danno vita e ne tracciano le funzioni, conferire a pochi individui o ad un solo, scelti dal suo seno o fuori, i proprii attributi, onde ottenere la massima energia nel disbrigo delle sue incombenze; basta che non abdichi mai il diritto inalienabile della loro revoca, e del sindacato su di essi. In questo solo modo può concepirsi in Italia l’unità degli sforzi, senza ledere in menoma parte la libertà.
XVIII. Nei primi capitoli di questo saggio abbiamo cercato quelle leggi di natura e quei principii, non già deduzioni d’un ragionamento basato su di arbitrari! accordi e strani supposti, ma attributi della natura stessa, effetti inviariabili dell’indole umana. Principii che una società non può riconoscere come veri, senza prima percorrere lunga, scabrosa ed intricata via, per cui il fugace utile immediato ed i pregiudizii, facendo ombra al suo intelletto, la costringono a serpeggiare. In seguito abbiamo discorso del cospirare, dell'insorgere, mezzi di cui si valgono le nazioni onde sgombrare con fremito il cammino dalle incomode rovine del passato. Non ho creduto proporre un modo nuovo di cospirare, e dar norma ai primi passi della rivoluzione, ma bensì fu mio proposito il dimostrare logori i mezzi sino ad ora usati, e determinare, non quale dovrebbe essere, ma quale inesorabilmente sarà lo sviluppo ed il modo di adoperare delle varie forze che possiede la società. E porto ferma opinione, che la vera rivoluzione, il vero trionfo della democrazia, che suona trionfo del proletariato, non si otterrà con altri mezzi se non con questi, né si conquisterà la libertà, che liberamente operando.
Il sottostare a forza maggiore è necessità; il rinunziare volontariamente ad una parte o a tutta la libertà, non è prova di spiriti liberi, ma d’inclinazione al servaggio. Chi vende i proprii convincimenti ha cuore depravato, ma più libero di colui che volontariamente li abdica. Quello rinunzia alla libertà per un guadagno, patteggia col nemico, questi per indole; l’uno, trovando il suo meglio, saprà riacquistarle e valersene, l'altro eziandio volendolo, noi potrà fare. È vano il dire che sarà cosa pregevole rinunziarvi per amor di patria, imperocché il sommo bene della nazione altro non è che l’assoluta libertà, che essendo costituita non dai limiti imposti alla libertà individuale, ma dal pieno sviluppo di essa, rinunziare alla propria libertà per accrescere quella della patria, è lo stesso che mutilarlo, per renderla intera; è un assurdo. Agli Italiani è mestieri di educarsi a libertà; ma educatori e libertà sono materie eterogenee che si escludono affatto. La libertà non può apprendersi; essa è sentimento, e nessuno può darci sensazioni non nostre. Per educarsi a libertà bisogna vivere, per quanto possiamo, liberamente; in tal guisa ognuno, educando sé medesimo, educa tutti, e tutti compiono l’educazione d’ognuno. Da ciò risultano spontanee le cospirazioni, le congiure, ma senza idoli, senza patroni, senza padri; niuno pretenderà comandare, come niuno si piegherà ad ubbidire. Se la nazione devierà ancora dalla linea retta, se ancora non è abbastanza assennata dall’esperienza, potranno de' strani connubii, delle strane combinazioni aver luogo, ma essa non raggiungerà con questi mezzi la sua piena libertà e la grandezza a cui è destinata.
Additate le piaghe della società, i diritti di chi soffre, le usurpazioni di chi gode; dimostrata la necessità di estirpare fin l'ultima barba della presente costituzione sociale, di sgombrare il suolo delle sterminate macerie dei pregiudizii, di leggi, di opinioni ammucchiate sul diritto di proprietà che gli serve di base, e che poggia a sua volta sugli omeri dell'immensa moltitudine de null’abbienti, come rivoluzionario, potrei far fine. La nazione penserà a ricostituirsi. Nondimeno sospingeremo lo sguardo in questo ignoto avvenire e procederemo in esso attenendoci strettamente a stabiliti principii.
«I tiranni scrive Mario Pagano, col progresso del tempo, dalle continue reazioni degli oppressi, debbono rimanere disfatti. La legge è immutabile, l'ordine è costante, la pena è certa; benché col piè di piombo, giunge al fine.»
Ora che scrivo, la miseria cresce ogni giorno; i governi moderati, corruttori e codardi in putredine vanno consumandosi, la tirannide mostrasi, perché minacciata, terribile ed ingorda, e così la sua azione affretta l’immancabile reazione. I popoli intolleranti dello stato presente, fremono, il movimento non tarderà; e non già, come pretendono i dottrinarii, il popolo più dotto e più incivilito, ma il più oppresso, darà il segnale della battaglia. La questione economica, quasi in tutta Europa prevale, non solo fra i dotti, ma nella plebe, la questione politica n’è stata quasi del tutto eclissata.
Cominciato lo sbaraglio, vedremo il popolo, da' suoi dolori sospinto, con abbandonate redini precipitarsi nei pericoli, ma le sue prime orme saranno incerte, vacillanti; esso non saprà scorgere il vero nemico, né colorire i suoi disegni. In questi momenti la riuscita, l’indirizzo della rivoluzione, dipenderanno da quella gioventù intelligente, che fornisce non dotti ma illuminati combattenti di cui il popolo naturalmente si fa testa. Se questi desiderano il vero bene della patria, dovranno senza far gruppi o sette, ma ognuno secondo le ispirazioni del proprio genio, darsi a tutt’uomo, non già a calmare, ma a sfrenare per quanto può le passioni del popolo, e dando forma ai suoi desiderii, additargli il nemico. Colui che dopo tanti tristi e sanguinosi casi, che i popoli, nel fare transazioni e contentarsi di rimedii mezzani, patirono, in luogo di mirare alla riforma completa degli ordini sociali, broglia per afferrare una carica, o per donare i poteri a qualche suo idolo, e tutto fede spera che un uomo compia la rivoluzione, ammorzando l’effervescenza popolare, presenti il dorso al bastone della tirannide, egli altro non è che vilissimo schiavo, mascherato col saio del repubblicano.
Ci faremo ora a compendiare quanto dicemmo del passato e del presente, dei mali sociali e de' rimedii, delle usurpazioni della tirannide e dei diritti della democrazia. Così rileveremo le provvidenze da prendersi, le riforme d’adottarsi.
Son quasi quattro secoli di schiavitù; e durante quest'epoca quanti inutili tentativi, quanto sangue inutilmente sparso!!! I popoli a noi vicini, dopo grandissimi sforzi non sono riusciti a migliorare la loro condizione. È dunque inutile l'insorgere? No. È questo un fatale cammino che il popolo è costretto a percorrere, onde dalle sanguinose esperienze venga condotto alla scoverta degli errori. Raccogliamo adunque i frutti del passato lavoro; gioviamoci di que’ fatti, e sia questa rivoluzione principio d'era novella, e non già nuova esperienza utile a' posteri, a noi dannosa.
Che cosa ha fruttato la moderazione? Patibolo, carceri, esilio. I nostri nemici sono inesorabili, ingordi; ad ottenere due gradi di libertà (se la libertà si ottenesse per gradi), e ad ottenerla intera ci è forza sostenere la lotta medesima. Perché dunque arrestarci ai primi passi? La moderazione ci ha fruttato, forse, la protezione di qualche altra potenza? Mai no; tutti i governi stranieri apertamente, o con l’inganno, sonosi coalizzati alla nostra rovina. Confidiamo adunque nelle sole nostre forze, e miriamo alla completa distruzione del nemico senza arrestarci alla minaccia; essa altro non è che un’arma nelle mani del minacciato.
Guai se la plebe, contenta di vane promesse, farà dipendere dall'altrui volere le proprie sorti! Essa vedrà molti di coloro che si dicono liberali, umili negli atti, larghi in promesse, con dolci parole adularla, come costumano adulare i tiranni e carpirne il voto. Divenuti onnipotenti ed inviolabili pensano al loro meglio e ribadiscono le catene di lei; ed alla richiesta di pane e lavoro, rispondono come l’assemblea francese rispose nel 48, col cannone. Finché la società verrà composta da molti che lavorano e da pochi che dissipano, e nelle mani di questi pochi sarà il governo, il popolo deriso col nome di libero e di sovrano, i molti non saranno che vilissimi schiavi.
Tutte le leggi, tutte le riforme, eziandio quelle in apparenza popolari, favoriscono solamente la classe ricca e culta imperocché le istituzioni sociali, per loro natura, volgono tutte in suo vantaggio. Voi, plebe, allorché crederete avvicinarvi alla meta, ne andrete invece più lontano. Voi lavorate, gli oziosi gioiscono; voi producete, gli oziosi dissipano; voi combattete ed essi godono la libertà. Il suffragio universale è un inganno. Come il vostro voto può esser libero, se la vostra esistenza dipende dal salario del padrone, dalle concessioni del proprietario? Voi indubitatamente voterete, costretti dal bisogno, come quelli vorranno. Come il vostro voto può esser giusto, se la miseria vi condanna a perpetua ignoranza, e vi toglie ogni abilità per giudicare degli uomini e de' loro concetti? Come può dirsi libero un uomo la cui esistenza dal capriccio d’un altro uomo dipende?
La miseria è la principale cagione, la sorgente inesauribile di tutti i mali della società; voragine spalancata che ne inghiottisce ogni virtù. La miseria aguzza il pugnale dell'assassino; prostituisce la donna, corrompe il cittadino; trova satelliti al despotismo. Conseguenza immediata della miseria è l’ignoranza che vi rende incapaci di governare i vostri particolari negozii, non che quelli del pubblico, e corrivi nel credere tutte quelle imposture che vi rendono fanatici, superstiziosi, intolleranti. La miseria e l'ignoranza sono gli angeli tutelari della moderna società, sono i sostegni sui quali la sua costituzione s’innalza, restringendo in picciol giro l’ampio cerchio dell'universale cittadinanza. Il delitto e la prostituzione, conseguenze inevitabili, sgorgano dal seno di questa società. Bagni e patiboli sono le sue opere, volte a punire con raffinata ipocrisia i frutti medesimi delle sue viscere. La statistica, scienza moderna, che mostra come indissolubilmente si legano le varie istituzioni sociali, ha già registrato come la miseria e l’ignoranza non scompagnino mai dal misfatto. Finché i mezzi necessarii all'educazione e l’indipendenza assoluta del vivere non saranno guarentigia d’ognuno, la libertà è promessa ingannevole.
I nemici che dobbiamo debellare sono molti, è vano l’illudersi; se tutti vorremo combattere da liberi cittadini, vinceremo. Cerchiamo penetrare con lo sguardo attraverso l'atmosfera che i pregiudizii ci hanno addensato intorno, in questo istante che trovasi distrutta la gerarchia sociale, quanto siano mostruose le usurpazioni del ricco, e quanto grandi le miserie del popolo!!... Con qual diritto un ozioso proprietario scialacqua col prodotto di sudori del fittaiuolo, mentre questi appena potrà offrire un pane alla sua povera e laboriosa famiglia? Con quale diritto, in un’officina in cui cento lavorano, uno solo oltre ogni stima arricchisce, non avendo gli altri, non dico assicurato l’avvenire, ma neanche la benché minima guarentigia del presente, bastando il capriccio di un solo per affamare centinaia di dipendenti? Distruggiamo codeste mostruosità, col garantire al contadino ed all'operaio il frutto del loro lavoro; e questi e quelli saranno contenti di lasciare per poco la vanga ed il martello ed impugnare il moschetto a difesa degli acquistati diritti. Se la vittoria assicura a tutti l'agiatezza, e la disfatta li ricaccia nella miseria, tutti saranno valorosi. Ecco il segreto di cui si valsero i nostri progenitori per soggiogare il mondo.
Nei passati rivolgimenti sonosi cangiati gli uomini e le forme del governo, ma il principio su cui esso poggia, l'autorità insomma, cangiando nome rimase. Come adunque potevano sparire i mali? Volete cogliere il frutto di tante pene? Diroccate l'antico edifizio sino alle fondamenta, sgomberate il suolo dalle ruine, e su nuove basi riedificate.
Le leggi a cui ubbidiamo sono quelle stesse, che da tredici secoli, da Giustiniano, i despoti ed un ordine privilegiato, quelli che posseggono, hanno create, svolte e curatane l’esecuzione sempre in danno della plebe; e queste leggi che hanno sì bene servita la tirannide, non possono certamente essere utili ad un popolo che vuole esser libero. E però la prima determinazione da prendersi è quella di annullarle tutte; una sola che ne rimanga basterà per dare alla rivoluzione un falso indirizzo, o almeno per ritardarne il naturale progresso.
