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«Il Governo ci regala il vento dell’Africa» dalla illusione garibaldina a Lu Setti-e-menzu (Zenone di Elea - Dic. 2021)

LUIGI APPEL

LA VITTIMA AUTORITARIA

NAPOLI

STABIL. TIPOGRAFICO DELL’UNIONE

Strada nuova Pizzofalcone, 3

1876

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DEDICA A PALERMO
AI POTERI COSTITUITI D’ITALIA AL LETTORE I. Chi fui
II Che feci III A Torino IV Prima d'altro, l’attualità V Eccomi Bersagliere
VI A Palermo
(Giornate del settembre 1866)
VII Sull'Osservatorio astronomico VIII Ma che c’è di vero? IX Il suggello nero
X É ridda infernale XI La giustizia è un nome? XII Il santuario della legge XIII Il criterio militare
XIV La mentecaggine
XV Che rimane?

DEDICA A PALERMO

A te gloriosa Palermo, a te, la città delle grandi iniziative e delle grandi vittorie, dedico la presente narrativa delle mie sventure, delle delusioni che provai nella mia vita militare e delle ingiustizie, ingiustizie senza nome, a cui fui fatto segno senza colpa.

E non saprei a chi meglio dedicare tale narrativa che a te, bella e invitta Palermo, imperocché hai cuore, imperoché da te ricevei ospitalità e affetti e stima, io straniero; imperoché da te m’ebbi quasi il dono d’una seconda patria.

Deh, noverami ognora tra i tuoi figli affezionati, e dà il tuo severo giudizio alle cose che andrò esponendo.

AI POTERI COSTITUITI D’ITALIA

INDRIZZO

Sono una vittima dello spirito autoritario, vittima inascoltata, vittima conculcata, vittima manomessa nella carriera, nei diritti, nell’onore, pel presente e per l'avvenire.

Narrerò i fatti, e darò le pruove.

Non è un libello che scrivo e che presento a Voi, Augusti Poteri costituiti d'Italia—no—è la verità tutta intera.

E ne ho diritto, avvegnacché in qualunque terra ordinata a civiltà, la difesa è sacra e sulle vittime non si passa colla ruota dilacerante della locomotiva, e si fa poi come se nulla fosse avvenuto.

Cosa domanderò io? Che mi si reintegri nella fama, nell'onore militare che mi è dovuto, nei miei diritti, quando non caddi nella colpa della quale fui stranamente imputato! Egli è perciò che m’indrizzo a Voi, Poteri costituiti d'Italia, e dirò che non è soltanto la causa mia che peroro, ma quella del diritto e della giustizia calpestati per sconfinato spirito autoritario dal generale Diego Angioletti Senatore del regno e dall'ex ministro della guerra Generale Ricotti, E dopo ciò, se il nome di giustizia non è nome vano in Italia, riavrò la stima degl'Italiani a cui mi diedi in momenti difficili, riavrò quella del mio paese nativo, e sarò reintegrato negl'imprescrittibili miei diritti, Palermo 10 Novembre 1876.

Luigi Appel

Egregio Signor Arcangelo Lauria Lo Jacono
già Direttore del giornale,
Il Precursore.

Palermo

Debbo alla S.(a) V. pubbliche e riconoscenti parole.

Le esposi le mie sventure immeritate, e le passai i documenti ad esse attinenti.

Ella, strenuo e continuo difensore dei dritti misconosciuti, e ardito battagliero in prò delle cause giuste, dei fatti miei si occupò nel giornale del 22 luglio ultimo N.° 201 ed ebbe largamente a confortarmi.

Grazie, grazie, grazie, Signore! Oh, con organi della pubblicità, come II Precursore, che sa elevare i fatti particolari all'altezza degl'interessi generali, la giustizia a lungo andare non potrà essere un mito.

Gradisca, Illustre Signore, tutta la mia gratitudine, e ritenga, checche mi possa accadere, che nella mia vita avrò cara e indelebile memoria della Sua persona.

E pieno d’osservanza, m’abbia della S. V.

Ossequente

L. Appel


AL LETTORE

É ben dispiacevole ad un individuo parlare di sé stesso, molto più quando deve quasi presentare la propria biografia; e in massimo grado poi se deve presentare le accuse che gli si scagliarono sul viso, e intrattenersi delle proprie difese. Io mi trovo in tale contingenza, che respinsi da me il più possibile; che se mi ci ho dovuto decidere fu perché esauriti tutt’i mezzi che le leggi sanzionano, e avendone sperimentata fin qui sistematica negazione,. lo debbo quasi come obbligo personale, imperocché non credo sia lecito pretendere che un uomo massacri sé stesso nella fama e nell’onore, fama e onore che son retaggio dei miei figli.

Colpito ingiustamente, in modo quasi che non ha riscontro forse con alcun altro, avendo trovato chiuse tutte le porte del tempio della giustizia, tratto pei capelli a dovermi preoccupare altamente della condizione che con cinismo autoritario mi fu creata, e preoccupatomene a segno che debbo volere un supremo verdetto che mi rivendichi; mi trovo appunto costretto e obbligato, virilmente obbligato, a dover invocare l’opinione degl’Italiani in favore di me, loro concittadino di elezione.

Abborrente per principio da espediente siffatto, non è mia colpa, se debbo smettere le mie abitudini a malincuore — e cosa fatta capo ha.

Quando ad un uomo, ad un uomo-soldato, si è gittata in faccia la taccia vergognosa di pusillanime, e ciò in grazia di quelle garenzie con cui la legge circonda l’autorità del superiore, e che nel superiore presuppone un uomo giusto, severo, e spassionato, e che per queste stesse garenzie, quell’uomo-soldato deve perire vittima inascoltata e indifesa.

Oh non c’è legge possibile che possa imporre il silenzio del sepolcro! — Allora non resta che il diritto imprescrittibile della parola e della propria difesa, e quello di narrare per filo e per segno come le cose si passassero, e di mettere in luce quella tale autorità superiore, per quanto alta sia, mostrarla nella sua nudità, strapparle quel prestigio che non si meritò, e dire il modo come di un uomo d’onore e soldato, che diè pruove sui campi di battaglia, ne avesse fatto, quell’autorità superiore, una vittima; e allora pure non restano di fronte che due uomini, soltanto uomini eguali dinanzi alla legge, la vittima e… l'accusatore. No — l’accusatore gratuito non ha neppure il diritto all’eguaglianza della legge!

Qui non ci sono cointelligenze e principii regolatori di mutua associazione che valgano: qui non ci sono leggi da invocare, e quando tutte le leggi furono calpestate per fare una vittima, alla vittima dev’essere concessa l’estrema parola per chiamare il bianco nero, il nero bianco.

Sarà una parola inefficace, sarà una parola che avrà influenza soltanto sugli animi benigni e onesti — ciò che mi si disse continuamente d’intorno! — ma addirittura inutile per scompaginare gli artifizj o l’alleanza degli uomini del potere e sperare soddisfazione e resipiscenza: potrà essere codesto, e non discuto; però, io, straniero, ho ben altra opinione degl'italiani. Essi soffrono delle soperchierie ad altri commesse, e soffrirono per lunghi sedici anni; però le parole e i fatti nauseanti ebbero un termine nel 18 marzo 1876 in Montecitorio — e la rivendica fu opera della gran maggioranza degl’italiani.

Le chiacchiere e i fatti ebbero la loro meta. Se si dissero declamazioni stentoree, esse arrivarono a formare un vero Mont-Blanc sulla cervice di quanti ebbero parte nel pandemonio dei sedici anni.

Checché sia di ciò, offeso in tutto e in quanto l’uomo ha sacro sulla' terra, a me spetta il diritto della franca difesa alla luce del sole.

Io chiederò soltanto al benigno lettore di scorrere queste pagine che metto sotto i suoi occhi, e se ne avrà raccapriccio e orrore, allora mi persuaderò che la giustizia non è poi come si dice un nome vano sulla terra.

Adunque io sono la vittima, il generale Comm., Senatore, ora Presidente del Comitato di fanteria e cavalleria, Diego Angioletti è l’accusatore, e il generale Cav., Deputato, Cesare Magnani-Ricotti, ex ministro di guerra, è quegli che sostenne il dramma.

Le parti sono ben delineate; e il dramma contiene anche impressioni esilaranti in ciò che fu l'amministrazione dei consorti in Italia.

Alla vittima dev’esser permesso qualche cosa, quando ad essa si addossò anche lo scherno gratuito della mentecattagine.

È un dramma; e avanti.

I. Chi fui

Nella commedia — Le cipolle — il sig. Francesco Fulco, fa dire da uno degli attori.

«La moderna società ha scritto sulla sua bandiera: «arte di non parere... e sotto di essa ha raccolto gentiluomini che hanno una croce di cavaliere all’occhiello del loro soprabito e molte macchie d’inchiostro «sulla coscienza.

«È signore che al di sopra sono coperte d'una bella «vernice rosea, e che al di sotto.... il di sotto, passiamolo per sopra!» O come vado a ricordare la commedia delle cipolle per dire chi io fui? Al lettore sembrerà che ciò non calzi affatto.

Siccome io ho fermo proposito di dire la verità, e cioè dire ciò che sta al di sotto, e il di sotto mostrarlo al di sopra, così incomincio col brano di una commedia troppo nota e applaudita, che risponde meravigliosamente all’argomento.

Nacqui in Ansbach (Baviera) nel 22 settembre dell’anno 1835 dai coniugi Antonetta Bourgin e Enrico già commissario reale e poscia regio ricevitore in Frisinga.

Completato un regolare corso di studii (cioè — latino, greco, francese, ungherese, matematiche, storia, geografia, disegno lineare e di costruzione e di paese, musica ecc. ecc.) ardente della vita militare, con dispiacere dei miei amati genitori mi arrolai volontario per otto anni il 28 agosto 1851 nel 39° reggimento fanteria di linea Dom Miguel dell’esercito austriaco.

Il 20 dicembre di quell'anno fui Cadetto di Reggimento, poi Cadetto caporale, poi Cadetto furiere, e il 17 agosto 1853 divenni sottotenente di 2(a) classe nello stesso reggimento.

Il 25 giugno 1856 fui professore nella Scuola di Reggimento; ((1)) il 1° agosto dello stesso anno fui aggregato al Corpo di stato maggiore ed addetto al Comando generale della III. armata in Ungheria; poi fui Sottotenente di l(a) classe, poi ritornai di nuovo al 39" Dom Miguel, poi Ajutante di Battaglione al Deposito di esso reggimento, poi comandato alla scuola amministrativa ed applicato al comando superiore dell'Armata, dove fui promosso Luogotenente il 5 aprile 1859.

Il 1° maggio 1859 passai nel corpo degli Ajutanti e il 7 luglio 1859 rientrai al reggimento Dom Miguel.

In meno dunque di nove anni, dopo aver percorso tutti i gradi inferiori e dato saggio della mia istruzione, il 31 marzo 1860, trovandomi Luogotenente, domandai d’essere dispensato dal servizio.

II. Che feci

 Feci sempre il dover mio—il dover di soldato e ufficiale di onore.

Ecco in attestato il certificato che mi rilasciò il mio colonnello.

