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«Il Governo ci regala il vento dell’Africa» dalla illusione garibaldina a Lu Setti-e-menzu (Zenone di Elea - Dic. 2021)

LEGGENDE POPOLARI SICILIANE IN POESIA

RACCOLTE ED ANNOTATE

DA 

SALVATORE SALOMONE MARINO

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PREFAZIONE XLVIII-La Guerra di lu 1849 LII-La Battagghia di Milazzu a lu 1860
XXXVII-La Rivoluzioni di lu 1820 XLVIII-Annotazioni e Riscontri LII-Annotazioni e Riscontri
XXXVII-Annotazioni e Riscontri XLIX-Lu quattru Aprili 1860 LIV-La Guerra di lu 1866
XLII-Li Fra Diavuli () XLIX-Annotazioni e Riscontri LIV-Annotazioni e Riscontri
XLII-Annotazioni e Riscontri L-La Rivuluzioni di lu 1860LV-La Sicilia a lu 1866
XLVI-La Culera di lu 1837 L-Annotazioni e Riscontri LV-Annotazioni e Riscontri
XLVI-Annotazioni e Riscontri LI-La finuta di li Sbirri a lu 1860 LVI-Lu Setti-e-menzu ()
XLVII-Lu dudici Jinnaru 1848 LI-Annotazioni e Riscontri LVI-Annotazioni e Riscontri
XLVII-Annotazioni e Riscontri NOTE

AD

ALESSANDRO D' ANCONA

CRITICO DOTTO E SAGACE

NEGLI STUDJ DELLA POESIA POPOLARE

MAESTRO ESPERTISSIMO

IN ATTESTATO

DI RICONOSCENTE E CORDIALE AMICIZIA

SALVATORE SALOMONE MARINO

NEL XIX DI MARZO MDCCCLXXX

INTITOLAVA

PREFAZIONE

Presento ai cultori delle tradizioni popolari una ricca messe di leggende poetiche siciliane sconosciuta fin qui ai più, massime fuori dell'Isola, e non sospettata o niegata anche. Ne, certamente, con le 26 (parlo delle sole profane ed escludo pure i Contrasti), che diè fuori il Pitrè, e con le 14, che si leggono nella Raccolta amplissima di canti popolari siciliani (1), che unite alle presenti dànno la non piccola cifra di 101, trovasi esaurita in Sicilia questa abbondevole vena di poesia narrativa. Io stesso ho lasciato inedite parecchie leggende; ed altre non poche, ne' varj paesi nostri, senza dubbio ne esistono; ma i tipi, i generi tutti, o quasi tutti, trovansi.

I rappresentati ormai in questa Raccolta, dal romanzesco o leggendario propriamente detto, al cavalleresco, al domestico, al sollazzevole e satirico, allo storico, al politico, ed infine al boschiero, se cosi è lecito appellare, seguendo la voce popolana (2), quel genere di leggende che narrano la vita e le imprese dei banditi.

I canti narrativi, detti Leggende o Storie secondo la espressione più antica e più comune del popolo e sempre viva, formano nella poesia popolare una classe ben distinta da' canti lirici, che abbracciano lo strambotto e lo stornello. Fu scritto già, che i canti narrativi in Italia costituiscono propriamente il patrimonio poetico della regione superiore; che la Sicilia, come tutta la regione inferiore, ne manca, e che quelle messe a stampa fin qui non sono popolari nel senso rigoroso del vocabolo, perchè lunghe, moderne, col nome dell'autore spesso e di origine letteraria o semiletteraria (3). L'autorità incontestata e il valore, negli studj popolari, de' due illustri che emisero questa sentenza, mi obbligano necessariamente ad alcune rispettose osservazioni. E' parmi che, nello stato attuale, sia anticipato e precipitato il giudizio complessivo e definitivo sulla poesia popolare ita liana, la cui storia si potrà solamente avere, quando tutti gli elementi necessarj a comporla sono raccolti e illustrati, e tutte le provincie italiane vi hanno ugual mente e compiutamente contribuito.

Popolare, nel vero senso della parola, dobbiamo a buon diritto chiamare una poesia, quando presso l'ignaro vulgo, e non di un solo comune e di una sola generazione e di un solo sesso, la troviamo diffusa, e graditissima, e con tenace affetto ritenuta a memoria. Nobili o plebei sieno i natali d'una poesia, il popolo, certo, non la tiene a battesimo e non l'accoglie tra la sua cara figliolanza se all'indole e al sentire proprj, e alle forme schiettamente popolari non è consentanea. Quale storia poetica più aristocraticamente nata della Baronessa di Carini? E pure essa è stata ed è, per ogni più riposto angolo della Sicilia, la figlia più prediletta e più nota del vero popolo tra le molte poesie narrative.

Il popolo peraltro, è ben che si sappia, accettando tra la propria e legittima una prole che viene da' trovatelli, e forse dal sangue di magnanimi lombi, la raffazzona, la riveste e riadorna a modo suo, giovandosi dell'abilità che lungo uso gli ha dato e di quei tessuti casalinghi a colori vivaci e di quei fiori de' vergini campi di cui esso ha tanta dovizia. Come il fatto avvenga, con qual processo la trasformazione, anzi il rinnovellamento, d'una poesia si faccia, ho mostrato in altro luogo con prove (1); le quali potrei qui moltiplicare, se occorresse, perchè dal secolo decimosesto ai di nostri non mi fanno difetto. Del resto, tale argomento ha discusso da suo pari il D'Ancona, ed io rimando il lettore al dotto ed importante volume di lui (2).

Se guardiamo ai frutti che la Musa popolare ha dato in Sicilia, l'elemento lirico è infinitamente più copioso del narrativo e pari a fiume vasto e perenne per ogni luogo si dilata, in ogni luogo accolto e festeggiato, come quello che meglio risponde a' bisogni ed ai sentimenti cotidiani ed alla tradizionale natura. Na le leggende non godono simpatie minori degli strambotti; se non che, non vengono come questi abitualmente adoprate in tutti i momenti e gli usi della vita: esse rappresentano, mi si conceda il paragone, l'abito di gala da indossarsi nelle grandi occasioni, il piatto di lusso da imbandirsi nel simposio solenne. Ad accompagnare il lavoro ordinario, a cacciar la mattana, a rallegrare una brigata, a celebrare uno de' soliti notturni, lo strambotto provvede sempre e abbastanza, accompagnandosi sovente lo stornello o qualche arietta: ma una serenata grandiosa, una celebrazione di nozze, una festa eccezionale, non sono tali pel popolo nostro né compiute, se le storie non tengono il campo a preferenza di ogni altro genere di poesia.

Le leggende siciliane, s'è scritto, sono moderne. Certo, tra le edite fin qui, le più hanno data recente: ma, pur tra quelle, si dirà moderna La Comare? Sono di ieri Il Parricida, I due Banditi, Monsù Bonello, I Pirati, La Lisabetta? E guardando alla Raccolta presente, l'elemento antico è egli in difetto? È fuori dubbio (e lo so per esperienza di quindici anni, da quando, cioè, tengo dietro con occhio assiduo e amoroso a quante poesie il nostro popolo crea o adotta), è fuori dubbio che, cotidianamente e per ogni avvenimento che forte impressiona gl'intelletti dei poeti del popolo, nascono cauti narrativi e lirici: ma non è forse stato cosi anche nei secoli andati? Io ho in mano stampe e manoscritti, i quali mi autorizzano ad affermare con sicurezza, che poesie narrative e liriche del cinquecento (e alcune rimontano certo ad epoca anteriore) son vive e fresche tuttora, come vivo e sempre fresco è il costume dei Cantastorie e de' Vendistorie, che anche in quei secoli servivano come oggi a diffondere dapertutto nell'Isola le nuove storie ed i nuovi strambotti (1).

Il retaggio poetico popolare, trasmesso oralmente di padre in figlio, subisce delle lievi ma indubitate modificazioni, adattandosi a' luoghi, a' tempi, alle generazioni, alle varietà dialettali; onde la forma, che oggi ne fissiamo con la scrittura, mostra nel colorito primitivo quelle tenui alterazioni che si riscontrano in una veste lungamente e costantemente indossata; ma la stoffa o la essenza del cauto è sempre quella, sempre inalteratamente l'antica; e si può come giusta e vera accettare la sentenza del D'Ancona che, in generale, la massa delle poesie cantate dal popolo è un patrimonio avito, posseduto cinque secoli almeno. Quello stesso che ai di nostri di nuovo si produce, non è in sostanza che un rimaneggiamento e rimpastamento di elementi vecchi, di materiali già da tempo e quasi inconsciamente con servati nella memoria e adattati alle nuove costruzioni; perocchè la facoltà poetica del popolo, nella forma epico—narrativa sopratutto, si è venuta esaurendo (1).

Or innanzi al fatto, accertato, costante, della integra conservazione, attraverso i secoli, dei canti popolari, cade da sè la osservazione sulla lunghezza delle sici liane leggende, considerala come carattere che contra sta all'indole genuina popolare. Tuttavia non è forse inutile richiamar qui ciò che altrove ho scritto (2), cioè, che nel popolo è vergine e fresca sempre e tenacissima la memoria, la quale inoltre grande soccorso riceve dalla forma poetica della narrazione e più ancora dalla rima.

Osserviamo, di fatti, le lunghe composizioni, e cono sceremo il mezzo, l'artificio, che sussidia la ritenzione di esse nella memoria. Il poeta popolare nostro si serve, quasi sempre, della ottava endecasillaba detta siciliana perchè propria dell'Isola, con sole due rime, che per quattro volte si alternano, e spessissimo con parallelismo di consonanze atone nelle rime contro— alterne (1). Ma ciò non basta; ei lega l'ottava antecedente con la susseguente, mercé della rima intruccata (come in Sicilia è detta), che è la ripresa della rima dell'ultimo verso della ottava antecedente nel primo della ottava seguente, o in fine o al mezzo (2).

È una grande difficoltà metrica, come si vede, egregiamente superata da' poeti del po polo, la quale però giova assai per fermare in mente le leggende, venendosi per essa a comporre come una catena non interrotta di ottave.

Rappresentando le legende, in Sicilia, la classe privilegiata e nobile dei canti popolari, è giustificata l'ambizione dei rustici poeti di legare il proprio nome alle poesie narrative che compongono (3): e questa ambizione giunge a volte a tal segno, che poeti viventi, o più spesso semplici Cantastorie, danno come propria una leggenda antica ed anonima, o una che veramente appartiene ad un altro. Avviene altresì il fatto, che un cantatore, per dar vanto al paese natio, recitando una famosa storia antica, od anche recente, l'attribuisca al tale o tal altro suo concittadino; e se quella storia porta per avventura il nome del poeta, il cantatore lo sopprime senza misericordia, o sostituendo uno o due versi dal suo repertorio poetico tradizionale, o mozzando anche una stanza al componimento: fatti, questi, ch'io ho più d'una volta osservati, e che comprovano e il concetto in cui le storie sono tenute, e il desiderio, l'ambizione di potersi dire autore d'una poesia che gode il favore e la fama e gli applausi unanimi popolari. Si osservi intanto, che a molte di queste leggende la tra dizione, e solo essa, accompagna il nome di Tizio o di Caio, poeti; qui però non c'è da fidarsene a chius'occhi, visto che il preteso autore da un luogo all'altro muta di nome e di patria. In molte altre invece, e questo è il caso più frequente, il poeta stesso, negli ultimi versi o qualche volta nei primi della composizione, registra il nome suo, e spesso ancora il mestiere, la patria e il tempo del suo poetare. In tal contingenza, trovando co stanti queste indicazioni in lezioni della poesia raccolte in luoghi diversi, e' parmi che non sia il caso di elevar dubbj e che si possa veramente accettare il nome di un poeta popolare, avvegnachè di lui null'altro ci è dato sapere al di là di quello ch'egli stesso ebbe cura di dirci. Or, dico io: nuoce questo, si oppone a che una leggenda si debba appellar popolare nel vero senso del vocabolo, e pubblicarla come tale? A me sembra di no, e credo che non si possa non concorrere meco nella sentenza medesima.

Io non ho accettato nè pubblico, come popolari, leggende che non sieno tali veramente. Per quelle stesse di data recentissima, che ho inserite in questa collezione, eziandio di autori viventi, mi son prima accertato ch'e rano già fatte retaggio comune; le ho raccolte prima dalla voce del popolo, e non d'un paesello o d'una città soltanto, e poscia ho ricorso al poeta stesso. D'ogni storia, che qui ho stampata, ho avuto per lo meno tre lezioni popolari, tra le quali ho dato preferenza alla più completa e più bella, non senza giovarmi delle altre. Ho notato, tra le recenti di autori vivi, come la lezione raccolta dal popolo si adorni già di varianti che offrono colorito più vivace, contorni più precisi e più artistici, ma nel tempo stesso un andamento più spontaneo e disinvolto: è il principio di quella lenta elaborazione, che assimila e rende affatto tradizionale una poesia. Gioverebbe senza fine uno studio minuto su questo insensibile e proficuo lavorio del popolo artista su le produzioni poetiche che fa proprie: e forse avrò agio di farlo in appresso; per ora mi occorre solo di dire che, con buona pace de' viventi bardi del popolo, io ho accolte le varianti popolari e messa da parte la lezione originaria.

E qui una osservazione di complemento, non inutile, che, se volete, considerate come una parentesi. Di questi poeti viventi, e n'ho avvicinati parecchi, possiedo molte altre composizioni, ricche di pregi del contenuto e della forma; ma esse non hanno trovato fortuna appo il popolo, restano da più anni patrimonio solo di cinque o sei, congiunti o amici del poeta, e probabilmente si spegneranno con essi. Queste poesie, ch'io chiamo del popolo ma non popolari, non possono e non debbono trovar posto in una collezione com'è la presente; e se altri, per ingrossare il volume del libro ed elevare la cifra della somma totale, ha creduto di doverle mesco lare tra le popolari vere, tal sia di lui; ma intanto le cose restano mistificate, gli studiosi vengon tratti in errore ed inganno, onde falsi apprezzamenti, de' quali poi a torto ci lagniamo.

De' caratteri estrinseci ed intrinseci delle storie siciliane ho fin qui detto quel tanto che m'è caduto in taglio nella dimostrazione, che ho fatto, della esistenza, nel canzoniere popolare nostro, del genere narrativo.

Ma occorre che io completi le osservazioni mie perchè più esattamente ed intimamente si conoscano le nostre leggende, lasciando che altri poi, a tempo opportuno, rilevi con più finezza le dissomiglianze che distinguono esse da quelle proprie dell'Italia settentrionale.

E anzitutto, bisogna far distinzione tra le storie indigene e le importate. Di queste, alcune passarono in Sicilia nei secoli scorsi; altre non v'ottennero cittadinanza che dopo il 1860, con la creazione del Regno di Italia. E la importazione crescerà, come altresì la necessaria esportazione, per lo scambio che oggi si fa attivissimo tra provincia e provincia di libretti popolari che riproducono le antiche storie, e più ancora per mezzo dello Esercito nazionale, che unisce e affratella il giovane popolo delle diverse regioni e fa cantare a Palermo e Siracusa le canzoni e le vilote del Piemonte e del Veneto, e a Venezia e Torino li liggenni e li canzuni della Sicilia. Intanto, guardando alle cinque leg gende, accolte in questo volume, provenienti con evi denza dalla Penisola (1), appare chiaro il fatto, che le ultime giunte hanno appena indossato una sicula veste, male adattata e insufficiente a coprire la originaria struttura, e qua e là con istrappi, che lasciano vedere un colorito di carni che non è il paesano; oltre di che, la fonica e le espressioni peculiari di una favella mal si possono modificare e mutare. Le importazioni più antiche, invece, veggiamo naturalizzate di già. Non sono traduzioni letterali e meschine, come quelle che il sedicente Foriano Pico fiorentino faceva nel sec. XVII delle storie nostre isolane, per diffonderle da Napoli a tutta la Penisola (2); ma sono libere versioni, con forma originale e siciliana affatto, verseggiate e rimaneggiate conforme all'indole e alla fantasia del popolo nostro, la quale le adorna di più vivi colori, di situazioni più estetiche, di accessorj nuovi, belli ed opportunissimi.

Forse, eziandio i canti di recente arrivo si naturalizzeranno; ma non è ancora venuto il tempo della assimilazione completa e della nuova versificazione: o forse, questo fatto è una riconferma della indebolita facoltà poetica del popolo odierno.

Le leggende proprie della Sicilia hanno importanza singularissima. Più ancora delle poesie di genere lirico, esse rappresentano fedelmente e con arte spontanea e mirabile gran parte dell'indole, de' costumi, delle idee, delle varie vicende del popolo siciliano; racchiudono una storia tradizionale di esso, la quale, in quadretti pieni di vita e di colori vaghissimi, disegna con maestria le sue glorie e sventure, le gioje e i dolori, i magnanimi e i riprovevoli atti, la vita casalinga, le virtù, le debolezze, i traviamenti suoi.

Qui dovrei un po' più a lungo fermarmi sulla origine, antichità, diffusione, conservazione tradizionale delle popolari leggende; ma altrove, pubblicando la Baronessa di Carini, ho trattato quest'argomento; e del resto, quello che di sopra ho detto può al caso presente bastare. E mi passo ancora delle considerazioni su la non giusta misura de' versi, su le rime assonanti e su altre imperfezioni che le leggende hanno in comune coi canti po polari d'ogni genere e che sono abbastanza studiate e conosciute: necessarie, invece, mi sembrano alcune osservazioni, che brevemente soggiungo.

Due note predominano nelle siciliane leggende: il sentimento religioso e morale estesissimo, ma spregiudicato, perocchè non impedisce le manifestazioni ostili e punto rispettose ai ministri del culto, che del sacro ministerio abusano empiamente; e poi il sentimento patriottico, che si esplica con amore intenso delle patrie contrade, aborrimento di ogni tirannia, aspirazione continua a libera indipendenza, ma non ad anarchia o a quel che oggi si dice radicalismo e socialismo, giacché e per tradizione e per indole il popolo siciliano è monarchico. Questi sentimenti stessi che si inchinano rispettosi alla Fede ed all'Autorità costituita, han creato e conservato per anni ed anni quelle narrazioni poetiche di fatti empj ed orribili, presentati come esempj da evitarsi e detestarsi, e han creato e conservato le storie boschiere, che han per obietto principale il trionfo della Giustizia e la punizione de' ribelli ad essa. E qui si noti, che il brigantaggio non ha storia in Sicilia: è pollone calabrese, da Calabresi trapiantato fra noi al 1863 e primamente inaffiato. Il bandito siciliano, il tipo antico, fuggito alla macchia il più spesso per falli d'amore o per private inimicizie, non è un vigliacco e barbaro assassino, avido solo di dar di piglio nel sangue e nell'avere altrui: esso è, fino a certo punto e a modo suo, valo roso, audace, cavalleresco e generoso anche, religioso per fino; e taglieggia i ricchi ed osteggia i potenti per soccorrere i poveri e proteggere i deboli. È una virtù deviata, che merita compianto e fors'anche una qualche ammirazione. E il popolo glieli tributa, e dei banditi segna il nome e le imprese nel tradizionale archivio: ma ai volgari malfattori, alle anime basse e feroci non con cede un sorriso la umile ma casta Musa popolare, la sciando che il lor nome esecrato si perda con l'ultima maledizione di chi ne sperimento dolorosamente la ferocia e il maltalento (1).