La forza è l’alto cardine sul quale poggia la tirannide. Qualunque siasi il nome del governo, Dittatore Triumvirato Congresso se esso dispone di forza materiale, saremo schiavi. Non bisogna mai conferire ad altri la facoltà di nuocere. Gli uomini, buono o tristo sia lo scopo a cui tendono, sono o prepotenti, o deboli; questi inetti al governo, quelli oppressori; i primi avendone la forza, opprimono i secondi; ci abbandoneranno ai loro satelliti. Ognuno, in buona fede, crede che le proprie idee riescano di gran beneficio al paese; e però se avrà la forza d’imporle le imporrà. Lasciamo a tutti libertà di proporre i proprii pensieri, ed a nessuno facoltà d’imporli. L’uomo creato indipendente e libero non dovrà mai servire un altro uomo, ma solo la propria natura, ed il proprio meglio; e se in virtù di questa legge nelle specialità, conviengli alla direzione de migliori sottoporsi, non dovrà mai, in forza della legge medesima, lasciare che altri stabilisca i rapporti della società di cui fa parte, e dia norma a tutto il suo vivere. I diritti di ognuno limitano di fatto la sfera d’azione de' diritti altrui, le naturali inclinazioni ne distribuiscono le incombenze, e da questa libertà che altri limiti non conosce che l’altrui libertà, ne risulta l'armonia sociale. Chiunque pretende governarmi, chiunque pretende che io mi uniformi alle sue idee, alle sue abitudini, è uno stolto tiranno. Ad ottenere ciò dovrebbe trasfondere in me la sua sensibilità, le sue idee.
Or dunque, considerando questi veri come i punti di riscontro del nostro avvenire, verremo traducendoli in pratica esponendo le provvidenze, che sul retto sentiero indirizzeranno la rivoluzione, assicurando sin dai primi istanti il suo magnifico e semplicissimo procedere:
1° Tutte le leggi, i decreti, le cariche, le incombenze insomma, tutte le esistenti istituzioni sociali, rimangono da quest'istante annullate.
a) Ogni contratto il quale non sussiste per la libera volontà delle due parti contrattanti, è sciolto;
b) Le tasse ed ogni specie di gravezze, imposte dal passato governo, sono annullate. Non vi sarà che un’imposta unica sulla ricchezza, da un congresso italiano ripartita sui comuni, dai consigli comunali ripartita sui cittadini.
Questa prima provvisione spezzando ‘le ritorte da cui eravamo avvinti ci ridona la piena libertà delle membra, indispensabile a sostenere la gran lotta in cui dovremo impegnarci. Né la vittoria sarà mai possibile, se combatteremo impastoiati fra leggi ed istituzioni volte a sgagliardirci e toglierci qualunque libertà di operare. Né qui finiscono gli effetti di tale provvedimento; l'abolizione delle tasse, ecc. produrrà, cosa indubitata, un ribasso sul prezzo degli oggetti di prima necessità, ed il minuto popolo sentirà, dal nuovo ordine di cose, immediatamente sgravarsi dalle tante imposizioni da cui era oppresso, e quindi troverà cosa importantissima il difenderle ed assicurarle in avvenire. In tal guisa con un semplice decreto avremo ridonato al popolo tutta la sua forza, e creato il movente, che unificandone eziandio la volontà, lo sospinge alla difesa della patria.
Inoltre, se il concedere altrui il governo assoluto della cosa pubblica ci ricaccia nella miseria, e ci abbandona al dispotismo, il disordine conduce parimente alle conseguenze stesse; e però alla rivoluzione bisogna assegnare un fine cosi ampio ed incontrastabile da essere certi che nessuno possa durar fatica a riconoscerlo, o nessuno rinnegarlo. Quindi stabilire come punti di riscontro, come limiti e guarentigie della libertà, le leggi inviolabili della natura, le quali daranno norma, e determineranno tutte le provvisioni volte ad organare e dirigere le forze della nazione al conseguimento del fine prefisso. I due seguenti decreti basteranno per tradurre in fatti le idee esposte.
2° Il fine che si propone la rivoluzione è quello di sgomberare l’Italia da' stranieri, qualunque lingua essi parlino, e da tutto ciò che viola l’indipendenza, la libertà individuale. La guerra sarà protratta per forza finché questo fine non sia compiutamente conseguito.
I principii da noi espressi nel terzo capitolo di questo saggio, resi di pubblica ragione sino dai primi istanti della rivoluzione, verranno presentati, in ogni comune, all'accettazione del popolo; che riconoscendoli come base del nuovo patto sociale, dichiarerà reo di lesa nazione chiunque attenterà di violarli. Se un tale decreto verrà bandito dal popolo, la rivoluzione da quell'istante sarà assicurata, la libertà e la grandezza d’Italia indubitata. Se pei uno solo di questi principii è rigettato, o ristretto, la rivoluzione non si compirà, verrà conseguito qualche cangiamento di forme, ed il popolo s’incamminerà, meritamente, in un nuovo corso di miserie, di dolori e di vizi.
Ridonata al popolo la sua piena libertà, creato il movente delle sue imprese, determinato il fine da conseguirsi, stabiliti i limiti dell'autorità, le guarentigie ed i diritti del popolo, la rivoluzione, senza tema d’essere fuorviata, potrà procedere nel suo corso, e poche e semplicissime provvidenze basteranno ad assicurare il suo progresso energico ed ordinato.
1° Tutti i cittadini, qualunque ne sia il sesso, l’età, pongono sé medesimi e le loro sostanze a disposizione della patria, finché non siasi ottenuto la prima vittoria sui nemici di essa.
2° Ogni comune verrà amministrato da un consiglio comunale formato da un numero di consiglieri stabilito dai cittadini medesimi. I consiglieri verranno eletti a suffragio universale, e saranno revocabili dagli elettori e soggetti al loro sindacato. Il consiglio, affinché i comandamenti del popolo siano mandati ad effetto con la massima energia possibile, trasmetterà il proprio mandato ad un individuo che eleggerà nel suo seno, riserbandosi in ogni tempo, il diritto di revoca, e di sindacato.
a) La podestà politica e la giudiziaria risiederanno sul popolo del comune. L’ultima potrà conferirsi £d un certo numero di cittadini eletti dal popolo, che non cesserà di essere il supremo tribunale, al quale i giudicati potranno appellarsi.
b) La speciale incombenza del consiglio comunale è quella di raccogliere ed apparecchiare nel comune tutte le risorse materiali, richieste dal nazionale congresso.
3° Il congresso nazionale verrà 'eletto coi principi medesimi; cioè suffragio universale e diritto di revoca e di sindacato agli elettori. Come i consigli comunali, questo congresso potrà trasmettere il proprio mandato ad uno solo eletto dal proprio seno, riserbandosi sugli eletti i medesimi diritti accennati pei consiglieri comunali.
a) Le incombenze di questo congresso saranno di rappresentare l’Italia verso le potenze straniere; potrà conchiudere trattati, ma essi non avranno effetto senza previa approvazione del popolo.
b) In forza de' principi stabiliti come base del patto sociale, questo congresso non avrà sui comuni altra autorità, fuor quella di determinare ed esigere da essi la porzione contingente in uomini e denari, con cui dovranno concorrere alla guerra; inviare queste risorse ove l’esercito indicherà; accusare al cospetto della nazione quel comune, o quell’individuo che violasse il patto espresso dalle leggi di natura.
4° L’esercito eleggerà i propri capi e sarà l’esecutore supremo de' voleri della nazione.
Sono questi semplicissimi provvedimenti che potranno attuarsi da qualunque città o borgo che sarà sgombro dal nemico. Il popolo di questo borgo, che darà cominciamento alla rivoluzione, annullerà tutte le leggi esistenti, tutte le gravezze; bandirà i principi che dovranno essere la base del nuovo patto sociale, eleggerà il consiglio comunale, i deputati al congresso nazionale; e tutti i cittadini, con le norme che daremo nel quarto saggio, formeranno i battaglioni e si eleggeranno i capi. In tal guisa si procederà conformemente al naturale corso degli eventi, e la nazione da sé, senza crearsi padroni, senza concedere ad una città autorità o ascendente maggiore che alle altre, raccoglierà successivamente le proprie forze, e le adoprerà al conseguimento del fine che si propone, conservando la sua prima libertà.
Il popolo non avrà nulla a temere dagli errori, in cui per ignoranza o per intrigo d’altri, potrà incorrere nello eleggere questi diversi maestrati; imperocché non sono inviolabili né irrevocabili, e non dispongono di alcuna forza materiale. Essi non comandano, ma propongono. Il popolo con pochissima pena potrà francamente eleggere coloro che desiderano tali incombenze, trattandosi di crearsi servi e non padroni; quelli che volontariamente si offrono saranno i migliori. Negare questa verità, ricorrere a' ripieghi, è negare la rivoluzione; è lo stesso che restringere l'utile universale a quello d’una fazione; è una questione di semplice forma che non vale il pregio d’essere discussa.
Durante la guerra il congresso nazionale si occtiperà a risolvere il problema sociale, e cercherà stabilire l’avvenire della nazione. Il congresso terrà ai fittaiuoli il seguente discorso: Il provvedimento preso di sospendere il pagamento delle rendite vi ha sostituito ai proprietari, bene grandissimo per voi stessi e per la società; voi produttori per eccellenza ritenete e godete giustamente il frutto delle vostre fatiche, e la società si è sgravata da quella classe di oziosi digeritori, che, per sostenere il loro lusso, producevano l'incarimento dei' viveri. Ogni cittadino soffriva per cagion loro; ad ogni poverello veniva tolto un pezzo del suo pane per impinguare i cani ed i cavalli di questi proprietari; ed oltre questi vantaggi evidenti, quelli oziosi, costretti ora a lavorare per vivere, hanno accresciuto eziandio il prodotto sociale. Ma fa d’uopo riflettere che, quali voi oggi siete, tali essi furono, e l’esperienza, varie volte ripetuta, ha dimostrato, che, eziandio ripartendo ugualmente la terra, dopo qualche tempo vi sarà tra voi chi per maggior forza, solerzia, od ingegno ingrandirà all’altrui spese; e così a poco a poco sorgerà di nuovo la classe dei proprietari che avete annientata. Inoltre, il medesimo diritto che avete voi sulla terra, lo ha ognuno; la medesima ingiustizia che voi pativate, la patiscono i vostri giornalieri, e voi usurpate ad essi quel frutto dei loro lavori, che i già proprietari vi usurpavano. Finalmente rimanendo la vostra condizione tale quale ora è, i principi da voi stessi banditi sarebbero violati, il patto sociale sarebbe ingiusto come lo era prima, ed i vostri figli si troverebbero in una società non diversa da quella che ora vogliamo riformare.
La cagione di questi mali futuri è evidente; la proprietà ha cangiato possessore, ma è rimasta illesa. È dessa che bisogna abbattere; è il principio che bisogna mutare; e perciò è necessario occuparci della situazione del problema. Impedire che i proprietari rinascano; questo è il problema, che, unito agli altri riguardanti l’industria ed il commercio, formerà l’oggetto delle nostre cure.
Per riuscire nel nostro proposito non basta seguire i suggerimenti dell’istinto che ci trarrebbero di via, ma bensì giovarci dell'esperienze che la storia registrare attinenze degli innumerevoli fatti consacrati nelle sue pagine hanno portato materia a studio profondo, da cui risultò una serie di proposizioni che formano la
filosofia civile: la quale scienza universale, ove la seguiamo con attenta osservazione, traendoci dalla via fallace che il volgo per abitudine frequenta, in quella magistrale e permanente ci conduce; questa materia darà norma alle nostre ricerche.
Inoltre il nuovo patto sociale, che verrà stabilito dalla costituente, non sarà come le passate costituzioni, imposto agli Italiani, ma proposto; e la costituente, non disponendo di veruna forza materiale, non potrebbe operare diversamente; quindi il cuore, la fede, le intenzioni di coloro che dovranno comporla, in questo caso, non hanno importanza di sorte alcuna; queste qualità impossibili a ritrovarsi, perché mutabili secondo l'utile individuale, queste qualità sempre cercate, né mai trovate dal popolo, oggi non debbono tenersi in verun. conto; r ingegno e la dottrina sono necessarie; eziandio i più perversi saranno utili; ma il popolo non potendo discernere queste qualità, la costituente sarà nominata dal congresso nazionale, che ammetterà in essa tutti coloro che volontariamente si offrono di farne parte. Questo sarà il campo ove la scienza, non avendo altri limiti che le medesime leggi di natura da cui essa risulta, potrà elevarsi dalle inutili astrazioni alla pratica, e stabilirà la felicità della nazione.
Questo congresso di scienziati dichiarato Costituente, determinerà e proporrà il nuovo patto sociale, le cui basi saranno quei principi dal popolo dichiarati inviolabili ed il fine quello di guarentirne l’inviolabilità per l’avvenire. Compito il lavoro, e reso di pubblica ragione, rimarrà esposto alla pubblica censura; e tutti i dubbi e tutte le considerazioni espresse per mezzo della stampa saranno accuratamente raccolte da coloro che presiedono all'amministrazione di ogni comune, ed inviate alla costituente, che, nel più breve tempo possibile, dovrà modificare, o rispondere a tutte le osserrazioni fatte dal pubblico. Dopo questa prova, il patto, sottoposto in ogni comune alla finale approvazione del popolo, avrà effetto. Noi adombreremo questo nuovo patto sociale senza presumere d’aver risoluto un problema che dovrà risolvere l’intera nazione. È nostro proposito sgomberare il suolo, e scavare le fondamenta, non già riedificare.