ATTESTATO DI CONGEDO

«R. I. Dom Miguel 39° Reggimento fanteria.

«Il sig. Luigi Appel, nato a Ansbah in Baviera anno 1835, lasciando oggi stesso questo Reggimento ha servito fino dal mese di agosto 1851, cioè otto anni ed otto mesi nella I. R. Armata austriaca ed in fine col grado di luogotenente.

«Il medesimo ha fatto la campagna del 1859 in Italia; essendo uno dei più anziani luogotenenti egli ebbe il comando di una compagnia e mostrandosi abile comandante per fervido zelo e buoni servizi resi si è acquistato la piena soddisfazione del comando di questo reggimento.

«Circostanze, personali l'hanno determinato di chiedere la sua dimissione spontaneamente e ripetute volte. Il Comando di questo reggimento non esita confermare ciò al signor Appel Luigi e vede con dispiacere partire dal reggimento un ufficiale così istruito, diligente e pratico.

«Mantova 31 marzo 1860

Fir. Poekh Colonnello

Attestato che m’è caro più di qualunque cosa al mondo, e che, come egregiamente scrisse le strenuo Precursore «è il più alto conforto... e sarà sempre la più bella pagina della mia vita militare».

E superfluo dire che non subii mai veruna inchiesta correzionale o giudiziaria né di polizia, e ne conservo attestato.

Ho però un altro attestato ch'è prezzo dell'opera dare al lettore, che se poi fosse lettore militare comprenderebbe meglio cosa significa, e come sia difficile per un ufficiale che ha percorso i gradi inferiori, lasciare il servizio militare senz’alcun ombra di punizione, massime nell'esercito austriaco — Eccolo — «Dal tribunale del Reggimento di fanteria Dom Miguel n.° 39 si certifica, che visti i registri di punizione, il sig. Luigi Appel, quale ha servito come luogotenente nel Reggimento, non fu mai sotto inchiesta giudiziaria né punito durante il tempo del suo servizio militare.

«Il Capitano auditore

«Fir. Messner

Che feci? Tolsi in moglie la donna del mio cuore, damigella Latina Pettinati, di Ostiglia, il 31 ottobre 1859.

Che feci? Mi dimisi dal servizio austriaco nel 31 marzo cioè prima del 4 aprile di quell'anno, e prima della spedizione da Talamone, per darmi, invitatovi dal Generale Fanti, alla causa della libertà e della indipendenza italiana; per andare a combattere con l'Eroe dei due mondi che muover doveva per Sicilia; per andare a pugnare contro il numerosissimo esercito del regno delle due Sicilie.

Io non voleva e non ansiava che la lotta e la pugna. Ero soldato, ed è tutto detto.

La libertà, la indipendenza, una causa giusta poggiata sui diritti dell’uomo, spezzare le catene di un popolo, formare la gran famiglia Italiana, tuttocciò esercitando su me un fascino irresistibile mi fece fare quel che feci.

E non mi si potrà mai accusare di utilitarismo alla Bentham. Io era pago dal punto di vista degli interessi e d'altro.

Dopo otto anni io ero divenuto Luogotenente nell'I. R. esercito austriaco, e già a 24 anni di età, avevo il comando di una compagnia, e l'avvenire mi si presentava brillante in un esercito nel quale erano apprezzati e rimeritati i miei servizi e dove ero conosciuto. Ne avevo abbastanza. L’interesse per fermo non mi spingeva a correre dietro ad un’incognita e dietro a pericoli indeprecabili tutti propri dell'ardua impresa dei mille sotto gli ordini del Bellisario dell’età moderna.

«Anch'io provavo la gentil voluttà delle nobili imprese! l’ambizione sublime d’esser utile!» (I mille pag. 10).

III. A Torino

Com’è che non mi trovassi il 6 maggio 1860 a Talamone fra i rappresentanti delle cento sorelle con Bixio, Schiaffino, Elia, Castiglia, Orlando, Nullo, Cairoli, Montanari, Vigo Pellizzari, Tucheri ecc. ecc.?

Com'è che non mi trovassi sul Lombardo, o sul Piemonte, non a Marsala, non il 15 maggio sulle alture chiamate Pianto dei Romani distanti un miglio da Calatafimi, non in questa isola dei portenti, non in questa terra dei Vespri? Offertomi dal Generale Fanti lì al Tramuschio di combattere in pro dell’indipendenza italiana, arrivai tardi per prender parte alla prima spedizione dei mille.

Cavour mi richiese che lavorassi con lui nel ministero degli Esteri apprendendomi fosse ciò più utile di qualunque altro servizio per la causa alla quale io mi ero dato.

È noto che Cavour fosse nel 1860 ministro degli affari esteri in Piemonte.

Egli poi, il Ministro Cavour, da Torino, il 18 marzo 1861, diresse al generai Fanti ministro della guerra della già proclamata Italia una e indipendente, il seguente dispaccio che dice nel suo laconismo più di quello che potessi io stesso dire, dispaccio che recapitai io stesso all'illustre ministro Fanti di compianta memoria. — Eccolo:

«Eccellentissimo sig. Ministro

«Il latore della presente, sig. Appel, fu scelto d'accordo fra il ministro degli Esteri ed il generale Ricci per eseguire in parecchie provincie dell’Austria e della Baviera un viaggio di esplorazione, al quale le sue relazioni colà e la sua cognizione della lingua tedesca lo rendevano adattatissimo.

«Ora però non occorrendo più l’opera sua al ministero degli Esteri, io lo dirigo all’E. V. con preghiera di volerlo riammettere nell’esercito col grado di cui era già rivestito e di avere per lui tutt’i riguardi che Le parranno del caso.

Fir. «C. Cavour».

«All’Eccellenttissimo

«sig. Generale Fanti ministro

«della Guerra

«Torino.

Nel mio stato di servizio, nella colonna Campagne ed azioni di merito dovrebbesi leggere ((1)).

«Ha fatto la campagna dell’anno 1859 come lo constata l’attestato del colonnello Poekh in data Mantova 31 marzo 1860.

E si legge: «Fu due volte in missione straordinaria e segreta all'Estero (la seconda volta colla famiglia) d’ordine verbale di S. E. il Presidente dei ministri Conte di Cavour dal 19 agosto 1860 al di 8 marzo 1861 come risulta dal passaporto unito e dalla lettera d’encomio di S. E. il conte di Cavour diretta a S. E. il generale Fanti in data Torino 18 marzo 1861.»

Il dispaccio del grande statista italiano e la di lui raccomandazione a che mi fossero usati tutt’i riguardi, provano che i miei servizi furono accetti al ministro degli Esteri d’Italia e che fossi riescito di utilità per le due missioni eseguite all’Estero con disprezzo d’ogni pericolo politico e militare, e — lo dirò io? — con abnegazione, essendomi dovuto recare fino a Vienna e Buda Pesthec. ec. per compiere l’obbiettività delle mie missioni, onde guardare tra l’altro il da guardare nell’interesse dell’esercito italiano che operava nell’Italia meridionale ((2)).

Se meritai tutta la fiducia del grande Camillo Benso di Cavour, in cui onore ogni italiano fa di cappello, è da comprendersi di leggieri che ne fui superbo e me ne vanterò ognora.

Dirò poi e con cordiale riconoscenza che la città di Torino mi rimeritò grandemente conferendo a me e alla mia famiglia la sua cittadinanza con atto formale 25 aprile 1863, ufficio 4°, firmato Farcile assessore, Fava Segretario.

Potrei narrare molte cose e far io pure un pò di luce intorno allo svolgimento dell’epopea nazionale Italiana che trovossi asserrata nelle mani del Conte Cavour al cui gabinetto fui destinato, ma non essendo del mio compito e non riguardando me direttamente, vi passo per sopra.

Non formano quelle cose quel di sotto che intendo mettere al di sopra.

Con qual grado fui agli ordini di Cavour? Ricorderà il compiacente lettore che licenziandomi il 31 marzo 1860 dall’esercito austriaco, io lasciavo il grado di Luogotenente.

E se il lettore ricordasse il modo con cui furono conferiti i gradi nella schiera dei mille, dove individui che nulla avevan saputo di eserciti e di battaglie ebbero gradi importanti, comprenderà di leggieri, che Luogo-tenente io di esercito regolare e distintomi alla prova del fuoco, per lo meno da Garibaldi mi sarebbe stata affidata una compagnia dei mille, e perciò dal primo momento avrei rivestito il grado di capitano. E capitano tra i mille, ben altra sarebbe stata la condizione delle mie cose.

Cedetti invece al generale Fanti, e al Conte di Cavour, e può immaginare il lettore qual fosse la mia meraviglia allorché appresi un R. Decreto 10 giugno 1860 — 27 — che mi ammetteva nell’esercito sardo col grado di sottotenente di fanteria collocandomi in aspettativa per scioglimento di corpo.

Rimostrai in proposito, e seguì un R. D. 14 luglio 1860 che considerando come non avvenuto l’altro in quanto al grado, mi nominò Luogotenente di fanteria.

Con questo grado fui destinato nel gabinetto dello eccellentissimo Cavour e questo grado avevo allorché compii all'estero le due missioni straordinarie e segrete.

Con un grado militare sardo, in territorio estero, in momenti difficili, non si poteva mica esser pusillanimi; non c'era neppure a dire con Washington «se mai non riusciamo a fondare la libertà, voi ci vendicherete».

E i mille trionfavano. Chi non era stato neppure soldato e Tenente, ma non so se commediografo, poeta, avvocato o che, era divenuto Generale.

Cedere a Cavour, dal punto di vista del grado e della posizione sociale, fu per me sventura — sventura alla quale riflettevi più tardi per quel che mi successe inattesamente e stranamente.

La gloria e la poesia e il disinteresse sono grandi belle cose—ma il grado è grado ed è la realtà, ed è quella realtà mercé cui si può fare o molto bene o molto male agli individui come all’intera società.

Se mi fossi, per aver fatto parte dei mille, se mi fossi trovato il Generale Appel, qui a Palermo nelle fatali giornate del settembre 1866? Il resto, resta nella penna a più tardi.

«I destini dipendono dal trovarsi una persona dritta in piedi, piuttosto che seduta. (Victor Hugo) Ma non precipitiamo i fatti.

IV. Prima d'altro, l’attualità

Nei romanzi, lo svolgimento d’un dramma, va a salti per tener sempre viva la curiosità e l’interesse dei lettori.

Siccome io scrivo il mio dramma, che ha ancora nelle mani di Dio il suo finale o la chiusa, e siccome molte cose possono parere incredibili, e posso essere anche accusato di mentecattagine, (e fui già accusato tale!) così prima d’altro, uopo è dire della mia attualità.

Come mi trovo in Palermo? Cosa sono? Cosa fo? Godo del bene della ragione? Che altro? Come mi trovassi in Palermo sarà noto in prosieguo al lettore. Metto ora sotto gli occhi suoi i seguenti certificati municipali.

Municipio di Palermo

«Il sottoscritto Sindaco di questa città certifica che il signor Appel Luigi figlio di Enrico è stato domiciliato e residente in Palermo sin da luglio 1864.