E a proposito delle storie boschiere, notisi ancora il fatto, che non portano mai il nome del poeta; e il perchè si capisce, quantunque esse non abbiano nascimento che a catastrofe compiuta. Cosi del pari vanno anonime le storie politiche, alle quali né oppressione, né ceppi, né carnefice possono impedire che nascano, prosperino e sicuramente per ogni luogo si propaghino; che anzi, a dispetto di tutti gli ostacoli e principal mente per essi, diventa più vigorosa la loro vitalità.

Il metro più comune, più antico, più proprio delle storie siciliane è, lo abbiamo già detto, la ottava siciliana, con rime alterne; rara e meno antica, ma pur adoprata dal popolo, la ottava epica, con sei versi a rime alterne e gli ultimi due a rime baciate: e nell'una e nell'altra manca di rado il parallelismo di consonanze atone nelle rime contro—alterne, e non mai la rima in truccata; la quale è cosi caratteristica delle produzioni popolari, che ove in qualche ottava difetti, si può con certezza piena asserire, che o il testo è alterato o il componimento ha perduto alcuna sua parte. Il rustico poeta, però, se predilige la ottava siciliana, che ben a ragione l'illustre Nigra chiamò la più importante e, nel suo genere, modello de' più perfetti e forse il più perfetto; il rustico poeta, dico, non dispregia gli altri metri, anzi di tutti indistintamente si giova, benché in diversa misura: di fatto, dopo la ottava siciliana, in or dine di frequenza va collocato il settenario, poi l'ottonario, la quartina endecasillaba, il quinario, solo o appaiato; indi le stanze con quattro o sei od anche otto versi a rime alterne, seguiti da uno o più distici a rime baciate, a mo' degli strambotti toscani; metro, che adorna la più squisita, la più artistica, la più perfetta e celebre tra le siciliane leggende, la Baronessa di Carini, la quale ho io illustrato con speciale lavoro. Viene poi ultimo il polimetro, ch'ha indubbia origine letteraria.

Gli argomenti più nobili, più gravi, più importanti si rivestono sempre della ottava; i gaj e satirici preferiscono i metri corti, più svelti e più incisivi; e a questi eziandio ricorre di frequente la leggenda boschiera, che in tal caso è congiunta a una musica propria e speciale qualificata dall'addiettivo medesimo: ma si noti, che in questi metri corti non appare quasi mai la desinenza tronca od ossitona, caratteristica dell'Italia superiore.

Le sessantuna leggende, che ora metto in luce, ho raccolto io stesso dalla bocca di popolani dall’anno 1865 fino al presente (1), seguendo con iscrupolo nella trascrizione il dettato popolare, rispettando le irregolarità metriche (che del resto, si sa, vengono con la filalella rimosse nel canto), conservando la parlata e per quant'era possibile la pronunzia proprie dei differenti paesi ove esse leggende ho trovato. Da qui le differenze ortografiche di trascrizione di una parola stessa in componimenti diversi: differenze necessarissime, oggi che i testi dialettali si richiedono genuini, perchè danno argomento e fondamento a studj serj e fecondissimi per la storia, la etnografia e la linguistica.

Le annotazioni, di cui parvemi utile corredare questa Raccolta, sono di due ordini. Col primo, ho dichiarato le voci e frasi di più difficile comprendimento e quelle (che danno il maggior contingente e però ho distinte con asterisco (*)), non registrate da'nostri Vocabolaristi, non escluso il Traina, immensamente più completo e più esatto dei suoi predecessori: e qui debbo avvertire, che le interpretazioni de' vocaboli non registrati nei lessici non vengono dal mio capo, ma ho ritratte, con accurate ricerche, dalla bocca stessa dei popolani. Nell'altr'ordine di note ho riunito tutte quelle notizie che ho stimato utili e convenienti alla illustrazione di ciascuna leggenda, sia in rapporto ai fatti in essa narrati sia in rapporto al Poeta, quando m' è riuscito conoscerlo. A questo second'ordine di note si collegano, poi, i riscontri, che ho stimato importantissimo di aggiungere, tra le poesie narrative di Sicilia e quelle del resto d’Italia; alla quale solamente mi sono limitato, per far opera più completa e più esatta. Nella indicazione bibliografica, che viene dietro a queste pagine, troverà il lettore segnate le fonti, alle quali per questi riscontri ho direttamente attinto.

E ora, raccogliendo le sarte, io son lieto di consta tare il notevole e operoso incremento che han preso in questi ultimi anni, in Italia ed all'Estero, gli studj dei dialetti e delle tradizioni popolari, studj proficui e dilettosissimi, ai quali, nobili e lodati intelletti han dedicato le più sapienti e profonde e feconde premure.

Palermo, 18 Marzo 1880.

S. SALOMONE—MARINO


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XXXVII-La Rivoluzioni di lu 1820

………………………………………………………...

Baddi e mitragghia cchiui nun tinèvanu,

cannili di paràmita pigghiavanu (1),

pri fina 'n bucca lu pezzu jinchèvanu (2),

un cileccu pri lappu cci 'ncarcavanu (3);

ed a la cantunera si mittevanu,

e sparannu, sparannu s'avanzàvanu:

ogni botta, lu populu dicia:

Viva Palermu e santa Rusulia (4)

Quannu un pocu di truppa risuluta

càssaru càssaru scinnia schirata (5);

lu Sarvaturi appena fu junciuta (6),

ddocu cci vinni la mala passata:

un picciottu cci fa la benvinuta

cà un cannuni a mitragghia avia paratu,

cci spara lu cannuni d'a truppeddu (7),

di ddi surdati nni fici un munzeddu.

Un monacu di Sant'Anna numinatu (1),

omu di gran curaggio, un cc'è l'aguali,

un cannuncinu avennu priparatu,

zittu zittu cci va di lu Spitali (2):

darreri lu purtuni s' ha ammucciatu,

quannu cci parsi ad iddu fa un signali,

cci duna focu a lu so cannuncinu

e abbucca li surdati ddá vicinu (3).

Patri Jachinu, chi nni cumannava,

a cavaddu a 'na mula po' curreva,

cu lu trummuni 'n manu cci sparava,

di li surdati nni facia macchera (4).

Cu' di la Chiazzittedda sfirriava (5),

cu' cci va spara finu a li quartera,

sparannu tutti cu 'ncegnu e cu ira

li surdati cadianu comu pira.

Cu' cci stirria di lu Pipiritu (6),

cu'cci va spara finu a li chianuri (7);

lu populu cuinmatti tuttu unitu,

cummatti cu curaggiu e cu fururi.

La truppa ha vistu lu malu partitu,

la punci la yrigogna e lu tiinuri;

sparannu scupiltati d'ogni locu,

penza vuliri fari saccu e focu.

Napulitani mància—maccarruni

cu lu sangu di nni vonnu 'ngrassari;

lu populu cci 'mpetta cu valuri,

a Palazzu li fici rinculari:

si vidi tuttų cetu di pirsuni,

l'hannu a finiri a sti Napulitani!

A tanti aggenti ca vittiru armati,

si pireru a l'intuttu li surdati.

………………………………………….

Suprajunceru li vicarioti (1)

cu carrubbini e scupetti a li manu

a difenniri un grittu di natura (2)

e strudiri sta truppa traditura.

………………………………………………..

Chiddi surdati ch'arriggianu ancora,

trimannu, a pricipiziu scapparu

di la Porta di Crastu e Porta Nova,

l'armi e li robbi a terra li jittaru;

e la cavallaria puru va fora,

di cursa lu fujutu lu pigghiaru:

ddi Mizzagnoli, curaggiusi veri (3),

a tutti l'hannu fattu priciuneri.

Palermu cc' è gran festa a tutti parli,

su' tutti supra l'armi e ben risorti (4);

hannu vinciutu cu valuri e arti,

e giustu vonnu indipendenza o morti,

Di tutta la Sicilia d'ogni parti

su' cu Palermu e di cori arrisorti,

su' tutti uniti li Siciliani

cà cchiù nun vonnu a sti Napulitani.

…………………………………………………………..

(Palermo).

XXXVII-Annotazioni e Riscontri

Intorno alla rivoluzione siciliana del 1820, ch'ebbe effimera vita, non occorre spendere molte parole, essendo ben nota alle storie: chi ne desiderasse i minuti particolari, potrebbe cercarli nella Storia della rivoluzione di Sicilia nel 1820, opera postuma di NICOLÒ PALMERI, con note critiche di MICHELE AMARI (Palermo, 1810 ), o meglio ancora nella Cronica degli avvenimenti di Palermo in Luglio, Agosto, Settembre, ed Ottobre 1820, scritta da D. Giacomo Danè Orologiajo della Corte e della Specola, nel momento in cui gli avvenimenti andavano succedendo l'uno all'altro; o, infine, negli Avvenimenti verificati e raccolti da un Patriotta Palermitano (GIUSEPPE LO BIANCO di anni 36), incominciando dal dì 13 luglio 1820 sino a Dicembre 1834; lavori, tutti e due, che manoscritti si conservano nella Comunale di Palermo, ai segni Qq. F. 162.

La disfatta delle truppe borboniche in Palermo accadde a' 17 di luglio. L'eroe popolare della giornata fu il padre Gioacchino Vàglica, monaco del Terz'Ordine del convento di Sant'Anna, nativo di Monreale. Il popolo lo acclamò Generale, gli complimentò il cavallo e la spada del vinto Generale Pastore, lo volle veder vestito alla borghese e con spada al fianco. La Giunta provvisoria, col consenso di tutt'i Consoli delle Maestranze, decretò il grado di Colonnello della nuova Truppa Nazionale al Vaglica e di Ajutante del Comandante Generale Requisenz, oltre ad una medaglia d'oro, con Santa Rosalia e l'aquila palermitana da una parte, e dall'altra lo scritto: Il 17 luglio 1820 memorando per la vittoria. – Sedata la rivolta e tornati i borbonici col generale Pepe, il P. Vaglica fu mandato in Napoli ed imprigionato nella fortezza di Gaeta entro un convento, col giornaliero assegno di tari tre (Lire 1, 27).

La vergognosa e rapida sconfitta delle truppe destò grand'ira ne' petti de' Napolitani e rinfocolò gli odj antichi e mal repressi contro i Siciliani, che per parte loro non la cedevano in nulla agli abitanti del Sebeto, come n'è prova la poesia che di sopra ho stampata.

Appena la notizia passò il Faro, le ingiurie, le minacce, i sentimenti di vendetta de' Napolitani si scatenarono furiosamente. lo possiedo una stampa napoletana assai rara di quel tempo, la quale è uno sfogo poetico de' più fieri. La riproduco qui integralmente, come documento storico, ora che ogni odio s'è spento nel bacio fraterno dell'unità e della libertà italiana.

CURAGGIO,

E CONSIGLIO

LI PATRIOTE

NAPOLITANE

Omnes Insuli mali,

Siculi autem pessimi.

Vì ca bù bà co e chiacchiere

Noj fare na bolimmo,

Besogna, che currimmo

Quante cchiù simmo mò.

Cu stu Palerme 'nfame,

Sti Scassa—catenazze,

A uno a uno li mazze

L'avimmo da sguarrà.

Birbante tradeture,

Cori mmecediarie,

Sti guappe sanguenarie

Volimmo stermenà.

Chist'è lu vero tiempo

De fà vedè chi simmo,

Si no lu nomme primmo

Tornamm' ad acquistà,

Ca simme chiacchiarune

Nu nsimmo maje aunite,

Lle cose pruseguite

Nu lle sapimmo fà.

Sicilia scellarata,

Te cride sempre ncoppa,

Nu nsaje ca ccà la stoppa

Funa s'è fatta giù.

La forza nosta è grossa,

Tenimmo gente assaje,

Nu cuofeno de guaje

T'avimın' a fà provà.

Lo vespero de Giovanne

De Proceta, aje tentato,

Ma Franza n ' aje trovato

Che nu nne parlaje cchiù.

Nuje te venimmo ncuollo,

Vennetta nuje volimmo,

Lu sanghe nuosto avimmo

Da sudisfà accussi.

Quatto cinc'ann'arreto

Sti latre mariuole

Nne vennero li stuole

Apposta p’arrubbà.

De juorno, notte, e sera

Ncampagne, e pè lle strate

Tu jere sequistate,

T'avive fa fremmà.

Lle case, e li Casine

Sentive tu scassate,

La gente arrojenate

Era pe chissi cca.

La Pulizia, è o vero,

Cchiù d'uno nne pigliaje,

Ma pò le scarceraje

La Corte, li fece asci;

Perchè sti malandrine

Prutezione avevano,

Ed arrobbà potevano

Senza difficultà.

Nu nboglio di chi erano

Sti prutetture nfame,

Chi legge stu pruclame

Se lle ppò mmacenà.

Vasta, passammo nnanze.

Seceliane sciuvcche,

Lle fiche ncopp' al l'uocchie

Nuje ve volimnio fa.

Figliule mieje, sentiteme,

Ve voglio di na cosa,

Ca vaje comm'.a na rosa

L'avite d'azzettà.

Li Tre Palurmetane

Che dint' a Giunta stanno

Stavano scemiarono

L'aggrisso pè bedè.

Vi cà lu juramiento

Nijajeno de posta,

È chiaro sigoo apposta

De nganno, e fauzetà.

Nu nserve, che smorfejano

De mo jurare, e dicere

Ca sò birbante, e sdicere,

Cercano arreparà.

Ma nuje l'amm'à capè

Ca sò briccune assaje,

N'ogna de fede maje

L'avimme da dà cchiù.

Besogna aprire l'uocchie,

Nu nfare tant'e grunne,

Si nò de mane ncanne

Nc' aviamo d'afferrà.

La radica nuje avimmo

Mò proprio da scippare,

E Diedici processare

Senz'aspettare chiù.

Stù celebre birbante

Fa tavole é tavolella,

E pò cu na resella

Nce piglia à coglionà.

Nce dice into mustaccio

Cu facce pepernina:

“Setta carbonarina

“Non puoi far male a me.

“Non tingemi, non scotta,

“Forte son lo qual Toro,

“Acquetta fredda, e Oro,

“Questo ci vuol per me.

Chesto che ben a ddi?

Lo volimmo chiavà dinto

Lu juorno niro e tinto

Quannu lu vò provà?

Vi ca chiù d'uno suspeca

Ca isso stea ntricate

Cu truppe e cu surdate

Sett'otto juorne fa:

E cu Palerme ancora

Nc'ave d'avè la parte,

Talente n'ave, e arte

De farne cchiù purzì.

Pecchè la Giunta nosta

N'appraca a Nazione,

Facenno de stu briccone

L'accusa accommenzà?

Pocc'è na vera vernia

Vederelo galliare,

Cbisto che suseperare

No' ha fatto nfino a mmò.

Si no li mariuole

Pigliano o soprabiente

E diceno n'è niente,

Potimmo pazzià.

Ca quann'avimmo platta

Subbeto c'accungiammo,

Denor' ammullecammo

E nu nse ne parla chiù.

Mmalora nuje sapimmo

Chello c'ha fatto chisto,

E chi s'è bisto visto

Afforza avimm'a fà?

Scetammoce, figliule,

Nugeat se l'ha fumata,

Ammeno na mantiata

Facimmo a chisto ccà.

Nc'avarrà gusto o Prencipe,

Stu Rrè nu l'ave a mmale,

La giunta tale e quale

Pure nce godarrà.

Lu tiempo se nne fuje,

Ditt'aggio quant'avasta,

Chi mmane ten'a pasta

Lu riesto pote fà.

Guè guè, nu nc'allocchiammo

Cu chiacchiere e canzone,

Ca nuje la Nazione

Avimm' à mmortalà.

Lu Patriota pė Sentemiento R. C.

A'napole lu 21 de Luglio 1890.


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XLII-Li Fra Diavuli (1)

Haju la menti mia misa a partitu

cà 'na rima di parti vurria fari (2);

cumenzu di Carini e Santu Vitu,

di ‘Nbrociu e Ninu vi vurria cuntari.

A Santu Vitu 'Nbrociu si fa zitu

cu la Scilocca, ddu vrazzu di mari (3);

a Cipuddaru avianu pr'amicu:

— Stu bonu matrimoniu s'havi a fari.—

'Ntra mentri chi purtava, era vulutu (4):

passau lu tempu, e 'un cci la vosi dari,

mittennu a diri:— Chistu è prisiculu (5),

a me' figghia 'un la rogghiu cunsumari.—

Iddu 'ntisi accussi e si l'ha fujutu,

prestu a Carini si la jiu a purtari.

A pocu jorna la figghia l'ha avutu,

e cumenza pri farili arristari (6).

Pri mari s' affannávanu lu pani,

cà eranu du' boni piscaturi,

a Santu Vitu si jeru a ruinari,

pri quasanti di ’Nbróciu, lu minuri.

Quannu Sciloccu li fici pigghiari,

Turiddu Brunu facia d'attimpuni (7);

dicennucci:—Cumpagni v'ati a fari (8):—

la parti cci facia di tradituri.

Allegramenti, nun vi scuraggiti,

(sti furmati palori cci dicia),

doppu chi tutti dui Cumpagni siti,

tu si maritu di Anna Maria (1).

Vaja, picciotti, comu arrisurviti?

vi cci mittiti ’nta la Cumpagnia?

Cchiù dannu allura vui nun patiriti,

lu Capitanu mi l'ha dittu a mia.—

Stu Malatu, a Buzzetla poi dicia (2):

Li vostri figghi chi spiritu hannu?

Sunnu di bonu cori e valintia,

o puramenti nun cci basta l'armu?

E tannu a spacca— e— pisa li vinnia (3),

e li picciotti nenti s' addunannu:

li fici jiri 'ntra la Vicaria,

cci fici jittari 'na vutti di sangu.

Ddoppu du' jorna sappiru lu 'ngannu:

li passaru di Trapani ’n Palermu;

'nbróciu cu Ninu jianu suspirannu

'nta dda varca chi ghia tantu currennu.

Si li purtaru cu cori tirannu

a lu Casteddanmari di Palermu:

poviri carciarati 'n paci stannu,

juncennu Ninu, cci junci lu 'nfernu (4)

Du' anni e menzu foru carzarati

'ntra ddu casteddu di Casteddammari;

si lluminaru li valenti frati (5)

pr' essiri abbilitusi di scappari:

hannu passatu 'n menzu li surdati,

canusciuti nun foru a caminari;

binchi di li catini distrubbati (1),

'ntra un momentu si sàppiru sarvari.

Súbbitu la campagna jeru a pigghiari,

arritruvaru l'amici e li frati (2);

cu'cci prujiu armi e cu’ dinari,

cu'cci addittava li cchiù certi strati.

' Mbrociu dichiara:— M'haju a viņnicari!

ddocu si vidi si mi rispittati!—

Chi tirribuli guerra jeru a fari

a Santu Vitu sübbitu arrivati!

Su' sutta; su' scurdati; passau tempu (3).

Li vittiru affacciari com'un lampu,

a vint' uri arrivaru cchiù pirtempu (4),

a tutti l'amici so' dèttiru un santu (5).

