Eleaml - Nuovi Eleatici


«Il Governo ci regala il vento dell’Africa» dalla illusione garibaldina a Lu Setti-e-menzu (Zenone di Elea - Dic. 2021)

GAZZETTA MUNICIPALE DI PALERMO

NUOVA SERIE
ANNO IV OTTOBRE, 1895 NUM. 10

RICORDI STORICI

A PROPOSITO

della quistione siciliana

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

Quando l’isola nostra, al 4 aprile 1860, si levava contro i borboni, per la libertà, piegava la sua antica bandiera dell'indipendenza siciliana, che era stata il suo programma dal 1282 al 1848; ma non intendeva rinunziare alla sua autonomia amministrativa, della quale era stata sempre in possesso. Essa entrava nella grande famiglia italiana con la fiducia che i suoi interessi economici ed amministrativi non sarebbero stati violati. Il governo durante la dittatura fu governo siciliano; e il popolo avea versato il suo sangue e seguito il grande eroe, Giuseppe Garibaldi, perchè era sicuro che la Sicilia nell’Italia avrebbe migliorata la sua condizione, e che l'unità politica del nuovo regno avrebbe assicurato da una parte l’indipendenza nazionale e dell’altra, insieme alla libertà, l’autonomia amministrativa delle singole regioni italiane.

Questo era nel volere di tutti: e ne è prova il decreto prodittatoriale del 5 ottobre che designava il 21 dello stesso mese per la convocazione dei comizii elettorali, onde passare alla elezione dei deputati all’assemblea siciliana, per determinare il tempo e il modo con cui la Sicilia dovesse entrare in seno della grande famiglia italiana,

Sventuratamente le violenze del partito, che si disse conservatore ed unitario, costrinsero a Napoli il dittatore Garibaldi a venire al plebiscito, che fu celebrato a 21 ottobre, in quel giorno stesso nel quale doveva aver luogo la elezione dei rappresentanti all’assemblea.

Ma quel plebiscito era accompagnato dal voto del Consiglio straordinario di Stato, ove figuravano i più illustri cittadini, che costituivano la gloria della Sicilia. Quel Consiglio straordinario era costituito col decreto prodittatoriale del 19 ottobre ed ebbe ad oggetto «di studiare ed esporre al governo quali sarebbero nella costituzione della gran famiglia italiana gli ordini e le istituzioni su cui convenga prestare attenzione, perchè rimangono conciliati i bisogni peculiari della Sicilia con quelli generali dell’unità e prosperità nazionale.»

In 15 giorni (18 novembre) quei valenti uomini completarono il voto, che riuscì un lodato progetto, che nel mentre garentiva l’integrità e l’unità dello stato lasciava libera la vita amministrativa ed economica delle regioni che ad esso si univano; ed in riguardo alla Sicilia, più specialmente, dimandava l’autonomia amministrativa, la conservazione di talune istituzioni utili al paese, e il compenso a taluni interessi che venivano ad essere danneggiati dall’unità dello stato.

Il plebiscito era solennemente accettato il 2 dicembre; e alla Sicilia che entrava nel regno italiano veniva conservata la sua autonomia con la luogotenenza, che ebbe breve vita e turbolenta, per la lotta tra l’elemento siciliano conservatore e il partito del governo, che, con lo sprezzo, intese a piemontizzare il paese con gli uomini di quella regione.

La luogotenenza cessava di fatto col primo febbraio 1862, ma i suoi poteri nel precedente anno erano stati a poco a poco mutilati, col pubblico malcontento. L’apertura del Parlamento unitario nel 18 febbraro del 1861 facea concepire speranza che avrebbe cessato quello stato d’incertezza, in cui vivevano le popolazioni.

Di già l’opera demolitrice era cominciata, e si seguiva con fervore, degno di miglior causa.

Al grande cataclisma del 1860 mancò una mente robusta che gli desse indirizzo; e se l’idea dell’unità politica era nelle menti di tutti, la fusione era nel concetto di pochi cospiratori, che, mal conoscendo l’aspirazione e gl’interessi dei popoli italiani, s’imposero con l’entusiasmo e l’autorità, che veniva da una rivoluzione trionfante.

Il desiderio dell’unità alla francese fu la causa dei mali dell’Italia, ed è il verme che la rode da trentatré anni; e fu una fatalità storica il vedere come i sostenitori della federazione della vigilia divenissero i più feroci imitarli della dimane. E in ciò furono di accordo i giacobini repubblicani e i moderati imperialisti: il loro ideale ora la Francia.