«Rilasciato oggi in Palermo li 11 luglio 1874

«Il Segretario

«Fir. Di Grazia»

«Città di Palermo

«Pel Sindaco

«Fir. Firmaturi»

Ufficio centrale

«Noi cav. Emanuele Notarbartolo di san Giovanni, assessore anziano ff. da Sindaco attestiamo che il signor Appel Luigi ufficiale al riposo, trovasi iscritto in questo registro di popolazione, impiantato sin dal 1870, e trovasi iscritto in queste liste elettorali politiche ed amministrative.

«Addi 8 agosto 1874.

Il ff. Sindaco

Fir. E. Notarbartolo

E qui di seguito darò una serie di certificati e attestazioni che rispondono di fatti alla poste domande.

Certificato

«Conosco il signor Luigi Appel personalmente sin dall'ottobre 1872, tempo in cui fece il concorso per maestro di lingua tedesca, riportandone punti 56 sopra 60 d’idoneità.

«Io fui suo esaminatore ed ebbi in questa ed anche in altre occasioni mezzo di esperimentare la sua pronta intelligenza, il suo acuto e giusto criterio, la sua istruzione e l'abilità nell'insegnare, preparando qualche allievo che nulla sapeva di lingua tedesca in meno di un mese per gli esami di ammissione al 2° corso dell’istituto tecnico con ottimo risultato.

«Palermo 5 giugno 1874.

Fir. Ant. De Marchi

«professore di storia universale

«e di lingua tedesca nell’istituto

«tecnico governativo.»

________

Per il che con atto prefettizio del 24 ottobre 1872 n. 1 mi fu conferito il Diploma di professore di lingua tedesca.

________

«Collegio s. Rocco

«Palermo 30 maggio 1874

«Certifico io qui sottoscritto che il signor Luigi Appel ha dato lezioni di lingua tedesca in questo collegio nell’anno scolastico 1872-73, e con profitto dei giovani prosegue anche in questo del 1873-74, dando sempre ottimi risultati agli esami trimestrali, semestrali e finali, e ciò sia per la sua chiarezza nell'insegnare, come per l'esatta disciplina che sa mantenere nella classe.

In fede.

Il Direttore.

Fir. Sac. Francesco Colavincenzo

«Visto i Deputati,

«Fir. Giuseppe Giovenco

«Fir. Giuseppe Mario Puglia.

Inoltre ho gli attestati di aver dettato lezioni di lingua tedesca negli anni 1872-73-74-75 ai signori, sia maschi sia femmine, Longo, Cancilla, Puglia, Donato, Spataro, Radicati, Notarbartolo, barone Sciacca della Scala, Pavone, Lo Nano, Tamajo, Salerno, Cortegiani, della Cerda, Celesti, principessa Francesca Baucina, Diliberto, Parisi, Gangitano, ed altri distinti signori di questa illustre città. .

Sembrerà poi ozioso che dessi al lettore una letterina della Signora Gerra, consorte dell'ex Prefetto; però la stimo necessaria,

«Palermo 26 marzo 1876

«Egregio sig. Professore

«Mi spiace di non poter dimani sera essere a casa per la sua lezione. Mercoldì e Venerdì prossimo spero che Lei ci favorisca, spiacentissimi che la imminente partenza tolga a mia figlia di approfittare più oltre del suo ottimo insegnamento.

«Distintamente La riverisco

Obbligatissima Sua

Fir. Luigia Gerra

__________

E qui dò posto ad urta per me carissima e graditissima comunicazione della Illustre Deputazione di questa Biblioteca comunale.

«Deputazione della Biblioteca

«Comunale di Palermo

«N. 60.

«A 13 luglio 1874

«Dovendosi in questa Biblioteca comunale di Palermo dar luogo al concorso pel posto di secondo Bibliotecario nella seconda metà del corrente luglio, e conoscendo pienamente quanta profonda perizia possieda la S. V. Ill. in varie materie concernenti il detto concorso, nell'adunanza del 5 di questo mese si è deliberato sceglierla qual uno degli esaminatori.

«Nella certezza intanto ch'Ella vorrà degnarsi accettare un tale incarico, che la Deputazione si onora confidarle, le si trasmettono i regolamenti della biblioteca, nonché l'avviso a stampa del concorso, per averne distinta contezza.

«Ella poi d’accordo col capo Bibliotecario, Ab. Gioacchino Di Marzo si piacerà destinare i giorni delle adunanze della commissione esaminatrice.

«La Deputazione

«Fir. E. Notarbartolo

«C. Paolo Maltese

«P. Galati

«Vincenzo di Giovanni

«All'Illustrissimo sig. Professore

«Luigi Appel

Palermo»

______________

E ad onore di quante illustre persone qui in Palermo i prodigarono tutta la loro stima, e gradirono e accolsero le mie pedagogiche cure—onde io ben dissi di aver tutto trovato qui in questa riva Oretea! — debbo far risultare che fossi stato in ottima salute e godente il ben dello intelletto: debbo ciò, una volta che fui accusato di mentecattagine, della quale a suo tempo parlerò.

All’uopo sommetto certificati degli uomini dell'arte salutare, e dell'arte giuridico-penale.

«Palermo 1° ottobre 1872

«Certifico io qui sottoscritto dottore medico-chirurgo a chi spetta vedere il presente che il sig. Luigi Appel gode perfetta salute. In fede di che ho firmato il presente

«Fir. Salvatore Spiaggia

___________

«Studio di Giovanni Gorritte

«Avvocato presso la Corte di Cassazione

«Palermo 5 giugno 1874

«Io qui sottoscritto, richiesto, dichiaro conoscere per mezzo dell'on. avvocato Giuseppe Mario Puglia, il signor Luigi Appel fin dall'inverno 1872-73.

«Ho trovato i di lui ragionamenti sempre esatti e logici. Egli ha l’intelligenza pronta ed è dotato di rara perspicacia per come ebbi personalmente ad osservare ed esperimentare

«Fir. Giovanni Gorritte

«Palermo 30 maggio 1874

«Certifico io qui sottoscritto dottore in medicina e chirurgia che avendo dal 1870 sin oggi assistito in diverse congiunture il sig. Luigi Appel, in qualità di medico curante, non ho giammai in lui rinvenuto sintomo alcuno che avesse potuto far dubitare menomamente dell'integrità delle sue facoltà intellettuali.

«In fede ecc.

«Fir. Salvatore Spiaggia.

_____________

«Palermo li 14 agosto 1874

«Da una conversazione avuta per un discreto tempo col sig. Luigi Appel, io ebbi occasione di conoscere che Egli godeva sanità di corpo e sanità di mente.

«Rilascio il presente attestato a richiesta.

«Fir. Pietro Pignocco.

E il Pignocco, il competentissimo in materia, noto qui a Palermo e fuori, lo si sa, è medico-capo al manicomio!

.... e fia suggel

Che l’uomo sganni.

Laonde sto a Palermo, e amo Palermo.

Parmi di godere bella stima in Palermo. Sono professore di lingua tedesca. Godo in tutta la pienezza e in tutta la potenza il ben della ragione. Amo e sono riamato dalla mia famiglinola. Non potrei, modesto come sono nei miei desideri, desiderare di più — eppure c’ è qualcosa che non posso tranguggiare e che m'ange il cor — e quasi dico col poeta dello sconforto —

Felici i morti e molto più i non nati

Che non videro i mali

Che stanno sotto il sole.

Se avessi mancato, se avessi demeritato, eh, mi sarei rassegnato; ma ciò non essendo, per Dio mi viene il raccapriccio e il capogiro.

Prendo fiato, e mi rimetto in carreggiata.

Eravamo arrivati al fondo. Vivaddio c’è dato prender fiato dopo il 18 marzo.

Potevamo dire con Dante. —

La bufera infernal che mai non resta,

Mena gli spirti colla sua rapina,

Voltando e percotendo gli molesta.

0 con Berchet.

Peggio assai che l'averla perduta

Egli è dir: la mia Patria è caduta

In obbrobrio alle genti ed a me.

V. Eccomi Bersagliere

Riprendiamo il filo —

Debbo premettere che nominato luogotenente nell'esercito Sardo col R. D. 4 agosto 1860 presi servizio effettivo poi nell'esercito Italiano soltanto dopo che cessò la mia destinazione presso il Conte Cavour.

Quindi per determinazione del 23 marzo 1861 fui destinato da luogotenente nel Corpo dei Bersaglieri e con R. D. 16 aprile di detto anno nei Bersaglieri del 6° corpo d’armata: indi con R. D. 18 aprile 1861 venni promosso capitano nei Bersaglieri del 4° Corpo d'armata con anzianità 8 luglio 1860: poscia tale nel divenuto 4° Reggimento Bersaglieri pel R. D. 31 dicembre 1861, e finalmente capitano di 1 classe in detto reggimento con Decreto 26 marzo 1862.

Rimasi dunque nei Bersaglieri dal 23 marzo 1861 al 12 maggio 1864—cioè oltre tre anni.

Sicché in Italia io mi détti tutto a quest’arma simpatica e tanto potente in guerra, e ad apprenderne tutta la tattica e la istruzione speciale quale si addice ad una truppa speciale o leggera o scelta per iniziative, sorprese, attacchi, movenze, precipitazione, strategia ec. ec.

E definì bene i Bersaglieri il maresciallo Moltke nell’ottobre 1875 in Milano nella grande rivista in onore dell’imperatore Guglielmo, allorché disse, che—

«I bersaglieri hanno nel loro abbigliamento il nero della morte, e nel movimento tutto il vigore della vita.»

Io non vengo qui a fare un trattato della essenza costitutiva dei nostri bersaglieri e a stabilire confronti colla fanteria di linea, né molto meno a parlare di quanto pei Bersaglieri avesse fatto l’on. generale Ricotti durante i sei anni della sua amministrazione, allorché tolse l'autonomia di battaglione ad arma siffatta, e con un tratto di penna radiò la splendida gloria che era appiccicata al numero di ciascun battaglione, e a quant’altro — no — Chi ne avesse vaghezza legga l’opuscolo— Il Bersagliere -del già capitano del Gjenio Paulo Fambri, e apprenderà ciò che occorra per giudicare.

E qui mi sia permessa una digressione che fa molto al caso che narrerò poi a suo tempo.

I Bersaglieri sono truppa di fanteria per la grandissima ragione che non sono cavalleria o artiglieria e Genio; ma fanteria nuda e cruda? No — sono fanteria speciale o leggera o scelta, lo ripeto, e cioè una fanteria sui generis, e perciò hanno una obbiettività e un’azione e una tattica e un comando e una esecuzione che sanno di esclusivismo e di eccezionalità.

Dicasi ad un Bersagliere; sei tu soldato di fanteria? ed egli subito risponderà, no: sono Bersagliere? A suo tempo dovrò ricordare al lettore questa di--aggressione, e dire come per me fosse importante fare un’operazione di guerra coi Bersaglieri anziché con altra truppa; imperocché io fossi stato nell'esercito Italiano non altro che capitano dei Bersaglieri.

E torno alla commedia delle cipolle del Fulco.

«Avete mai riflettuto sul mondo presente? No, voi lo vedete attraverso tinte bleues di cielo, spruzzate all’acqua di rose. Io invece l’ho guardato diversamente, ed ho visto come si abbia torto a credere a quello che vi ha sopra, credendo che sotto vi sia lo stesso!