Le siepi e quanto serve di chiusura o limite ai poderi si abbatteranno. Il suolo italiano verrà ripartito secondo le diverse specie di cultura a cui mostrasi atto. Una porzione di terra proporzionata alla popolazione verrà assegnata ad ogni comune, e coltivata da coloro che si dedicano all'agricoltura, i quali formeranno una società, che stabilirà essa medesima la sua costituzione in caso che non volesse accettare quella che la costituente le proporrà. Ma questa costituzione dovendo essere conforme a que’ principii che formano la legge universale ed immutabile della nazione, non potrà essere molto diversa dalla seguente. Un amministratore ed un direttore eletti e soggetti al sindacato di un consiglio amministrativo, e di un consiglio di tecnologia dirigente. Tutte le altre incombenze distribuite secondo le inclinazioni e le attitudini di ognuno. Il guadagno netto, diviso egualmente fra tutti. In tal guisa, con grandissimo ed universale vantaggio, la proprietà fondiaria sarà distrutta.
Il compartimento del suolo determinato dal genere di coltura e non dal caso; stimolo al lavoro, non già la fame, ma un maggior guadagno; una società di uomini agiati, tutti dediti, ognuno secondo le proprie attitudini, ad un medesimo lavoro, dovranno indubitatamente produrre un accrescimento grandissimo delle ricchezze sociali. Sosterrebbero gli economisti, che l’agiatezza degli agricoltori, la mancanza dei proprietari che consumano senza produrre, facciano languire o scemare la produzione? Sosterrebbero che le facoltà d’una società numerosa ed agiata sieno inferiori a quelle d’una misera famiglia, capace appena di quel lavoro che serve a pagare il vistoso tributo al proprietario e comperare per sé un affumicato pane? Tutto può sostenersi col sofisma; ma esso perde la sua forza quando il minuto popolo non può più sopportare i suoi mali, e rovescia la soma che soverchiamente lo grava. Queste proposte non vengono fatte a congreghe di digeritovi, di persone dedite all’usura e al monopolio ovvero di proprietarii, di banchieri, di trafficanti, ma ad una società in cui la forza ha già distrutto la preponderanza di queste classi. Con la spada bisogna adeguare alle moltitudini i più sublimi: quindi la legge stabilisce l’ordine e l’eguaglianza.
Il capitale, come già dicemmo, essendo proprietà collettiva, non può appartenere ad un uomo; l’appropriarsi il capitale è un’usurpazione, non così manifesta, ma simile a quella della proprietà fondiaria; tutti i capitali verranno dichiarati proprietà della nazione; il denaro potrà in parte involarsi, ma le fabbriche, le macchine rimarranno. Tutti gl’impiegati, in ogni stabilimento d’industria, comporranno una società, alla quale la nazione affida il capitale tolto al capitalista, e questa società potrà reggersi con una costituzione identica a quella stabilita per gli agricoltori.
Così trasformata e ricostituita l’agricoltura e l’industria, i mercanti che vendono in grosso si riverseranno nei depositi delle stesse società e saranno membri di esse; e soci a ciò espressamente delegati saranno i merciaiuoli che vendono al minuto.
I trafficanti, intermedii fra i produttori ed i consumatori, a cui la miseria de' primi permette di speculare a scapito del popolo, verranno eziandio trasformati in società, composte ognuna del già capitalista sino all'ultimo facchino, marinaio, carrettiere che trasporta le merci.
Tutti gli edifici saranno dichiarati proprietà nazionale, e gli edili eletti dal popolo, e soggetti al suo sindacato, destineranno ad ognuno secondo il bisogno l’abitazione. In tal guisa più non si vedranno spaziosi appartamenti deserti e destinati a semplice lusso, mentre a breve distanza dalle loro mura, in oscuri e malsani tugurii, giacciono ammucchiate le famiglie dell'infelice proletario, con danno manifesto della pubblica salute e del pudore.
testamento, mostruoso diritto, che oltre l’epoca dalla natura stessa prescritta prolunga la volontà dell'nomo, abolito. I risparmii accumulati da ognuno appartengono di diritto, dopo la sua morte, alla società di cui essa faceva parte, ed al comune ove erasi domiciliato, se il defunto esercitava una professione singolare, come architetto, medico od altro.
In ogni comune vi sarà un banco di scambio, che porrà in relazione vari comuni dello Stato ed i vari stabilimenti d’industria e dirigerà le derrate ove maggiore è il bisogno. Questi banchi assorbiranno e faranno sparire i trafficanti.
Ogni cittadino, il quale trovasi isolato e privo di lavoro, ha il diritto di essere ammesso come socio in quella società di agricoltura e d’industria che da lui medesimo verrà scelta. La forza dell'intera nazione garantisce ad ogni italiano un tale diritto, diritto che rende impossibile la miseria, e forma il cardine principale del nuovo patto sociale.
Stabilita la costituzione economica, la politica non offre alcuna difficoltà. Un Consiglio in ogni Comune, un congresso per l’intera nazione, eletti con suffragio universale, amministreranno il paese. Questo e quello saranno sempre revocabili dagli elettori, e soggetti al sindacato del popolo. Il congresso stabilirà la relazione con le altre potenze, avrà cura degli affari stranieri, i rappresenterà la nazione, dovrà sopraintendere ai lavori, agli stabilimenti militari e di pubblica educazione, alle milizie (e di queste discorreremo minutamente nel 4° saggio) in quella parte che non riguarda direttamente ai Comuni. Determinerà le spese, e quindi le gravezze le quali dovranno pagarsi dalla nazione per questi vari rami della pubblica amministrazione. Non avrà ingerenza alcuna nella politica interna e polizia; ] questa e quella non avranno altra norma che i principii da noi stabiliti come base del patto sociale. Il Congresso denunzierà alla nazione quel comune, quel magistrato, quel cittadino, che violerà o tenterà di violare questi principii.
Il Consiglio ed il Congresso potranno, pel pronto spaccio degli affari, delegare o distribuire i loro poteri a persone elette dal proprio seno, che saranno sempre da essi revocabili e soggette al loro sindacato.
Tatti i pubblici magistrati saranno eletti dal popolo, revocabili dal popolo e soggetti al suo sindicato. Ninno percepirà stipendio; ma l’associazione di cui esso faceva parte sarà obbligata a considerarlo e retribuirlo come socio presente. Lo stesso dicasi dei consiglieri comunali e dei deputati al congresso.
L’unica gravezza sarà un’imposta progressiva sulla rendita netta di ogni associazione.
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Adombrato il nuovo patto sociale, ci faremo ad esaminare gli effetti, onde conoscere se i mali, i quali ora minacciano di annientare la presente società, spariranno.
È un fatto dimostrato ad evidenza, che la concorrenza, le macchine e la divisione del lavoro, mentre accrescono immensamente il prodotto, accrescono eziandio il numero de' miseri, ed avviliscono l’operaio peggiorandone la condizione. Esaminiamo se col nuovo patto sociale si produrrebbero i medesimi effetti.
Concorrenza. — Supponiamo due stabilimenti d’industria in concorrenza, uno composto da numerosa e cospicua associazione, l’altro meschino. Questo sarà costretto a smettere, non potendo sostenere la concorrenza con quello, e gli operai, come accade oggigiorno, rimarranno privi di lavoro; ma siccome la nazione guarentisce loro il diritto di essere ammessi in una società a loro scelta, questi operai, naturalmente, sceglieranno e dovranno essere ammessi come soci in quella società, e in quella società da cui sono stati soperchiati; e però questa, se distruggesse tutte le sue rivali, sarebbe sopraccaricata da un numero esorbitante di operai. Per evitare il male, troverà il suo conto associandosi, piuttosto che distruggendo, le sue rivali. In tal guisa la concorrenza, che nella presente società arricchisce uno a discapito di molti, col nuovo patto sociale promuoverebbe l’associazione, e spanderebbe egualmente il profitto sugli operai dell'arte medesima.
Con le macchine e la divisione del lavoro ottenendosi il prodotto medesimo con un numero assai minore i di operai, nei quali non richiedesi alcuna speciale attitudine, si ribassano i salarii, e ne risulta la miseria. Col nuovo patto sociale, il numero degli operai non è quello che semplicemente è necessario all’arte, ma di quanti se ne rinvengono nel comune, nella città, nella nazione, che si dedicano a tale lavoro; il salario non ò proporzionato alla loro abilità, ma al prodotto; quindi i le macchine e la divisione del lavoro saranno la vittoria dell’ingegno umano sulla materia, e gli operai, giovandosi di tali ritrovati, in poche ore di facile lavoro, guadagneranno moltissimo. Inoltre, come conferma della giustissima legge dell'uguaglianza di salario, le diverse incombenze si andranno pareggiando.
Inoltre, siccome crescendo il numero delle persone dedite alla medesima arte scema il guadagno, ne risulta, che il diritto riconosciuto ad ognuno, di essere ammesso come socio in uno stabilimento di sua scelta, è la legge la quale stabilisce l'equilibrio fra le diverse diramazioni dell’industria nazionale.
Le ardite intraprese, l’esattezza del lavoro, la varietà, il buon mercato che si richieggono in un’arte, sono qualità che non possono sperarsi dai piccioli capitali, i quali s’impiegano con la speranza di ottenere utili immediati e grossi. Solo dai vistosi capitali, che anticipano le spese e con piccolo profitto sull’unità della merce guadagnano sul grande numero di esse unità, possono ottenersi tali risultamenti. D’ altra parte, i grandi capitali fermandosi con accumulare in poche mani le ricchezze sociali, ne risulta come legge inesorabile, nella presente società, che il perfezionamento dell'industria s’ottenga a prezzo della quasi universale miseria; laddove, col nuovo patto sociale, la formazione dei grandi capitali si avrà, non già colla distruzione de ’ piccoli, ma con l’associazione, che sarà la legge regolatrice della pubblica economia, come ora è la concorrenza.
Il bisogno che hanno i produttori di smaltire al più presto possibile la loro merce, la mancanza del denaro necessario alle spese di deposito e di trasporto, hanno fatto sorgere l’avida classe dei trafficanti, i quali lucrano ed arricchiscono a spese dei produttori e dei consumatori.
Questo bisogno del produttore di vender subito fa opportunità a costoro d’esercitare il monopolio, di affamare una città e procacciarsi vistosi lucri sul pane che i poverelli comprano col sudore della fronte. La concorrenza è quella che più d’ogni altra cosa favorisce l'incettatore; l’associazione l’uccide. Col nuovo ordine di cose le diverse società produttrici facoltosissime, non han bisogno di vendere prontamente le merci, e potranno avere magazzini, vascelli e giovarsi di ogni sorta di veicolo, onde, da sé medesime, o col solo mezzo del Banco di scambio, provvedere allo spaccio dei loro prodotti; e così con vantaggio grandissimo della società, spariranno i trafficanti, e con essi il monopolio.
Nella presente società gli incettatori comprano il grano ove abbonda e lo spediscono ove scarseggia, quindi in quel mercato ove essi comperarono, crescendo il prezzo del grano, il pane incarisce. Questo fatto protesta contro la libertà del commercio. Ma, vi rispondono i propugnatori del libero scambio: «s’introiterà maggior danaro, l’agricoltore che ha guadagnato, avrà molto danaro da spendere; il che torna in vantaggio dell'industria, non che di qualunque altro prodotto. Né qui finiscono i vantaggi; gli operai se pagheranno più caro il pane, prosperando l’industria, crescerà il loro guadagno, e spenderanno pochissimo per l’acquisto di altri generi di cui fanno uso.» Così gli economisti, con raffinata ipocrisia, fanno generali alcuni vantaggi che si restringono a pochissimi.
Non è l’agricoltore che ricava profitto dal caro del grano, ma son gl’incettatori, i quali accrescono i loro capitali, volti ad affamare le città; non è l’operaio che sente il vantaggio della prosperità dell'industria, ma il capitalista; e quelle derrate, i cui prezzi per la libertà del commercio scemeranno, sono oggetti di lusso, che non usano né il povero contadino, né l’operaio; quindi il libero commercio, come tutte le altre leggi e tutti gli altri ritrovati che aumentano il prodotto sociale, altro non fa che vantaggiare i ricchissimi con danno manifesto de' poverelli. Per contro, rimessa la società secondo le leggi di natura, i vantaggi del libero commercio saranno evidenti per tutti. Reso impossibile il monopolio, sarà l’agricoltore che godrà del guadagno, il quale, come ora diremo, troverà maggior vantaggio nello spendere i suoi danari che nel conservarli; quindi prosperità dell’industria, di cui godranno tutti gli operai sui quali egualmente è distribuito il lucro; ed infine, contadini ed operai, vivendo agiatamente, faranno uso di molti generi di cui ora neppur conoscono i nomi, e sentiranno il vantaggio di acquistarli a pochissimo prezzo.
Non è il solo aumento del prodotto che accresce la prosperità, ma questo, per riuscire veramente utile, deve accompagnarsi con l'aumento de' consumatori. Nella società presente cresce continuamente il prodotto, ma il numero de' consumatori, per la crescente miseria, scema. Pochissimi possessori di sterminate ricchezze, fra le miriadi di affamati, è il fine verso il quale inesorabilmente ci avviciniamo. Abolite la proprietà, supponete che la società abbia subito le proposte riforme, ed al crescere delle ricchezze, ugualmente sparse su tutti, crescerà per conseguenza il numero dei consumatori.