Sciloccu persi lu so sintimentu:

— Finiu la vita mia, cu cchiù nun campu! —

D'un migghiu arrassu mėttinu spaventu,

lu viddanu curria, lassava l'antu.

Lu scantu attirruisci ogni vicinu,

cà sentinu li primi scupittati:

quattru Cumpagni chi vivianu vinu

senza pinzeri e quasi 'mbriacati

'n casa di Cipuddaru malantrinu,

si vittiru cu furia assartati,

Poddari cu 'nziriddu e Pilligrinu

e cu Cardella stavanu assittati (1).

'Nziriddu, chi vivia 'ntra la cannata

misu a lu latu di lu Cipuddaru,

Ninu cci la tirau 'na scupittata,

lu 'nzerta giustu 'ntra lu gangularu.

L'àutri canzaru darre' la bancata,

ma lu focu l'abbrucia paru, paru:

it Santu Vitu dda mala jurnata

contra di li Cumpagni 'un cc' è riparu.

Vintiquattr' uri 'n sèculu spararu,

chiuvianu comu grànnuli li baddi;

tutti li scorni soi si li livaru

supra di tutti facennu li gaddi.

L'armi e li grana tutti si scuparu,

puranchi li jimenti e li cavaddi:

a la taverna di lu Cipuddaru

di ripostu cci servinu li staddi.

A la Scilocca la truvaru tardi

ca di tirruri quasi ch'era foddi;

cci nni déttiru tanti 'nta li spaddi,

cci li ficiru divintari ficu moddi.

'Mbrociu dicia: – Volala, si t'ardi!

si tu m'amavi, nun facivi 'mbrogghi;

nni cunsumasti; or' aguslati l'agghi (2),

ſa' di lu patri to li ſeri vogghi (3).

……………………………………………………….

Stritti attaccati cu forti catina

li mannanu tuttidu ' a la Favugnana,

e ben guardati di Şira e matina,

cci stannu sempri tanti guardiana.

Lu Casteddu di Santa Catarina

cci sapi duru e cci hannu mala gana;

ddi dui 'ncignusi frati malantrina

machinamu di lassari Favugnana.

A Favignana fanu lu straluni

chi va finisci a Santa Catarina;

'n menzu li guàrdii, ddi dui valintuni

cu mastria scapparu a la marina;

Ninu ha scappatu e lu só cumpagnuni,

si jetta a mari cu 'na cutiddina,

cci ha pigghiatu la varca a lu patruni

tagshiannucci lu capu di curina (1).

Lu Ninu Fra Diàvulu cummina

cu l'àutri carciarati a lu Casteddu

cu arti e 'ncegnu, cu 'na martiddina,

livari a du' finestri lu canceddu (2);

fannu 'na forti corda di curina

e primu cala iddu e só frateddu,

'n menzu a li guàrdii, senza frattatina (3),

otto scapparu di chiddu Casteddu.

Cu 'Mbróciu só frateddu e l'àutri sei

currenou a cursa juncinu a lu mari,

tutt'ottu eranu scàusi di pedi,

chidda varca lu Ninu jiu a pigghiari.

Lu patruni durmia senza pinzeri

dintra la varca cu du ' marinari;

l'attaccanu a tutti tri comu riqueri (4),

mettinu pri Sicilia a navicari.

Fu a lu trenta d'agustu lu scappari,

fu 'na gran valintizza di stupuri;

a Pizzu di Gaddina jeru a sbarcari

e cci arrivaru 'n tempu di du’ uri:

ddocu sciugghieru a ddi tri marinari,

la scupetta livaru a lu patruni.

Comu la cosa si vinni a sbampari (1),

tuttu lu Regnu si misi a rumuri.

Di veri Fra Diàvuli maggiuri

a tutti banni cùrrinu prisenti,

Pizzu di Corvu, Cifara e Giambruni,

Marzusu e Renna jianu 'ntra un nenti (2):

lu sulu nnomu purtava tirruri,

e quantu nni spugghiaru casi e genti!

Cumpagni cu surdati a munzidduni

Palermu cci mannau subitamenti (3).

……………………………………………………...

Po’ lu voscu di Filici lassaru (4)

ficiru strata pri la Cannavera,

’mmeri a la Chiana la sira arrivaru (5),

'n circa vintitri uri e menza era;

a Vittoriu Turcu ddá scuntraru

chi spinziratu jia 'nta la trazzera (6),

subitamenti 'n menzu lu pigghiaru:

— Ti vinni l'ura e la sintenza vera (7)!

Nu', pri disgrazia, èramu 'n galera,

o Turcu 'nfami, ti nni prufittasti

e nni 'nchiuvasti di mala manera,

Diu ch' ‘ un è Diu a li sbirri cuntasti (1).

Fatti la cruci e l'ultima prijera

cà pri stu munnu lu già trapassasti!

Spiravi ca nn' avivi la muntera (2),

la forza d ' 'i Fra Diàvuli 'un pinzasti!—

Turcu, a sti tasti, pàlitu si fici (3),

cci allintaru li gamini ed accascau (4)

la prima vuci chi pri forza dici,

dici:— Haju setti figghi!— e sugghiuzzau.

Lu Ninu Fra Diàvulu cci dici:

— Pirchi la vucca tua mi 'nfamau?

— La fami di li figyhi chistu fici,

la fami fu ch’ a mia m'accicau. —

A Ninu la sò ira cci abbacau (5),

lu gran Ninu Buzzetta si pïatiu (6),

di la sacchetta du' pezzi pigghiau (7),

a lu Turcu ddá 'n terra li pruju:

La fami di li figghi t'accicau?

Te', penza pri li tigghi a tantu riu (8);

Ninu Buzzelta vivu ti lassau,

d''un fari mali cchiù t'avvertu iu!

…………………………………………………...

A lu Pirutu li Cumpagni accorti (1)

stinneru lu curduni d'ogni parti,

e li surdati pigghiaru li posti,

la 'mprisa vonnu fari cu tant' arti.

…………………………………………………..

Una firoci scàrrica hannu fattu,

cci ammazzaru la mula a lu Buzzetta:

Ninu si canza di valenti e scartu,

tira a un Cumpagnu e pri grittu lu ’nzerta.

………………………………………………………...

Ninu cu ' Mbrociu gran focu facianu,

li baddi ca 'nla l'aria friscàvanu,

e di munizioni assa' nn'avianu,

di granni sparatura l'azziccávanu:

eranu prisi, e già lu vidianu,

ma no pri chissu mai si scurasgiàvanu.

— Arrénniti! Arrènniti!— dicianu

chiddi Cuinpagni chi l'atturniàvanu.

Li dui frati sparávanu cchiù forti:

— Nun s'arrènninu l'omini! (gridannu):

prima lu pettu trapassati e morti!

prima sti baddi hannu siti di sangu (2)!

……………………………………………………….

(Borgetto).

XLII-Annotazioni e Riscontri

I fratelli Nino e Anbrogio Drizzetta, giovani marinai di Carini, acquistarono il soprannome di Fra Diavoli per le arrischiate tristi imprese e per la maravigliosa abilità di evadere di prigione e di sfuggire a tutt'i lacci e inseguimenti della Polizia. Caddero in fine, consumata fino all'ultima cartuccia, nel 1833, e salirono il patibolo in Palermo a brevissima distanza di tempo da' fratelli Palumbo. La storia poetica, ch'io ne pubblico, era abbastanza lunga e particolareggiata; ma non l’ho potuta avere completa. Un'altra Storia di li Fra Diàvuli corre presso il popolo, in settenarj: leggesi, con qualche lacuna, in Pitrè, nel vol. II, pag. 134 e segr., della cit. Bill. delle trad. pop. sicil.

Anna Maria Scilocco, la giovane rapita in Santo Vito del Capo da Ambrogio a causa della cattura e della ruina de due fratelli, viveva ancora al 1860. In Terrasini, un figliuolo naturale di Nino esercita il mestiere di tavernajo.

La pietà generosa di Nino con Vittorio Turco, spia ed accusatore suo, narrata nella nostra leggenda, ne richiama ad altre con simili di altri banditi: noto quella del corso Burghello, il quale, “incontratosi in un giudice di pace, cugino carnale di certo spione esecrato, lo ferisce nel ventre. Quegli, sentendosi venir meno, esclamò: “Tu hai il corpo, non voler l'anima”. E l'omicida commosso, fasciargli la feriti, e aiutarlo a montare a cavallo, e ad andarsene in salvo. Che poi guari”, (TOMMASEO, Canti corsi, pag. 30—31).


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XLVI-La Culera di lu 1837

O chiaghi santi, o chiaghi biniditti,

o viva sprànza di li piccaturi,

o manu e pedi di chiova trafitti,

o cruci santa, lettu di duluri;

o Verbu eternu, patri di l'afflitti,

o passioni di Nostru Signuri,

nui vi prigamu cu fidi sincera,

librátinni stu fragellu di culera!

'Ntra l'annu trentasetti chi s' avvera,

spinci la manu lu gran Diu sdignatu:

tuttu s' otteni cu fidi e prighera,

ma prima lu lassamu lu piccatu.

L'omu, chi campa di mala manera,

ad ogni tempu Diu l'ha castigatu:

lu piccatu di scànnatu e bistèmia

l'àriu infetta e porta sta pidèmia (1).

Iddiu, cu ' fa lu beni cci lu prèmia,

cu'è chi fa lu mali lu castja:

nu' semu tanti strumenti di sènia (2),

jinchi e sdivaca, e la rota firria:

cu' cerca spassi, cu' teni accadèmia,

cu ' teni scola di filusufia,

ma la liggi di Diu nun cci pinsamu,

morti e dannazioni nni chiamamu.

Nu'nn' avemu l'esėmpiù d'Adamu

ca Diu cci castigau lu so piccatu;

pri fin ' a lu prisenti nni parramu,

ddu bellu paradisu hâmu appizzatu (3).

Quannu la liggi santa trascuramu,

è prontu lu castigu apparicchiatu,

ed è giustu giudiziu di Din

ch' ogni piccatu merita castju.

Iddiu la teni la valanza 'n pernu

pri fari la giustizia a li genti;

lu piccaturi cunsigna a lu 'nfernu,

pirchi la sò chiamata nun la senti:

Iddiu nni chiama cu bonu cuvernu,

nni chiama cu castighi e patimenti,

e pirchi ' uu rispunnemu a la chiamata

la divina Giustizia è sdignata.

Qual è lu fini ca 'un vùtamu strata?

pirchi 'un facemu pinzeri a la morti?

sulu circamu 'na vita scialata (1),

di li beni di terra semu accorti:

e Diu nni duna po'na fragillata (2),

pri manu d'omu nni fragella forti;

Diu nni lu manna stu trimennu avvisu

pirchi di lu piccatu è troppu offisu.

Nu', quannu sti nutizii avemu 'ntisu

d'aviri stu gran mali pistilenti,

su ' li piccati ch'avemu cummisu

ch' hannu abbattutu morti a tanti genti.

Di prima 'na nutizia s'ha 'ntisu,

caminava viloci occurtamenti:

Veni lu mali, veni cu malizia,

Diu, pri manu di l’omu, fa giustizia.

Ogni cori cci speldi la litizia,

trema ognunu pinzannu a sta ruina,

e cu suspettu ognunu e nimicizia

nni guardamu di sira e di matina:

o populi, vi dugnu pri nutizia:

Lu tradituri occurtu ccà camina;

li cosi li sapemu veri e certi,

lu infettu neni, stamu ad occhi aperti!

Dicianu:— Di sira 'un stati aperti,

lu mali cu lu scuru ha cchiù putenza.

Guarda, pinzata di omini sperti!

Diu forsi cunfidau la só sintenza?

Nca mentri chi nni sunnu veri e certi,

subbenunnilla tanta viulenza;

subbemunnillu st’ orrennu castju,

st' amaru chianlu offirimulu a Diu!

Ntra un lampu lu gran mali si spargiu,

tutta l'aggranfa a la bedda Sicilia;

in Palermu ddu gran populu strudiu,

parru di morti di sissanta milia:

chidda forti citati s'avviliu

lu jornu di San Petru e la vigilia (1);

li pochi vivi attirruti e scuntenti,

privi d'amici, di frati e parenti!

Ogni paisi, chi cosa si senti?

morti a catasta, lu restu allittati (2),

afflizioni, làgrimi e lamenti,

òrfani, vidui, cori scunsulati!

Accussi voli Cristu onniputenti:

quantu casi, di tunnu sbacantati (3)!

Si 'un cra pri Maria, chi Diu prigava,

lu Regnu, ad ora, tuttu s'annullava.

Ognunu addossu la morti purtava,

èramu quasi tutti in agunia,

nun cc'era nuddu chi sprànza aspittava,

sulu pri l'arma pinzar'i putia:

lu medicu, lu primu chi pinzava

quantu li Sagramenti arricivia;

ad ogni strata a tutti li mumenti

jia lu parrinu cu li Sagramenti.

Nun cci m'era famigghi senza nenti;

cu'nun avia né morti né malati,

eranı tutti misari e scoutenti

chi jianu lagrimannu strati, strati;

assai cci nn'era orfani 'nnuccenti

chi parianu la stissa piatati.

Lu jornu vidia a tanti cu saluti,

e la sira a lu campu sippilluti!

La cità di Palermu su ' piruti,

li morti pri li vii abbannunati,

lassati 'n terra comu tanti bruti,

pirchi li carruzzuna 'un su' bastati;

li bicchini su' stanchi ed abbattuti,

li carruzzuna chini 'ncucucciati (1),

nun stàncanu né jornu e mancu notti

arricugghiennu l'infiniti morti.

Poviru Regnu, quali cruda sorti!

li paisi e cità sunnu diserti;

la Sicilia è lu campu di la morti,

casi vacanti, abbannunati aperti!

E quali cci sarannu cchiù cunforti?

Ha chi diri cu' resta ad occhi aperti (2)!

Diu nn'ha fattu l'appellu tanti voti

cu fami, cu timpesti e tirrimoti.

Ma la culera no, si tu la noti,

'ccussì nun la vulia lu Diu sagratu;

hannu mortu li santi sacerdoti,

anchi bammini chi ’un hannu piccatu:

lu Dịu nn' ha chiamatu tanti voti

e la sò vuci l' hamu riggittatu;

ma ora, com' ha vistu eccessu tantu,

Iddu stissu macari ha fattu chiantu.

L'hâmu vidutu lu so Vultu santu

chi chiancia cu làgrimi scuntentu,

l'hamu viduti angustiatu tanti,

a lu Burgettu fu stu gran purtentu (3).

E cc'i cu ' ridi cu lu sonu e cantu

e fa lu matrimoniu cuntentu!

Addunca, hannu ragiuni a fari festa

cà Sicilia l'annega la timpesta (1)!

Quannu cci pensu, cci perdu la testa;

mittemu tappu 'n bucca, e ora basta (2):

lu mali di tutt'uri nni mulesta,

vitru cu petra assai mali cuntrasta.

Quantu nni giranu cu fàusa vesta (3)!

Populi, cchiù nun parru, chistu abbasta:

cu' vivu resta havi tantu chi diri;

ma cu ' pò scapulari a stu muriri?

Cci vurrissi un dutturi pri scriviri

tutti li danni di terri e casali;

Catania nun fa àutru chi chianciri,

Trápani chianci e puru Murriali;

Partinicu, 'un cc'è utru chi muriri;

Alcamu è persu, nun havi chi fari;

Marsala, Cuiacca, Giurgenti e Sutera,

cideru prisi, calaru bannera!

Comu assartau sta niura culera,

tuttu lu Regnu si vitti pirutu:

li medici girannu cu carrera

pri dari a li malati qualchi ajutu,

guardàvanu in li genti ’nta la cera,

'nta chiddu visu pilitu e finutu:

eranu tanti afflitti e scunsulati,

li stissi buni parianu malati!

'Nta tutti li paisi e li citati,

principianmu di la Capitali,

preganu tutti li Santi avucati (1)

chi Diu nni libirassi di stu mali.

Li santi sacerdoti, travagghiati,

pirchi ogni strata cc' era lu spitali,

'ntra cunfissari e 'ntra cumunicari

lu tempu affattu in cci putia bastari.

Cu ' si la scampa, avirà chi cuntari

di sta granni tragedia chi vitti;

ed eu sapissi scriviri e nutari!

gran cosi lassiria a li libbra scritti.

Hàmu vistu li morti strapurtari

'n campagna 'nta ddi lochi biniditti,

nudi, a catasta, oh chi feru spaventu!

la càscia e lu carrettu 'un avia abbentu.

Quantu suspiri, strepitu e lamentu

facianu li genti pri li strati!

Niscïa lu Viàticu ogni mumentu,

jia purtannu cunforti a li malati.

Ognunu, cu ' dicia:— Mali mi sentu,

già era 'sposti pri l'eternitati (2);

vinennu attaccu di granchi e duluri,

la morti era certa `ntra poc' uri.

Ognedunu avvilutu di timuri

cà la Morti cu l’occhi la vidia;

diciam:— Curaggiu!— li dutturi;

ma chi curaggiu ci sta pesti ria?

Lu medicu girava cu trimuri,

osservannu un malatu s'avvilia;

scrivia di li cògniti e mustura (3),

‘nutuli era, ch'era junta l'ura.

Assai mi mureru di duttura

pri ilmuri di succurriri i li genti,

mureru ammagistrati e principuna (1),

omini dotti e giuvini scienti;

li virgini munacheddi in sepurtura

cci jianu cu l'àutri ’nnuccenli;

la Morti mitia tunnu e nni livava,

la casa di Rignanti 'un la truvava!

E certu, 'un era mali chi ' mmiscava,

ca masinnò lu munnu si finia,

nessunu rivu di chissi arristava

cu'è chi amici e parenti sirvia.

L'omu in bona saluti si truvava,

scoppa di bottu vomilu e diarria:

mègghiu muriri sparannu, sparannu,

e no muriri cacannu, cacannu (2)!

Lu dannu è forti, e comu si cumporta?

Forza cci voli e curaggiu tinaci;

ma la forza d' ' i cori è tutta morta,

lu populu si strudi senza paci.

Saragusa, cità valenti e accorta,

idda l'ha vistu la cosa viraci;

Saragusa a li 'nfami l'attirriu,

vuci di populu, vuci di Diu (3)!

O Diu di paci, libbranni stu 'ngannu,

stu tradimentu cu la tò putenza;

l'afflitti puvireddi a nuddu hannu,

sulu la manu di la tua climenza!

Nu' semu persi l'annata d'aguannu,

si nun un'ajuta Din, nuddu cci penza:

lu populu la forza l'ha pirdutu,

cà stu mali l'ha spersu e l'ha avvilutu.

Maria d''u Rimiteddu, dànni ajutu (4),

o Matri, cà tu si 'nostra avucata,

prégalu tu chi nni facissi scutu

ssu Figghiu, chi susteni addulurata.

Tuttu lu Regnu di niuru è vistutu,

jetta l’àrmi di sangu ogni cuntrata;

la stissa terra si lamenta e doli

cả cchiù catàuri riciviri ’un voli.

Maria piatusa sarvari nni voli,

Maria ca è la matri di duluri,

va uni l'eternu Figghiu e si cci doli:

—O Figghiu, e fallu tu pri lu me amuri!