«Noi, grazie al progresso, che ha un crescendo maraviglioso, abbiamo finito col vergognarci a mostrarci «come eravamo, e ci siamo ravvolti in una scorza liscia, verniciata, che ci confonde tutti, per cui diavoli e santi non si riconoscono più, e che ci rende, né più, né meno, che come le cipolle.»

E qui una protesta con Petrarca.

«Io parlo per ver dire

«Non per odio d’altrui, né per dispregio».

In sul finire del maggio 1861 giunsi alla mia destinazione nel 12° battaglione Bersaglieri, 3 compagnia, in Imola.

Trovai quel che trovai — noto essendo che un furiere, tra l’altro, tentò dar fuoco alle munizioni da guerra per uccidersi col capitano perché questi avea chiesto il resoconto dei fondi erariali che quegli aveva... sperperati o mangiati.

Mi détti a tutt’uomo quindi, e nella mia sfera d’azione a creare concordia, proscrivere la invidia, e che d’altro che mi parve emendabile.

Ebbi unicamente a cuore la prosperità della compagnia affidatami, e ne fui rimeritato, avvegnacché, lo dirò con orgoglio, riuscii, purgandola dei cattivi elementi, ad averla per mesi senz’alcuna punizione non solo, ma a trarla dai forti debiti di massa, malgrado le lunghe marcie, i campi, i distaccamenti di sicurezza pubblica, senza soprassoldo, il brigantaggio ecc:, e ad averla a di più mai ultima nel suo assetto e nella tenuta.

Un ordine del giorno 19 Aprile 1862 N.° 117 del coll.(0 )Soldo, comand. il 4° Regg.(0) Bersaglieri attestava il notevole progresso nella tenuta della 3.(a) Comp. del 12° Bersaglieri, tributandone elogi al comandante, che era io.

Ed in quanto ai crediti e debiti, senza mettere sotto gli occhi del lettore molti ordini del giorno, cito solo quello dello stesso colonnello del 24 novembre 1863 N.° 281, da cui risulta che la mia compagnia al 1.° gennaio di quell’anno avesse il credito di L. 1943,41, e che al 1? luglio dell’anno stesso salisse il credito a L. 2752,42; che al l.° gennaio di quell'anno avesse un debito di L. 4819,62, e che discendesse il debito al 1° luglio a L. 3805,31; onde col detto ordine del giorno me n’erano fatte le lodi.

E la logica delle cifre è proprio inesorabile!

Eppure non mancarono significhe o appunti e sottigliezze metafisiche nello squilibrio delle masse di taluni soldati della mia compagnia; in giustificazione, di che sommisi in data 1.° maggio 1868 un lungo esposto, da cui tolgo il seguente brano di chiusa in proposito di un addebito di L. 41,47 pel soverchio consumo verificatosi nel corredo del soldato Colantoni.

«In tali circostanze ed in tempi non del tutto pacifici era né prudente, né giusto, né politico il portare e provocare lo scontento ed il malumore nelle fila con troppo spinta, severa, zelante e pedantesca applicazione di ritenute senza riguardo..... ecc. ecc.

Epperò le ragioni non valsero, e con dispaccio ministeriale del 18 marzo 1868 fui sottoposto alla relativa ritenuta sul mio stipendio.

Fermarmi su di ciò, entrare nel merito del deconto e della sua ingiudiziosità e di un’amministrazione preadamitica, non farebbe al mio scopo, e non potrei che ripetere ciò che tutti sanno, o meglio che sanno coloro che lessero nel 1870 gli opuscoli del vincitore di Borgoforte, generale Nunziante di Mignano.

Sulle tante cose che mi occorsero durante la permanenza nel 12.° Bersaglieri, se in più rincontri e per giustificare me nelle persecuzioni che mi piombarono di poi addosso, io ne feci confidenziali rimostranze ai superiori maggiori nello interesse della luce e della giustizia, intendo di non intrattenermici ora preferendo meglio il silenzio e che il di sotto resti tale. È vero che tessere la storia del passato, dire il vero senza ritegno, scovrire le piaghe cruenti che travagliarono il paese del si, o il gran popolo Italiano, è opera patriottica, e più un passo importante pel miglioramento; pure poiché altri ne dissero abbastanza e d’altronde non forma quella obbiettività che mi tocca vivamente, vi passo per sopra.

C’è altro, e molto altro, a meditare gravemente nel campo dello spirito autoritario, e autoritario militare, in guisa che a fronte di esso, questo e quello disparisce e qualunque altra cosa passa come se fosse rose e fiori.

Ahi!—dirò con Varano—«non può tutto la virtù che vuole.»

E passando per sopra a molte cose, e come (orribile a dirsi) avessi avuta infamemente spenta una fanciulla—ricorderò solo che trovandomi al campo e nei non pochi distaccamenti di sicurezza pubblica, brigantaggio ecc. meritai colle truppe da me dipendenti gli elogi dei generali Carini, Longoni, Piola Caselli, Avogadro di Casanova che ora comanda in Palermo ecc. ecc., e riscossi attestati di lode e di ammirazione dal Sindaco di Savignano, in quel di Cesena, signor Montesi Righetti in data 28 Febbraio 1862 n.° 320, dal Sindaco di Fossombrone, in quel di Urbino, Signor Lattanzi in data del 31 gennaio e 31 maggio 1863 n.° 177 e 788, e dal Delegato di Pubblica Sicurezza Signor Savi di Savignano in data 28 febbraio 1863 a scopo—sono le parole che si leggono nella scritta del lodato Signor Delegato—» onde ringraziarlo della cooperazione data a «questo ufficio col servizio prestato dai Bersaglieri «nelle case dei refrattari di leva, ove hanno sempre «tenuto un contegno veramente militare, spesse volte «facendo anche abnegazioni e sacrifizi...»

E i distaccamenti della mia Compagnia arrestarono il brigante Melazzi Giuseppe da Rocca di Montecalvo come dalla seguente dichiara.

Carabinieri Reali Stazione d'Acquasanta

«Il sottoscritto Brigadiere comandante la stazione suddetta dichiara di avere ricevuto dal signor Capitano Comandante il Distaccamento dei Bersaglieri d’Acquasanta il detenuto Melazzi Giuseppe da Rocca di Montecalvo=Acquasanta 22 novembre 1863».

Il comandante la stazione

«Fir. Adaglio V. Brigadiere.

Al che il signor comandante Interinale la Divisione militare di Ancona, Generale Piola Caselli, ne esternava con lettera al Comando militare della Provincia la piena soddisfazione; e il colonnello Comandante militare Signor Matthieu aggiungeva aver rassegnato al superior Dicastero quei fatti che ridondavano a gloria del 12.° Bersaglieri, sicuro che il ministero avrebbe impartito il premio dovuto.

Ciò leggesi nell’ordine del giorno del 28 novembre 1863 del comandante del 12.° Bersaglieri—Maggiore Gastinelli.

Inoltre il Sindaco di Acquasanta, signor A. Panichi addì 30 novembre 1863 n’esprimeva del pari l’alta sua soddisfazione e profondeva lodi alla truppa da me comandata.

Epperò non già perché non annetti io importanza ai citati attestati, ma perché parmi che in sé riunisca tutte le lodi prodigatesi alla mia brava 3.(a) Compagnia del 12.° Bersaglieri, dò qui di seguito quanto mi veniva dal Sindaco di S. (a) Maria del Tronto.

Provincia di Ascoli Piceno

Municipio di S.(a) Maria del Tronto,

N.° 200

«Addi 30 novembre 1863

«Onorevole sig. Capitano Comandante la 3(a) compagnia del 12° Battaglione Bersaglieri

Acquasanta

«Il sottoscritto che da vicino al pari delle altre autorità di questi dintorni potendo mai sempre con indicibile soddisfazione del proprio animo ammirare quanto nell’insieme la S. 'V. operasse a pubblico bene, ed a vantaggio del presente ordine di cose durante la sua permanenza in queste montuose contrade, si fa un pregio significarle ch'Ella partendone ora, vi lascia eterna memoria di sé stesso, e che la prontezza di spirito da Lei spiegata nell'accorrere in qualunque momento ovunque il bisogno lo abbia esatto, il carattere gentile e nell'istesso tempo il più dignitoso ch'Ella a tutte le ore ne infondeva ai suoi dipendenti, Essi non degenerando punto da sì nobile esempio, oltre che cattivarono a loro stessi un sommo rispetto e generale affezione, accrebbero in Lei quella serie di meriti dai quali un vero ufficiale dell'armata Italiana, quale Ella è, non dovea né potea certamente andare disgiunto.

«Voglia signore di buon grado accettare un tal atto doveroso da parte dello scrivente, il quale dolendosi non sapere in altro miglior modo esprimere i suoi sentimenti d'una giusta riconoscenza, La prega volerne far mostra alla Superiorità sperando potrà in Essa rinvenire ciò che per incapacità fa difetto nel

Sindaco

Fir G. B. Amadio

Possano una volta leggere questo attestato che erompe dalla piena di affetti e di sincera stima, possano, dico, leggerlo una volta i miei bravi Bersaglieri della 3 compagnia del 12° Bersaglieri verso i quali mi assiste ognora riconoscenza, imperocché seppero non dipartirsi dai miei paterni consigli e dai miei ammonimenti pel bene della patria, dell'esercito e del Re.

Ma che mi rivesto forse io di meriti che non mi son dovuti in tutta la pienezza, essendo devoluti ben pure agli altri ufficiali e ai sott’ufficiali e ai soldati? — no, e no— unicuique swum; però mi si consentirà il caso in mio favore che se un capitano fermo e giusto e gentile può presentare, e tenere nel suo pugno, cento soldati e averli disciplinati, docili e pronti a tutti i sacrifizi, un altro irruente, inumano, ingiusto può farne invece cento diavoli.

E una moralità pratica che se sta in mio favore, e i risultamene furono incontestabili, uopo è che me ne giovi in qualche modo di poi a suo tempo.

Del resto, e ne vado altero, comandai una compagnia di Bersaglieri, che fu modello in tutto, e troppo pur fu lodata.

Un bravo, adesso che sono un ex capitano, mando dal profondo del mio cuore a quanti con me divisero le cure del servizio in epoca fastidiosa e disagiata.

Ma forse perché lodata molto e modello la mia compagnia, fu per questo che con determinazione ministeriale del 13 maggio 1864 fui applicato al comando Generale del 7° Dipartimento (Palermo)? Lo immaginai per tante circostanze, forse non ultima quella dei crediti e debiti di massa della mia compagnia giunti a fronte delle altre compagnie in posizione florida — ma sia o non sia questo o quel motivo, questa o quella ragione per la quale si determinò il ministero, io con dispiacere dovetti lasciare la mia brava compagnia e recarmi in Palermo, dove, infra parentesi lo dico, la destinazione per quelli del continente e pei favoriti non era accetta, e sembrava allora quasi non un premio ma un’abilitazione a distinguersi e ad acquistar, come ponte di passaggio, meriti pei gradi maggiori.

E qui pure penso sia meglio lasciar sotto taluni fatti e taluni precedenti che mal deporrebbero delle cose.

«Galoppa, Ruello, divora la via...

«Portatemi a volo bufera del ciel...