In ultimo, poniamo il caso che un capitalista coi suoi milioni venga in mezzo a una nazione così costituita, ed esaminiamo in che modo possa impiegare il suo danaro. Non potrà acquistar terre, perché la nazione è la sola padrona, ed essa non vende e non riconosce il diritto di proprietà; fabbricare palazzi nemmeno, perché la nazione, padrona di tutti gli edifizii, se ne impadronirebbe; affidare i suoi capitali ad una delle tante società in cui è ripartita la nazione sarebbe perderli, perché i capitali di esse sono proprietà nazionali, ed egli non potrebbe sperare altro guadagno che quello di essere ammesso come semplice socio, ed aver la sua parte al lavoro ed al lucro, come tutti gli altri operai; stabilire un lavoro, un negozio per proprio conto noi può, perché non troverebbe operai in uno stato ove tutti fanno parte di società; onde trovarli potrebbe forse giovarsi di operai stranieri, e così col suo stabilimento far concorrenza alle arti nazionali? Ma, appena fosse per cominciare il suo lavoro, il governo interviene, riunisce gli operai e dice loro: «Voi, per le leggi dello Stato, avete facoltà di amministrarvi e reggervi come meglio credete; tutti avete uguale diritto al godimento del guadagno, il capitale non può appartenere a nessuno, ma allo Stato, e voi ne sarete gli usufruttuarii, ed il capitalista con voi, se gli conviene.» — Una tale sentenza, senza esservi bisogno dell’intervento del fisco, e dei birri, gli operai medesimi la porrebbero in atto. Dunque in una società, costituita nel modo indicato, chi riuscisse ad accumulare vistose somme, non potendo impiegarle in modo alcuno, né potendo disporne dopo la morte, troverà il suo miglior partito spendendole e godendosele; e così il nuovo patto sociale, non solo abolisce la miseria e la rende impossibile, ma bandisce eziandio l’avarizia, e mantiene il denaro in una continua circolazione.
A coloro, i quali riconoscendo i vantaggi di un tal sistema oppugnassero la rivoluzione asserendo che la società, senza scossa veruna, ma con un successivo progresso, potrà trasformarsi, noi risponderemo che eglino disconoscono gli effetti inevitabili delle leggi di economia pubblica, applicate alle presenti condizioni dei popoli, che eglino disconoscono i fatti, che ogni giorno si compiono sotto i loro occhi. Le numerose associazioni di operai che spontaneamente sorgono, mostrano la tendenza della società verso un avvenire che comincia a presentirsi, ma non migliorano perciò le loro condizioni. A queste associazioni si opporranno quelle dei capitalisti e quelle, con maggiori danni, dovranno soccombere nella concorrenza. Pretendere che possano sussistere e prosperare istituzioni di utile universale, in una società costituita da forze tra loro riluttanti, che vicendevolmente si distruggono, ed il cui sistema è volto a favorire l’utile individuale a danno del pubblico, è pretendere una cosa impossibile, è pretendere che un picciolo rigagnolo segua il corso medesimo di un torrente senza venir travolto e confuso fra le sue onde. La condizione del proletario, senza una completa e violenta rivoluzione, non solo non può cangiarsi ma né pure migliorarsi, anzi è forza che essa continuamente peggiori.
Non ci restano ora che due altri punti a prendere in considerazione; uno è di esaminare se manca lo stimolo al lavoro, l’altro di vedere se mai siavi nel sistema il nocivo intervento del governo.
Il lavoro non è attraente, come asserisce Fourier, ma nemmeno ributtante; senza necessità non lavorasi, ma esistendo la necessità ed armonizzando il lavoro con le proprie inclinazioni, tutto ciò che in esso è penoso sparisce. Quale lavoro sarà più proficuo, quello del proletario che ha il solo stimolo della fame, il cui salario è invariabile, e le cui forze sono logorate dalla miseria; oppure quello di un agiato cittadino, che ha scelto il lavoro secondo la propria inclinazione, ed il cui guadagno cresce al crescere del prodotto? Gli infingardi esistono, ma essi riconosciuti come tali dalla società di cui fanno parte, verrebbero assoggettati ad una multa all’epoca della divisione dei lucri.
Il governo interviene nel solo caso, che osserva la violazione di quei principii stabiliti come base del nuovo patto sociale. Prima che la nazione sia costituita, egli dice agli oziosi proprietarii: «Voi non avete diritto alcuno sulla terra; se volete vivere, lavorate; ai contadini: la natura non ha concesso a nessuno la proprietà della terra, tutti sono padroni di coltivarla, e la nazione garantisce loro il frutto de' lavori; per far ciò con ordine, associatevi. Si rivolge al capitalista e gli dice: tu non sei che un usurpatore delle altrui fatiche, il capitale è proprietà nazionale, a te altro non ispetta che una porzione uguale a quella degli operai, e devi, secondo le tue attitudini, lavorare come essi lavorano.» Il governo non farà che bandire leggi semplicissime e chiarissime, che nessuno avrà bisogno di aiuto per comprendere; e lascierà ai contadini ed agli operai la cura di porle in atto. Proporrà la costituzione delle varie società, che la Costituente, Congresso di scienziati, avrà compilato, rimanendo ai cittadini piena libertà di respingerli, o modificarli, purché rimangano inviolati i principii. Queste leggi, questi consigli verranno pubblicati dal governo, non già quando la mente è ottenebrata ed il senso comune pervertito dai pregiudizii, ma quando la spada della rivoluzione ha già rimosso gli ostacoli, quando i contadini e gli operai avranno rotto l’incanto, che li mantiene tra i fragili ceppi del proprietario e del capitalista. Il governo non dovrà sospingere a fare cosa impossibile ai governi, ma frenare alquanto, indirizzare, dirigere le passioni che la rivoluzione ha sfrenate.
Fin qui della parte economica.
Ora faremo un’osservazione, che riguarda la politica. Il governo rappresentativo è screditato in Europa; l’assemblea eletta a rappresentare i diritti del popolo, ad altro non serve che a convalidare e vestire con una maschera di legalità e di giustizia le usurpazioni della tirannide. Non havvi principe, dittatore o ministro, il quale non faccia decidere secondo le proprie intenzioni il Congresso che la nazione ha eletto a guarentigia de' proprii diritti. Queste assemblee sovente sono d’impaccio al pronto operare, senza mai essere di ostacolo al male; nascono dalla corruttela, e vivono finché la forza crede dover subire il loro importuno garrito; odiose al tiranno, come che accarezzate, sono sprezzate dalla nazione. Questo triste fatto, che sembra conseguenza di loro natura, è l'effetto del modo come oggi sono regolati i rapporti sociali: l’utile privato essendo in opposizione col pubblico, produce una diversità di mire, di desiderii, di speranze; e quindi la irreconciliabile discordia delle idee e delle opinioni, e di più, il potere che ha il principe, il dittatore, il ministro di concedere cariche, distribuire oro ed onori, fanno si che le tante opinioni riluttanti, trovando l’utile su di una via comune, si accordano nel vendersi ad un padrone, e cospirano verso il fine che da esso viene loro indicato. Invece, se il governo non avrà doni da distribuire, nò pene da infliggere, se l'utile d’un cittadino dipende dal guadagno della società di cui fa parte, e la prosperità di questa dalla prosperità dell'intera nazione, vi sarà in tutti unità di mire, di desiderii, di speranze, e quindi concordia nelle idee e nelle opinioni. Ma quantunque il nuovo patto sociale deva ridurre all'assemblea quella forza, di cui ora manca, pure egli è cosa interessante di non perdere di mira una verità, che dalla stessa natura umana risulta. Le assemblee, capacissime nel sindacare, sono incapaci di concepire e di eseguire: quindi, per conservare la necessaria energia, nelle intraprese del governo, bisognerà sempre (adattando alle circostanze il principio) affidare ad uno solo l’incarico di concepire il disegno e di effettuarlo; quindi unità ed energia nell’azione, riserbandosi l’assemblea un perpetuo ed illimitato sindacato. Non altrimenti governavasi il Senato di Roma; e finché nella repubblica non vi furono poveri per vendersi, né ricchi per comprarli, ed ogni cittadino era soldato, la libertà non corse mai rischio nessuno. Per contro negli Stati moderni, non v’è potere, per limitato che sia, il quale non tenti e non riesca ad usurpare. Ciò dipende dalla condizione economica della società, ed ogni rimedio, finché non si cangia il patto, è vano.
Molti osserveranno, che, per attuare una simile trasformazione, sarà necessario far violenza ai proprietari ed ai capitalisti. E noi risponderemo che sì; e ciò in forza di quel diritto medesimo, che hanno gli oppressi di abbattere la tirannide, che ha la società presente contro i ladri.
Finalmente, se in cotesta trasformazione, certo meno violenta di quello che molti si vanno immaginando, molti interessi privati soffriranno, e moltissimi cadranno nella lotta, noi risponderemo che le rivoluzioni in cui tutti si salvano, esistono solo nella mente dei dottrinanti e degli utopisti. La rivoluzione è sempre una lotta di oppressi contro una classe di oppressori. Quindi se vi sarà vittoria, vi sarà eziandio disfatta; scacciare un re dal trono non è rivoluzione; la rivoluzione si compie quando le istituzioni, gli interessi, su cui quel trono poggiava, si cangiano.
Conchiudiamo, ripetendo agli economisti le medesime loro parole:
«Non si giunge, senza perdite, sulla breccia. Né possiamo tener conto delle vittime, che il carro del progresso schiaccia nel suo corso.» Ed usando il medesimo linguaggio di Malthus diremo: «La natura ha prescritto all’uomo di lavorare per vivere; l'ozioso non ha posto nel banchetto della vita; la natura gli comanda d'andarsene, né tarderà dare ella medesima esecuzione alla sua sentenza.»
XIX. La filosofia della storia prova ad evidenza, che l’umano istinto, come è sua natura, considerando la sola apparenza e l’effetto immediato delle cose, senza riflettere sulle conseguenze che ne risultano, va soggetto ad un continuo errore; quindi la pubblica educazione, che ferma l’attenzione e sviluppa il pensiero, non solo è dovuta di diritto ad ognuno, ma è il cardine principale della libertà.
Il Filangieri, col suo naturale splendore, lungamente ha ragionato di ciò; ma, suo malgrado, soggiacque ai pregiudizi ed alle opinioni dell'epoca. Egli richiede la prosperità universale come una condizione indispensabile alla felicità di uno stato. «Che può dirsi ricco e felice, egli scrive, solo quando, ogni cittadino, con un lavoro discreto di alcune ore, può comodamente supplire ai suoi bisogni ed a quelli della sua famiglia». Nell’epoca in cui visse l’autore, l’accrescimento continuo del prodotto faceva credere come cosa possibile, che la prosperità potesse un giorno non ugualmente ma equamente spandersi su tutti; non ancora l’esperienza avea dimostrato il contrario e disingannato gli illusi; non ancora la ragione aveva sentenziato che: l’universale miseria e l’opulenza di pochissimi è il risultamento inevitabile del presente patto sociale.
Il Filangieri adattò il suo sistema d’educazione ad una società composta di due classi, ricchi e non ricchi; destinava i primi a servire la società con la mente, i secondi con le braccia, e quindi due metodi diversi di educazione. Per impedire che sorgesse un gran numero di semidotti, che ora si vedono, i quali senza utile della scienza privano il lavoro di braccia, fece in modo che la dottrina fosse accessibile, per le spese che richiedeva, ai soli ricchi. Ma cotesta base, sulla quale poggiano le diverse parti del suo sistema, egregie tutte, è erronea.
La diversità delle incombenze, cioè: servire la società con la mente e con le braccia dal sistema del Filangieri era resa ereditaria, ed il popolo sarebbe stato diviso in due classi, non solo separate dal caso, distributore delle ricchezze, ma dalle leggi, che non per diritto, ma di fatto accordavano ai soli ricchi il monopolio della scienza. Né il vendere a caro prezzo la dottrina avrebbe minorato il numero de semidotti, anzi ciò l’avrebbe accresciuto oltre misura. La vera dottrina è raggiunta solo da quelli che la natura predispone a ciò, concedendo loro le necessarie facoltà per conseguirla; ed a questa predisposizione, che sola non basta, fa d’uopo che si aggiungano de' gagliardi moventi, che gli avvenimenti, a cui la società va soggetta, creano; e tanto l’una, come gli altri, difficilmente si riscontrano, raramente operano fra il giro ristrettissimo dei ricchi, a cui l’abbondanza, il lusso inflacidiscono le fibre, e più all’ozio che alla solerzia li predispongono; i ricchi non sarebbero che semidotti, e divenuta la dottrina un privilegio da ottenersi a prezzo d’oro, i semiricchi, per far comprendere i loro figli fra coloro che debbono servire lo stato con la mente, ovvero comandare, farebbero qualunque sacrificio, ed il numero dei semidotti, verrebbe accresciuto in immenso. Inoltre ne seguirebbe lo scadimento, l'avvilimento del lavoro e di coloro che dai ristretti mezzi sarebbero condannati a servire la patria con le braccia. Cosi ogni legge, che per impedire un male qualunque, pregiudica la libertà e l'eguaglianza, produrrà sempre un effetto diverso da quello che si propone il legislatore.