Sta Terra risblinnia comu l'aurori

china di paci, di gioja e d'amuri,

sta forti dragunara l'assartau,

scura e diserta e persa la lassau!

— Lu piccatu m'oflisi e profanau,

Matri, ca l'haju ruttu la cuncòrdia.

— Figghiu, la pena è summa e trabbuccau,

tu si ' lu Patri di misiricordia.

E fallu pri tò Ma' chi ti purtau,

sïa livata chista miniscòrdia;

fallu pri chiddu latti ch' appruntai,

pri li peni e dulura chi pruvai! —

La vuci di Maria è putenti assai,

lu summu Redenturi accunsintiu;

l'eterna Matri nun la sdici mai,

viva Maria ca nni redimiu!

Maria d''u Rimiteddu è granni assai,

pr' Idda, tuttu lu Regnu 'un si pirdiu;

chistu vi dici un poviru viddanu:

cu ' si võta a Maria, nun spera invanu.

Vu' cumpatiti a Nnirïa Albanu,

ca cci manca la littra e lu talentu;

nisciu sti parti e lu cori ’un è sanu,

battutu di la morti e lu spaventu:

e quali pò resistiri cori umanu

cu la Morti chi meti a centu, a centu?

La sacc'iu l'orribuli me' pena,

mi livau li parenti sta culera!

A Diu l'offrisciu cu fidi sincera

tutti li chianti, li peni e l'affanni:

cci penza Dïu, cà la cosa è vera

ca vinniru di l'omu sti malanni!

L'annata signu lagrimusa e fera,

milli ottucentu cu trentasett'anni;

a tutti nni strinciu d'amari lutti,

un chiovu 'ntra lu cori lassa a tutti!

(Borgetto)

XLVI-Annotazioni e Riscontri

A chi non è nota la tremenda e innarrivabile moría del 1837 in Sicilia? La sola città di Palermo fu priva, in tre mesi, di oltre a sessantamila abitanti: la cifra reale è ignota, perchè quando il cholera giunse a far più migliaja di vittime in un giorno, gli ammonticchiati cadaveri si bruciarono senza contarli. Il fiore della cittadinanza e degli ingegni siciliani soccombette al morbo funesto, e basti per tutti ricordare i sommi Scind e Palmeri (1)!

La presente storia, stupenda per passione e vivaci e varie immagini poetiche, è inapprezzabile documento delle idee e degli errori di quel tempo sul fatalissimo e nuovo morbo, idee ed errori che in Sicilia, come già in altre parti d'Europa, produssero uccisioni e rivolte popolari, e che disgraziatamente ebbero presa eziandio sui le menti più elevate e più colte. Chi ha vaghezza di minuziosi particolari e degli speciosi argomenti su cui questi falsi pensamenti reggevansi, ricorra all'importante Diario del penoso anno 1837, in continuazione degli Avvenimenti del 13 Luglio 1820 sino a tutto Dicembre 1836 di GIUSEPPE LO BIANCO nativo ili Palermo (li 4 Agosto 1783), che si trova ms. alla Comunale palermitana, ai segui Qq. F. 164.

L'autore della poesia, Andrea Albano, fu un povero villico di Borgetto, dabben uomo e analfabeta affatto, ma d'ingegno vivo, pieghevole, argutissimo. Improvvisava con facilità maravigliosa; e la sua canzona satirica, sempre pronta e inesorabile per tutti, spesso archilochea, gli procacciava un rispetto insolito tra' suoi compagni di lavoro, che non amavano di rimanere proverbiati in versi, che ottenevano sempre un successo popolare incredibile. Menù vita di lavoro e di stenti non mai interrotti, che si compi intorno al 1858. Era nato a' 5 febbraro 1816; al diciottesimo anno godea giù rinomanza di poeta per una satira contro Li zappunaredda ziti, poesia curiosa e incisiva, ch'io serbo inedita. Fu grande novellatore; e le tradizionali fiabe acquistavano dal suo labbro un colorito, una movenza, una vita, che lasciava ammirati. De' suoi canti, non mai scritti, si leggono alcuni nella Raccolta mia, ai numeri 657, 658, 660, 690; altri, che n'ho racimolati dal popolo qua e là, attendono la occasione propizia di venire alla luce. È curioso questo, che la storia del cholera si attribuisca in Partinico al poeta popolare Antonio Oliveri, inteso Giuranedda, morto circa al 1864; ma il nome dell'Albano, registrato alla fine di essa, oltre agli accenni locali di fatti e cose di Borgetto, leva ogni dubbio sull'autore: al quale, del resto, udiva io stesso recitare nel 1854 la storia sua, in occasione del cholera nuovamente venuto a funestarci in quell'anno.

La moría del 1837, come flagello nuovo e terribile, scosse profondamente gli animi ed eccitò la musa di tutt'i poeti popolari siciliani: in PITRĖ (Bibliot. cit., vol. II, num. 922, pag. 176 e segg.) si legge la storia che ne compose il campagnolo Vincenzo Celeste da Noto: il valente poeta palermitano, il chiodajolo Stefano La Sala, ne forni una anch'esso, tuttora non pubblicata: io ne conosco varie altre, di Partinico, di Palermo, di Sciacca, di Catania, di Monte San Giuliano, e non sono certamente le sole che si trovan diffuse nell'Isola: ho preferito a tutte quella di Borgetto, dell'Albano, perchè di maggior merito e di maggiore importanza. Quella di Monte San Giuliano è una specialità, perchè opera di una donna, una tale Rosaria Candela, che viveva al 1872, in età di anni 60. Quella povera e buona massaja, dettando al mio carissimo U. A. Amico, a cui io la debbo, la sua poesia, gli diceva commossa: “che a comporla, quand'era, giovane, ci avea messo affetto e fatica”, (si cci avia allammicatu).

Eccone qui le ottave che offrono maggiore interesse:

………………………………………………….

Di Custunaci chiamamu a Maria (1),

e fu chiamata a tutti li citati;

d’unni chi 'n passioni si inuria

l'ha mittutu 'n guvernu e sanitati.

Lu vô' sapiri pirchì si muria?

Quasi ch'èramu tutti rinjati.

Ringraziamu a sta matri Maria,

chi semu vivi pri la sò buntati.

Tutti foru tirati a trascinuni

chiddi ch'eranu 'nfetti di culeri,

cu' parti misi 'ntra lu carruzzuni

e la quacina vicinu a li peri,

jittati 'ntra la rina a munzidduni

marinara, mastranza e cavaleri:

e chiamamu a Marïa cu primuri

chi nn' ha scansatu di ddi brutti peni.

Peni pateru assa' li Trapanisi,

morsi gran quantitati di pirsuni;

a lu Munti li guàrdii su' misi

cu dilicenza di li suprajuri:

Maria di Custunaci si cci misi,

firmau li porti di li peni scuri

ed ha sarvatu tutti li paisi;

dunca viva Maria e Nostru Signuri!

…………………………………………………..

Ora, chi cujtaru li coleri,

s'hannu partutu li Santivitari (1)

tutti a piduni e scàusi di peri

pr' a la Matri di Diu ringraziari:

nni morsiru vintiquattro tutti assemi,

ch'eranı ’nfetti di ddu brutta mali,

e chiamandu a Maria chi li manteni,

a un momentu l'ha ghiutu a libirari.

Poi nun vi cunto di Casteddamari

d'unni chi 'n passioni si muria;

ogni criatura si misi a prjari:

— E chiamamu la vergini Maria!

Erano 'nfetti di ddu bruttu mali,

tempu di pustulenza e mortiria (2);

a un momentu l'ha ghiutu a libirari,

lu 'nfettu è chiaja, la 'nguentu è Maria.

Di li paisi ognidunu fujia

d'unni ch'era appigghiata la culera,

e chiamannu la vergini Maria

chi li scanzassi di sta britta pena,

cà pri tuttu lu munnu si dicia

chi 'n ' atru quatru comu chistu 'un ce' era (1);

Munti, ti po' chianari munarchia,

si ' pussidenti di sta trisurera.

Cu atera vici ed abbunnanti lena

prijera chi cci ficiru a Marsala!

Li grazii cci l'ha fattu a leta cera

chista Matri di Diu, cu ' la chiannava;

d'unni ch'era appigghiata la culera,

agghicannu Maria, cci la tagghiava;

Maria di Custunaci è trisurera,

facci pri terra ognunu si jittava.

Ogni frusteri a lu Munti acchianava (2)

lu sò santu viaggiu cci facia;

quannu chi la prijera accuminzava

in ringraziamentu di Maria,

l'Arcipreti l'artaru apparicchiava

e cu torci, splionuri e ' lumaria (3);

ognunu lu prisenti cci purtava

e pri lu Munti cci lu cunnucia.

Ogni jornu fistinu si facia,

hannu acchianatu milli Parmitani (4)

ringraziannu a sta matri Maria

chi l'ha libratu di ddu brutta mali.

Tempu di pustulenza e morti ria,

o Matri santa, nn'aviti ajutari;

si nun era pri vni, matri Maria,

föramu tutti a li peni 'nfirnali.

Li paisi 'un li succiu dichiarari,

chi è l'effettu 'un sapiri li nomi,

Alcamu, Partinicu e Murriali

unni chi si muria cu passioni:

lu ’nfettu è ghiuntu, 'un avianu chi fari,

chi nun cc' era cchiù mammi nè figghioli;

cu ' chiaman a Maria nna stu chiffari,

cci desi a tutti liberazioni.

…………………………………………………….

Lu cchiù purtentu fu pri li Muntisi,

nni morsi dicissetti a la citati;

praticaru ammucciuni Trapanisi,

s'apprüfittaru di robbi 'nfittati:

mòrsiru certu, comu già si 'ntisi,

a lu Milanu sunnu vurvicati (1),

mòrsiru 'nfetti pri li tristi ' mprisi,

persiru la filici libirtati.

Li capi d''a cità (cunsidirati!),

lu Sinnacu, chi era cchiù maggiuri,

quannu chi vitti st'aggenti 'nfittati

subitu nulligiau lu carruzzuni (2):

a lu Milanu foru traspurtati,

ognunu cci fa fari lu fussuni;

si ’un era pri Maria di majstati,

e lu Munti mire' patia duluri.

Oh quantu peni, suspiri e duluri!

a Maria santa si voli prijari;

la vergini Maria cu tantu amuri

lu 'nfettu nni lu fici alluntapari:

hannu murutu li 'nfittati suli

chi jeru Trapanisi a praticari:

e laudamu a Maria cu gran frivuri,

a ' u nostru Munti 'un avanzau lu mali.

Ch'èsti matri di Diu cilistiali (3)

e pri lu munnu si chiama avucata,

chi li grazii so' 'un ponnu mancari

ch'èsti matri divina 'mmaculata:

a lu sò Figghiu l'ha ghintu a prjari,

Maria di Custunaci 'lluminata:

— O Figghiu, oh quantu gråzii hêinu a fari (1)

li vogghiu sarvi, cà m'hannu chiamata. —

E pri lu munnu ha ghiutu la ' mmasciata

chi nn' ha sarvatn sta matri Maria;

unni cc'era la morti priparata,

chiamanou ad Idda, sùbitu abbattia:

a la bedda cità di l'Alicata

cc' era sta pesti tinibrusa e ria,

Maria di Custunaci fu chiamata,

un Muntisi la 'mmagini nn' avia.

Lu ’nfettu junci a la Pantiddaria

dunni cc'era Muntisi 'siliati (2),

chiamannu la gran vergini Maria

chi li scansassi di sta morti sgrati,

lu 'nfettu passa, abbatti la muria;

comu, facci pri terra 'un vi jittati

sintenou li purtenti di Maria,

chi nn'arristara tutti spavintati?

Lu Papa a Roma, suia paternitati,

sintennu sti purtenti di Maria

e tutti i Rumani su' 'nfittati,

lu granni 'nfettu abbattiri 'un putia,

s ' ha vùtatu a Maria di majstati

e sùbitu abbattiu la morti ria;

ed ora cc 'è 'na granni sanitati,

lu Generali stu vutu facia (3).

…………………………………………………...

Supra st'otaru lu cantu è finutu,

miatu cu ' è divotu di Maria!

V'addimannu pirdunu arrisulutu

s'iddu la cunsunanti mi varia (1):

o vergini Maria, dunami ajutu

quann'è lu fini di la morti mia!

Diu di lu me' piccatu nn' è affinnutu,

la morti e passioni chi patia.

lo pri la parti mia mi scusu ancora (2)

pirchì sta menti ’un è stata latina;

si cc'è mancanza d'accorchi palora (3),

s ' iddu la cunsunanti 'un avvicina,

nun cci avia jutu a li stampigghi ancora

e mancu nui lu mastru di trutrina (4);

e cui li fici vi lu dicu ora,

chiamata za' Rusaria Cannila.

In questa storia della Candela, come in quella dell'Albano e in quasi tutte le altre dianzi citate intorno al cholera, si ripete la scena di Maria intercedente per il popolo presso il Figliuolo sdegnato, scena ch'io segnalai già a pag. 244 del presente volume. Ma qui, ancora, veggiamo la poetessa ericina attribuire alla Madonna di Custonaci, patrona della nativa città, e solo alla intercessione di Lei, la liberazione dell'Isola tutta e perfino di Roma, dall'eccidio totale pel morbo: né diversamente han fatto l'Albano, che della grazia generale dà il merito alla sua Madonna del Romitello; il Celeste, che dice tutto doversi al suo San Corrado; e gli altri ignoti cantori, che magnificano sopra tutti le Madonne e i Santi patroni del proprio comune. Santa Rosalia, vera e più universale soccorritrice dei Siciliani nelle pestilenze, secondo la credenza, comparisce varie volte, in compagnia de' Santi patroni, innanzi a Dio; ma essa, speciale protettrice della sua Palermo, campeggia sovrana nelle leggende di questa città, sola ottenendo la cessazione della tormentosa epidemia:

…………………………………………………..

Rusulia, virginedda gluriusa,

cu cori vintu di la piatati

curri nni Gesù Cristu primurusa

pri livirari sta sù terra amata;

cu li trizzi strizzati e lagrimusa

a dda summa Majstà l'ha suppricata:

abbacò sta pidèmia turmintusa

sulu pri Rusulia nostra avucata.

E tutta la Sicilia è sarvata

pri grazia e putistà di Rusalia;

prjó a Gesù Cristu addulurata:

— O summu Beni, fa ' sta gràzia a mia!

Palermitana iu cci sugnu nata,

oh Diu! comu resisti l'arma mia?

vidiri tapti morti pri la strata,

china la terra di tanta muria!—

Il triste ricordo del cholera è rimasto in più di una canzone popolare: piacemi riportare la seguente inedita di Balestrate, la quale, conservando la erronea credenza del veleno sparso da malvagità di uomini, finisce con una immagine sublimemente poetica, pingendo il morbo indico come un uccellaccio di rapina che da oltremare viene a devastare questi nostri campi fioriti:

Vudgghiu muriri di 'na muorti fiera,

basta ch'è muorti chi lu cielu manna,

cà quannu sientu diri sta culera

triemu comu la fuògghia di la canna.

Non cc' è cchiù la Sicilia com' jera;

lu Judici ha firmatu la cunnanna:

comu pusasti 'n mienzu sta ciurera,

aciddazzu rapinu di üldabbanna!


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XLVII-Lu dudici Jinnaru 1848

A li didici jinnaru quarantottu

spinci' la testa ddu Palermu afflitlu,

misi focu a la mina e fici bottu,

cu grólia ha vinnicatu lu sò grittu:

di vecchiu ch'era, accumpariu picciottu,

spinci la manu cu lu pugnu strittu,

lenta a Burbuni un putenti cazzottu:

— Tiniti, Majstà, vi l'avia dittu!

Vi l'avia dittu cu la lingua sciota,

vi la pigghiastu pri 'na smafarata (1);

li dudici jinnaru lu dinota

ca era pronta la grannuliata.

Riali Majstà, vassa' lu nota (2)

ca stu jornu arristau scurunata (3)

fu tantu fera la botta sta vota,

ca vassa' già lu detti a la balata.

Ora la fazzu allegra la pisciata

misu a lu centru di la me ' funtana (4),

cu la bannera mia tricculurata (5)

e 'n testa la curuna me' suvrana.

Li me' figghioli arrancaru la spata,

la Nazioni mia siciliana;

ma cu cu ' l'hannu a fari sta tirata?

fujiu la truppa tua napulitana.

Li fimmineddi cu li battimani,

dicennu: Ad iddi!— ficiru tirruri

a sti valenti to' napulitani,

sti guapparusi mància—maccarruni (1).

Nun cci putennu cu li paisani,

di notti si nni fujeru a l'ammucciuni;

hannu lassatu lu Casteddammari,

e lu Palazzi e li so' bastiuni.

Piddu Scurdatu cu lu so trummuni,

Lu Masa risolutu lu Miceli,

Tantè, Carini, Di Bella e lu Brunu (2)

omini arditi e patriotti veri,

cci hannu datu a la truppa un trantuluni (3)

pri fina dintra di li so' quarteri;

cci hannu livatu scupetti e cannuni,

cci hannu fattu calari li banneri.

Mi scinninu li squatri a scheri a scheri

cu scupetti, pistoli e cutiddini,

Siciliani patriotti veri

pri dari a Bumina la sò trista fini.

Lu populu d'abbasciu e cavaleri

cu tutti oniti li me' citatini:

—Viva Sicilia libira e Don Ruggeri (4)!

morti a Borbuni cu li so' sassini!—

Puru a Piu Nonu onuri si cci divi,

dd’omu 'nnimicu di la tirannia:

riali Majstà, vossa' 'un lu vidi

ca Diu s' ha misu di la parti mia?

Quantu vidi lu 'mbraculu, po' cridi;

guarda burrasca chi cc' è pri la via!

Smaccatu, scurunatu e senza fidi,

scurdari si la pò sta Terra mia!

Sta Terra happi vittoria giulia (1),

’ntra quattru botti ssa truppa finiu;

chiddi cafuna, e la cavallaria (2),

e lu trenu puranchi s'arrinniu:

valenti cc'èranu pri spugghiari a mia,

frustarimi e sucari ' u sangu miu;,

ma, sintennu la prima frattaria,

lu curaggiu e la forza cci muriu.

Chissu è giustu giudiziu di Diu

pri vinnicari li me' peni e chianti;

Vialli primu fu chi s'attirriu (3),

ca vulia fari di spirtizzi tanti (4)!

di notti cu Di Maju si nni fujiu (5)

e tutta la truppa sò, ch'era bastanti;

lu populu a l’Olivuzza li battiu,

li campani sunávanu fistanti (6).

……………………………………………………..

Grólia nn'ha avutu cu tanta prudizza

lu dudici jinnaru.veramenti,

fu di stupiri la gran valintizza,

surgiri oniti tanti cummattenti.

Tutt''i paisi cc' è gran cuntintizza,

lu strudemu a Burbuni 'n tempu un nenti;

e Firdinannu nn'havi l'amarizza,

cci sgagghiau la Sicilia di li denti.

Tutta la genti prigamulu a Diu

stari tutti custanti, oniti e forti;

nn'ha binidittu ddu gran Papa Piu,

mancari nun pò cchiù la leta sorti (1).