E procedo oltre.

VI. A Palermo

(Giornate del settembre 1866)

Dunque giunsi in questa eroica Palermo da capitano applicato al comando Generale del Dipartimento, appartenendo però sempre ai Bersaglieri e vestendone la Divisa.

E vennero le nefaste giornate del settembre 1866 in cui questa città fu invasa dalle bande armate ((1)) che destarono terrore e interruppero il corso della legge e le funzioni normali degli ordini governativi, provinciali e comunali.

Io non verrò esponendo tutto quello che in quei momenti si fece e fu fatto dalle autorità preposte al mantenimento dell'ordine pubblico, della legge, e della forza in sul primo insorgere dei malcontenti, e ciò che si avrebbe dovuto fare e nelle belle prime e nel prosieguono — imperocché per molte cose dovrei appena riportarmi alla storia accennata dall’on. Tajani nel luglio 1875 nell’aula di MonteCitorio, che tolse il nome di rivelazione Tajani—quel Tajani che da qualche giornale consortesco fu salutato col titolo di capo dei pessimisti, sol perché narrò i fatti avvenuti e le cause efficienti e vere, schierandosi contro i provvedimenti eccezionali, che il Minghetti volle ad ogni costo e che gli uomini della consorteria votarono forse anche contro i propri convincimenti, anche a costo d’insultare tutto il popolo della Sicilia — il regno dei consorti fu una lunga simulazione, lo ha scritto non ha molto La National Zei-tung! — quelli uomini per spirito autoritario e di casta dovendo appoggiare i Sensalez e i Fortuzzi.

Non direi dunque cose nuove —e direi cose che tutti sanno: epperò io mi limito a dire di quelle giornate soltanto ciò che mi concerne personalmente e per le giornate stesse e pei fatti sussecutivi.

Appena si manifestarono e il timor panico e i primi moti, dovetti far tacere in mia casa e i figli che piangevano e la moglie e i padroni di casa, tutti che mi scongiuravano onde rimanessi, perché mi si diceva appena uscendo di casa avrei incontrato la morte, trovandosi uomini, armati di fucili, nascosti dietro le persiane d’una casa vicina che attendevano sortissi.

Risposi — ed era il mio dovere — risposi, esser soldato e dovermi perciò recare al mio posto.

Appena fui sulla soglia dell'ingresso di casa, colle spalle a Monreale per prender la strada di palazzo reale, gl'insorti spianarono verso di me i fucili. Un giovane però alto e robusto seduto lì nel punto, dove io era, con altri compagni, fece dei segni di testa e mano negativi — era un capo degl'insorti — e così ebbi salva la vita.

Persone al 1° piano del palazzo del Duca Fici, e la mia consorte tutto vedeva dalla finestra! mi chiamavano perché mi ricoverassi da loro.

Io ringraziai, e proseguii il cammino verso palazzo reale. Era il luogo del mio dovere.

Io così in palazzo reale stavo a disposizione e attendeva gli ordini che mi avrebbe dato il mio capo di Stato maggiore.

Epperò anzioso di fare e provvedere andiedi col colonnello dèi granatieri ad ispezionare durante la notte la piazza Bologni, onde vedere se gl'insorti avessero principiato la costruzione di barricate ecc. ecc.

Andavo giorno e notte in sulla Specola per osservare le masse degl’insorti e riferirne al comando generale.

Visitavo i cannoni piazzati a Porta nuova, alla Matrice, dietro palazzo reale, contro la torre Benedettini bianchi ecc. ecc., e nel far ciò traversavo la piazza reale che era battuta da per ogni dove dalle fucilate dei Benedettini bianchi e da altri tetti dominanti la piazza stessa.

Io feci il mio dovere, e, mi permetto dire, più del mio dovere, né imitai per certo altri che forse, credo, per infermità rimasero a casa; e il feci avvegnacché 4 compresi fin dal principio che la prolungazione di quei moti sarebbe stata fatale a Palermo, di grave dispendio all’Italia e un massacro inutile di uomini.

Fui io che richiesi al signor Sindaco Rudinì quattro pompieri civici, in mancanza di truppa, onde postarli sul terrazzino del palazzo della prefettura: fui io che richiesi poi la forza doganale al detto scopo onde impedire cosi il continuo passaggio degl'insorti in via Giojamia — e ne conservo gli attestati già noti al ministero della guerra.

Ecco tali attestati:

Attestato

Corpo dei Pompieri e cantonieri

«Attesto con piacere che il capitano Luigi Appel nei Bersaglieri ed applicato al Gran Comando di Palermo dietro autorizzazione verbale del Sindaco signor Marchese Rudinì, si presentò a me il giorno 18 settembre 1866 richiedendomi quattro pompieri civici, buoni tiratori, onde — in difetto della truppa regolare — piazzarli sopra il terrazzino più elevato del ministero, ossia prefettura in piazza reale, intercettare con tiri ben diretti le comunicazioni aperte dai ribelli della Città coi briganti della campagna, ed impedire il continuo passaggio degli insorti in via Giojamia, che dalla città esportarono le prede fatte nel saccheggio.

«Tosto avuta la forza richiesta, il suddetto capitano corse alla testa dei pompieri dal palazzo reale traversando la piazza, ove le palle di continuo passavano a mezz'altezza di uomo, alla prefettura, in quale atto poco mancò, che il sig. Appel non fosse colpito da una palla passatagli accanto la testa, e che raccolse dal muro ov’era conficcala.

«Giunto coi pompieri al ministero richiese il custode per esser condotto in sul terrazzino, ove piazzò i pompieri e diede loro le istruzioni opportune pel traforo delle fessure del muro e della sottostante soffitta onde poterne ritirarsi, e curò l'approvvigionamento necessario di bocca e di munizione.

«I quattro pompieri ivi collocati a pancia a terra sono: Sergente Perez, pompieri Borgani Cesare, Antonetti Giuseppe e Focchia Giuseppe, l'ultimo dei quali nel frattempo mori, gli altri tre tuttora vivi qui sottosegnati, trovansi nel corpo dei Pompieri ancora.

«Dopo 24 ore il suddetto capitano vi condusse quattro guardie della R. Dogana, onde dare il cambio ai pompieri civici.

«I briganti durante la notte dal 18 al 19 settembre avevano costruita una barricata, onde ripararsi dalle palle della forza piazzata nel predetto terrazzino.

«Tanto in fede —

«Fir. Antonetti Giuseppe

«Borgani Cesare

«Perez Francesco

«Fir. Ludovici Nicola Comandante i civici pompieri di Palermo

«Visto per la firma

Il Sindaco

«Fir, P. Peranni

Attestato

«Io sottoscritto certifico che assieme ad altri tre compagni cioè Scatizzi Giuseppe, Pascotto Angelo e Baroncini Agostino guardie doganali e dietro autorizzazione del nostro luogotenente Signor Esperti Pasquale verso sera del 19 settembre 1866 fummo condotti dal palazzo reale alla prefettura (così detto ministero) dal capitano sig. Luigi Appel in sul terrazzino più elevato di quel fabbricato onde dare il cambio a quattro pompieri civici che avevano tenuto quella posizione fin dal 18 detto mese.

«Il terrazzino suddetto restò occupato dalle guardie doganali fino a tutto il 22 settembre 1866.

«In fede —

«Palermo 25 settembre 1872

«Fir. Amari Michele — Sotto-Brigadiere

«Visto per la firma
«Fir. P. Pebanni

_____________

1.(a) Annotazione. Piazza reale, tutti lo ricondano, nel 1866 non era come oggidì provvista di piante ecc:—Essa era pianura rasa e tutta dominata dalle palle dei ribelli che tiravano dalle torri e tetti circostanti.

2.(a) Annotazione importante.

L’Ispezione delle guardie doganali in data 18 dicembre 1866 diresse lettera al comando militare di Palermo, chiedendo dal capitano sig. Appel Luigi un certificato di bravura in favore delle guardie doganali da esso condotte in sul terrazzino.

Questa lettera non si potè più trovare negli archivi del Distretto militare, né in quelli della suddetta Ispezione.

O, che fosse stata una favola il piazzamento sul terrazzino? E la morte del Pompiere Focchia favola pure?


Dopo questi fatti, non conchiuderò io qui. Lascerò la parola a quello strenuo campione d’indipendenza e di franchezza e di lealtà e di umanità che è il giornale II Precursore, che nel suo articolo— Siamo giusti!—del 22 luglio ultimo n.° 201—scrisse, dopo aver esaminato tutt'i miei documenti — scrisse.

«Questi precedenti ufficiali provano come il sig. Appel non smentisse mai se stesso e nella guerra del 1859 e presso il Cavour e negl'incarichi all’estero che adempì da solo, e in pace e nella repressione del brigantaggio presso lo stesso gran comando di Palermo.

«Poteva mai esser pusillanime costui?»

Grazie, grazie, signor Direttore del Precursore. Voi travedeste a traverso del prisma dei fatti e dei documenti— Voi intravedeste la vittima e raccapricciaste— Voi trovaste impossibile la pusillanimità in un ufficiale d’onore — Tedesco — Italiano d’elezione.

Altri senza consultar nulla, o tutto presumendo per. arte divinatoria autoritaria, col dono dell'infallibilità garentita in alto luogo, senza mai poter esser smentito, forte del suo grado elevato e pieno della scienza infusa che dal grado riviene per incantesimo, senza conoscermi, non fu del vostro avviso, meditandovi sopra anni ed anni. E dirò col poeta.

«Grato m’è il sonno e più l’esser di sasso

«In fin che il danno e la vergogna dura.

«Non veder, non sentir m’è gran ventura,

«Però non mi destar. Deh! parla basso».

Ma fermiamoci un pò sull’Osservatorio alle ore 10 a. m. del giorno 22 settembre 1866.

Il dramma comincia qua.


VII.Sull'Osservatorio astronomico

Premetto —

Per R. D. 22 febbraio 1866 fui collocato in aspettativa per soppressione d’impiego ((1)), e con altro R. D. 4 giugno di quell’anno fui richiamato in effettivo servizio nell’arma di fanteria ((2)) ed applicato allo stato maggiore del Dipartimento militare di Palermo.

Nelle giornate dunque del settembre di cui parlo, io ero capitano di fanteria, e dopo che fu richiamato nel continente il Generale Carderina comandante del Dipartimento Militare, io mi trovai sotto gli ordini del Generale Righini e dipendente direttamente dal capo di stato maggiore L. Colonello cavaliere Lipari.

Ma era io stato in fanteria? No. Avevo comandato sempre Bersaglieri in Italia, e dai Bersaglieri mi trovavo allo stato maggiore Dipartimentale di Palermo.

Ecco intanto ciò che ha scritto II Precursore del 23 luglio ultimo n.° 201 nel suo articolo—requisitoria— Siamo giusti!

«Ma viene il nodo gordiano.

«Il capitano Appel verso le 10 a. m. del 22 settembre, secondo il solito, trovossi coi signori Tacchini e Cacciatore sulla Specola onde osservare i movimenti delle bande armate, allorché ivi comparve il comandante della 10. Divisione attiva generale Diego Angioletti accompagnato dal capo di stato maggiore L. colonnello Lipari.