Gli uomini sono naturalmente inclinati al lavoro delle braccia. Si giovano delle facoltà mentali, per agevolare il lavoro di quelle; la dottrina, l’astrazione non è naturale all’uomo. Ma, i governi d’oggi, che per intervenire in ogni cosa creano un numero strabocchevole di salariati: la faraggine di leggi oscure e contraddittorie d onde pullulano a sciami i curiali, come dalla putredine gli insetti; e salariati e curiali impinguandosi a spese di coloro che lavorano, hanno diviso la società in scorticatori e scorticati, ed avvilito il lavoro. Ognuno, se sa leggere, potendo farsi comprendere fra i primi, crede avvilirsi se adopera la marra, o conduce l’aratro. Ma allorché sarà data al lavoro la considerazione che merita, nessuno l'abbandonerà per una semidottrina, che non potrà fruttargli né considerazione, né lucro. Lasciamo a tutti aperta la via che mena alla scienza, ed essa sarà percorsa, volontariamente, solo da coloro che la natura ha destinato a sublimarsi in essa. Questo è il principio generale sul quale bisogna basare il sistema d’educazione, nei particolari, egregiamente svolto dal Filangieri; e però noi non faremo che accennare poche idee senza dilungarci su d’un argomento ampiamente trattato da altissimi ingegni.
Sino all’età dei sette anni, le cure materne sono indispensabili, sono prescritte dalla natura. Raggiunta questa età, lo sviluppo fisico è pienamente assicurato, l'educazione del fanciullo verrà affidata allo Stato.
Ogni comune avrebbe il suo ginnasio ove si troverebbero tutti i mezzi necessarii allo sviluppo completo delle facoltà fisiche e morali. Né dovrebbe trascurarsi la sublime idea del Campanella, di adornare le pareti con dipinti che tutte le scienze rappresentassero.
Non dovrebbero i convittori vivere in comune, imperocché per ottenere l’unità nazionale bisogna riserbare integra ogni individualità, ed il vivere sempre insieme forma sette, quindi i giovanetti sarebbero tutti alunni esterni.
L’educazione in questi ginnasii durerebbe sino all’età di quindici anni, nel qual tempo ogni alunno apprenderebbe un’arte di suo gradimento. Dai quindici ai sedici tutti sarebbero obbligati di assistere ad un corso di filosofia civile ed origine di tutti i culti, onde ognuno imparasse i diritti di cittadino e potesse garantirsi dalla superstizione. Ai sedici anni le naturali inclinazioni sono pienamente sviluppate, ogni giovane dichiara la sua volontà, e sceglie l’arte o la professione alla quale vuol dedicarsi. Lo Stato gli accorda altri due anni d’istruzione nella specialità da esso prescelta, e queste scuole di tecnologia si troverebbero nelle principali città d’Italia. A diciotto anni la tutela della nazione cessa, ed il giovane, avendo il diritto di entrare in un’associazione di sua scelta, è dichiarato cittadino e milite, e deve da sé procacciarsi da vivere.
Ragioneremo ora dell’educazione delle donne e di ciò che ad esse riguarda, con la brevità medesima che ci siamo imposti in questo ramo della costituzione sociale. Sarebbesi lasciata una lacuna troppo significante, tacendo della più bella parte del genere umano, depositaria dei più vivi ed ardenti piaceri. La natura ha dato loro fibre più delicate e più sensibili delle nostre, e però le loro sensazioni vivissime, non possono essere che fugaci; elleno non possono sopportare lungamente l’impero d’una passione, che deve in loro ammorzarsi con la rapidità medesima con cui si desta. Capaci di quelle azioni ove il decidersi e l’eseguire succedonsi rapidamente, sono poi incapaci di sopportare a lungo dolori e mirare al conseguimento di un fine con attenzione profonda e prolungata; brillano si, ma non grandeggiano.
L’amore nelle donne ha un carattere diverso che nell'uomo; l’uomo s’accende delle bellezze della donna e desidera fortemente; la donna invece è presa dall’amore che inspira, non desidera, ma brama di essere desiderata. Dante, parlando di Francesca, ha espresso questa idea:
Amor che a nullo amato amar perdona
Mi prese del costui piacer si forte,
di qui il pudore, che accresce in altri il desiderio. Epperò la preponderanza dell’amore sulle altre passioni, aggiunte alle cure ed agli incomodi di dovere esser madre, la rendono inabile al governo ed alla milizia; quindi essa non potrebbe aver voto nelle cose pubbliche. Ma, d’altra parte, la natura, avendo creato le donne abili a procacciarsi il vivere, le ha dichiarate, perciò, indipendenti e libere; e tale dovrà essere la loro condizione sociale. Esse saranno educate come gli uomini con i riguardi e le modificazioni nel metodo, che si debbono alla gentilezza del sesso. Al pari degli uomini con eguali diritti, dovranno esser ammesse in quelle società che prescelgono. Probabilmente i lavori da sarto, da crostai, le belle arti, si eserciterebbero da donne.
Tutte le leggi sono scaturite dalle dipendenze che la violenza e l’ignoranza stabilì fra gli uomini; ed in tal guisa il matrimonio risultò dai ratti, che i più forti fecero delle più belle, per usurparne il godimento. La natura, per contro, sottopone l’unione dei due sessi alla sola legge dell'amore, e se un’altra regola, qualunque siasi, interviene, l’unione cangiasi in contratto, i in prostituzione. La meretrice che senza amore vende il suo corpo, la donna che senza amore sottoscrive ad un contratto matrimoniale, si prostituiscono ugual! mente. La prima vi è costretta dal bisogno perché, vendesi per breve tempo, l’altra è più spregevole, perché senza bisogno, vendesi per sempre; quella non promette al i amore né si obbliga a rinunziarvi, questa lo promette irej per sempre quasi premeditando lo spergiuro. L’amore adunque, nel nostro patto sociale, sarà la sola condizione richiesta a rendere legittimo il congiungimento di due sessi. Se manca l'amore, la volontà, la libertà diventa prostituzione.
La comunanza delle donne non è naturale, l’amore è esclusivo; quasi tutti gli animali non si accoppiano che ad una sola femmina; le varie coppie si formeranno da sé, l’unione durerà finché dura l’amore. Cessato questo, l’unione è sciolta di fatto.
L’uomo deve provvedere alla sussistenza della sua compagna finché i doveri di madre le impediscono di lavorare. I figli rimarranno con la madre, alla quale per legge di natura appartengono. Sino ai sette anni essa provvederà, con l'aiuto del padre, che dovrà coni correre alle spese necessarie per essi con una somma proporzionata ai suoi lucri. Dai sette anni ai diciotto la nazione ne assume la tutela e l’educazione; ai diciotto sono liberi affatto e provvedono a sé medesimi.
Non essendovi testamenti, né le altre mostruose leggi, che vorrebbero rendere ereditario finanche il merito, il formarsi e lo sciogliersi delle coppie non ha ostacoli, né impaccio di sorte alcuna.
Qui finisco, ed avendo misurato le vele col vento ed il timone con l’onde, non mi sono imposto l’obbligo di risolvere il problema sociale. Il mio proposito è stato di mostrare la profondità delle piaghe, e l'inefficacia d’ogni rimedio, finché non venga estirpato il diritto di proprietà e la serie delle sue conseguenze; e questo proposito credo d’averlo compito. Spetta all’intera nazione di stabilire, dopo aver tolto gli ostacoli che ho additati, la sua nuova costituzione, e se ho cercato d’indicarne i punti principali, l’ho fatto solo per rintuzzare la stupida risposta; è impossibile vivere altrimenti. Il rinvenire in questo cenno degl’inconvenienti non sarà difficile, ma saranno certamente molto minori dei mali sotto cui l’umanità geme oppressa; mali che fatalmente, senza tregua, ingrandiscono; mali, che la prepotente forza dell’abito fa credere inevitabili, e perciò vengono con pazienza sofferti.
Nella ricerca della nuova costituzione sociale ho seguito il metodo semplicissimo, che il corso naturale degli avvenimenti additavami: distruggere il presente, e creare il nuovo patto sociale, basandolo sui principii che le leggi magistrali della natura c insegnano. Ho svolto poi i vantaggi del sistema dimostrando che le tendenze funeste della presente società, vengono completamente a cangiarsi.
Conchiudo con rammentare ai conservatori, che la rivoluzione sociale non sarebbe affrettata neppur di un’ora, eziandio se tutto il mondo riconoscesse attuabile un nuovo ordinamento sociale. Questa crisi della società dipende da cagioni assai più terribili e fatali. Essa dipende dalle tendenze che inesorabilmente, in progressione geometrica, si manifestano. Potete voi, non già estirpare la miseria, ma evitare che cresca? Potete voi negare che la forza materiale è dalla parte di coloro che soffrono? E se le tradizioni e l’inerzia formano il solo fascino per cui la società presente non crolla, in un istante impreveduto può rompersi l’incanto.
XX. Senza accordare importanza soverchia ai colori d’una bandiera ed alla formola scritta su di essa, esporremo la nostra opinione su di ciò, poiché trattasi di cosa che richiede pochissima fatica; opinione di cui ci faremmo i propugnatori in un’assemblea, se mai potesse capitarne l’occasione.
Fintanto che la nazione non sarà perfettamente libera, ed avrà completamente debellati i suoi nemici, non bisogna né discutere, né porre in dubbio, quale dovrà essere la bandiera che ci condurrà alla battaglia. Il vessillo tricolore è da tutti riconosciuto, e ciò basta. Ove sventola, ei rannoda dei guerrieri intorno a sè, questi guerrieri combattono pel trionfo della rivoluzione italiana, e nessun rivoluzionario può astenersi dal seguirli. Ma se su tale bandiera, scorgesi un simbolo od una formola, allora ognuno ha il diritto di dire: quella causa non è causa che mi riguarda, e per la quale io combatto; proporre formolo, è un dissolvere e dissolvere per puerile soddisfazione personale.
Terminata la guerra, ricostituita l’Italia, conserverà essa il tricolore vessillo, o adotterà un’altra bandiera? Pare che le opinioni potrebbero dividersi su tale argomento. Alcuni sosterrebbero con ragione che la nuova costituzione sociale non ammettendo divisione di potere, ma leggi, la loro esecuzione, il loro sindacato, tutto trovandosi nel popolo, la pluralità de colori, che precisamente accenna, è assurda, e quindi diranno: sia qual si voglia il colore della bandiera, ma sia uno solo. Altri invece potranno sostenere che il vessillo tricolore, intorno a cui si saranno vinte tante battaglie, è troppo caro, è troppo ricco di gloriose reminiscenze, per abbandonarlo, perché non trovisi perfettamente d accordo con la logica. Noi saremmo tra questi ultimi, proponendo solo, che il berretto frigio ne sormonti l’asta, escludendo ogni altro simbolo di autorità e di conquista, e che sul mezzo di esso, l'archipendolo indichi come l’uguaglianza sia il patto fondamentale di nostra costituzione.
Rimane ora a discutere quale sarà la formola che adotterà la nazione. Noi trascriveremo il ragionamento sensatissimo, che troviamo dell'opera di Ausonio Franchi: La Religione del secolo XIX, in cui si fa paragone tra la formola francese: Libertà, Eguaglianza, Fratellanza e la formola di Mazzini: Dio e Popolo.
«Esaminiamo le differenze radicali, finora poco avvertite, e nondimeno importanti, che Mazzini scorge fra Una formola e l’altra. La francese è essenzialmente storica, ricapitola in certo modo la vita dell’umanità nel passato, accennando poco definitivamente al futuro».
Questo giudizio, né quanto al passato, né quanto al futuro, non parmi esatto. La formola: Libertà, Eguaglianza, Fratellanza, non pud dirsi che ricapitoli la vita reale dell’umanità nel passato; perché non può ricapitolarsi quello che non è ancora esistito; e Mazzini per fermo non saprebbe indicarci nessun’epoca della storia, in cui già regnasse la libertà, l’eguaglianza e la fratellanza universale. Onde egli stesso» tracciando l’ordine e lo sviluppo con cui si vennero elaborando i tre elementi della formola, parla sempre dell’idea, non mai del fatto. E però se la formola teoricamente è la ricapitolazione del passato, praticamente è la legge del futuro; legge non poco definita, ma così chiara, che non ha mestieri d’alcuna spiegazione; così vasta che abbraccia tutte le condizioni private e pubbliche della vita; così progressiva che nemmeno col pensiero si può oltrepassare la perfezione, che prefigge qual meta alla carriera dell’umanità.
«La formola italiana (così appella Mazzini la sua) è invece radicalmente filosofica; accettando le conquiste del passato, guarda risolutamente al futuro e tende a definire il metodo più opportuno allo svolgimento progressivo delle facoltà umane». Confesso che tutto questo periodo è per me un enigma. In qual senso può mai chiamarsi filosofica l'espressione: Dio e Popolo? Nessuno di questi due termini ha qualche relazione particolare con la filosofia: non Dio, perché è concetto religioso, anziché scientifico; non il Popolo, perché è concetto empirico, anziché razionale. E come può dirsi, che quella formola accetti le conquiste del passato? Né Dio né il Popolo sono principii, che l’umanità abbia conquistato; ma l’uno è il simbolo di un sentimento connaturale allo spirito umano, e l'altro, per sé, non è che un fatto materiale. Come può dunque guardare al futuro? Come tendere a definire un metodo qualsiasi per lo svolgimento delle umane facoltà? Ho un bel ripetere a me stesso: Dio e il Popolo, io non ritrovo in queste due parole né passato, né futuro; non ci veggo né definizione, né metodo di sorta; non ci sento né progresso, né svolgimento di nessuna facoltà: scientificamente non ci trovo nulla; perché Dio è un’incognita, e il Popolo è un fenomeno di storia naturale.