Gli emigrati avevano screditato, senza ragione, le leggi e le amministrazioni degli stati cui appartenevano, in odio ai governi che li avea perseguitato; i capi parte speravano con l’unità fusionista accentrare il loro potere; la maggioranza, che non ama pensare, trovava esser comodo seguire il fatto altrui: mentre il timore che le popolazioni coi governi locali si sarebbero separate, agitava i meno esperti.

Il parlamento si facea eco di queste idee; e quando, discutendosi l’ordinamento del regno il La Farina, servo all’idea francese, esclamava: «Facciamo di cappello al sistema dei prefetti di Francia che ha resistito a sì terribili tempeste.» i deputati annuirono in maggioranza a quest’ordinamento amministrativo, scartando, senza discussione, il sistema regionale, che ebbe per sé la parte eletta dei più illustri uomini di Italia.

Il regionismo avrebbe impedito i mali che affliggono il paese, e il malcontento che gradatamente si era fatto gigante, specialmente in Sicilia, si sarebbe arrestato. Dacché l'autonomia amministrativa se è buona per le regioni continentali è indispensabile per le Isole, cosa che fu avvertita dal grande unitario Giuseppe Mazzini, che ne fece base del suo ordinamento italiano, nel suo programma della giovine Italia.

Ma il fusionismo trionfò prepotente; e allora tutto venne a centralizzarsi nella capitale, senza riguardo all’elemento storico ed economico di ciascuna regione, e specialmente della nostra Sicilia che vide cessare la sua autonomia amministrativa, durata da cinque secoli, e che avea resistito allo invadente dispotismo dei borboni dal 1816 al 1860, col sangue di tanti martiri e combattenti.

Ad una autorità suprema per tutta l’isola successero prefetti senza poteri per tutte le provincie; il governo locale con le sue direzioni generali furono abolite, e, rotta la secolare unità amministrativa del regno, fu tutto soggetto ad un potere lontano e disinteressato al nostro progresso e alla nostra vita locale. Si accorse tardi la Sicilia della sorte toccata, dell’umiliazione subita, e si apparecchiò a resistere.

Il 2 marzo 1862 saliva al ministero Urbano Ratazzi, che, d’amico di Garibaldi, risollevò le speranze perdute. Il grande eroe venne in Sicilia, movendo entusiasmo, e chiamando armati al grido di Roma o morte. Questo fatto agitò il popolo siciliano nella speranza di un meglio. Ma quando vide il proclama del governo che si dichiarava estraneo a questo moto, e udì Garibaldi ferito ed arrestato ad Aspromonte, i suoi sbandati o prigionieri, si levò un grido d’indegnazione, che minacciò tradursi in aperta rivolta, se le violenze e lo stato di assedio non avessero imposto il silenzio.

Il partito della rivoluzione cadde, per non risorgere; il governo divenne più oppressivo e diffidente; e sebbene Garibaldi e i prigionieri andassero liberi, senza che giustizia fosse fatta, pure la Sicilia fu sprezzata e messa al bando della civiltà.

Cessato ogni timore e incussa la paura cominciò l’opera unificatrice, per il cui conseguimento le finanze italiane andarono in rovina, le imposte si aggravarono fortemente.

Dal 1862 al 1865 fu una continua demolizione del vecchio, senza nulla creare di buono. Fu un continuo disastro pel paese, senza rialzare la sua condizione economica.

I mali progredivano sempre. La sola forza governava, ove giungeva la sua azione; e il giornalismo continentale, a cui faceva eco la maggioranza del nostro, ci calunniava, c’insultava ed aizzava il governo contro di noi (1).

Questi ed altri continui danni alla vita siciliana creavano il malcontento, che sempre crebbe, cambiando di forma. sino a presentarsi socialista ed anarchico nel 1893. E pure del malcontento e delle pessime condizioni dell’isola non s’incolpava chi ne era causa, ma i partiti avversi, senza giammai sospettare che la causa di questi mali stava ncH’ordinamcnto centralizzatore, nella uniformità amministrativa, nella diffidenza tra popolo e governo.

Un paese che sempre s’intitolò nazione, che pugnò sempre per la sua indipendenza si vide di un subito annullato e retto da leggi nuove ed opprimenti. Un partito dominava al governo, ed esso avea la sua influenza su quello che imperava nelle provincie e nei comuni, sicché mancava ogni controllo, ogni gravame era respinto, e l’arbitrio era sovrano da pertutto.

E quasi non si fosse contenti dell'unificazione finanziaria, al 1865 si faceva quella di talune leggi amministrative e si preparava quella della legislazione civile (2).

Ogni giorno si assisteva alla morte di una istituzione, ogni giorno era una nuova imposta che si bandiva.