Ddu malu Firdinannu già finiu,

Sicilia cci ha signatu la sò sorti;

vuci di populu, vuci di Diu:

Viva la libirtà!— sin' a la morti.

(Parco)

XLVII-Annotazioni e Riscontri

I canti, che celebrarono il glorioso ma sfortunato risorgimento del 1818, sorsero numerosi presso il popolo nostro, da Palermo a Siracusa, da Messina a Trapani e Girgenti. Comuni a tutta l'Isola furono La Palummedda bianca e Li tri culuri; questa, imitazione della notissima e popolarissima poesia italiana di LUIGI MERCANTINI; quella, originaria siciliana e di già inserita nella più volte menzionata Raccolta amplissima di canti popolari siciliani (cap. LVI, num. 5193, pag. 685). Impossibile poter mettere insieme tutte le storie popolari, più o meno belle, più o meno patriottiche, più o meno satiriche, che si cantarono a quel tempo fortunoso, che corse dal 12 gennaro 1848 al 15 maggio 1849, unitamente alle moltissime vernacole, semi—letterarie, che diedero incessante lavoro ai torchi siciliani: ma chi potesse compire una simile raccolta, darebbe una copiosa serie di documenti importantissimi e curiosissimi, che spargerebbero nuova luce sui tempi, sugli uomini, sulle vicende, sulle opinioni di allora. Invito l'egregio mio amico Dr. Giuseppe Lodi ad accingersi a quest'impresa, lui, ch'è tanto amoroso e accurato collettore di cose sicule e valente conoscitore di esse, e che, come primo nucleo, può giovarsi della ricca collezione di stampe, che possiede, del 1848.

Un frammento d'una storia, che in bocca a cantatori di mestiere fece il giro dell'Isola, è il seguente:

–All'armi! All'armi! – 'dissiru

li dui Palermitani,

cu fazzuletta e sciàbuli

e poi cu battimani.

…………………………………………..

Di Porta Nova sbuccanu

Miceli e lu Scurdatu,

rincùlanu li truppa

di chiddu Re smaccatın.

…………………………………………..

Talà chi la fa sèria,

ancora si fissia (1)!

Mischinu! 'un voli cèdiri,

nun reggi cchiù, pazzïa.

Penza ddu beddu esercitu

di sidici migghiara,

sbirri, centarmi, ed àutri

spjuna a cintinara...

Un'altra storia, in tuono canzonatorio, ava col rivolgersi a Ferdinando II, che avea subita la sconfitta:

Firdinannu, Firdinannu,

dunni ti vioni stu malannu,

sta sullenni liguatuna

cu tant' omini e canpuna?

Si lu cridia sò Majstà

ca la Sicilia cci jia ddà?...

In una terza poesia, di origine probabilissima letteraria, ci si presenta il Re Bomba che, disperato per la perdita della Sicilia e sfiduciato di riaverla per mezzi umani, chiama a consiglio il Diavolo, a cui narra l'onta patita e il discredito in cui è caduto, massime dopo la perdita del Castello e de' bastioni:

– Onde (egli dice) io mi sento e tutti mi dicono che sono evirato; e però la stessa mia moglie mi evita... – Il Diavolo lo sbircia con ilarità e gli risponde: – Ti buttarono sul lastrico? Ben ti stia! perchè in Sicilia non regneranno mai re birbanti e scemi, qual tu sei! –

La leggenda, che do nel testo al num. XLVIII, ci dice il misero stato e le opinioni del tempo della guerra di invasione borbonica e degli ultimi giorni di libertà siciliana. Sulla Vinuta di li Regii a Palermu lu 1849 si leggono due ottave presso il PITRÈ (Bibl. cit., vol. 11, num. 923, pag. 187), che sotto apparente rassegnazioni contengono la speranza e la minaccia della rivincita sull’oppressore. Una canzona bellissimi, che corse allora, mi piace di far conoscere ai lettori, non essendo venuta in luce fin qui:

Chi pena chi ni punci lu me' cori,

l'asparu cci turnau 'ntra lu jardinu (1)!

l'aceddi grossi pigghiaru lu volu (2),

li nichi l'ha 'ncappatu a lu sò nidu.

La festa, chi spirnva, nun la godu,

cà nn'hè laudari a Diu si sugnu vivu:

e st'armatazzu, ca nun havi modu,

macari dintra nni sentu lu gridu!

(Partinico)

Tra le varie narrazioni in versi della rivoluzione del 1848, che vennero a stampa, cito la seguente, che corse assai diffusa per l'Isola: Riassuntu pueticu di la Rivuluzioni di Palermu successa li 12 jinnaru 1848, puisia di ANTUNINU MAROTTA (Palermo, stamp. Carini, 1848). Dopo dodici anni (Pal., stamp. Spampinato, 1860).

L'Autore la ristampava con l'aggiunta di un cuntinuannu sinu a lu 1860, e vi narra gli avvenimenti dalla restaurazione alla liberazione completa della Sicilia, con le vittorie de' Garibaldini.


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XLVIII-La Guerra di lu 1849

La guerra accuminza' a lu quarantottu,

lustru cchiu la Sicilia nun s'ha vistu:

ogni passu di via 'n ' ominu mortu (1),

senza nicissità si fa delittu:

fari nun si putia nullu rapportu,

ognunu caminava a sò capricciu.

Li Principi nni ficiru stu tortu,

misiru la Sicilia 'n pricipiziu:

mmalirittu sarà lu quarantoltu,

e chill’omu ca s'havi suttascrittu!

Nni scarzaránu tutti li nimici (2),

l'omini 'nfami e li maleducati:

nun vi cririti ca beni si fici,

chi troppu farsi fóru li pinzati:

a nui lu quarantottu mali fici

chi l'omini dabbeni su’ 'ngustiati.

Villarosa cci dissi a lu Cunsigghiu (3):

— Chista liti pri nui sarà un mitragghiu (4),

nni vinni a la Sicilia stu ripigghiu (5),

e certu chi pri nui pigghiamu sbagghiu. –

Navarra cci dicia: Nun damu scossi:

li forzi di Sicilia sunnu bassi;

e damu accura nun jimu a la morti (6),

finiscinu pri nui li jochi e spassi.

Católica dicia:— Sparati forti!—

Comu 'na sarda a mari s'arribbatti:

— Curaggiu, nun tinimu cchiù la morti,

l'avvisu s'ha a mannari a tutti parti.

Settimu cci dicia: Vincemu forsi!

li Siciliani su' troppu riversi:

ma si la vinciremu, è la gran sorti;

'n Sicilia fidiltati nun cci nn'esti.

San Marcu cci dicia:— Dubitu forti;

mun li facemu nu ' chisti prutesti:

joinzàmucci; lu Re, ch'è veru forti,

ca c'un picuni nni rumpi li testi:

mancari ch ' hàmu avutu nu ' àutri ddotti (1)!

Sicilia ristirà 'ntra tantu eccessu (2)

(Bronte)

XLVIII-Annotazioni e Riscontri

La storia è un po' irregolare e non intera; ma è viva pittura delle contradicentisi opinioni e della confusione che regnava in quegli aneliti estremi della libertà siciliana nel maggio 1849. Autore della poesia è il contadino Ignazio Salnitro, nativo di Bronte e dimorante in Resuttano; a lui appartengono altresì La Vinuta di li Regii a Palermu lu 1849 e L'urtima timpesta di Missina, stampate dal PITRÈ nella cit. Bibl., vol. II. num. 923 e 925, pag. 187 e 189 e segg.


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XLIX-Lu quattru Aprili 1860

Ddopp'únnici anni di gran tirannia

di li Burbuni tiranni crudili,

la Sicilia era junta a l'agunia,

assacchiava sutta li catini (1):

la genti suspirava e cchiù 'un riggia;

Palermu si chiamo li so' fidili:

— Vögghiu mi dati libirtati a mia,

la forza 'un manca, si cc'è lu vuliri!

—All'armi, all'armi pri lu quattru aprili,

sangu pri sangu nu' l'avemu a fari (2):

Lu dicinu l'amici e li vicini,

lu dicinu li frati e li cumpari:

– All'ordini cuteddi e cutiddini,

scupetti, baddi, pruvuli e lupari (3);

sta setta impia l'avemu a finiri,

la Sicilia l'avemu a libbirari.

Palermu pari un mari ca cc' è carma,

la carma chi a marusu dipo' sbumma (4);

lu populu 'n sigretu si va arma,

di ura in ura nni crisci la chiurma.

Sbirri e surdati, ca cci trema l'arma,

di li 'ncantini nescinu li bumma (5);

filianu a squatruni pr' ogni banna,

sempri batti tammuru e tocca trumma.

E tocca trumma, puzzati scattari!

nni rumpinu lu sonnu di la notti:

un galantomu 'un po cchiù caminari

ca l'havi supra comu cani corsi.

Chi mala vita, chi malu campari;

cu’ sapi si dumani semu morti?!

sti carugnuna, àutru nun ponnu fari (1),

pri li vii, vii nni dünanu la morti.

La sorti veni, e pri nu' veni bona;

veni lu focu pri la vostra rama:

ca cc'è a la Gància, cc'è cu' vi li sona,

senti ca spara, senti ca ti chiama.

— Viva la libirtà! nisciti fora!

tutti li sbirri ardemucci la lana!—

All'armi, all'armi la campana sona,

tuttu a la Gància lu populu chiama.

E quannu all’armi la campana chiama,

s'arribbedda lu populu 'n Sicilia;

pri tutti banni nni curri la fama,

e li squatri nni vennu a milia a milia.

Fora, picciotti, cu la vostra lama,

la cutiddina chi fa tirribbilia;

pr'aviri libirtà la genti abbrama,

viva la libirtà di la Sicilia!

A centumilia surdati e sbirragghia

cùrrinu tutti, e la cosa si 'mbrogghia;

cumenza lu cannuni e la mitragghia

e trèmanu li mura comu fogghia.

Risu, cu l'autri pocu, a la battagghia (2)

stannu cu cori fermu comu scogghia;

trèmanu li surdati comu pàgghia

e la campana— all'armi cchiù li 'mbrogghia.

Chi dogghia amara, ca lu suli è fora,

e nun putemu gràpiri purtuna!

crisci lu focu e li surdati ancora,

e nuddu, ajutu a ddi valenti duna:

all'armi, all'armi la campana sona,

ma pari chi sunassi cu sfurtuna;

li Taschittara cummáttinu fora (3),

e nu' statu d'assèdiu e curduna!

Furtuna! fammi vinciri stu puntu:

di tanti sbirri la testa vurria;

a la tirata di ' ultimu cuntu

su ' la caciuni di la tirannia (2).

Carugnuna, lu tempu nun è ghiuntu,

cà li cosi hannu a jiri pri sò via;

cci hê jiri arre' cu la cuccarda 'n frunti,

e tannu 'un cunta cchiù la vostra jinia (3).

Com'ora, supirò la Pulizia,

lu Baruni d''u Càssaru vacanti (4);

ddi forti Patri su' a la Vicaria (5),

la Gància l'annittaru triunfanti (6).

Maniscalcu si misi in fantasia,

carzard li battagghi tutti quanti(7);

ora si, ca 'nzirtau la giusta via,

e cu Sarzana nni sunnu fistanti (8)!

Li sbirri nni passjanu davanti

e a tutti nni talianu ad occhi torti;

li putii chiusi e li strati vacanti,

cà ognunu sta cu dùbbiu di morti.

Sbirri! lu quarantottu 'un fu bastanti?

d''u Pantanu scurdàstivu la sorti (1)?

Havi a turnari lu tempu scuttanti (2),

cà la vinnitta grida a vuci forti!

Cu' morti e cu' tiruti li pigghiaru

li forti chi a la Gància cummattianu,

ma la ribbillioni 'un l'astutaru,

viva supra li munti la vidianu (3).

Palermu spera, ma fa chiantu amaru,

cc' è li Judei chi lu fraggillianu (4);

e fraggillati I cà nun su ' luntanu

li jorna ca dipo' vi marturianu.

Li senzii mi smanianu, e lu sacc' eu

di quantu feli cc' è a lu cori miu:

sbirri e surdati fannu giubbileu,

ficilanu a 'nnuccenti comu Diu:

ma vinirà pri vui lu cicciuleu (5)!

miatu cu' tasta di ssu sangu riu i

e tannu 'n' àutra storia vi fazz ' eu,

tannu palisirò lu nnomu miu.

(Palermo)

XLIX-Annotazioni e Riscontri

Questa e le seguenti narrazioni di fatti memorandi, accaduti sotto i nostri occhi, non hanno bisogno di lunghe note. I rintocchi della campana della Gancia, nell'alba del 4 aprile 1860, sono ormai celebri e segnano il punto di partenza di un'era novella per la Sicilia. L'ardimentoso fontaniere Francesco Riso, capo di quei prodi che primi versarono il loro sangue al 1860 per la libertà e unità della patria, cadde ferito a morte; Giuseppe Cordone, Damiano Fasitti e Francesco Migliore perirono con l'armi in pugno; Sebastiano Camarrone, Menico Cucinotta, Pietro Vassallo, Michele Fanaro, Andrea Coffaro, Giovanni Riso, Giuseppe Teresi, Francesco Ventimiglia, Michelangelo Barone, Liborio Vallone, Nicola Di Lorenzo, Gaetano Calandra e Cono Canceri, arrestati alla Gància, vennero fucilati poi dietro il Castello, a' 13 aprile. Gaspare Birona e Filippo Patti si salvarono tra le casse mortuarie della sotterranea sepoltura del Convento, e quasi moribondi per fame furono salvati dopo cinque di, con l'abile e pericoloso soccorso di alcuni popolani (1).

Intorno alla cattura de' battagli delle campane, ordinata da Maniscalco con l'infelicissimo pensiero di togliere il mezzo di appello ai liberali, corse clandestina in quei giorni una poesia: L'arrestu di li Battagghi, piena di sale amaro. Terminava cosi:

E Maniscalcu sentisi

(o dormi o vigghia o mància)

darreri, lu terribili

battagghiu di la Gància!

Una satirica Storia di li Battagghi venne in luce, anch'essa in un foglio volante, dopo il 27 maggio. Il MAROTTA, nel citato Riassuntu pueticu, pag. 63, ricorda in due ottave (215 e 216 ) la prigionia dei battagli, e dice che Palermo si ridea del meschino espediente, perchè i patriotti,

anchi senza battagghi, a lu cumannu,

cu marteddi e ca stanghi suniranou.

La Storia di lu quattru aprili, da Palermo, ove nacque, si diffuse rapidamente per l'Isola ed era notissima prima dello arrivo di Garibaldi. Un'altra, sull'argomento istesso, ne propagavano i Cantastorie; ha memoria soltanto di queste strofe:

Cantu chidd' ammirabili

orribili spaventu,

bisogna Palermu smòvisi

a stu gran tradimentu.

……………………………………..

E pri la Gància partinu;

lu santu fu sgarratu:

sbirri e gendarmi arrivanu,

lu focu hann' attaccatu.

………………………………………….

Poviri Monaci! foru arristati,

a la Casteddu foru purtati,

a cunsigghiu di guerra li misiru già.....


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L-La Rivuluzioni di lu 1860

Doppu lu milli e lu seculu ottavu,

l'annu di lu sissanta s ' avvirau

chi Franciscu secunnu arristau scavu,

la sua suvranità si degradau.

Finu a li tempi di sò Nannu avu (1)

nni prummisiru tantu, e po' nigau;

ora, ca fici lja cu Piu Nonu,

vitti lu lampu cu tuttu lu tronu.

Lu populu nn'abballa senza sonu

pirchi nni spera la sò libirtati,

junci 'Aribaldi in maistà di tonu (2)

ed onta fici a tutti li surdati.

Francischeddu è cadutu di lu tronu,

tutti li so' Ministri sdirrubbati.

Comu sbarcaru li Piamuntisi,

hannu fattu triunfu ogni paisi.

'Aribaldi a lu Regnu cci prummisi

ricchizza, libirtà e tranquillitati:

Franciscu II so' truppi l'happi prisi

ed anchi un grossu numaru ammazzati:

Calatafimi, assa' nni foru occisi;

a Partinicu, forti struppiati (3):

ma era cosa ca avïa locu,

sbinciàrisi facennu saccu e focu?

Lu Ginirali dava chistu vocu (4)

e cumannava a li so' riggimenti:

—Comu jiti 'ncugnannu, a pocu a pocu

bruciati tuttu e nun lassati nenti;

dunni passati, attaccativi a focu,

lassati a tutti 'nfilici e scuntenti.—

Una simuli cosa 'un la dicia

dda stissa Francia di gran tirannia (1)!

Veni 'Aribaldi e la sò cumpagnia,

ch'è chiddu chi la Tàlia ha difisu;

cu li so' piani e la sò valintia,

lu 'nfernu l'ha riduttu un paradisu.

D'allura, ogni populu dicia (2):

– Nui semu tutti cu l'armı suspisu.

Doppu, si vitti ca st'Omu di 'ncegnu

a quattru corpa trasiu 'nta lu Regnu.

'Aribaldi hà statu lu sustegnu

contra la tirannia di li Barbona,

omu di spirienza e omu degnu

ca pri lu munnu la sò vuci sona.

Lu populu a Franciscu l'havi a sdegnu

pirchi la sò cunnutta 'un era bona;

la cosa era veru mala misa,

vinnia li so ' vassalli a spacca— e— pisa.

Appena cci lassava la cammisa

e l'occhi sulu quantu lagrimava;

un poviru, chi stava quantu pisa (3),

’un pagannu li tásci, l'abbruciava (4):

anchi nn' aviamu la pirsuna offisa

quannu unu, a li tanti, si lagnava (5):

eramu suttamisi fortementi

di stu 'nfami tirannu priputenti.

Ma ora cci pinzau l'Onniputenti

e di lu celu mannau lu riparu:

comu vinni ' Aribaldi lu valenti,

li truppi di Barboni s'appagnaru;

cu' pigghia a lu livanti e cu' a punenti,

cu' si potti sarvari, si sarvaru;

pirchi ognunu dicia:— Peddi pri peddi,

megghiu la sua ca di li puvireddi. —

Vidiavu ad ogni cruci di vaneddi

li poviri chi ghianu gridannu:

— Sti cafuna si fannu ricchi e beddi,

e nui lu pani jamu addisiannu (1)!—

Tuttu lu munnu addivintau purteddi,

la quasanti stu Re tantu tirannu,

ca pri l'eccessu di la tirannia

persi lu Regnu e la paci ch'avia.

Franciscu tuttu chistu lu sapia

ca lu populu sò fu angariatu,

e nun cci fari nudda curtisia,

nun cci fari nemmenu un attu gratu!

Ora è caduta la sò dinastia,

scutta lu tristu tempu ch' ha rignatu;

lu populu cci grida a vuci forti:

— Fora Barboni! chi vaja a la morti!—

Riali Majstà, vùtau la sorti,

chiancemu anticchia pr'unu a la sbintura (2);

li so ' Ministri, ca parianu accorti,

cci hannu scavatu la sò sipurtura.

Nui nni pruvamu assaccuna di morti!