«La prima esprime compendiato un grande fatto; la seconda scrive sulla bandiera un principio. La prima definisce, afferma il progresso compiuto; la seconda costituisce lo strumento del progresso: il mezzo, il modo per cui deve compirsi». A me sembra tutto il contrario. La formola francese non esprime un fatto ma un principio, perché i suoi elementi sono idee, sono verità che hanno ancora da incarnarsi e realizzarsi nella storia. Essa adunque afferma bensì un progresso compiuto nell'ordine del pensiero, ma determina insieme la legge del progresso da compiersi nell’ordine dell’azione. All’incontro, la formola di Mazzini non significa né il progresso compiuto, né quello da compirsi; né la verità d’un principio, né la legge d’un fatto; e l’ingegno il più acuto ed analitico del mondo non arriverà giammai a scoprire in quelle due voci la costituzione di uno strumento, di un mezzo, di un modo quale che sia di progresso.
Ben ve lo scorge Mazzini, lo so; ma ve lo scorge mediante un commento, che dà ai due termini un senso tutto suo proprio. Egli continua infatti: «Una formola filosofica-politica, per aver dritto e potenza d’avviar normalmente i lavori umani, deve racchiudere due» sommi termini: la sorgente e la sanzione morale del progresso; la legge e l’interprete della legge».
Questa nozione della formola politica, a mio avviso, è falsa. Una formola scientifica non è altro che l’espressione chiara e concisa, e quasi la riduzione ai minimi termini di una legge. Ora che cosa sono, nel linguaggio filosofico, le leggi? Sono i rapporti naturali e necessari degli esseri. Ma per determinare questi rapporti non fa d’uopo di assegnare la sorgente; e nessuna legge fisica, matematica, metafisica e morale si fa dipendere in alcuna guisa dal concetto della sua causa. Dunque il primo termine, che Mazzini prescrive alla formola, non le appartiene.
E non le appartiene neppure il secondo, che è, giusta la sua dottrina, la sanzione o l’interpretazione della legge. In primo luogo perché la sanzione d’una legge non ha che fare con la sua interpretazione: identificare l’una con l’altra, è distruggerle entrambe. In secondo luogo, perché la formola d’una legge è affatto diversa ed indipendente dalla sua interpretazione e dalla sua sanzione; le sono quistioni d’ordine e di natura al tutto differente: confonderle in una, è renderle insolubili tutte.
La formola politica adunque non deve esprimere altro, che la legge sociale, ossia i rapporti naturali e necessarii de cittadini verso la nazione, e delle nazioni verso l’umanità. La sorgente poi e la sanzione di questa legge sono due problemi a parte, gravissimi e importantissimi quanto si voglia, ma indipendenti dalla formola. Dunque allorché Mazzini soggiunge: «Questi due termini mancano alla formola francese; costituiscono l’italiana, pronuncia senz’accorgersene il più grande elogio di quella, e la più severa condanna della sua.
«La sorgente, la sanzione morale della legge sta» in Dio, cioè in una sfera inviolabile, eterna, suprema, su tutta quanta l'umanità, e indipendente dall'arbitrio, dall'errore, dalla forza cieca e di breve durata. Più esattamente Dio e Legge sono termini identici.»
Con questo commento, lungi dallo spiegare la sua formola, Mazzini la immerge in un pelago di nuove difficoltà e di nuovi misteri. Se Dio e Legge sono termini identici, la sua tesi, che la sorgente, la sanzione della legge sta in Dio, equivale precisamente a queste altre: la sorgente della legge è la legge; — la sanzione della legge è la legge; — la sorgente di Dio è Dio; — la sanzione di Dio è Dio; — la legge è legge; — Dio è Dio. — E che senso daremo noi a questo gergo? Inoltre se la legge è Dio, convien dunque sapere che cos’è Dio, per conoscere che cosa sia la legge. E il Dio di Mazzini qual'è? Ecco il nodo della quistione. L’accennare come egli fa ad una sfera inviolabile, eterna, suprema non è definire; poiché a tutte quante le religioni e le sette possono appropriarsi quelle belle parole; ma sono parole! Avanti d’accettare la sua formola, dobbiamo chiedergli, che ci dica una buona volta, senz’ambagi e senza tropi, che cos’è Dio? Ovvero fra varii Dei presentemente nati in Europa, qual’è il suo? Teologicamente noi possiamo annoverarne quattro, assai diversi fra loro: il Dio degli Ebrei, il Dio de' Cattolici, il Dio de' Maomettani, e il Dio dei Protestanti. Filosoficamente poi li Dei possono contarsi a centinaia.
Ciascuno de' molti sistemi di panteismo, di materialismo, di spiritualismo, d’idealismo, ecc. ecc., ha un suo Dio particolare, che è sempre la negazione del Dio di ciascun altro. Or bene; fra questa turba di Dei, qual’è il Dio che Mazzini adora e che vuol farci adorare? Da' suoi scritti non mi venne mai fatto di raccapezzarlo; poiché ci sono frasi per tutti; ce n’è per il Dio del Papa, per quello di Lutero, per quello di Maometto, per quello di Socino, per quello di Rousseau, per quello di Spinosa... Non è dunque possibile che la sua formola abbia un valore, finché il primo e massimo elemento non è ben definito.
«L’interpretazione della legge fu problema continuo all’umanità. — La formola italiana affida l’interpretazione della legge al popolo, cioè alla nazione, all’umanità collettiva, all’associazione di tutte le facoltà, di tutte le forze coordinate ad un patto.» — Qui abbiamo una certa definizione; ma siccome è arbitraria, così non vale a costituire né legge, né formola veruna. Chi abbia già del Popolo la sublime idea, che a Mazzini venne inspirata dal suo nobile cuore, dirà come lui, certamente; ma i termini d’una formola, di una legge sociale, devono portare in sé stessi il loro valore, e non ritrarlo dall'arbitrio e dall'intenzione dello scrittore. Fra i due termini Dio e Popola non è espresso alcun rapporto; dunque o bisogna supporre che l’unico rapporto possibile sia quello di Mazzini; o altrimenti la sua formola non significa nulla perché non determina nulla. Il primo caso non è ammissibile, dacché ripugna egualmente alla logica ed alla storia, dunque sta il secondo.
«La formola italiana, intesa a dovere, sopprime dunque per sempre ogni casta, ogni interprete privilegiato, ogni intermediario per diritto proprio tra Dio, padre e inspiratore dell'umanità, e l'umanità stessa.» Ma perché possa produrre tanti bei frutti la formola va intesa a dovere, cioè nel senso di Mazzini; ché altrimenti, preso ciascun termine come suona, non ha senso alcuno determinato. E questa clausola sola non prova abbastanza la completa nullità della formola mazziniana? La francese all'incontro sopprime ogni casta, ogni interprete privilegiato, senza bisogno di chiose, che ne la facciano intendere a dovere; ma semplicemente in virtù del senso naturale, ordinario e vulgatissimo delle parole. Dovunque sia libertà, eguaglianza e fratellanza, ivi è impossibile fino il concetto di casta e di privilegio; laddove Dio e il Popolo sono dappertutto, e pure dappertutto regna il privilegio e la casta.
«La formola italiana, generalizzata da una nazione all'associazione delle nazioni, dichiarata fondamento d’una teoria della vita: Dio è Dio, e l’umanità è suo profeta.» Non so capire come un apostolo del progresso abbia potuto tenere questo linguaggio, che odora cosi forte di musulmano. Oh! Mazzini dovea lasciarlo a quei devoti e fanatici settarii, i quali credono tanto più fermamente una cosa, quanto più è incomprensibile ed assurda; ma egli parla ad uomini civili del secolo XIX, e sa meglio di me, che costoro non sono disposti a credere, se non quello che intendono. 0 spera forse d’aver loro tolto ogni dubbio e chiarita ogni difficoltà con quella strana definizione. Dio è Dio? E quando avranno imparato che Dio è Dio, conosceranno poi davvero cos’è Dio? Quando pure gli concedano che l'Umanità è Profeta di Dio, potranno persuadersi di aver trovato il fondamento d una teoria della vita? Una teoria non può assumere per fondamento se non un principio certo ed evidente; e Mazzini vuol fondare la teoria della vita sopra un giuoco di parole, sopra un’incognita?
«La formola italiana è dunque essenzialmente, inevitabilmente, esclusivamente repubblicana, non può uscire che da una credenza repubblicana, non può inaugurare che repubblica.» Ed anche questa conclusione è fallace. La formola Dio e Popolo non è, e non può dirsi né esclusivamente, né inevitabilmente repubblicana, poiché è essenzialmente indeterminata, ossia nulla. Essa riceve il suo significato dal carattere di chi la proclama; ed è repubblicana sulla bandiera di Mazzini, come sarebbe teocratica su quella di Pio IX.
«La formola francese, non accennando alla sorgente eterna della legge, ha potere per difendere con la forza, col terrore, non con l’educazione, alla quale manca la base, le conquiste del passato; è muta, in» certa, malferma su l’avvenire.» V’ha qui un gruppo di metafore, in cui non veggo lume da nessuna parte. Accusare una formola di non potersi difendere! Mescolare insieme formola e forza; formola e terrore, formola ed educazione! 0 che? la formola dev'essere dunque un esercito o una fortezza, una scuola o una accademia? E la formola di Mazzini ha dunque il potere di educare? A crederlo però aspetteremo di vederla salire in bigoncia, e di ascoltare le sue pedagogiche lezioni! — Del resto che la francese non accenni alla sorgente della legge, è appunto il suo pregio e il suo merito principale; e che sia muta, incerta, malferma su l’avvenire, non può sostenerlo, se non chi ignori o voglia affatto dimenticare il senso più ovvio delle parole libertà, eguaglianza, fratellanza.
Il rimanente del suo discorso dovrei dire, se non si trattasse di Giuseppe Mazzini, che offende troppo il senso comune:
«La formola francese non definendo l'interprete della legge, lascia schiuso il varco agli interpreti privilegiati, papi, monarchi o soldati. Quella formola potè nascere dagli ultimi aneliti d’una» monarchia, sussistere ipocritamente in una repubblica, che strozzava la libertà repubblicana di Roma soccombere sotto il nipote di Napoleone, che dichiarava: io sono il migliore interprete della legge, io sarò tutore alla libertà, ali eguaglianza, alla fratellanza de’ milioni.»
Come! Mazzini trova modo di associare insieme questi concetti: libertà e privilegio, eguaglianza e Papa, fraternità e monarca o soldato! Ma se questi non sono concetti rigorosamente, evidentemente, palpabilmente contraddittorii, c’ insegni un po’ che cosa sia ripugnanza e contraddizione; giacché se mi permette di ragionare con la sua logica, io gli convertirò tutti gli assurdi in altrettanti assiomi. — Inoltre, quel rimprovero ch'esso rivolge alla formola francese, mi fa nuovamente dubitare, ch'egli esiga proprio dalle formole l’officio degli schioppi, dei cannoni e delle bombe.
Ma non è una stranezza, a dir poco, l’imputare ad una formola le iniquità di un governo! quelle iniquità erano forse una conseguenza legittima e necessaria di quella formola? Questo governo era forse fedele al suo principio? A chi mai farà credere Mazzini, che se in luogo delle parole: liberté, égalité, fraternité, fosse stato scritto in fronte ai pubblici monumenti: Dio e Popolo, l’assemblea francese non avrebbe decretato la spedizione di Roma, né Bonaparte avrebbe fatto il colpo di Stato? Le parole Dio e il Popolo ben erano scritte sulle bandiere di Roma; e perché non fecero il miracolo di salvarla? Perché Mazzini non isconfisse i battaglioni francesi, non disperse le artiglierie tedesche, non mantenne saldi ed incolumi i bastioni italiani, col suo magico grido: Dio e Popolo? — In verità, io arrossisco di dover discutere argomenti cosi stravaganti. No, Napoleone non commise la follia di dichiararsi tutori della libertà, dell'uguaglianza e della fratellanza dei milioni. Egli fu assai più consentaneo a sé stesso: «giù la libertà, egli disse, giù l'eguaglianza e la fratellanza! Io sono il vincitore e comando; il popolo è vinto e obbedisca.» — E quella povera formola, che Mazzini stima conciliabile di fatto col dispotismo, Napoleone non la giudicò compatibile, né pur di solo nome, col suo potere: la cancellò dappertutto! Ma invece quale è la formola, che trovò bella e fatta per lui? È quella di Mazzini: in nome di Dio e del Popolo (par la grace de Dieu et la volontà nationale)....
Ed è la storia, non io, che dà una smentita cosi franca e solenne a quell’altra singolare asserzione: «Né papa né re potrebbero assumere coi repubblicani» italiani linguaggio siffatto. La formola inesorabile gli direbbe: non conosciamo interpreti intermediarii privilegiati tra Dio e popolo: scendi né suoi ranghi, ed abdica.»
Si, Bonaparte ha assunto linguaggio siffatto co’ repubblicani; e la formola di Mazzini si mostrò, non mica inesorabile, ma la più compiacente e pieghevole creatura del mondo. Essa non solamente stette chete e si tacque; ma fece assai più, ed assai peggio. Si presentò lesta lesta al Bonaparte e gli disse: «Tu cerchi un’insegna per la tua bandiera, ed un’iscrizione pei tuoi decreti: eccomi qua, nata, fatta per te. Grida sempre: Dio e Popolo, e fa quel che vuoi: tu avrai sempre ragione.» — Oh! Mazzini è tornato in mai punto a celebrare la sua formola. Doveva almeno purgarla dal fango, di cui l’ha contaminata Bonaparte! e assolverla dall’infanzia, onde l’hanno coperta i bonapartisti!