E la marea del malcontento cresceva. Gli ammoniti, i renitenti alla leva, a cui era ostile la popolazione siciliana, come all’inglese, aumentavano di numero e si spandevano armati per le campagne.

Le vicende che precessero la guerra del 1866 per l’acquisto della Venezia, la legge crispina che autorizzava il ministero a relegare i sospetti, la legge sulla soppressione delle ricche Corporazioni religiose che furono votate in un momento di entusiasmo e di paura (18 giugno 1866) accrebbero le cause del malcontento in Sicilia.

È allora che scoppia la rivoluzione di Palermo nel 15 settembre 1866, rivoluzione mal giudicata e con fosche tinte descritta; mentre essa fu la reazione violenta a sei anni di un governo, che avea offeso il sentimento nazionale, con le violenze e lo sprezzo.

Fu tutta la infima classe e di fuori e di dentro che si levò; a cui aristocrazia e borghesia non aveano nulla d’opporre, nulla da dire. Queste classi erano invise: dacché avevano proclamato una felicità, che il popolo non trovò; che anzi esso, che non si pasce di idee morali, ebbe a provare nuovi mali con la leva, a cui non era avvezzo; con la persecuzione delle idee religiose, a cui era legato; con una polizia, che, in modo diverso della passata, intendeva eseguire regolamenti ed istruzioni, che quantunque buoni, non si attagliavano alle sue abitudini.

L’inconsulto movimento non si poteva arrestare; era stato inconscientemente preparato da tutti: dal governo, dalle consorterie, dai repubblicani, dai partiti avversi: e il programma di repubblica non fu che una bandiera che copriva il contrabando della rivendicazione.

La plebe è sempre plebe; abbandonata a se stessa corse ad eccessi riprovevoli; e il movimento privo di capi si estinse e le truppe occuparono la città con poca resistenza.

La soppressione fu moderata; i processi istruiti non ebbero seguito, un velo misterioso copri tutto; mentre il paese era messo al bando della civiltà dai soliti giornali, e il colera del 1866 e 1867 rapiva all’isola 52990 abitanti e a Palermo 7873.

Il governo centrale però ebbe ad accorgersi, ad onta della sua millanteria, che Palermo non potea trattarsi come lo si era; e come al 1849 la Sicilia si trovò meglio del 1847, cosi la Sicilia dal 1867 in poi si trovò meglio governata, che non dal 1862 al 1866; ma ciò nonostante era stata consumata la grande appropriazione dal nostro patrimonio delle Corporazioni religiose, per un valore al di là dei 300 milioni.

Lo spettro del 1866 spingeva ad ingraziarsi una popolazione riottosa, che ebbe a sopportare una prefettura militare e un'arbitraria polizia, che meritarono la requisitoria di un procuratore generale della corte di appello di Palermo.

Frattanto una nuova piaga venne ad affliggere l’isola: il brigantaggio, che per lunghi anni desolò le campagne e arrestò ogni progresso agrario: brigantaggio reso celebre per truci fatti, ed ove divennero storici Cicero e Valvo, Rinaldi e Leone. Il governo lo combatté persistentemente, ma vinto in un punto risorgeva in un altro; finché dopo lunghi anni di lotta fu domato, lasciandoci in eredità la mafia, e il pollulare ad intervalli di bande armate e di associazioni di malfattori, che infestano la vita siciliana; tanto che tuttavia la sicurezza pubblica della Sicilia è una quistione, di cui il governo ed il parlamento si occupano; e che non potrà essere risoluta che da un governo che imperi su tutta l’isola e con leggi speciali ed opportune.

Al 1866 si unificava la legislazione civile con il codice e la procedura, come nell’anno precedente si era fatto della amministrativa; e nello stesso anno si pubblicava il codice di commercio, unificando questa legislazione; ed esso aprì il varco alle frodi e ai fallimenti, tanto che nel, 1882 se ne fece uno nuovo, e nuove disposizioni ora si preparano a modificarlo.

Al 1866 si era ottenuta la Venezia; al 1870, il governo, profittando dei disastri della Francia, occupava Roma, e cosi compivasi l’unità italiana, cessando ogni pretesto all’agitazione e al timore di ridestarsi le antiche nazionalità, col sistema regionale. Ma pure si continuò nello stesso sistema unificatore, uniforme, pesante, fiscale, che attentava ad ogni ricchezza, ad ogni sviluppo della vita locale; e si veniva all'annullamento di ogni istituzione che sapesse di siciliano sino a fare inconsultamente getto della secolare Legazia apostolica, che formava l'ornamento dei re di Sicilia, ed era un privilegio per il popolo siciliano.