Majstà, ora vinni la sò ura:

eu cci lassu stu muttu apprupriatu:

«Cu' troppu si fidau, s'asciau 'ngannatu».

Ora ha trasutu lu gran pisci spatu,

chiddu ch'ha occisu tutta la tunnara;

lu pisci grossu lu nicu ha manciatu,

la petra si truzzau cu la quartara:

di facci, Majstà, cci l'ha pagatu (3)!

tirava se' ducati e fici zara!

Ora gridamu tutti in unioni:

—Viva la Talia e la Custituzioni!—

O genti chi guditi opinioni,

vogghiu ch'esaminati stu trattatu:

'nta quattru jorna, e nun è tinzioni,

tuttu lu Regnu hà vistu arrivutatu;

ogni valenti a la guerra s'esponi

pr' assicurari lu gran risultatu,

e Pepè cu la sua pussenti armata (2)

l'ha avutu bona la grannuliata.

Sicutannu la guerra sparaggiata,

'Aribaldi nni fu pirsicutatu;

cci fici a Boscu 'na vota—canciata (3),

trasiu 'n Palermu e si nn'ha 'mpusissatu:

fu tutta la citati barricata

pirchi 'Aribaldi st' ordini l'ha datu;

comu a Porta di Termini trasiu,

la truppa di Franciscu s'attirriu.

E quannu a lu Preturi arrisidiu (4)

cu tutti quanti li Piemuntisi,

l'omini di lu Regnu riuniu,

cà cc' era squatri di tanti paisi.

Cu tri ghiorna di focu la finiu;

cci foru chiddi morti e chiddi offisi;

po ', comu tirminau lu muncibeddu (1),

si pigghiau lu Palazzu e lu Casteddu.

Amaru di Franciscu puvureddu,

e cu' cci la purtau ssa mala nova?

Ha statu ' Aribaldi lu marteddu,

ca nisciu 'n quinta e cci 'ncarcau li chiova:

cci ha purtatu li truppi a lu maceddu;

ora lu vidi a chi puntu si trova:

Majstà, quann' è tempu di mal' ura,

cu' l'havi, si la chianci la vintura.

'Aribaldi la forza s'assicura

e 'mbarca pri lu portu di Milazzu

cu varchi in quantitati e cu vapura,

omini cu li varvi e lu mustazzu (2).

Ognunu si purtau la sò armatura

pri dari a ddi cafuna lu strapazzu:

chiddu chi cumminau lu Ginirali

paria di notti 'n' armata navali.

'Aribaldi suffriu li primi mali,

happi fatta 'na scossa a tradimentu.

Doppu, arrancaru tutti li pugnali (3),

curreru cu 'na furia di ventu;

a lu cumandu di lu Ginirali (4):

si vitti 'ntra Milazzu un gran spaventu,

e dd' afflitti e mischini Milazzisi

cci ha fattu sacchiggiari lu paisi.

L''Aribaldini fidili e curtisi,

ubbidienti sutta lu cumannu;

e Caribaldi in tutti li so' 'mprisi

sempri ha circatu di lu menu dannu:

nun voli genti morti e mancu offisi,

fa li piani 'ncignusi e va 'ncugnannu,

e quannu l'havi sutta la sò spata

cci fa 'na sanguinusa scarricata.

Comu vitti la truppa rinculata,

ch'avia supra lu mari la cruicera,

e tannu cafuddau 'na ciancunata

e fici di surdati 'na tragera.

Avanti chi sunau la ritirata,

Aribaldi spiaciu la sò bannera:

foru tanti li morti e li firuti,

ca a Milazzu ristaru scuraggiuti.

Cc'eranu lanti di li ritinuti (1),

li Principi e li Nobili 'migrati,

li squatri di lu Regnu risoluti,

chi ghianu tutti contra li surdati.

Franciscu cci ha appizzatu la saluti

sintennu sti scunfitti scunsulati:

stu munnu parti è a risu, parti a lutti,

Majsta, 'na vota promu, tocca a tutti.

Majstá, pri sta vota si l'agghiutti,

voli fari di Diu la vuluntati!

cà li Siciliani uniti tutti

gridanu forti: Viva ' a libirtati!

Nun cci sarannu cchiù ddi cosi brutti;

nni ridirannu tempi cchiù biati;

nu' vecchi nn'hàmu avulu danni e guaj!

cu' campa ed è picciottu, godi assai.

Li danni di Barboni e feri guaj

scurdari nun si ponnu onninamenti,

l'abbusi e tirannii crudili assai

chi làgrimi sprimeru a tanti genti!

Diu nni detti la grazia e cci arrivai

vidiri subbissarilu 'ntra un nenti;

li tri culuri a la bannera aviti,

Siciliani e Taliani uniti.

Cari fratelli, partiti, partiti,

marciati pri lu portu di Missina,

faciti forza quantu cchiù putiti,

nun vi scantati di la culumbrina!

Marciati allegri e nun ri scuraggiti,

jiti azzardusi, faciti ruina;

cc' è Caribaldi ch' havi tanti menzi

e l'approvanu tutti li Putenzi.

Franciscu ha avutu dumila 'nclimenzi (1)

quantu nun cci ha pututu riparari;

nni sintirà la pena di li senzi (2)

lu Re putenti e riccu di dinari.

Li populi jittavanu sintenzi (3),

jeru la Citatedda ä 'ssidiari (4):

'na parti di surdati si nni jeru,

e lu restu 'n Sicilia s'arrinneru.

S'ha vistu cu la prova, certu e veru,

li truppi di Franciscu s'appagnaru;

cci foru ddi 'nfilici chi mureru,

cu'cci potti scappari, cci scapparu:

a Trapani, ca mancu si batteru;

a Palermo e Milazzu s'attaccaru:

comu trasiu ' Aribaldi a Missina,

squag: hiaru tutti comu l'acquazzina.

(Partinico)

L-Annotazioni e Riscontri

Autore di questa poetica storia è Antonino Oliveri, soprannominato Giuranedda, povero campagnuolo di Partinico, morto vecchio circa al 1864. Compose molte canzone e storie, le più di sacro argomento, che godono di molta popolarità: degno di speciale nota è Lu Tistamenti poesia affettuosa intessuta di proverbj e composta poco innanzi ch'ei morisse, per istruzione e avvertimento a' suoi figli.

Moltissime storie e canzone celebrarono la rivoluzione del 1860 e i suoi episodi: oltre a quelle che io stampo, ricordo Lu cummattimentu di Calatafimi, Lu sbarchitu di Canibardi a Marsala, Lu saccu e focu di Carini, Lu sacou e focu di Partinicu. La trasuta di Canibardi a Palermu, Lu bummardamentu di Palermu, La caduta di Francischeddu, La scunfitta di Pepe, ecc. ecc., storie oggi io gran parte dimenticate, ma allora diffuse dapertutto dai Cantastorie. Altre molte, pure in vernacolo, ma non di popolo, ne vennero a luce in fogli volanti, ed hanno anch'esse speciale importanza. Nella mia raccolta di Canti popolari (num. 740 e 741, pag. 286—287) se ne leggono due intorno alla rivoluzione e alla venuta di Garibaldi; altri due se ne trovano nella cit. Raccolta amplissima (cap. LVI, num. 5205, p. 686, e 5245, p. 689). Uno stornello, inedito, ricorda la coccarda tricolore e la camicia rossa garibaldina di que' giorni lieti e fortunosi del l'està del 1860:

Ciuri cucuzza!

E ora l'amuri miu lesu mi passa

cu la cuccarda e la cammisa russa!

(Palermo)



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LI-La finuta di li Sbirri a lu 1860

Eranu misi tutti in alligria

ii Sbirri tutti uniti e triunfanti

ed ognedunu gran festa facia

pirchi la ’nfamità passava avanti (1).

Suggettu ogn'omu 'ntra la tirannia,

s'era giustu, passava pri birbanti,

ch'era patruna cca la Pulizia,

lu Diretturi furmava rignanti.

Era birbanti assa' lu Diretturi,

'n pulitica facia dd'amurusanza (2);

e Franciscu l'aveva pri tirruri

ca tinia la Sicilia 'n valanza;

cci dava gradi e cci assignava onuri,

midarshi di valuri e di sustanza;

cu carta bianca, Nubiltà e Signuri (3),

a fari mali assa' cci detti anza.

Maniscalcu, unn’ l'anza e lu talentu?

Lu munnu ti traversa ad ogni cantu;

nun sempri dura, no, lu gudimentu,

lu tantu risu po' ritorna in chiantu.

La tó vita sarà lu stissu ventu,

a tutti arrivirà ddu Cristu Santu (4);

furmavi gran tirruri e gran spaventu,

ed ora stai trimannu di lu scantu!

Carreca, tu si' tantu trasfurmatu (5)!

'n Sicilia ti cridivi senza paru!

e quantu össa a poviri ha’ stuccatu

quannu sutta vinianu a lu tò scaru!

ch' eri rignanti in Cummissariatu,

ti sintivi cchiù forti di l'azzaru:

lu Celu lu so sdegnu t’ha mustratu,

la sintenza è di morti, 'un cc' è riparu.

Puntillu, lu succaru quannu davi

cu tanta 'nfamità, cu tantu abbusu,

supra l'umanità t'allianavi (1),

o pezzu di carogna e schifiusu!

Lu tempu quali vinni 'un l'aspittari,

ti cridivi lu Celu essiri chiusu!

e chiddu tempu, quannu billiavi (2),

ti cagiunau la morti e si' cunfusu.

Certu, nun t'aspittavi stu marusu,

ti cridivi 'n Sicilia patruni;

'nutuli, o surci, ora cerchi un pirtusu (3),

cá nisceru li gatti di tirruri.

A tia, cu l'autri surci, o schifiusu,

v'hamu a tagghiari li testi e li curi;

finiu lu tempu vostru putintusu (4)

ora si grida: —Morti a li sbirruni!—

Spitturi Ferru, Piddu Surrintinu,

Duché, Dinaru e Pitricchiu Scrivanu,

v'ha ghiunciutu di novu lu distinu,

v' aspetta ognunu cu lu ferru 'n manu.

E Cicciu Brunu, lu gran malantrinu,

si cridia chi lu munnu fussi 'n chianu;

ch'èravu locchi o paru misi a vinu?

vi scurdàstivu forsi lu Pantanu?

Nisceru 'n chianu anchi li Taschittara,

tutti li suttirrànii spiuna;

ma su’ ridutti cu la vucca amara

cà li baddi cci formanu curuna.

La sintenza nisciu cu lingua chiara:

«Ramu sigretu e classi di Sbirruna

«ccà cu festa 'n Palermu si cci spara,

«e accarpánnusi Sbirri, 'un si pirduna».

Sbirruna, riuniti lu baraltu (1),

pri li vostri cajordi ora cc'è luttu:

ch'un rótulu du' ra' la carni accattu (2),

tantu lu Sbirru è porcu, vili e bruttu.

Pri li Sbirruna cu cori cummattu,

sta vili razza, mora senza fruttu;

di quantu 'nfamità ch'aviti fattu,

la sintenza nisciu: «Sutta un cunnuttu (3)».

(Palermo)

LI-Annotazioni e Riscontri

“Fierissimo era nel popolo (di Palermo) l'odio contro i birri per i soprusi, li insulti e le torture sofferte: erano costoro mostri a viso umano, che nel tormentare i loro simili deliziavansi, che di non aver pietà davansi vanto, che la loro gloria riponeano nell'essere esecrati e temuti. Segno all'odio di tutti, e alle vendette di molti, i birri combatteano nella rivoluzione come chi sa che combatte per la vita, imperocchè il popolo era magnanimo co' soldati napolitani, che dicea nemici, inesorabile co' birri siciliani, che dicea traditori e carnefici della patria.”

Queste parole, che Giuseppe La Farina scrivea pel 1848 (Istoria docum. della Rivoluzione sicil., cap. II), ben possono ripetersi con più ragione pel 1860: e il popolo siciliano, nei giorni che seguirono il 27 maggio, disfogò l'ira e l'odio con vendette inumane e fiere: l'autorità di Garibaldi impedì, però, che si venisse agli eccessi del 1848.

Nel luglio del 1860 in un foglio volante venne a stampa, col titolo: La scunfitta di li Sbirri, la presente storia, ma con una stanza di meno (la 6°) e con molte varianti, certo non preferibili alla lezione ch ' io ho raccolto dal popolo. Vi si legge, sotto, il nome del poeta, un Pietro Quatrino; dubito forte però di questa paternità, perchè la storia corse anonima prima che si stampasse, e perchè d' ordinario le storie politiche, e massime del genere di questa, difficilmente portano nome d'autore. Un Francesco Quatrini, poeta popolare, viveva circa al 1842 in Palermo, ed io posseggo uva sua Storia di “Sull'onuri”, stimpata in un foglio volante. Chi sa che a questo Quatrini, con nome sbagliato, non toccò ad essere il padre putativo della Finuta di li Sbirri!

Al 1860 vennero ancora fuori sull'argomento, sempre in fogli volanti, le seguenti storie poetiche semi-letterarie: Palermu nun arrà cchiù sbirri; Li Gatti nisceru e li Surci fujeru; A Maniscalcu ed a tutta la Sbirragghia; La nova riginirazioni italiana e la morti di li Sbirri burbuniani, innu di requiem aterna all'infami, ed altre che più non ricordo.


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LII-La Battagghia di Milazzu a lu 1860

Discurru non di primu e non di fini (1),

cuntu di Caribardi lu talentu:

vicinu di Milazzu, o miu Carini (2),

vintunu lugliu fu cummattimentu.

Ju comu ll'haju ’ntisu sú cuntentu,

fujeru settimila Napulitani;

riccuntari vi vogghiu lu talentu

di du' mila cincucentu Taliani.

E Caribardi, primu Generali

ca d'ogni guerra porta vincitoria,

cci ha jiutu 'n puppa a li Napulitani (3),

arristirà a stu munnu pri memoria.

Li Taliani portanu vittoria

ccu tutti pari li Siciliani,

Gesù Cristu cci ha datu tanta glòria

di vinciri a sti rei Napulitani.

Mentri chi Boscu si duna di fari

e duna focu a lu forti cannuni,

intra di nui nni mintemu a parrari

di Caribardi e di lu sd valuri.

Sintiti, ca vi cuntu li tinuri,

cà ju jera a Catania e lu 'ntisi,

partièru di Missina li 'nfamuni (4)

pri dittu di lu Cunsulu francisi.

Ju allura livai l'ànguru e mi misi (5),

partii di Catania 'nta un mumentu,

a bista di Milazzu mi ji a misi,

pi bidiri lu forti attaccamentu (6).

Uora criditi lu cummattimentu,

e Caribardi ca cci avia la sorti,

cummattévanu cchiù forti di lu ventu,

e l'haju vistu ju ccu li me' occhi (1).

……………………………………………………..

Lu Capitanu vuleva turnari,

e Caribardi cci chiusi la strata;

lu sò cavallu cci ha jiutu a pigghiari:

—Arrenniti, o arma scelerata!—

Lu Capitanu sfodera la spata,

a Caribardi vuleva ammazzari;

ma Caribardi ca paria 'nna fata,

lu corpu si lu sappi arriparari.

Caribardi la sciàbula vùtari

fici ’nta un corpu comu la Giuditta,

e mortu 'n terra lu fici cascari,

d' 'u Capitanu nni fici minnitta.

Quattru surdati ccu 'i sciàbuli addritta

jevanu contra di lu Generali;

ma Caribardi ccu la sò listrizza (2)

morti ddá 'n terra li fici cascari.

Quosisi jera, e 'n'autru Generali (3),

manu a düi surdati cci jttàu;

morti pri terra li fici cascari,

lu cavaddu a lu terzu cci ammazzau (4).

……………………………………………………..

(Fleri)

LII-Annotazioni e Riscontri

Mario La Futa, villico analfabeta nato al Fleri (Etna) al 1838, è l'autore di questa storia, ch'egli verseggiò in Catania in luglio 1860, dopo aver sentito leggere una corrispondenza d'un Giornalista, diretta a Giacinto Carini, intorno alla battaglia di Milazzo. Grazie al mio egregio amico G. Lodi, io ho sott'occhio la Corrispondenza, che fu dal La Fata messa in versi: La battaglia di Milazzo: lettera di ALESSANDRO DUMAS al Brigadiere Giacinto Carini, Ispettor generale di Cavalleria (Palermo, Stamperia Meli; in 4°, di pag. 4), e reca la data di Milazzo, Sabato 21 luglio Confronta ancora, in proposito: La campagna di Milazzo nella Guerra d'Italia dell'anno 1860, descritta dal bar. GIUSEPPE PIAGGIA (Palermo, Tip. del Giornale Officiale, 1860).


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LIV-La Guerra di lu 1866

L'annu sissantasei mill'ottucentu

Vittoriu nni fici la chiamata (1):

«Ogni surdatu a lu so Riggimentu,

«puru li cuncidati chi su' a casa.»

Cunsidirati chi beddu mumentu,

lassari la famigghia angustiata!

li matri, ca facianu lamentu,

e pri li patri fu 'na cutiddata.

Nni dicianu:—Cori allegrul fati strata,

cà ora pri la Tàlia si cummatti!

cu l'Ostréci håmu a fari 'na sbinciata (2),

hàmu a ghiri a Vinėzia a chiddi parti!—

Nn'accumpagnava a nui la musicata

e: – Viva!— uni dicianu ad ogni parti:

nu' l'hàmu fattu 'na bona marciata,

tri ghiorna di cuntinu a longhi tappi.

A menza notti s' happi ordinativa:

«Márcia di cursa, uji cc' è battagghia».

Ddi tanti Ginirala a cummitiva

parraru, e dipo' ognunu si sparpagghia.

Lu Geniu e lu Trenu chi curriva

cu li cannuna parati a initragghia;

li Virsagghieri gridávanu: — Evviva!—

currianu di cursa a la batlagghia.

E cu' cci 'ngàgghia, amaru mischinu!

tinta dda matri chi lu figghiu cci havi!

Lu Trenu cannuniava di cuntinu,

àutru nun cc'era chi scupittiari:

avïa cu tri uri di matinu,

áutru nun cc'era, marciari e sparari;

arsi a lu suli, senz'acqua ne vinu,

cu lu pettu a li baddi aviamu a stari.

Jàvanu e vinėvanu li Ginirali,

dicianu: — Avanti! facitivi onuri!—

E la Cavallaria riposu 'un nn'havi,

currïa a tutti banni cu valuri.

Li primi chi cadianu, Offiziali;

di li surdati assa' morinu puru:

st' Ostréci, arrabbiati comu cani,

parávanu e sparavanu a fururi.

Tanta la cunfusioni e l'attirruri,

e la trumma ca mancu si sintia;

bummiava dda vucca di cannuni (1),

truppa e cavaddi e árvuli abbattia.

– Avanti! – cumannava lu Maggiuri;

quasi ch'è spersa la sò cumpagnia;

li surdati cadianu abbucéuni,

ca mancụ putianu diri: – Gesù! Maria! –

'Na simuli tra gera 'un si cridia;

cc' eranu tanti Riggimenti armati,

li Virsagghieri e la Cavallaria,

lu Trenu e Ginirala ammintuvati!