«Il generale domandò ad Appel cosa ci era di nuovo.» — Ecco, generale, risponde Appel; il cannocchiale è in direzione; veda in via Pisani!» Il generale data una occhiata, esclamò: — «Qui davvero si potrebbe fare un bell’affare. È Ella, capitano, pratico di queste contrade?

«Generale, ne sono pratichissimo.

«Ebbene, capitano,—mi dica, come si potrebbero pigliare questi assassini?

«Accerchiandoli, risponde il capitano Appel; e innanzi tutto bisogna vedere se le nostre truppe hanno occupato le porte di Castro e S. Agata; poi girando ecc. ecc. ed attaccando gl'insorti a viva forza e prenderli in una trappola.

«Era un esame di strategia cui era sottoposto il capitano Appel? Chi era l’inferiore, chi il superiore? Erano consigli che prendeva il generale?

E il generale disse:—«Vorrebbe Lei, capitano, prendere una compagnia di fanteria, truppa fresca, sa?!?. Al che Appel rimase meravigliato, egli che aveva visto un momento prima il contegno della fanteria composta di giovanissimi soldati sparare a caso; e si fece a dire.

«Mi lasci guidare due Compagnie di Bersaglieri anziché di linea, non intendendomi del comando della linea.

«Intanto il generale, senza rispondere, sembrando adirato, andò via.

«Il domani 23 settembre, furono intimati gli arresti di rigore al capitano Appel, senza dirglisi il che e il come, e solo nel 25 settembre seppe essere accusato dal generale Angioletti di essersi cioè rifiutato ripetutamente di porsi alla testa di una e più compagnie di fanteria per attaccare una squadra d’insorti alla strada che mena ai Porrazzi—incarico che gli voleva affidare il prelodato generale, incarico che voleva assumere egli stesso il signor Appel però con due compagnie di Bersaglieri, operazione da lui medesimo suggerita al prefato generale. Appel fu dunque sottoposto a regolare inchiesta presso il Tribunale c militare di Palermo.»

Esposto così il sunto, vengo ai particolari, pregando il lettore a percorrerli per intero.

Circa le 5 p: m: del giorno 23 settembre, cioè nel domani dell'incontro mio col generale Diego Angioletti sull’osservatorio astronomico, ricevei dal capo di stato maggiore del G. Comando Dipartimentale, L. colonnello Cavaliere Lipari, il seguente ordine.


«Palermo 23 settembre 1866

«D'ordine del signor Luogotenente generale comandante il Dipartimento Ella guarderà gli arresti di rigore fino a nuovo ordine.

«Il motivo di tale punizione Le sarà poi comunicato dal signor Generale stesso.

«D’ordine

«Il capo di stato maggiore

«Fir. Lipari

Può immaginare il lettore se rimanessi come la biblica moglie di Lot nel leggere ordine siffatto. Altro che fulmine a ciel sereno. Che avevo fatto? Che mi s’imputava? La mia agitazione fu immensa, imperocché nulla la mia coscienza rimproverava a me stesso. Pensai a qualche calunnia di qualche anonimo — e non è a meravigliarsi, poiché è bensì vero che si è proclamato sempre non darsi peso alle scritte anonime, ma ho visto pur sempre in pratica che alle anonime si è dato conto— sapete? — come principio di prova! Preoccupatomene quindi, rassegnai immediatamente all'Illustrissimo Luogotenente Generale Commissario Regio di Palermo il seguente reclamo:


Palermo 23 settembre 1866

«Circa le ore 5 p. m. mi giunse il seguente laconico viglietto (quello del capo di stato maggiore, che trascrissi).

«Essendomi conscio di non aver commesso nessuna mancanza che potrebbe meritare sì grave punizione, debbo dubitare di essere stato calunniato e non dandomi neppure conoscenza della supposta mancanza fino ad un tempo indeterminato mi dà luogo a credere che si cerca di guadagnare tempo onde accumulare e formulare accuse contro la mia persona dando a menzogne forse sparse per secondi fini faccia e figura di verità; per cui oso rivolgermi a V. S. Ill. onde voglia obbligare il signor Comandante il Dipartimento di farmi conoscere il motivo affinché io sia «in grado di difendermi.

«Fidando nell’integrità e nell’amore di giustizia della S. V. Ill. ec. ec. —

«Devotiss.(0) subordinato

«Fir. Capitano Appel

«Corso Calatafimi, 1 piano — 16.»

Epperò privo di dati precisi, ignaro di che si trattasse, vagando incerto e ansioso, intesi di usare del mio diritto e di sapere i fatti e di difendermi il più presto possibile.

E rimasi sotto un vero incubo fino a quando non seppi l’accusa alla quale ero fatto segno precisamente dal — 60 -summenzionato Generale Angioletti comandante la 10(a )Divisione attiva.

Ma non divaghiamo.

Come ho detto il 22 settembre, ore 10 a. m. avvenne la conversazione accademica tra me e il Generale Angioletti, e questi senza mica affrettarsi a formulare la sua accusa (e doveva meditarvi oltre 48 ore!), il 24 dell’indicato mese scrisse la seguente lettera; N.° 228 riservata, al Comandante il Dipartimento.

__________________

Prego il lettore a meditarla.

«Il mattino del 22 settembre corrente essendomi recato sull'Osservatorio del palazzo reale per vedere le masse dei briganti, ne scoprii parecchi che se ne stavano tranquillamente bivaccando nella strada che conduce al piano dei Porrazzi.

«Venutami l’idea di farli arrestare proposi al capitano dei Bersaglieri signor Appel applicato a cotesto G. Comando, che trovavasi a me vicino, di voler servire di guida a due compagnie del 59° fanteria e tentare con esse il colpo.

«Ma con mia grande sorpresa ebbi ad osservare che il predetto capitano titubante mendicava pretesti onde esimersi dall'onorevole incarico che io voleva affidarli e concluse col rifiutarsi ripetutamente.

«Un simile procedere mi sembra non degno per chi riveste l’onorata divisa di capitano dei bersaglieri, onde ne rendo edotta la S. V. I. per quel conto che crederà di farne

«Fir. Angioletti

______________

Lo stesso giorno 24 settembre il signor Generale Righini con confidenziale n.° 132 scriveva quanto segue al Generale comandante le truppe in Sicilia.

«Dal signor comandante Generale la 10 Divisione attiva m’è pervenuto il qui accluso rapporto relativo al rifiuto dato dal capitano dei Bersaglieri signor Appel Luigi applicato al comando Generale di questo Dice paramento militare alla prefata autorità di guidare un drappello di truppe contro i briganti accampati al piano dei Porrazzi.

«Il capitano suddetto trovasi agli arresti di rigore per mio ordine, ma la mancanza di questo ufficiale sembrami si grave che io propongo alla S. V. di sottoporlo ad un consiglio disciplinare Divisionale.

«Fir. Righini

______________

Ed ecco che finalmente dopo quasi 48 ore — non c’era da affrettarsi poi tanto! — seppi la colpa della quale ero accusato ricevendo il 25 settembre la seguente partecipazione del Signor Capo di stato maggiore L. Colonnello cavaliere Lipari.

«Il signor Generale comandante interinale il Dipartimento m’incarica significarle che gli arresti di rigore le furono inflitti dietro un rapporto fatto dal signor Luogotenente Generale comandante la 10(a )Divisione attiva, per essersi Ella rifiutata di porsi alla testa di una o più compagnie di fanteria per attaccare una squadra d’insorti alla strada che mena ai Porrazzi.

«In seguito poi della lettera da Lei diretta al Luogotenente Generale Signor Commissario straordinario del Re fu posto agli arresti in Fortezza con sentinella alla porta d’ordine del medesimo Commissario Regio.

«d’ordine

«Il capo di stato maggiore

«Fir. Lipari

La mia lettera dunque al signor Commissario straordinario del Re (riportata sopra) con la quale domandavo la causale della grasse punizione e con la quale esternava presentire la calunnia o la menzogna, senza individuar persona, e no ’l potevo ignaro com'era di che sì trattasse, fu ancora un altra colpa per la quale mi si rinchiudeva in Fortezza con sentinella alla porta! Ma via, proseguo la serie dei documenti.

Ecco poi quanto scriveva il Generale Righini, quel signor Generale da cui io dipendeva direttamente ((1)), scriveva il 25 settembre, confidenziale N.° 134, al Signor Avvocato fiscale militare.

«Siccome risulta delle carte annesse all’unito Elenco, il Capitano Appel Signor Luigi applicato a questo Gran Comando, il mattino del 22 volgente con mendicati pretesti dinegavasi di servire a guida di due compagnie onde compiere un onorevole incarico gli si affidava dal Luogotenente Generale Angioletti Comandante la 10(a) Divisione attiva, concludendo con ripetuto rifiuto.

«Riferitosene al Signor Luogotenente Generale Comandante generale le truppe nell'Isola, ha determinato che il signor Appel sia assoggettito a regolare procedimento anziché a consiglio di disciplina come erasi proposto da questo Gran Comando; in conseguenza di che prego la S. V. I. volersi analogamente provvedere.

«Il capitano suindicato di già ritrovasi in una delle camere destinate agli ufficiali in arresto nell’ex Forte Castellammare debitamente custodito.

«Fir. Righini


Il 25 settembre, lo si legge chiaramente, io dovevo dunque essere assoggettito a regolare procedimento, anziché a consiglio di disciplina.

Epperò il Generale Angioletti qual Comandante della Divisione Territoriale di Palermo, in data 9 ottobre 1866 N.° 7783, ufficio territoriale, rivolse la seguente lettera al signor Avvocato fiscale militare.

«A seguito degli ordini avuti dal signor Comandante generale le truppe in Sicilia dovendo il Capitano signor Appel esser sottoposto ad un consiglio di disciplina, necessita che sia trasmessa a questa Divisione la lettera che il Capitano medesimo osava dirigere al signor Comandante Generale suddetto mentre trovavasi agli arresti e a disposizione dell’autorità giudiziaria.

«Pertanto io rivolgo preghiera alla S. V. affinché tale trasmissione abbia luogo al più presto possibile.

«Fir. Angioletti

______________

Non vengo a rilevare le inesattezze contenute in tale lettera, imperocché io rivolsi il mio reclamo al Generale Cadorna in data del 23 settembre, cioè in allora che trovavami agli arresti in mia casa, e perciò non già mentre mi trovavo agli arresti in fortezza a disposizione dell'autorità giudiziaria.

Cosa ne voleva fare Egli di tale mio reclamo che è da reputarsi già mandato all'avvocato fiscale dal mio superiore, il Generale Righini, il 25 settembre n.° 134 confidenziale?

Intanto nello stesso 9 ottobre 1866 il L. Colonnello cavaliere Lipari si compiacque dirigermi la seguente lettera.

«Stimatissimo sig. Capitano

«Ella a quest’ora avrà ricevuto forse dalla Divisione risposta a quanto domandavano ieri e che non potei farle sapere perché non trovai a chi dirigermi che fosse al caso di darmi una risposta categorica. Ecco come stanno le cose.

«La commissione d'inchiesta non ha trovato gli estremi per procedere, quindi Ella fu rilasciata in libertà per parte del tribunale militare.