La Sicilia soffriva fortemente, e più che le altre regioni, di questo stato di cose che le si era fatto; i timori sul suo destino crescevano, e nel 1875 era spedita una Commissione d’inchiesta per istudiare i suoi bisogni, per provvedere con rimedii efficaci. E a ridestare lo spirito pubblico e solleticare la vanità dei letterati isolani si tenne a Palermo il 12° congresso degli scienziati italiani.

Nel 1876, dopo 16 anni, cadeva il governo di destra, senza compianto; e ne raccolse l’eredità il Depretis, che iniziò, svolse e poi compì quel trasformismo che fu fatale al governo e ai suoi destini.

Il governo di sinistra, bisogna pur dirlo, fu più liberale e meno ostile alla Sicilia, e due ministri, il Crispi e il Perez, si adoperarono a rialzare le condizioni di Palermo e di Sicilia coi lavori pubblici, con le strade a ruota e più che altro con le strade ferrate, le quali si accrebbero sempre, e da chilom. 77 quante erano al 1877 si spinsero a chilom. 1401 nel 1895.

Frattanto nel 9 gennaio 1878 moriva Vittorio Emanuele dichiarato, a ragione, Padre della Patria e vi succedeva Umberto; e poco appresso spirava Pio IX, a cui nel Pontificato succedeva Leone XIII, sul quale si poggiavano le speranze d’illusi; ma non fu così. La sinistra venne ad esagerare la mania del grande e i bilanci crebbero e le imposte si aumentarono. Al che si aggiunse la politica delle avventure.

Le grandi figure del 1848 e del 1860 gradatamente sparivano, lasciando il posto alla nuova generazione, ben diversa dei padri.

La Sicilia sperò trovarsi in buone condizioni; le parea chiusa l’era delle ingiustizie, delle imposte, dei sagrificii, e che all’opposto la vita economica, ridestandosi, avesse fatto rialzare la ricchezza.

Il protettorato francese nella Tunisia spinse l’Italia nella politica delle avventurose imprese.

Il governo, consigliato dall’Inghilterra, che aveva occupato l’Egitto, dopo aver vinto la terribile rivoluzione di Araby, occupava Mussaua e si rendea padrona di aride terre, che si chiamarono possessi affrieani. E l’Africa divenne il punto nero d’Italia, l’abbisso che ingoja i milioni del dissestato bilancio, e il deficit aumenta sempre. Il Parlamento si occupava di questa quistione, da esso non creata; ma interessato l’onore della nazione non si retrocedeva; anzi, dopo la strage di Dogali, si corse più avanti.

Allora i possessi africani d'Italia prendevano nome di Eritrea: il governo locale si ordinava, si stabilivano rapporti amichevoli con i capi delle tribù vicine e il governo si consolidava, con tributi di sangue e di denaro. Né qui si tenne. Per trovare terre più produttive, luoghi propizii al commercio, posizioni per rendere sicuri i possessi si conquistava Kassala, dando maggiore importanza alla colonia, ove il pontefice istituiva un Vicariato apostolico.

S’iniziava indi il periodo delle riforme che accrebbero i mali.

Una smania di nuovo e di grande, maggiore di quella che invase la destra ai tempi della maggiore ferocia unificatrice, comprese il governo.

Le antiche leggi amministrative si modificarono, aggiungendo nuovi difetti, e divennero meno liberali, e di difficile attuazione per la diversità degli usi e dei bisogni delle varie regioni.

Nel 1889 si pubblicava il nuovo codice penale, ispirato alle nuove idee: si aboliva la pena di morte, si creavano nuovi titoli di reati, lasciando maggiore arbitrio ai giudici per l’applicazione della pena. E, sotto il pretesto della impossibile uniformità della giurisprudenza, la Sicilia perdeva la sua Cassazione penale.

Colla legge elettorale si estendeva il voto a coloro che lo vendono, e ad onta delle penalità, per circondare le elezioni di guarentigie, i risultati divennero peggiori.

Lo scrutinio di lista era succeduto al collegio uninominale, sperando un rimedio alla corruzione, e si dovette ritornare a questo, perchè quello non diede buoni effetti; ed oggi s’intende tornare ad uno scrutinio di lista più largo, facendolo per provincie.

La libertà comunale era infrenata, dando in compenso il non opportuno istituto del Sindaco elettivo; il prefetto tolto alla Deputazione provinciale diveniva più potente qual preside della Giunta amministrativa, alla quale s’impose tal mole di lavoro, che non può disimpegnare.

La beneficenza regimentata attaccava i principii della libertà d’amministrazione, e col potere dato allo stato di modificarne i fini si disseccavano per l’avvenire le fonti della pubblica carità.