Ho cominciato a trascrivere questa splendida confutazione della formula mazziniana, col proposito di sceverarla de periodi meno interessanti; ma, fatta eccezione di alcune parole, nel principio ed alla fine, le une che servono di legame con quello di cui precedentemente ragiona l’A. e le altre che riguardano lui personalmente, non ho trovato nulla che ridondi, che non interessi, che non piaccia; perciò interamente e fedelmente l’ho trascritta. Aggiungo ora le mie osservazioni.
Le condizioni alle quali deve soddisfare una formola politica, ottenendosi alle opinioni medesime del Mazzini e del Franchi, sono che: deve esprimere la verità d un principio, la legge d’un fatto; un principio, che, base del patto sociale, determini i rapporti dei cittadini fra loro e con la società, ed accenni eziandio la legge che darà norma al progresso futuro. E tutto ciò, leggendo la formola, deve presentarsi chiaro, immediato, consueto alla mente d’ognuno, senza aver bisogno d’interpreti o di commenti.
A me pare che la formola francese non soddisfi a queste condizioni. 11 suo merito altro non è che non contraddirle. Libertà non può esistere senza eguaglianza; quindi una di queste due parole è superflua; se tutti sono eguali non potranno essere che liberi, né potranno dirsi liberi i cittadini fra cui non siavi eguaglianza; e la fratellanza poi, come che accenni il fine a cui tende la nazione, il patto che lega i cittadini, è una ipocrisia, perché non esiste in natura, e se i cittadini vivranno come fratelli, perché tali li rendono gl'interessi tutti cospiranti al bene pubblico, non perciò saranno tali. Inoltre da questa parola viene l’odore del cristianesimo a mille miglia.
Non comprendo come sia sfuggita alla mente di tutti la formola semplicissima e chiarissima, già titolo d’un savio giornaletto che pubblicavasi in Genova: libertà ed associazione!
Questa formola, evidente per sé medesima, non ha bisogno né d’interpreti, né di commenti; essa è un principio, ed è quello appunto su cui deve basarsi il patto sociale; la libertà esprime il diritto d’ogni italiano, l’associazione la sola legge a cui si sottopongono, il solo patto che li unisce, l’unico rapporto sociale e sotto questa unica legge, eziandio, deve svilupparsi l’indefinito progresso sociale.
Come Ausonio Franchi, dico che per noi deve essere: «nostrale ogni verità, straniero ogni errore», ma in parità di circostanze preferisco ciò ch è italiano a ciò ch'è straniero. E quando ad una formola adottata da un’altra nazione io trovo di sostituirne altra uguale o migliore, non dubito un istante; perché l’imitazione, non è mai scompagnata da qualche cosa di servile. Sono umanitario; ma innanzi tutto italiano; e come in una nazione non può costituirsi il nuovo patto fra i cittadini, se ognuno di essi non acquisti piena ed intera la sua individualità, cosi non vi sarà fratellanza o meglio associazione di popoli, se prima ogni popolo non ottenga la sua completa autonomia; e come è impossibile sorgere a libertà prima che ognuno senta ed operi liberamente, del pari il primo passo che dobbiamo fare noi Italiani, onde avviarsi alla soluzione del problema umanitario, è quello di sentirci. e di costituirci esclusivamente italiani. Come dalla libera manifestazione del pensiero d'ognuno, risulta il vasto concetto nazionale; dalla libertà ed esistenza propria ed assoluta d’ogni nazione, può risultare il patto umanitario. Chi ammette supremazia di nazione, astri e satelliti, nega la rivoluzione verso cui aspiriamo.
Fine.
Le opere principali di Carlo Pisacane sono: Guerra combattuta in Italia negli anni 184849; ed i Saggi Storico-politico-militari sull'Italia. I saggi sono quattro preceduti da un disegno dell'opera. H Pisacane amò cosi intitolarli:
1.° Cenno storico d’Italia.
2.° Dell'arte bellica in Italia.
3.° La rivoluzione.
4.° Ordinamento e costituzione delle milizie italiane.
A chi ha curato questa ristampa piacque riportare per intero il saggio 3° come quello che contiene una esposizione sistematica del pensiero filosofico sociale dell'autore, e degli altri saggi, e della «Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49» andar spigolando i passi su la quistione sociale. Abbiamo ancora voluto ristampare il Testamento politico benché già edito e noto, perché ci è parso utile che da questo volume risaltasse intiera e spiccata la figura dell'uomo. Tanto anche a schiarimento dei richiami che l’autore fa spesso nel saggio terzo ai saggi precedenti ed all’altre sue opere.
Non proporrò sistemi: essi non sono che uno sforzo inutile dell'umano ingegno, avvegnacché ogni società asconda in seno i suoi futuri destini.
Un popolo che dal dolore sospinto, rovescia l’ordinamento sociale sotto cui vive, ha di già attuato il suo rinnovamento; come, cessato un terremoto, la natura, che tutta sembrava sconvolta, adagiata di nuovo fra le sue leggi magistrali; cosi alla voce imperiosa della necessità l’anarchia cessa, e la società, indipendente da ogni dottrina, si ricostituisce su que’ principii, che meglio ad essa convengono. E se i pregiudizii, le costumanze, le leggi antiche serbano ancora il loro prestigio, e sotto pretesto di ricercare il possibile) s’impongono limiti alle leggi di natura, che son le sole possibili) la società intristisce di nuovo,, avviandosi a nuova rivoluzione.
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I deboli vedendosi esposti alla rapina od alla violenza de' forti, ciascuno invocò la protezione di un potente, per esser difeso dagli altri; cosi ogni forte ebbe una clientela, ch'egli difendeva e dominava; cosi dal sentimento della propria conservazione originò la schiavitù, la diversità delle caste; i forti furono i nobili, i clienti la plebe, i prigionieri gli schiavi. Ogni nobile fu duce supremo, arbitro nella famiglia, e fra' clienti fu re e sovrano sacerdote. Come la lotta degli individui costrinse questi ad unirsi in famiglie, cosi la lotta fra le famiglie gli raccolse successivamente ne’ Vici, da' quali per la ragione medesima si formarono i Pagi e dall’unione di più Pagi si composero le città. Qui la barbarie cessa.
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Le sorti dei popoli dipendono pochissimo dalle istituzioni politiche.
Sono le leggi economico-sociali che tutto assorbono, che tutto travolgono nei loro vortici. Il diritto di proprietà illimitato, ovvero il diritto di possedere più del bisognevole, mentre altri manca del necessario, fu la sola cagione per cui caddero in dissoluzione i Romani, come già per la ragione stessa era avvenuto a' Magno Greci. Questo fatto è innegabile.
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Il principio su cui è basato un sistema sociale, trasforma e volge a suo vantaggio ogni istituzione, eziandio quelle fatte per lenire i mali che da un tal principio risultano, e tutti i rivolgimenti che, senza sbarbicare il principio, tendono a crear ripari contro di loro, ma producono che danni, concedono nuove e potenti armi al nemico. I mali cresceranno in immenso, finché o gli oppressi si decidano ad abbattere quel principio o tutta la società ne rimanga distrutta.
La ragione atta a turbare illimitatamente l'eguaglianza materiale, in una società, la menerà alla ruina; l’eguaglianza morale senza la materiale, è un assurdo, è una menzogna.
Non è già nel modo di concedere il suffragio e nelF universalità di esso che consiste la libertà; ma bensì nelle istituzioni voltq a limitare l'autorità.
Se il popolo non giunge a conoscere chiaramente ciò ohe deve pretendere, i rivolgimenti sono infruttuosi. I potenti si governeranno contro il popolo sempre nel modo stesso: quando un cavallo vi scappa, lo richiamate con le carezze; ripigliato, gli fate sentire freno e sproni. Con tal mezzo sono sempre riusciti, e riusciranno quantunque da tutti si conosca l’espediente.
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La proprietà, primo errore dell’umano istinto, era la più potente, se non la sola, cagione della cancrena sociale.
H progresso mira ad agguagliare tutte le classi, ed a proclamare la sovranità del diritto. Le rivoluzioni segnano i punti trigonometrici sul vasto campo delle umane vicende.
La tirannide opprime i popoli e beata si gode le sue usurpazioni, finché il progresso lento ma continuo delle idee comincia a richiamare l'attenzione di quelli sul peso delle proprie catene; e siccome sono sempre ribadite dalla menzogna, lo spirito umano si attiene alla prima idea o credenza che ricalcitri alla causa del dispotismo, poco curandosi di esaminarla. Un nuovo errore distrugge l’antico, e su di esso si eleva nuova tirannide, destinata a percorrere il medesimo ciclo. In tal modo avendo per assintoto il vero, la cicloide del progresso continua il suo corso.
Gli schiavi furono francati dalla formola della fratellanza evangelica, lo stato misero, l’ignoranza in cui vivevano, fece loro accettare tutte le cose predicate da uomini, i quali o videro la necessità d’ingannarli per loro. salvezza, o erano essi medesimi illusi. Ma educate le masse a credere e non ragionare, gli scaltri tosto le padroneggiarono, ed alleandosi con la forza, il cattolicismo, il privilegio, ed il trono formarono la nuova tirannia sostenuta dall'arma medesima che aveva abbattuta l’antica: la fede.
Lutero cominciò a scrollare il nuovo edifizio, sostituendo all'autorità il libero esame; i filosofi del secolo decimotfavo gli diedero il crollo. Ma quei filosofi benché di vaste cognizioni, di acutissimo ingegno e di animo forte, dovettero soggiacere all'influenza della società in cui vivevano, né poterono internarsi nel profondo delle loro dottrine.
Essi misero in mostra l’impossibilità delle massime evangeliche, sparsero il ridicolo sulla fede e ridonarono all'uomo la libertà che gli aveva rapito l’impostura. Spezzarono cosi un ignobile freno, ma senza crearne uno novello. Il socialismo fondato sull’utile di ciascuno, e non già sull'abnegazione ed il sacrifizio, non cadde sotto i loro sensi. I loro lumi furono inviluppati dalla nebbia che li circondava, e l'egoismo rimase sbrigliato affatto. E perciò una società inegualissima si ricostituì sulla lotta, la libertà, la concorrenza; quindi nuova tirannide al vertice di questo altro ramo della curva. La classe media che aveva compita la rivoluzione, potente di mente e di mezzi, oppresse il popolo che mancava di tutto.
L’era nuova verso cui ci avviciniamo a gran passi, ridurrà l’immensa e putrida macchina governativa alla sua più semplice espressione; il popolo non delegherà più, né potere, né volere. Il solo sostegno del governo sarà l’opinione pubblica. Il genio è destinato a servire il popolo coi suoi lumi, ed ottenere non altro compenso che l’accettazione delle sue idee.
L’Italia soggiacque alla rivoluzione dell'89, e debolissima come era rimase preda dei forti. La classe media che avea quasi da per tutto acquistata la supremazia restò in Italia sotto il più crudo dispotismo. La nobiltà, che si trovò già in parte assorbita dai troni, venne distrutta. Gli avanzi di questa famiglia, parte si rifuggirono nelle anticamere delle corti, parte si confusero con la classe media. I primi costituiscono, ove è corte italiana, la sedicente aristocrazia, legata al trono non già per grandi interessi, ma per ignoranza ignavia.
La borghesia voleva esistere, essa rappresentava la nazione, e da lei uscirono filosofi, cospiratori e martiri. Costoro oppressi dal dispotismo non ebbero campo sufficiente a spiegare l’ingegno, e come pensatori rimasero interdetti. Essi furono e sono i propugnatori della rivoluzione dell'89, meno il sangue, ed i proclamatori delle forinole di diciotto secoli fa, mascherate con altre parole.
Infine hanno predicato e predicano il progresso, proponendo come mezzo le antiche massime del Vangelo, e come fine la costituzione dell’89, già trasformata in tirannide. Queste sterili dottrine non poterono generare concetto veruno, ma inorpellate da belle parole, ridotte a forma di poesia, preoccuparono i cuori sensitivi della gioventù italiana, la quale in queste mistiche declamazioni unicamente imparava l'odio contro il passato, che in tutta la forza delli abusi era riassunto e rappresentato dai governi. Si fecero a cospirare, e come cospiratori spiegarono maggiore abilità di quello che non avevano mostrato come filosofi. Ma tutti i moti iniziati in Italia dopo il quindici, più o meno vasti, caddero tutti, dappoiché essi attaccavano la forma del despotismo e non già il despotismo medesimo. La parola democrazia di cui si servivano, suonava per essi il regno della borghesia, la quale benché oppressa politicamente, regnava per la costituzione sociale; quindi si trattava di transazioni o di cambiamenti d’individui. Ma i tirannelli d’Italia, protetti dall'Austria, erano troppo forti perché potessero essere abbattuti da un movimento, il quale non si comunicava alle masse. Per tal guisa la classe media, che in Francia opprime ed avvilisce la nazione, in Italia invece diede nobilissime vittime. Intanto ad ogni loro conato, e ad ogni vittoria, il despotismo infieriva e diventava più ingordo; quindi maggiormente si fortificava nei cuori l’odio contro di esso, e cominciava a passare nelle masse, le quali forse non comprendevano quello che dalli agitatori si voleva, ma cominciava a sentire il bisogno di migliorare. La formula, la parola di questo futuro, non esisteva ancora nelle menti.