«In conseguenza di che le verrà tolta, se non già lo fu, la sentinella alla porta. Però resterà sempre agli arresti di rigore nel forte perché il Generale Comandante le truppe nell’isola ha ritenuto che la sua mancanza quantunque non suscettibile di pena, giudizialmente parlando, può essere sottoposta al parere di un «consiglio di disciplina che credo sarà, in breve conte vocato.

«Ecco quanto è a mia cognizione e che Le comunico in risposta al di Lei foglio

«mi creda

«Suo devotissimo

«Fir. Lipari


E nel giorno 11 ottobre il Comandante generale della Divisione militare di Palermo, ufficio territoriale, numero 7836—Generale Longoni, — scriveva quanto appresso al comandante militare il Circondario di Palermo.

«In adempimento degli ordini del Comando Generale delle truppe in Sicilia dovendo il sig. Capitano Appel attualmente detenuto agli arresti di rigore nell’ex Forte di Castellammare essere posto immediatamente in libertà, si prega la S. V. a voler dare le disposizioni per la pronta esecuzione di tali superiori ordini.

«Fir. Longoni

E qui prima di passar oltre, è necessario un pò di riassunto.

Mi trovai sulla Specola il 22 settembre, e colà ebbi, dirò, una conversazione col Generale Angioletti in quanto al da fare pigliare! briganti.

Il Generale Angioletti nell'accusarmi col suo rapporto 24 settembre scrisse queste testuali parole (è ottima la ripetizione!).

«Venutami l’idea di farli arrestare proposi al capitano dei Bersaglieri sig. Appel... che trovavasi a me vicino, di voler servire di guida a due compagnie del 59° fanteria e tentare con esse il colpo.

«Ma con mia grande sorpresa ebbi ad osservare che il predetto capitano titubante mendicava pretesti onde de esimersi dall'onorevole incarico che io voleva affidarli e concluse col rifiutarsi ripetutamente».

Il Generale Angioletti dunque senza degnarsi neppure esporre al sig. Generale Comandante il Dipartimento da cui io dipendeva, quali fossero stati per avventura gli asserti pretesti da me mendicati, e doveva esporli perché i miei superiori avessero avuto fin dalle prime un criterio ed una norma per provvedere con cognizione di causa, il Generale Angioletti, replico, si tacque su di un fatto decisivo qual'era quello dei pretesti; e nel tacersi presentò di per se stesso un fatto grave pel quale, mi permetto dire, di sorpresa, il Generale Righini m’impose gli arresti e promosse un consiglio disciplinare Divisionale.

Il benigno lettore ha ben letto che il Generale senza ambagi e assolutamente affermasse di avermi proposto a servire di guida a due compagnie del 59 fanteria e che mi fossi ripetutamente rifiutato.

Il linguaggio, militarmente parlando, mi par nuovo: un Generale che propone una partita e che non ordina e che non avendo ordinato riferisse poi di aver io concluso con un rifiuto ripetuto?!

Ma dunque il Generale propose due compagnie; e come va che il capo di stato maggiore nella sua lettera a me diretta il 25 settembre parlò essermi io rifiutato di pormi alla testa di una o più compagnie di fanteria per attaccare!

Ma la proposta fu di una o più compagnie? o di una soltanto? o proprio di due compagnie? e fu per guidare ì o per pormi alla testa e attaccare?!!

L’Angioletti scrisse ripetuto rifiuto — ciò vuol dire che vi dovette essere un primo e poi un secondo rifiuta per lo meno!?

L’Angioletti scrisse di ripetuto rifiuto, ma rifiuto, a che cosa? Ad un incarico proposto che egli voleva affidarmi?! Ma lo aveva affidato?

Il modo imperfetto o perfetto del verbo volere non è una inezia!

Il generale Righini poi non sapendo comprendere per avventura un rifiuto senza un incarico dato, in data 25 settembre n° 134 formula addirittura l’accusa senza attenuanti — egli scrive — Appel, dinegavasi di servire. a guida di due compagnie onde compiere un'onorevole incarico gli si affidava dal Generale Angioletti.

Dunque non si trattava più di proposta, o d’invito, ma proprio d'incarico affidato?

È proprio un romanzo delle mille ed una notte, o addirittura una commedia!

Aveva detto la fiaba un Generale venuto dar continente, un Generale Comandante la 10(a) Divisione attiva, un Generale venuto per sedare i moti insurrezionali, un Generale che faceva proposte ad un Capitano, e non c’era a guardare pel sottile, si dava corpo alle ombre addirittura immaginarie; si diceva amen, si metteva un ufficiale in Fortezza senz’altro: lo si sottoponeva a giudizio perché così voleva il Generale sullodato, non guardandosi a leggi, a convenienze, a dipendenze, alla verità al torto o alla ragione!

Non era l’uomo; era lo spirito autoritario che doveasi salvaguardare.

Un Capitano poteva sacrificarsi a tanto scopo!

Un Generale non poteva mentire di certa scienza a se stesso, ai superiori maggiori, all’Esercito, al paese. Egli era Pio IX, infallibile, impeccabile a di più!

Peccato proprio ch'era giudicabile.

E poi, Angioletti, Generale di cavalleria, non era stato ministro nel 1° e 2° ministero La Marmora, ministro di Marina, dal 21 dicembre 1864 al 20 giugno di quell’anno di grazia 1866? E non poteva divenirlo di nuovo appunto dopo i moti di Palermo in grazia delle sue proposte per pigliare i briganti!

Ma mentì scientemente l’onorevole, l’eccellentissimo Generale Angioletti?

«Ilari gli stessi delitti un vario lato,

«Questi diventa re, quegli è impiccato.

Ma; se è un romanzo!? E fu nominata una commissione d’inchiesta presso il Tribunale di Palermo.

VIII.Ma che c’è di vero?

Ciò che c’ è di vero deve rilevarsi dai documenti.

Secondo Angioletti — egli voleva affidarmi l’on. incarico: secondo Righini, Angioletti me l’aveva affidato addirittura.

La questione sta proprio in questo.

Secondo Angioletti, — egli propose: secondo Righini, trattavasi d'incarico dato, e perciò il rifiuto essere grave colpa; gravissima colpa sarebbe stata, aggiungo io.

Sembra la statua di Nabucco costruita sulla sabbia.

E la Commissione d’inchiesta procedette al suo compito. Ecco le deposizioni fatte.

Deposizione Angioletti

«Addì 26 settembre 1866 in Palermo.

«Diego Angioletti fu Giuseppe di anni 44 di Schio (Isola d’Elba) studente, ora Luogotenente Generale Comandante la 10(a) Divisione militare attiva—ammogliato senza prole —

Riconferma il rapporto 24 settembre 1866 in ogni sua parte — Aggiunge: accortomi come già dissi nel mio rapporto della presenza di alcuni briganti, interpellai il capitano signor Appel, se era pratico della località, ed alla sua risposta affermativa, lo pregai volesse servire di guida a 2 compagnie di fanteria che volevo mandare in cerca dei briganti suddetti: ma egli risposemi che se fossero due compagnie di bersaglieri andrei, ma colla fanteria no. A voce un pò più alta avendogli io ripetuto tale preghiera ed avendogli io fatto osservare che bersaglieri non ne avevo, ma che la fanteria valeva i bersaglieri, di nuovo rifiutossi.

«Ordine formale però al capitano predetto non diedi che si prestasse a servir di guida alle due compagnie...

Deposizione Cacciatore

«Cacciatore Gaetano, Direttore della Specola, d’anni 51, ammogliato senza prole.

Depone che il Generale domandasse al capitano se volesse assumersi una fazione.

«Sentì che questi rispondendo parlava di una compagnia di Bersaglieri; ma siccome io era attento ad altre cose, non prestai molta attenzione al discorso fatto tra il Generale ed il capitano. Non ha poi sentito assolutamente che il primo ordinasse all’altro una cosa qualunque.»

Deposizione Lipari

«Lipari Gaspare fu Marino d'anni 43.

«Luogotenente Colonnello.

«La mattina del giorno 22 corrente mese io accompagnai il luogotenente Generale Sig. Angioletti alla Specola del palazzo d'onde con un cannocchiale avendo scorto una comitiva di gente armate in vicinanza dei Porrazzi e sentito dal capitano Signor Appel, che quivi pure trovavasi, come tenendo certe strade si potevano circuire; interpellato dal Generale se conoscesti se le località, rispose affermativamente, al che il Generale soggiunse allora, capitano prenda due compagnie e vada lei. Rispose il capitano io andrei se mi dasse due compagnie Bersaglieri, ed il Generale soggiunse—» «Dove vuole ch’io prenda ora due compagnie Bersaglieri? Prenda due, tre compagnie di fanteria se occorre che far lo stesso —» allora il capitano Appel rispose «perdoni, ma io essendo vestito dell'uniforme dei Bersaglieri non conosco quest'altra arma».

«Il Generale tacque dopo di questo.

«Mi sembra che il Capitano Appel dovesse servire di guida a due compagnie di fanteria.

«Dal tuono di voce, dall’atteggiamento della persona ritengo che fosse piuttosto un invito che il Signor Generale volgeva al Signor Appel che non un ordine formale, che altrimenti il Generale avrebbe assunto un altro contegno.

«Fausto Duca di Marziale d’anni 26 di Brescia, studente, Luogotenente nel 33.° Fanteria, aiutante di campo del Generale Angioletti.

«Dice — vorrebbe Ella andare guidando due compagnie a prendere quella gente?

«Il Capitano nelle prime nulla rispose; indi disse che ci sarebbe andato qualora avesse avuto al suo comando 2 Compagnie Bersaglieri, ed avendogli il Signor Generale osservato come in quel momento non poteva disporre di alcuna compagnia di quell’arma e che la fanteria valeva bene i Bersaglieri e che poteva guidare benissimo 2 Compagnie di Fanteria, il Capitano Appel rispose che egli non ci poteva andare perché non conosceva i comandi della fanteria di linea quantunque il Signor Generale lo rendesse avvertito ch’ei doveva solamente servire loro di guida senza assumere il comando.

«Il Signor Luogotenente Generale Angioletti non ha dato al Capitano Appel ordine assoluto di servire di guida alle compagnie anzidette, ma lo ha solamente invitato per quanto io mi posso ricordare.

«Ecco ciò che sono in grado di dichiarare.»

Deposizione Appel

«Sabato addì 22 corrente mi trovavo come al solito sulla Specola del palazzo in compagnia del professore di metereologia signor Tacchini ed un altro suo collega.

«Verso le ore 10 antimeridiane circa vi saliva pure «il Generale Angioletti accompagnato dal Luogotenente Colonnello Capo di stato maggiore Lipari e dal Direttore dell’istituto meteorologico signor Cacciatore.

«Alla domanda del Generale:

«Ebbene cosa c’è di nuovo; cosa si può vedere—risposi: Signor Generale se vuol vedere qui in via Pisani un bel nido di briganti, il cannocchiale è appunto in direzione.

«Il Generale datovi un’occhiata esclamava.

«Qui davvero si potrebbe fare un bell'affare!, e rivolgendosi verso me soggiunse: Capitano è Lei pratico di queste contrade?