La sanità diveniva più costosa ai comuni; i quali perdevano ogni libertà per garentirsi dalle epidemie, dalle quali non ci difende il governo.

La polizia era resa più potente ed arbitraria, e rovinata la sicurezza della Sicilia nelle campagne, col togliere ogni avanzo delle antiche compagnie di armi.

Durante questo periodo l'Italia era entrata nella triplice alleanza con la Germania e l’Austria-Ungheria; ciò era un colpo per la Francia; e l’odio fra le due sorelle latine non potendo manifestarsi con la guerra si sfogava con le tariffe doganali.

Allora le condizioni economiche della Sicilia peggioravano, mancando il principale sbocco ai suoi prodotti: la crisi economica cominciava, il reddito decadeva, le imposte, dando di meno, si accrescevano, e la miseria si accentuava.

Il socialismo di stato, inaugurato in Germania da molti anni addietro, si estendeva in Italia; ma di fronte ad esso si era levato gradatamente il socialismo democratico, in tutte le sue gradazioni, sino all’anarchismo.

Il governo avea piaggiato il popolo, protetto le associazioni operaje, chiamandole a compagne nelle elezioni, adulando i loro capi.

Queste associazioni, che di economiche avevano soltanto la larva della cooperazione, del sussidio e delle pensioni della vecchia, senza averne i fondi, servirono di base a Società sovversive, che ebbero scrittori ed apostoli.

Dio era stato bandito, la religione perseguitata, la autorità sfatata, non restava che a combattere la proprietà e la famiglia, senza che il governo se ne facesse inteso e senza comprendere che presto o tardi avrebbe raccolto ciò che uvea seminato; né si accorgeva, che esso, mentre indirettamente dava appoggio a questo stato di cose, direttamente con le imposte, con il mal governo, preparava la catastrofe.

Le imposte e il protezionismo economico avean prodotto la crisi, e il pessimo raccolto del 1893 apportava la miseria; gli scandali della banca romana invelenirono le plebi rurali, sobillate dal socialismo, ed esse non videro elio la loro miseria irreparabile di fronte alla ricchezza e buon patto acquistata da coloro che non lavoravano.

Le società operaje si erano mutate in Fasci, con aspirazioni più o meno esagerate. Esse dal campo del pensiero passarono indi a quello dell’azione. Cominciarono con l’imporre con violenza patti ai proprietarii per la coltivazione delle terre, indi si levarono minacciose, chiedendo l’abolizione dei dazi di consumo e specialmente quello sulle farine; attaccarono la forza pubblica e bruciarono gli uffici daziari; e allora i consigli comunali e le giunte, intimoriti, tolsero i dazi, mentre il governo non solamente taceva, ma transigeva. L’esempio degli uni era sprone per gli altri, e le gabelle in taluni comuni si abolivano pacificamente, in altri con la violenza.

Allora il governo comincia le sue repressioni pria parziali, poi generali, con lo stato di assedio e i tribunali militari; facendo dei soldati i moschettatoli di un popolo inerme, ove donne e fanciulli costituivano la massima parte.

Il governo vinse, la società civile fu salva; ma la repressone riuscì troppo violenta: le corti marziali eccessero nelle sentenze; e, finito il pericolo, la reazione cominciò a favore dei condannati e da ogni parte s’invocò l’amnistia, che non è stata completamente accordata.

Frattanto la quistione della moralità per gli ammanchi nella banca romana si levava potente. Il parlamento era chiuso, e durante questo periodo si intese a rialzare le finanze, con decreti illegali.

Convocati i comizii, la nuova Camera diede una strabocchevole maggioranza al governo, che potrebbe salvare il paese con riforme politiche e morali. Ma esso pare persista nella stessa via della centralità; promette riforme non rispondenti allo scopo, imponendo nuovi balzelli, senza pensare che i mali della Sicilia è la Sicilia stessa che può curare, dandole un governo locale e aspettando dalla sua legale rappresentanza le proposte che il Parlamento generale dovrebbe votare nell’interesse dell’isola e della sua vita economica ed amministrativa.

Prof. Fr. Maggiore-Perni

NOTE

(1) Nel napolitano le condizioni erano peggiori; e fin il Ministro Pisanelli esclamava: «Se un uomo di stato s’inchinasse verso le popolazioni napolitane come un medico sul morente per esplorare i dolori udrebbe: Noi ci sentiamo feriti, ci sentiamo umiliati.»

(2) Vedi il nostro scritto: Della unificazione legislativa, Palermo, Amenta, 1865.










Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










vai su





Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità  del materiale e del Webm@ster.