L’Austria continuava a concentrare il potere, ed incurvava cosi un arco di acciaio non prevedendo la reazione della sua elasticità. I lombardo-veneti intesero di essere italiani, appena l’Austria volle che fossero tedeschi. La parola Nazionalità percorse da un estremo all'altro d’Italia, ed i bisogni materiali del popolo, i desiderii dell'ardente e poetica gioventù, furono espressi da tali parole. Lo straniero fu additato da tutti come la causa di ogni male.
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La borghesia, impotente per sé medesima, in Europa è tirannica ove regna, e demagoga ove è serva.
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i repubblicani dicono di non accettare il formalismo, ma combattono il comuniSmo, temono dichiararsi socialisti, propugnano il vangelo, in una parola niegano la rivoluzione e vogliono la rivoluzione. Quali sono le riforme da essi desiderate? S’ignora, l'ignorano essi medesimi, e pretendono che il popolo, per conquistare questo futuro incognito, compia la rivoluzione, ed attenda che Iddio comunichi le tavole della legge ad un nuovo Mosè.
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Egli è una verità incontrastabile, che i mali delle nazioni non dipendono dagli uomini, i quali non sono che i frutti delle loro costituzioni sociali, e da cui non bisogna attendere un’abnegazione sinora sognata per mancanza di principii. Finché il governo reggerà, invece di amministrare, ordinerà in luogo di seguire la via che il concetto collettivo gli addita, comanderà più tosto che servire il popolo, non potrà esservi giammai garanzia possibile.
Esso dirigerà sempre gli interessi individuali al proprio bene e sostegno, e non già in favore dell’utile collettivo. Quali sono le cause di cotesti mali, quali i mezzi che il governo possiede? La forza, la corruzione e la scienza; ovvero l'esercito, gli istrumenti del lavoro, e la educazione. Qual è lo scopo a cui mira la futura rivoluzione? A democratizzare queste forze.
L’arte della guerra non dovrà più essere il monopolio di pochi, ma la nazione tutta dovrà essere guerriera; gli istrumenti del lavoro, in comune; l'educazione, universale, comune, gratuita, obbligatoria. Che si dichiarino utopistici tutti i sistemi esposti sinora, da sommi ingegni, la questione non cambia. La rivoluzione futura è chiaramente formulata. Le numerose legioni del popolo non potranno avere altra bandiera, se non questa. La pratica di questo concetto, sortirà dai vortici della rivoluzione stessa.
Queste verità vengono negate dal partito rivoluzionario; e dopo lunghi anni di propaganda, dopo molti inutili tentativi, suggellati col sangue di numerose vittime, dopo una sollevazione italiana, pronta, universale, trionfante; dopo l'attuazione della Repubblica in Roma ed in Venezia, non esiste ancora un’idea, non si rammenta un fatto, non un decreto che accenni le sorti future dell’Italia, ch'esprima un principio; e se le sorti della nazione dipendessero dall'inspirazione di tali individui, l'Italia arretrata di mezzo secolo, nel mezzo della rivoluzione europea, subirebbe il socialismo, come subi la rivoluzione dell’89. Ma il popolo cammina da sé, esso di già trovasi innanzi ai partiti. La nave naviga a gonfie vele, mentre i piloti che pretendono timoneggiarla la seguono a rilento, su debole battello.
Sono tre secoli, e già dall'Italia la voce di Campanella precorreva i bisogni dell'umanità; ma essa si spegneva senza eco, e Campanella scontava con ventisette anni di carcere i voli del suo ingegno. H bisogno collettivo ohe doveva dare pieno sviluppo alle verità annunziate da quel solitario genio sorgeva in Francia prima che altrove. Nel 33 si leggeva a Lione sulla bandiere del popolo: Viwe eu travaillant ou mourire en combattant e quindi in giugno si vide mitragliare il popolo stesso, perché voleva vivere. Questi fatti richiamarono l'attenzione di ogni Italiano, e mentre il governo francese bombardava Roma, la nazione francese operava in Italia una salutare invasione d’idee, e come la mente di un individuo comincia a svilupparsi per l'influenza del mondo esteriore, cosi il popolo Italiano, ad onta della tirannide che l’opprimeva, intese subito l'influenza del progresso europeo; e le masse si avvicinano al possesso della ragione con tanta più rapidità, in quanto che tale sviluppo armonizza con le sofferenze dei loro sensi. Non perciò può dirsi che in Italia siavi un partito socialista, pronto ad operare in questo senso. Ma il primo germe esiste, il popolo sente i suoi mali, e mormora nello scorgere il proprietario ed il capitalista, eziandio, godenti il frutto dei lavori del contadino e dell'operaio, mentre questi guadagnano a frutto a frutto la vita; il popolo più non accetta il suo stato, ma lo subisce. Questo primo sentimento di disgusto, per lo stato presente, che già comincia a palesarsi nel popolo, è il germe della futura rivoluzione Italiana; germe che i pensatori dovrebbero svolgere, elaborare, discutere, formulare, renderlo popolare e farne la bandiera di un partito.
L’Italia non ha altra speranza che nella grande rivoluzione sociale.
Nel momento d’imprendere un’arrischiata impresa, voglio manifestare al paese le mie opinioni, onde rimbeccare la critica del volgo, corrivo sempre ad applaudire i fortunati e maledire i vinti.
I miei principi politici sono abbastanza noti; io credo che il solo socialismo, ma non già i sistemi francesi informati tutti da quell’idea monarchica e dispotica che predomina nella nazione, ma il socialismo espresso dalla formola: Libertà ed Associazione, sia il solo avvenire non lontano dell’Italia, e forse dell’Europa: questa mia idea l’ho espressa in due volumi, frutti di circa sei anni di studio; non condotti a forbitura di stile per mancanza di tempo, ma se qualche mio amico volesse supplire a questo difetto e pubblicarli, gliene sarei gratissimo. Sono convinto che le ferrovie, i telegrafi, il miglioramento dell'industria, la facilità del commercio, le macchine ecc. ecc., per una legge economica e fatale, finché il riparto del prodotto è fatto dalla concorrenza, accrescono questo prodotto, ma l’accumulano sempre in ristrettissime mani, ed immiseriscono la moltitudine; epperciò questo vantato progresso non è che regresso: e se vuole considerarsi come progresso, lo si deve nel senso che accrescendo i mali della plebe, la sospingerà ad una terribile rivoluzione, la quale, cangiando d'un tratto tutti gli ordinamenti sociali, volgerà a profitto di tutti, quello che ora è volto a profitto di pochi.
Sono convinto che l’Italia sarà libera e grande oppure schiava: sono convinto che i rimedii necessari come il reggimento costituzionale, la Lombardia, il Piemonte, ecc., ben lungi dall'avvicinarla al suo risorgimento, ne l’allontanano; per me, non farei il(1) menomo sacrificio per cangiare un Ministro, per ottenere una costituzione, nemmeno per cacciare gli Austriaci dalla Lombardia ed accrescere il regno Sardo: per me dominio di Casa Savoia e dominio di Casa d’Austria è precisamente lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costituzionale del Piemonte sia più dannoso all’Italia che la tirannide di Ferdinando II. Credo fermamente che se il Piemonte fosse stato retto nella guisa medesima degli altri stati italiani, la rivoluzione sarebbe fatta. Questo mio convincimento emerge dall’altro che la propaganda dell'idea è una chimera, che l'educazione del popolo è un assurdo. Le idee risultano dai fatti, non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero quando sarà educato, ma sarà educato quando sarà libero. Che la sola opera che può fare un cittadino per giovare al paese è quella di cooperare alla rivoluzione materiale, epperò cospirazioni, congiure, tentativi, ecc. sono quella serie di fatti attraverso cui l’Italia procede verso la sua meta. Il lampo della baionetta di Milano fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti dai dottrinari, che sono la vera peste del nostro, come di ogni paese.
Alcuni dicono che la rivoluzione deve farla il paese: ciò è incontestabile. Ma il paese è composto d’individui, e poniamo il caso che tutti aspettassero questo giorno senza congiurare, la rivoluzione non scoppierebbe mai; invece se tutti dicessero: la rivoluzione dee farla il paese, di cui io sono una particella infinitesimale, epperò ho anche la mia' parte infinitesimale da compiere, e la compio, la rivoluzione sarebbe immediatamente gigante. Si potrà dissentire dal modo, dal luogo, dal tempo di una congiura, ma dissentire dal principio è assurdo, è ipocrisia, è nascondere un basso egoismo. Stimo colui che approva il congiurare e non congiura egli stesso: ma non sento che disprezzo per coloro i quali non solo non vogliono far nulla, ma si compiacciono nel biasimare e maledire coloro che fanno. Cotali principii avrei creduto mancare ad un sacro dovere, se vedendo la possibilità di tentare un colpo in un punto, in un luogo, in un tempo opportunissimo, non avessi impiegato tutta l’opera mia per mandarlo ad effetto. Io non ispero, come alcuni oziosi mi dicono per schermirsi, di essere il salvatore della patria. No: io sono convinto che nel Sud la rivoluzione morale esista: sono convinto che un impulso gagliardo può sospingerli al moto, epperò il mio scopo, i miei sforzi sonosi rivolti a mandare a compimento una congiura la quale dia un tale impulso: giunto al luogo dello sbarco, che sarà Sapri nel principato citeriore, per me è la vittoria dovessi anche perire sul patibolo. Io individuo, con la cooperazione di tanti generosi, non posso che far questo e lo faccio: il resto dipende dal paese e non da me. Non ho che i miei affetti e la mia vita da sagrificare a tale scopo e non dubito di farlo. Sono persuaso che se P impresa riesce, avrò il plauso universale; se fallisce il biasimo di tutti: mi diranno stolto, ambizioso, turbolento, e molti, che mai nulla fanno e passano la vita censurando gli altri, esamineranno minutamente la cosa, porranno a nudo i miei errori, mi daranno la colpa di non essere riuscito per difetto di mente, di cuore, di energia... ma costoro sappiano che io li credo non solo incapaci di far quello che io ho tentato, ma incapaci di pensarlo. A coloro poi che diranno l’impresa impossibile, perché non è riuscita, rispondo, che simili imprese se avessero l’approvazione universale non sarebbero che volgari. Fu detto folle colui che fece in America il primo battello a vapore; si dimostrava più tardi l’impossibilità di traversare l’Atlantico con essi. Era folle il nostro Colombo prima di scoprire l’America, ed il volgo avrebbe detto stolti ed incapaci Annibale e Napoleone, se fossero periti nel viaggio, o P uno fosse stato battuto alla Trebbia, e P altro a Marengo.
Non voglio paragonare la mia impresa a quelle, ma essa ha un testo comune con esse; la disapprovazione universale prima di riuscire e dopo il disastro, e P ammirazione dopo un felice risultamento. Se Napoleone, prima di partire dall'Elba per isbarcare a Frèjus con 50 granatieri, avesse chiesto consiglio altrui, tutti avrebbero disapprovato una tale idea. Napoleone aveva il prestigio del suo nome; io porto sulla bandiera quanti affetti e quante speranze ha con sé la rivoluzione italiana; combattono a mio favore tutti i dolori e tutte le miserie della nazione italiana.
Riassumo: se non riesco, dispregio profondamente l’ignobile volgo che mi condanna, ed apprezzo poco il suo plauso in caso di riuscita. Tutta la mia ambizione, tutto il mio premio lo trovo nel fondo della mia coscienza, e nel cuore di quei cari e generosi amici che hanno cooperato e diviso i miei palpiti e le mie speranze; e se mai nessun bene frutterà all’Italia il nostro sagrificio, sarà sempre una gloria trovar gente che volonterosa s’ immola al suo avvenire.
Genova, 24 Giugno 1857.
Sottoscritto,
CARLO PISACANE.
(1) Se tale fatto è una legge che si riscontra nell'ordine della natura, però immutabile, è un fatto altresì che questa opinione, questi costumi, questa lingua mondiale non sarà né tedesca, né francese, né inglese, né italiana. Supporre che il mondo abbia a parlare un giorno o francese, o tedesco, vale disconoscere l'origine delle lingue, e per stabilire la lingua da parlarsi universalmente, e da popoli che non balbettino gerghi, ma favelle illustrate da sterminate elaborazioni, e che narrano un passato ricco di gloriose vicende, e potentissime tradizioni, non varrebbero tutti i decreti del mondo. La lingua studiata, la lingua dei dotti, soggiace sempre alla preponderanza dei dialetti, e la lingua, come i costumi mondiali, sorgeranno dal rimescolamento sociale senza che nessuno degli elementi che ora esistono prevalga; la prevalenza suppone conquista, stato antirivoluzionario, violento, e però passaggiero. Si parlò forse francese in Italia all'epoca che questi stranieri la conquistarono? No; corruppesi la nostra favella, e se il sentimento nazionale non l’avesse ritornata alla sua purezza, gli Italiani non avrebbero più parlato italiano, ma neppure avrebbero parlato francese... Da tutte le moderne lingue dovrà sorgere un dialetto prima plebeo, poi illustrato da poeti, dagli scrittori, per diventare in ultimo lingua mondiale. Dire che il mondo parlerà francese significa rinnegare assolutamente la rivoluzione per la smania d’infrancesare il globo.
Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura! Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin) |
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