Vittoriu a lu campu puru jia

pri dàricci curaggiu a li surdati;

li proprii so ' Figghi ddà l'aria

cu lu pettu a li baddi ssa jurnata.

Jurnata chissa fu singaliata,

vintiquattru di giugnu, San Giuvanni,

chi noi purtaru a la mala passata;

quantu nni morsiru figghi di mammi!

Quannu dipo' sunau la ritirata,

li nostri mancamenti foru grandi,

chi ristaru a lu campu e pri la strata

dda giuvintù 'ntra lu ciuri di l'anni.

Assai foru li morti e li danni;

pri li firuti jianu li dutturi,

chi cu 'nguenti e cu fasci a tutti banni

stagghiavanu lu sangu e lu duluri.

La festa 'un rispittaru a San Giuvanni,

ca è gran Santu ch'è dignu d' onuri (1);

cu ' lu prijau di cori a ddi malanni,

la vita nn' accanzau ’nta ddu fururi.

San Giuvanni, chi fu lu prutitturi,

mi detti a mia la sarvazioni;

la Matri di lu Ponti e lu Signuri (2),

l'hê chiamatu cu lidi e divuzioni:

cu tanti scanti, priculi e duluri

sù ccà, cu li me' genti in unioni (3);

quannu penzu a ddu jornu di tirruri (4),

tutti ddi morti li vju 'n visioni.

(Partinico)

LIV-Annotazioni e Riscontri

Mi viene assicurato essere, la presente storia, fattura del villese Giovanni Geraci da Partinico, il quale la compose al suo ritorno in famiglia, finita la campagna del Veneto, ov'ei si trovò.

Non ho potuto avere altre notizie di lui: i versi raccolsi dalla bocca d'un contadino, già suo compagno de' lavori campestri.

Dunque, il non rispettare la festa di San Giovanni fu causa del doloroso disastro di quella giornata!


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LV-La Sicilia a lu 1866

Oh chi m'abbinni lária

l'annu sissantasei!

La mula junciu a lu fùnnacu (1),

juncemu a li nuvei (2).

Iu, doppu tantu patiri,

lu juvu mi livai;

cuntenti ca era libbira,

cu un si mi maritai.

Sácusu a quannu fui (3)!

turnai a la catina.

A terra! A terra! dissiru

la razza marranchina:

e súbbitu mi scippanu

la gulera e li circeddi,

la spatuzza d'argentu

e puru li me' aneddi;

lu mantu mi lu strázzanu,

si pigghianu la vesta;

cu bastunati orribuli

di mia ficiru festa.

La genti chi mi vidinu

sla cammisedda sula:

Cu' è st'amara fimmina

chi va chiancennu nuda?

E quannu po' mi vittiru

li carni ’nsangunati:

— Oh povira Sicilia!—

chianceru di pietati.

Riddutta a la limosina,

morta di friddu e fami,

la strata haju pri lettu,

quant' ha' ch''un vju pani!

Nun cchiù bedda Sicilia

grassa, valenti e leta;

matri di fami e trivuli,

ognunu mi 'ncujeta.

Ora, tutti mi nocinu (1);

mancu i 'na donna trista

cci vennu sti 'mproperii,

'na sorti comu chista!

Ddu spusu me amabuli

ca mancu mi talia;

cchiù nun mi guarda e veni,

cu àutri billia (2).

Li figghi me' amurusi

cu iddu si l'ha l'urtatu;

l'ha spersu a locu stråniu,

li brazza m'ha tagghiatu.

Luntanu, dda, nun sèntinu

lu chiantu chi fazz' iu;

cu ' sa, la guerra barbara

quantu mi nni strudiu!

Li Re godinu a tavula,

lu cori so è cuntenti,

a zicchinetta jocanu (3)

lu sangu di li genti.

Mi vugghinu li sångura

binchi debbuli tutta,

nun manca, no, lu spiritu

binchi la forza è rutta.

Dari 'na forti scossa:

ha' a vèniri ssu mumentu!

E comu si pò soffriri

stu granni tradimentu?

Su ' tanti l'angarii (4)

Fruttatu e funnuària (1),

tàscia ricchizza mòbbili,

polisa strafalaria (2)!

Li gran pezzi di dudici (3)

vularu a chiddi parti;

gran cảnciu chi mi déttiru

cu sti galanti carti!

Lu tempu è fattu niuru,

vinniru arre' li lutti:

comu si po resistiri?

hâmu a finiri tutti?.....

Sentu friscura d'àriu,

lu celu è picurinu (4);

'nca cc'è spiranza, populi,

la burrasca è vicinu!

(Monreale)

LV-Annotazioni e Riscontri

È questa la più discreta e pubblicabile delle storie, che corsero presso una parte del popolo nel 1866, e massime in agosto e settembre, rivelatrici di grave malcontento contro il Governo dell'unità; malcontento fomentato allora da' borbonici, che nelle novità cercavano alcun raggio di speranza, e secondato da pochi forsennati, gente abjetta e malvagia e venduta. Queste storie precessero il sollevamento della plebe di Palermo nel settembre 1866, e lo spiegano in parte. Il vero popolo, che le udi attonito allora e spaventato, le ha oggi quasi affatto dimenticate; e questo l'onora. Quella, che jo pubblico, la do come documento di giorni e di errori deplorevoli, che disgraziatamente non si possono cancellare dalla storia. Qualche canzone, riferibile a quel tempo, si può leggere in Pitrè, Bibl. cit., vol. I, num. 575 e 576 (pag. 405—406) e nella Raccolta amplissima cit., cap. LVI, num. 5206, 5207, 5209, 5209, 5217, 5236, 5240 (pag. 686—689): altre ne serbo inedite io.


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LVI-Lu Setti-e-menzu (1)

Lu vittimu, lu persimu di vista,

lu Setti— e—menzu duro veru picca,

ca mancu è bonu chi si nota a lista (2)?!

Morsi affucatu comu gatta licca!

Gridávanu: — Reprubbica!— a la vista (3);

fu pri spugghiari la genti cchiù ricca;

cà nisciu 'n menzu chidda razza trista

chi cu la robba d'àutru cci licca (4).

A picca a picca vi vurra' cuntari

conformimenti luttu lu tinuri;

li spezzacoddi misiru a 'ncugnari

di li Purrazzi 'mmeri li nov'uri (5):

ddocu, vi cuntu, misiru a sparari,

pigghiaru lu fujutu li custuri (6);

li porti aperti cci jeru a lassari,

e traseru 'n Palermu li bircuni.

Tutti li strati su' misi a rimuri

jurnata di duminica matinu;

giranu fora chiddi Suprajuri,(7)

vannu appillannu ogni citatinu.

La quasanti nni fui lu Custuri,(8)

jucau cu la průli e lu cirinu (9);

la morti di triccentu criaturi (10)

cci ha' a pisari a lu cori di cuntinu.

Li baddi chi chiuvianu sicutivu (1)

di tutti li vaneddi pari, pari.

Lu Sinnacu, di veru citatinu (2),

jia appillannu la Guardia Naziunali:

li Granateri, misi di currivu,

cummattianu di veri militari,

e forti a lu Prituri li vidivu

cu chiddi Bavarisi cumunali (3).

Tutta la truppa a Palazzu Riali

pinzàvanu difenniri la citati;

'n'autra partita a lu Casteddammari

ed a la Vicaria su' divisati (4).

Li squatri si vidianu annavanzari (5)

e ghianu facennu barracati:

quann'un Carrubbineri jianu a 'bbistari,

cci tiravanu senza pietati.

Facianu ruina li carzarati

ca di la Vicaria nesciri vonnu,

e li Murrialisi a scupiltati

dda forti Vicaria gràpiri 'un ponnu.

Mali cci abbinni pr' essiri ostinati,

Miceli ddà cadiu, a ddu cuntornu,

cà tuttidui li gammi cci ha livati

'na badda di cannuni a capustornu (6)

E tuttu 'ntornu li strati vugghianu

di chista genti mala e marranchina,

e:— Viva la Reprubbica! dicianu

pri fari a li palazzi cchiù rapina.

Supra di li Batii si mittianu

sparannu sempri a la diavulina (1);

a li boni citatini l'attirrianu,

sti squatri eranu cchiui di la rina.

Agghiurnannu lu mercuri matina

vinniru li vapura taliani,

vinni truppa di Napuli e Missina

pri dari contra, tutti, a sti scarani:

e ficiru 'na granni sparatina,

li granata abbiávanu di mari:

lu venniri cci déttiru li pira (2),

sparannu s'avanzau lu Ginirali (3).

Iddu avanzau pri Palazzu Riali,

a l'Alivuzza ficiru l'attaccu;

li Birsagghieri a forza di sparari

a ddi squatri cci déttiru lu smaccu,

ca mancu si po esprimiri e cuntari

la granni furia di ddu feru attaccu:

li citatini tutti a giubbilari,

la truppa, di ddi tristi nni fa maccu.

L'ultimu attaccu nun cci arrinisciu,

l'happiru bona la vattuliata (4),

ognedunu, lu sábbalu, fujiu,

Palermu salutò la paci grata.

Po', lu Cuvernu a tutti li cugghiu

e cci detti la junta ben furmata;

tuttu Palermu cci turno lu briu,

ogni famigghia si vitti sarvata.

Ora viditi chi catapanata (5)

pri sta matta di latri marioli (1)!

fari guerra contru la nostra armata

comu si nun cci avissimu figghioli!

Quann'iu li vitti passari la strata,

nun happi àlica a diri dui paroli;

po', comu 'ntisi 'na Guardia sparata (2),

di lu duluri mi mancò lu cori.

Sti crudi cori su razza surcigna,

vonn'jiri spirtusannu macaseni

e fari la ricota e la vinnigna

a li costi di l'omini dabbeni:

ma lu tempu finiu di la gramigna,

finiu lu tempu vostru e cchiù nun veni,

cả lu sissanta a ssa razza maligna

l'ha subbissatu cu li so' banneri.

La Tàlia teni àuti li banneri,

l'addifenninu tanti Ginirali

oniti a tanti patriotti veri

e cu li nostri truppi tantu bravi:

e cc'è chiddu re nostru Manueli

ca di li populi si fa rispittari;

lu tempu ch'è passatu cchiù nun veni,

la tirannia si jiu a vurvicari.

(Palermo)

LVI-Annotazioni e Riscontri

Questa istoria mi dettava, nel maggio del 1879, Vincenzo Di Giovanni, pizzicagnolo nato in Palermo al 1827, che n’ era autore. Uomo senza lettere, ha svelto, penetrante e vigoroso r ingegno, come aitante il corpo e si florido, che a 52 anni non se gli potrebbero assegnarne che 30 appena. Di spiriti sinceramente liberali, uvea combattuto per la libertà al 1860; poi si ritrasse in famiglia, tra cinque figli, al cotidiano lavoro. In settembre 1866 fu vittima della ribellata bruzzaglia, poiché, violentato, dovette apprestare senza danari i suoi caci e salami Egli mi narrava con orrore la uccisione di un Guardia municipale, avvenuta in via Candelai, ov’egli teneva bottega: l’accenna nella storia poetica, alla stanza 11.

Sui dolorosi avvenimenti del Setti—e—menzu, oltre alle Relazioni ufficiali del Prefetto, del Sindaco, del Questore, dell’Arcivescovo, consulta: Storia di sette giorni, ossia cenni storici degli avvenimenti seguiti a Palermo nel settembre 1866. Seconda edizione (Palermo, A. Di Cristina, 1867): — Le sette giornate di Palermo (Palermo, M. Amenta, 1866): — VINCENZO MAGGIORANI, Il sollevamento della plebe di Palermo e del Circondario nel settembre 1866 ecc. Terza ediz. (Palermo Stamp. militare, 1869): — GIUSEPPE CIOTTI, I casi dì Palermo, cenni storici sugli avvenimenti di settembre 1866(Palermo, G. Priulla, 1866): — Giacomo Pagano, Avvenimenti del 1866: sette giorni d'insurrezione a Palermo; cause, fatti rimedi(Palermo, F. Lao, 1867), ec. ec.


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NOTE

(1) Non vi comprendo le quattro, che portano i num. 4727, 5025, 5050, 5070, perchè contraffazione letteraria recente.

(2) Liggenna vuschittera.

(3) Nigra, La poesia popolare italiana, pag. 21:— RUBIERI, Storia della poesia popolare italiana, parte seconda, cap. V, pag. 301.

(1) La Baronessa di Carini, pag. 25 e segg.

(2) D'Ancona, La poesia popolare italiana, studj.

(1) Vedi le mie Storie pop. in poesia sicil. riprodotte sulle stampe dei sec. XVI, XVII e XVIII, e lo scritto, che darò prossimamente in luce, intorno ad alcuni canti popolari siciliani trascritti nei secoli XVI, XVII e XVIII.

(1) D'ANCONA, op. cit., § V. pag. 111. E cfr. Nigra, opuscolo cit., pag. 16, 22 ecc.

(2) La Baronessa di Carini, pag. 33 e segg.

(1) Esempio: dri— fri— dri— fri ecc. Vedi Nigra, loc. cit., pag. 15.

(2) Ecco un esempio di tutti e due i casi, che può servire anco per esempio della consonanza atona nelle rime contro—alterne:

1. Ninu cu Brasi scappanu a buluni,

e appressu d'iddi li cani 'mmistini. (versi 7—8 )

Doppu di tantu curriri, a la fini

li dui frated di si trovapu suli, occ. (versi 1—2)

2. Ninu cci fa li 'nsigni a la sd amanti,

tràsiri spera e ristari cuntenti. (versi 7—8)

Ma 'n tempu un nenti, ſora lu purtuni,

armati di Blecci e di scarcini ecc. (versi 1—2 )

(3) Vedi anche, in proposito, i versi che il poeta popolare Andrea Albano ci lasciava nella sua storia satirica: Li Zappunaredda ziti, versi ch'io ho messi ad epigrafe di questa raccolta (pagina XXXI).

(1) Vedi ai numeri IX, XIV, XVII, XXVI e XXVII.

(2) Consulta: Pitrè, Biblioteca delle tradis. pop. ricil., vol. III, pag. 252 e segg.:— SALOMONE—MARINO, Storie popolari in poesia siciliana, riprodotte sulle stampe ecc. pag. 62 e seg.

(1) I briganti, che in questi ultimi anni sparsero tant. scompiglio, tanto sangue e tanti lutti nelle nostre contrade, non hanno ottenuto un canto dal popolo né quand'eran potenti ne quando furono giunti dalla punitrice Giustizia.

(1) Solo cinque di esse leggende debbo ai miei carissimi e valorosi amici G. PITRĖ e U. A. Amico, ai quali mi è caro di attestare pubblicamente la mia riconoscenza.

(1) Prendevano lucerne di creta cotta, per servirsene di mitraglia. Paramiti sono certi assicelli di figura piramidale o variamente geometrica, i quali ornati di lucerne di creta si appendono ai muri lungo le vie delle feste solenni.

(2) Pezzu, pezzo d'artiglieria.

(3) Cileccu, panciotto (spagn. chaleco).

(4) Fu il primo grido spontaneo di quella rivoluzione, cominciata appunto mentre si celebrava la festa di Santa Rosalia, Patrona, com'è noto, di Palermo. Dopo, il motto d'ordine fu:

Indipendenza o morte.

(5) Cassaru, l'antico Kasr dei Mussulmani, strada principale di Palermo, battezzata dal nome del Vicerè Toledo al 1567, e da quello di re Vittorio Emanuele al 1860: il popolo però la chiama tuttodì col nome arabo di ottocent'anni addietro.

(6) Lu Sarvaturi, alla chiesa e monastero del Salvatore.

(7) D'a truppeddu, di traverso, di sbieco.

(1) Il P. Gioacchino Vaglica. Vedi Annotazioni e Riscontri.

(2) L'Ospedale Grande, ch'era allora nell'antico palazzo Sclafani, prospettante il Regio Palazzo, dove stavano le truppe assalite. Oggi è il quartier militare detto della SS. Trinità.

(3) Abbucca, fredda, uccide.

(4) Macchera, strage, macco.

(5) Chiazzittedda, lit Piazzetta de' Tedeschi.

(6) Pipiritu, il rione del Papireto, al nord del Regio Palazzo e dei quartieri militari.

(7) Li chianuri, le due piazze del Regio Palazzo e di Santa Teresa (oggi della Vittoria e della Indipendenza).

(1) Vicarioti, gli evasi dalle prigioni, le quali in Palermo, come a Napoli, son dette Vicaria.

(2) Grittu, diritto.

(3) Mizzagnoli, abitanti del Mezzagno o Belmonte.

(4) Risorti, e sotto: arrisorti; risoluti, determinati.

(1) Soprannome de' fratelli Nino ed Ambrogio Buzzetta da Carini.

(2) Rima, s. f., serie, numero, riga. Parti: vedi a pag. 133.

(3)Vrazzu di mari, massaja, istancabile lavoratrice domestica.

(4) Purtava, recava doni io copia (Ambrogio Buzzetta).

(5) Prisicutu, perseguitato dalla Giustizia, fuggiasco. Il Buzzetta era accusalo per lieve furto di melarance.

(6) Il padre (sottinteso) rià dopo pochi giorni la figlia, e fa di tutto perchè i due fratelli vengano imprigionati.

(7) Attimpuni, spia.

(8) Cumpagni, militi della Compagnia d'armi.

(1) Anna Maria Scilocco, la giovane già traſugata da Ambrogio.

(2) Malatu, il cognome del Capitan d'armi, trapanese di patria. A Buzzetta, al padre di Nino e di Ambrogio.

(3) A spacca—e— pisa li vinnia, li ingannava, li tradiva.

(4) Nino, ingegnoso, irrequieto, audace, venne a guastare la tranquillità di quella prigiune.

(5) Lluminaru, acquistarono rinomanza.

(1) Distrubbati, disturbati.

(2) Amici, Frati, voci furbesche, che, come Culleghi, valgono: malandrini, birbanti stretti in relazione segreta per ajutarsi scambievolmente nelle loro ribalderie.

(3) Su' sutta, sono in prigione.

(4) Un po' prima delle ore 20 d'Italia.

(5) Dettiru un santu, diedero la parola d'ordine.

(1) Sono i nomi de' quattro Compagni d'armi.

(2) L'agghi, le batoste, i maltrattamenti.

(3) Mancano parecchie ottave. I Fra Diavoli sono ripresi, non senza stento, dalla Giustizia e poi mandati all'isola di Favignana. Furono arrestati (mi si narra) in Santo Vito, dal Capitan d'arme Antonino Picone. Vino, ch'era a ballare presso una sua amica, resisté con tutte le forze ai birri prima di farsi prendere.

(1) Capu, fune grossa, cavo.

(2) Canceddu, cancello, grata di finestra.

(3) Frattatina, e Frattiatina, rumore dei passi tra le frasche.

(4) Come si richiedeva in quella occasione.

(1) A appena la evasione dei due terribili fratelli fu nota.

(2) Monti e luoghi della provincia di Palermo, ove i Fra Diavoli lasciarono vestigio di sé per ſurti o vendette.

(3) Palermu; cioè le Autorità risiedenti in Palermo. Mancano molte ottave, che narravano varj arditissimi furti e ingegnosissimi ripiegbi per isfuggire alla operosa Polizia.

(4) Vascu di l'lici; il bosco de' lecci esistente fino a pochi anni addietro de monti sopra Borgetto. La Cannavera è una località montana, ad oriente del detto bosco.

(5) Chiana, Piana de' Greci.

(6) Trazzera, viottolo mulattiere tra' campi.

(7) L'ura, l'ora della morte.

(1) Cuntari, (o diri) Diu chi nun è Diu, dir la menzogna, inventarsi una cosa.

(2) Muntera, cuschetto da birro: e si noti che il birro chiamasi anche Munteri.

(3) A sti tasti, a questo suono (tasto), a queste parole.

(4) Accascau, cadde, cascò.

(5) Abbacau, calmò, quietò.

(6) Si pïatiu, si commosse, si mosse a pietà.

(7) Du' pezzi, due piastre d'argento da tarì 12 (L. 5, 10) per una.

(8) Riu, angustia, miseria.

(1) Lu Pirutu è una località sui monti, tra Carini e Montelepre.

(2) Una variante: prima sti baddi gran sangu farannu!

(1) Pidèmia, epidemia.

(2) Sonia, bindolo, nota macchina idraulica.

(3) Appizzatu, perduto.

(1) Scialata, add., divertito, scialosa.

(2) Fragillata, s. f., colpo di flagello, flagello.

(1) Cioè ne' giorni 28 e 29 giugno, ne' quali il male cominciò con estrema violenza il spegnere migliaja di vite per ogni dì.

(2) Allittati, infermi al letto, allettati.

(3) Quante case non rimasero vuote affatto!

(1) 'Ncucucciati, add., colmi, sovrabbondanti.

(2) Chi resterà in vita.

(3) Al 1837 fu diffuso e creduto in Borgetto che l'immagine del Salvatore, nella casa di una tale Russo, piangesse a calde lagrime quando il cholera attinse il suo apogeo. Il creduto portento, interpretato come dolore di Dio per una strage che doveasi a malvagità umana, viene ricordato eziandio nella Storia di la Culera di lu 1867 del poeta popolare Salvatore d'Arrigo.

(1) Qui (mi avverte la massaja dettatrice dei versi) si intende del re Ferdinando II, il quale si sposava e facea festa mentre noi morivamo a centinaja del brutto male.

(2) Turiamoci la bocca, e basta cosi.

(3) Quanti avvelenatori non giran travestiti per l'Isola! — Questa falsa credenza invase talınente le menti del popolo al 1837, che si giunse a sparger la notizia, che lo stesso re Ferdinando sia venuto in Sicilia travestito da monaco, per vedere se gli avvelenamenti si eseguissero in larga scala giusta i suoi ordini, in Palermo ed altrove furono, come spargitori di veleno, ammazzati più d'uno! Povero cervello umano, a quante aberrazioni non soggiaci!

(1) Avucatu usa generalmente il popolo, più che Avvucatu, che registrano i Vocabolaristi.

(2) Spostu, diposto, avviato.

(3) Cògniti, medicine in soluzione. Mustura, mescolanza di varj medicamenti.

(1) Ammagistrati, magistrati. Principuna, principoni.

(2) Questi due versi, che contengono una terribile minaccia di ribellione, si ripetevano da tutti al 1837, ed in varj Comuni si lessero scritti su' muri a lettere da speziale.

(3) Accennasi alla rivolta di Siragusa, poi repressa ferocemente da Delcarretto.

(4) Maria SS. Addolorata, col titolo di Maria del Romitello, è la Patrona di Borgetto: per intendersi bene il quarto verso di questa ottava, è da sapere ch'essa è dipinta col Cristo morto sui ginocchi.

(1) Consulta in proposito: Biografie e Ritratti d'illustri Siciliani morti nel cholera l'anno 1837 (Palermo, 1838).

(1) Maria SS. della di Custonaci è la patrona di Monte S. Giuliano.

(1) Santivitari, abitanti di Santo Vito del Capo.

(2) Mortiria, s. f., mortalità pestilenziale, moria.

(1) Quatru, il quadro di Maria di Custonaci.

(2) Frusteri, forestiere.

(3) Lumaria, luminaria.

(4) Parmitani, Palermitani.

(1) Milanu, località ov'è il Camposanto.

(2) Nulligiau, noleggiò.

(3) L'esti, per é, è comodissino nella provincia di Trapani.

(1) Hému, più comune hàmu, abbiamo.

(2) Siliati, esiliati, confinati.

(3) Lu Generali, Generale degli Ordini religiosi.

(1) Cunsunanti, s, I., verso, rimo. Varia, varia, erra.

(2) Accorchi, qualche.

(3) Stampigghi, tabelle stampato da scuola, cartelloni con alfabeto; qui, presa in genere, scuole,

(4) Trutrina, dottrina,

(1) Smafarata, s. f., fanfaronata. Accennasi alla famosa sfida lanciata al Borbone, designandogli il giorno e l'ora del sollevamento del popolo.

(2) Vassa' (vossia), vossignoria.

(3) Scurunata, scoronata, senza corona.

(4) È celebre pel Sarudda del Meli, la statua del Genio di Palermo in mezzo alla fontana della Piazza Fieravecchia; più celebre divenne per gli avvenimenti politici del 1848 e 1850, tantochè la tirannia de' Borboni la tolse di posto e rinchiuse ne' magazzini dello Spasimo. Il popolo, ritornato a liberti nel 1860, la sprigionò e rimesse nell'antica Piazza, sopra inscritto piedistallo.

(5) Tricculurata, ald., tricolorata.

(1) Guapparusi, (da guappo), millantatori.

(2) Giuseppe Scordato, Giuseppe La Masa, Salvatore Miceli, Angelo Tantè, Giacinto Carini, Francesco Di Bella e Pasquale Bruno furono tra' primi e più strenui campioni della rivoluzione. Il La Masa e il Carini, uomini d'ingegno e cuore nobilissimi e troppo noti perch'io ne parli, furon poi esuli e io di compagni di Garibaldi fra' Mille, e illustri per lunghi e onorati servigi alla Italia. Il povero Carini, tenente Generale e Senatore, è morto pochi giorni fa in Roma (16 gennaro 1880), tra il compianto di tutti. Al La Masa auguriamo lunga salute.

(3) Truntuluni, s. m., scossa, crollo.

(4) Ruggiero Settimo, Presidente del Governo nazionale.

(1) Giulia, add., gioiosa, giulia.

(2) Cafuni, s. m., nome per dispregio dato alla fanteria napolitana; fantoccio, coso.

(3) Vialli, Pietro Vial, Maresciallo di campo comandante le truppe borboniche in Palermo.

(4) Spirtizzi tanti, prodezze maravigliose.

(5) Di Maju, Luigi De Majo, Luogotenente del Re e Comandante generale delle armi in Sicilia.

(6) Mancano qui cinque o sei stanze, che non ho potuto avere se non guaste; narravano varj particolari del giorno 12 gennaro e la morte di Pietro Omodei, primo a suggellare col suo sangue la vittoria de' Siciliani. I particolari cennati in questa, come nelle altre ottave, sono storicamente accertati.

(1) Si accenna, pare, al celebre atto della decadenza dei Borboni al trono di Sicilia, decretato dal Parlamento siciliano in Palermo addì 13 aprile 1818.

(1) Si fissia, voce bassa e non pulita; sbraveggia. Si sottintende il soggetto, ch'è il re Ferdinando.

(1) Asparu, áspide. Qui simboleggia il Tiranno.

(2) Negli uccelli grossi sono adumbrati i capi della rivoluzione, che, più compromessi, al riedir dell'esecrato Borbone esularono.

(1) Ominu, uomo.

(2) Scarzarànu, della parlata; scarcerarono.

(3) Villarosa: il Principe di Villarosa. Più sotto sono nominati altri Magnati siciliani, ch'ebbero tanta parte negli avvenimenti politici d'allora, cioè il Navarra, il Cattolica, il Settimo, il San Marco.

(4) Mitragghiu, s. m., lo stesso che Mitragghia, mitraglia.

(5) Ripigghiu, la invasione borbonica per ripigliar l'Isola.

(6) Jimu, andiamo.

(1) Mancari, 8. m., mancamento, torto.

(2) Ristirà, rimarrà vinta, soccomberà.

(1) Assacchiava, boccheggiava.

(2) Sottintendi: la rivoluzione.

(3) Lupari, sorta di munizione di pallini grossi quanto un cece, proprj per uccidere i lupi (d'onde il nome).

(4) Sbumma, sfoga, scoppia.

(5) 'Ncantini, propriamente cantine, ma qui magazzini di munizione da guerra. Bumma, plur., bombe.

(1) Carugnuna, vili, codardi.

(2) Risu, cu l'autri pocu: il fontaniere Francesco Riso, l'animoso capo dell'infelice tentativo del 4 aprile alla Gància. Vedi Annotazioni e Riscontri.

(3) Taschittara: nome che fu dato alle spie borboniche, le quali il quattro aprile 1860 furono obbligate da' capi loro ad uscire armati contro i rivoltosi, unitamente ai poliziotti e soldati, con in testa il caschetto da birro. Dal detto caschetto (in siciliano Taschettu) nacque il loro come.

(2) Caciuni, cagione, causa.

(3) Jinia, genia.

(4) Barone del Cassaro vuoto fu chiamato dal popolo il famoso Direttore di Polizia Maniscalco, quando, durante lo stato d' assedio ne' giorni che seguirono il 4 aprile, scendea pel deserto Toledo (Cassaru) in carrozza, come trionfatore.

(5) Ddi forti Patri, i Monaci del convento della Gància.

(6) Annittaru, nettarono; ha qui doppio significato, cioè, sbarazzarono la Gància de' rivoltosi (patriotti e monaci) e fecero man bassa di tutto ciò che vi si contenea, mettendo a ruba perfino i sacri arredi e gli altari.

(7) Maniscalco, per impedire i tradizionali rintocchi della campana che chiamava all'armi i cittadini, dopo il 4 aprile fe togliere e sequestrare tutt’i battagli delle campane di Palermo.

(8) Sarzano: il Generale Salzano, comandante le truppe borboniche in Sicilia.

(1) Accennasi alla inumana uccisione de' birri in Palermo al 1848, nella località del pubblico macello detta il Pantano. Intorno all'odio implacabile e alle fiere vendette sui birri, vedi La finuta di li Sbirri a lu 1860, più innanzi, al num. LI.

(2) Scuttanti, add., espiatorio.

(3) Vinta in Palermo, la rivoluzione fervea nell'interno dell'Isola: i Palermitani redevano confortate le loro speranze dai fuochi, che miravano accesi ogni notte sulle circostanti montagne.

(4) Fraggillianu, flagellano.

(5) Ciuciuleu, s. mn., baruffa, serra—serra, ammazza— ammazza.

(1) Sul 4 aprile e sulla salvazione del Bivona e del Patti pubblicò un grazioso racconto il Prof. S. MALATO—TODARO, col titolo: La buca della salvezza (Racconti popolari; Palermo, 1861, pag. 1 e seg.).

(1) Ferdinando, IV di Napoli e III di Sicilia, e indi I° delle due Sicilie, che giurò e poi tolse la Costituzione siciliana.

(2) Aribaldi, Garibaldi.

(3) Si accenna alla battaglia di Calatafimi (15 maggio) e al saccheggio e arsione di Partinico (16 maggio ), ove però i battaglioni regii lasciarono 18 morti e parecchi prigioni.

(4) Vocu, s. m. (più comunemente Voca, s. f.), spinta, eccitamento. Generale di quella colonna, che combatté a Calatafimi o arse Partinico, si sa, era il Landi.

(1) Cenna alla tirannia angioina, rimasta proverbiale in Sicilia.

(2) D'allura, da principio.

(3) Stari quantu pisa, possedere solo tanto, quanto basti a non morir di fame.

(4) Tàsci, tasse. Abbruciari, v, s., ridurre al nulla con procedimenti fiscali, pegnoramenti, ecc.

(5) A li tanti, modo avv., qualche volta, di quando in quando.

(1) Si allude al sacco fatto dai soldati borbonici io varj paesi dell'Isola.

(2) Anticchia, un poco, un tantino.

(3) Di facci... l'ha pagatu, ha pagato il fio, ha perduto tutto.

(2) Pepè, nome di uno scimunito, rimasto proverbiale in Palermo e in molti paesi di Sicilia, tantochè oggi si adopra Pepè invece di loccu, baggeo. Il nome di Pepè fu applicato nel 1859 a Francesco II di Napoli; e corse di lui per tutta l'Isola questa strofa canzonatoria:

Pepè nascìu,

sò matri muriu;

si maritau,

sò patri scattau;

si fici Re,

ristau Pepè!

(3) Boscu, il Colonnello Generale Bosco, mosso a inseguire Garibaldi verso Parco e Corleone. Vota—canciata, giravolta.

(4) A lu Preturi, al Palazzo Pretorio o Municipale.

(1) Muncibeddu, il Mongibello, qui ha il semplice significato di fuoco, guerra con armi a fuoco.

(2) Uomini scelti tra' valorosi.

(3) Sottintendi i soldati borbonici.

(4) Del Colonnello Generale Busco.

(1) Ritinuti, detenuti. Qui si intende de' già detenuti sotto il Borbone, messi in libertà con le vittorie di Garibaldi.

(1) Nclimenzi, avversità.

(2) Cioè, diverrà pazzo.

(3) Jittàvanu sintenzi, imprecavano, maledivano.

(4) La Cittadella di Messina.

(1) ‘Nfamità, spionaggio. Più sotto, alla stanza 5, vale infamia.

(2) ‘N pulitica, pur apparenza, per accortezza.

(3) Signuri, s. m., Signoria.

(4) Cioè, a tutti arriverà l'ora estrema in cui avremo a rispondere a Dio di ogni nostra colpa.

(5) Carreca, e Pontillo, Ferro, Sorrentino, Duchè, Denaro, Seribano e Bruno, notati più sotto; nomi di celebri Birri, Ispettori e Commissarj di Polizia al 1860, odiosissimi al popolo.

(1)' T 'allianavi, ti divertivi.

(2) Billiavi, godevi, ti facevi bello.

(3) Sorci furono chiamati i birri, e indi anche tutti i borbonici e codini. Gatti, per contrapposto, sono i liberali.

(4) Putintusu, add., potente.

(1) Riuniti lu barattu, fate camorra! qui letto ironicamente.

(2) Du ' ra', due grani (centes. 4).

(3) Cioè, la sentenza uscita per voi è questa: Morire scannati entro una fogna. E di fatto, parecchi birri al 1860 furono scoperti e ammazzati entro acquidocci, ove cercavano di cansare l'ira e la vendetta del popolo in armi.

(1) Né il principio, de la fine della guerra del 1860, ma una sola parte.

(2) Il Generale Giacinto Carini. Vedi Annotazioni e Riscontri.

(3) Jiri 'n puppa, buggerare, danneggiare grandemente.

(4) Li 'nfamuni, i soldati napolitani.

(5) Anguru, s. m., ancora. Mi misi, mi messi in viaggio.

(6) Attaccamentu, s. m., attacco, battaglia.

(1) Mancano pe’ 15 strofe, che il poeta stesso ha dimenticato.

(2) Listrizza, s. f., agilità, lestezza.

(3) Il Generale Cosenz (Quòsisi) e il Missori.

(4) Mancano parecchie altre quartine, delle quali il poeta descriveva l'attaccu 'nta 'u cannitu, quannu, cc'un corpu di cannuni, di cinquanta nn' arristaru cincu, quattru firiti, 6 a Caribardi cci cascò la sola di la scarpa, etc. etc.

(1) Vittòriu, Re Vittorio Emanuele II.

(2) Ostréci, Austriaci. Sbinciata, vendetta, vendicazione.

(1) Bummiava, rimbombava, tuonava.

(1) Bummiava, rimbombava, tuonava.

(2) La Madonna del Ponte è la patrona di Partinico.

(3) Genti, i parenti, la famiglia (alla maniera latina).

(4) A quel terribile giorno del 24 giugno.

(1) Juncìu (o Arrivau) la mula a lu fünnacu, non si può andar più in là, si è giunti al termine, tutto è finito.

(2) Juncemu a li nuvei, siam giunti all'osso, siamo al verde.

(3) Mal' abbia quel di! Fui, fu.

(1) Variante: La furca è pri lu poviru.

(2) Billia, amoreggia. Autri, altre.

(3) Zicchinetta, noto gioco a carte, rovinosissimo: a toppa.

(4) Angarii, gravezze, imposte: nome rimasto de' tempi della dominazione angioina.

(1) Fruttatu; canone, censo.

(2) Pòlisa, s. f., dazio del macinato.

(3) Gli scudi d'argento da tari dodici (L. 5, 10 ).

(4) Un proverbio dice: Celu picurinu, si un chiovi oggi, chiovi a lu matinu (cielo a pecorelle, acqua a catinelle).

(1) Il sollevamento della plebe in Palermo al 1866, cominciato a mezzo settembre e durato giusto sette giorni e mezzo, ricevette dal popolo il nome, ormai storico, di Setti— e—menzu. Vedi annotazioni e Riscontri.

(2) Che neppur merita figurare nella serie dei sollevamenti siciliani. Si noti la sottile ironia, che anima il cominciamento di questa storia.

(3) A la vista, apparentemente.

(4) Licca, fa all'amore.

(5) Purrazzi, nota località al sud di Palermo.

(6) Custuri, Questurini, Guardie di pubblica sicurezza.

(7) Suprajuri, le Autorità municipali.

(8) Custuri, Questore: era allora il Pinna, d'infausta memoria.

(9) Scherzò con la polvere da fuoco e i fiammiferi. Prili, polvere pirica.

(10) I militari uccisi ne' combattimenti della infausta settimana sommarono propriamente a 375, comprese le Guardie di Pubblica sicurezza.

(1) Sicutivu, avv.. di seguito, continuamente.

(2) Era allora Sindaco di Palermo Antonio Starrabba Marchese di Rudini, ed è nota la bella parte ch ' ei rappresentò in que' giorni in favore dell'ordine e delle istituzioni.

(3) Le Guardie daziarie del Municipio di Palermo ebbero presso il popolo, fin dal 1860, il nome di Bavaresi, perchè rivestiti coi volti uniformi lasciati qui da' soldati bavaresi al servizio del Borbone, quando, per le vittorie di Garibaldi, imbarcarono. Esse Guardie, nel settembrine 1866, difesero il Palazzo Municipale (Prituri) insieme ai Granatieri reali.

(4) Divisati, distribuiti, compartiti.

(5) Squatri, le bande armate de' rivoltosi.

(6) Il famigerato monrealese Miceli, uno dei caporioni dei ribelli, ebbe tronche le gambe da un colpo di artiglieria il 18 settembre, mentre tentava con forte squadra un assalto alle Grandi Prigioni. A capustornu, a traverso, di sbieco.

(1) A la diavulina, senza posa e senz'ordine.

(2) Diedero le batoste, le pesche (ai ribelli).

(3) Il Maggiore Generale Luigi Masi.

(4) Vattuliata, s. f., percossa, batosta.

(5) Catapanata, avversità, disavventura.

(1) Matta, quantità, massa, matta (CASTIGLIONE): spagn. mata.

(2) Un Guardia municipale ucciso.













Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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