«Io nella speranza di ricevere qualche missione con cui poteva, non dirò farmi onore ((1)), ma bensì rendere qualche efficace servizio al paese, m’affrettava rispondere— che ero pratichissimo e che in tutto il circondario di Palermo conosceva i luoghi minutamente ecc. —

—«Ebbene capitano, mi replicava il Generale — mi dica, come potrebbersi pigliare questi assassini?

«Accerchiandoli, risposi —cioè innanzitutto bisogna vedere se le nostre truppe hanno occupato le porte di Castro e S. Agata, poi girando con una frazione di truppa lungo la via che mena ai Porcelli e che confina il parco d'Orleans di levante, e contemporaneamente con un altra per via Mezzomonreale (corso Calatafimi'), voltando poi a sinistra pel vicolo di fianco al quartiere della Vittoria ed uscendo presso il manicomio, ove si avrebbe operata la congiunzione tra questa e quella frazione, formata la catena, serrato ed attaccato a viva forza ((2)) gli insorti, che non avrebbero più potuto scappare e sarebbero stati presi nella posizione che occupavano come in una trappala ((3)).

«Non ebbi ancora terminata l’esposizione del mio piano, che il Generale m’interruppe dicendo essere ciò troppo lungo e fini col domandarmi —

— «Vorrebbe lei capitano prendere una compagnia fanteria, truppa fresca, sa?!

«Dico la verità, io rimasi come attonito, fisso coi miei occhi su quelli del Luogotenente Generale Angioletti, come per dire, ma per Dio — uomo — dici tu «sul serio quanto dicesti?!?

«Il Generale sembrava aver capito qualche poco del mio pensiero, poiché continuava a dirmi: «Si battono bene lo stesso, io glielo garantisco.

«Ma io avendo coi miei propri occhi visto il contegno della fanteria composta quasi tutta di giovanissimi soldati inesperti e pur troppo debbo dire non con buona dose di paura (prova ne sia il numero degli ufficiali feriti e morti dovendosi esporre perché i soldati esitavano andar avanti) avendo veduto poco prima un intero battaglione fanteria schierato sotto il bastione del palazzo fuori Porta Nuova far fuoco senza comando contro una finestra d'una casa opposta da cui partiva un solo colpo di fucile — (fu un colpo di un carabiniere sparato dalla finestra del proprio quartiere), — ed avendo in tale occasione io stesso corso pericolo d'essere colpito dalle palle di quei soldati, che nemmeno miravano ove sparavano,. se non mi fossi a tempo ritirato in una bottega trovandomi giusto là al posto per incontrare le truppe in arrivo per la via Colonna Rotta ((1)), visto infine che quei soldati non possedevano l'agilità né la sveltezza né la destrezza occorrente per saltare le mura, le fossa, siepi ec. ec. onde lodevolmente eseguire l’operazione accennata: mi dispiace dover confessare non aver potuto prestare fiducia alle parole del Generale, che mi offriva la sola forza di circa 80 o 90 uomini, cosicché mi feci a domandargli di lasciarmi guidare due compagnie Bersaglieri piuttostoché della linea, essendo Bersagliere e non intendendomi nulla del comando della linea.

«Questi però rispondendomi non aver attualmente a sua disposizione Bersaglieri, adirato se ne andò»... —

Deposizione Angioletti 1° ottobre 1866

«Io ho sempre inteso di avergli mosso un invito piuttostoché dato un ordine.

«Io credo che il Capitano lo abbia inteso semplicemente come un invito.

«Io lo intendo come un rifiuto di servizio ad un invito fattogli, ma non un rifiuto ad un ordine datogli».

____________

Ed ora dopo le deposizioni, ecco la sentenza della commissione d’inchiesta del Tribunale militare di Palermo.

«In nome di S. M. Vittorio Emanuele II. per grazia di Dio e volontà della nazione Re d’Italia.

«La Commissione d’inchiesta presso il tribunale militare territoriale sedente in Palermo convocatasi nella solita sala di sue adunanze in persona dei signori:

«Marino Carlo, Maggiore,

Presidente —

«Fonzio Pietro, capitano

giudici

«Lombardi Evandro)

coll’assistenza dell’infrascritto Segretario, cioè Artom.

«Sentita la relazione degli atti fatta dal sig. ufficiale Istruttore sig. Franzini Giuseppe luogotenente in presenza del sig. avvocato fiscale militare sost. Burco Antonio.

Contro

«Appel Luigi d’Enrico d’Ansbach (Baviera) d’anni 31 capitano nel 4° Reggimento Bersaglieri applicato allo Stato maggiore del Dipartimento di Palermo detenuto ed imputato di reato in servizio.

«Perché il mattino del 22 settembre 1866 verso le ore 10 antimeridiane sul finire dell’insurrezione brigantesca in Palermo trovandosi sull’osservatorio del palazzo reale ove erasi recato con alcuni ufficiali il Generale Comandante la Divisione militare per scoprire le masse dei briganti invitato dal medesimo a servire di guida a due Compagnie del 59° fanteria onde tentare un operazione militare contro parecchi... che vedevansi bivaccare lungo la strada che conduce al piano di Porrazzi, si rifiutò di assumere quell’onorevole incarico con pretesti mendicati per esimersene.

«Udite le conclusioni del pubblico ministero colle quali richiede che si dichiari non farsi luogo a procedimento contro il Capitano Appel Luigi pel reato in servizio imputatogli, e si ordini il di lui rilascio in libertà non essendo per altra causa detenuto;

«Essendosi poscia ritirati i signori avvocato fiscale militare ed ufficiale Istruttore;

«Viste ed esaminate le carte del processo;

«Ritenuto, che il fatto sovraesposto risulta dai rapporti raccolti in atti e che l’imputato anziché a consiglio di disciplina, come era stato proposto dal Comandante Generale il Dipartimento, fu assogettato per tale fatto a regolare procedimento dietro ordine del Comandante Generale delle truppe in Sicilia;

«Attesocché per disposizione del signor Luogotenente Generale Diego Angioletti, che rapportò il fatto e dei testimoni signori Lipari Gaspare luogotenente colonnello, Duca Fausto luogotenente, e Cacciatore Gaetano Direttore del regio osservatorio i quali erano «presenti al fatto stesso, in conformità delle affermazioni dell’imputato, è constatato:

«Che avendo il prefato signor Generale nelle indicate circostanze di tempo e luogo osservato molti briganti riuniti lungo la via Pisani, ed essendogli accanto il prevenuto, lo interpellò se era pratico della contrada, ed alla sua affermativa gli domandò come avrebbe operato per sorprenderli ed attaccarli:

«Che avutone analogo dettaglio gli chiese se volesse servire di guida a due Compagnie di fanteria e tenti tare con esse un colpo su quei briganti, alla quale domanda l’imputato rispose che se fossero due Compagnie di Bersaglieri vi si recherebbe, ma con la fanteria, no:

«Che il Generale gli replicò l’invito osservandogli a che Bersaglieri non ne aveva, e che la fanteria valeva quanto i Bersaglieri, ma esso di nuovo si rifiutò adducendo che non conosceva i comandi di quell’arma, dopo di che il Generale si tacque.

Che un ordine formale al riguardo non fu dato, né s’intese dare dal Generale, ma semplicemente un invito, tale ritenuto dal prevenuto e dagli imputatori per tratteggiamento della persona, e pel tuono della voce con cui fu espresso.

«Considerato che se a termini del § 19 del regolamento di disciplina militare l’ubbidienza dovuta dall’inferiore al superiore nelle cose di servizio deve essere pronta ed assoluta senza alcuna esitazione od osservazione, salvo che interpellato, e però necessario, perché il rifiuto rivesta i caratteri di reato sia preceduto da un ordine o comando positivo.

«Considerato che non essendo per le esposte risultanze stabilita una tale condizione a carico dell’imputato in modo certo e sicuro, non puossi il medesimo addebitare del reato ascrittogli — Adottando le ragioni svolte nella requisitoria fiscale del 4 ottobre 1866, firmato Burco, e visti gli art. 307, 295, 395 codice penale della legge 11 febbraio 1865.

«Dichiara non essere luogo a procedimento contro il Capitano Appel Luigi pel reato in servizio imputatogli ed ordina sia rilasciato in libertà, ove non sia per altra causa detenuto.

Palermo 5 ottobre 1866

«Come all'originale sottoscritto il Presidente Marino Carlo—Fonzio Pietro, giudice — Lombardo Evandro, giudice.

«Visto — Palermo 5 ottobre 1866.

«All’originale sottoscritto, Viara avvocato fiscale militare».

L’ accusa dunque risultò una bolla di Sapone.

«La bolla di sapone, che

«... tocca appena, perdesi,

«Sparisce in aer vano:

«Scoppia, e sol goccia sordida

«Lascia al fanciullo in mano».

Ma vediamo dunque cosa ci fosse di vero.

Angioletti nell'atto di accusa 24 settembre n.° 228, aveva scritto che voleva affidarmi l'onorevole incarico; aveva scritto che propose a me di servire di guida a due compagnie dal 59° fanteria; che io titubante mendicavo pretesti per esimermi; che conclusi col rifiutarmi ripetutamente.

Quest'atto di accusa aveva in sé stesso una pregiudiziale radicale della più alta (importanza; imperocché se la logica è logica tanto ad Ansbach che in Italia, il voler affidare un incarico non significa di averlo affidato: il voler affidare un incarico senza la esternazione perfettiva di averlo affidato, è appena un proposito intimo o platonico, un’ideale senza nessuna estrinsecazione verso il terzo: il voler affidare l’incarico e non averlo assolutamente affidato, stando nell'ignoto, non poteva per me mai costituire colpa o reato di sorta.

L’accusa stessa in cui il Generale scrisse aver a me proposto l'onorevole incarico, non costituisce incarico in se stesso, avvegnacché proporre ad un inferiore una data cosa, oltre che è un linguaggio non comprensibile da superiore a inferiore, dimostra soltanto che il Generale, ignaro del da farsi, me richiedesse di avviso e manifestasse egli la forza che poteva disporre all'uopo; e la proposta, notasi proposta (non invito, non ordine!) ammetteva implicita la controproposta, controproposta che io mi potetti permettere atteso la natura proprio accademica del colloquio quasi di esplorazione o di consiglio che seguì tra me e il prefato Generale.

Che ci fosse stata la mia controproposta trovossi constatato dalle uniformi deposizioni dei testi e dalla deposizione dello stesso Generale, controproposta che costituisce proprio gli estremi di un colloquio o di una conversazione che si degnava il Generale con me tenere per decidere il da fare nella difficile contingenza.

L’accusa poi esplicitamente indicò un fatto concreto, cioè di servire di guida a due compagnie del 59° fanteria, e del tutto sorvolò a ciò che io avessi risposto, allorché dichiarai che con de compagnie di Bersaglieri soltanto il colpo era fattibile. Che si sia parlato, tra me e il Generale, di Bersaglieri, fu constatato dalle deposizioni uniformi e dello stesso Generale e degli altri testi.

Ebbene, appunto di questa mia controproposta e della forza Bersaglieri che io volevo, non fu detto verbo dal Generale nel suo atto di accusa 24 settembre. Dire codesto, decideva in superlativo grado, e avrebbe fatto intravedere al Generale Righini, mio diretto superiore, la vera natura della discussione seguita sulla Specola e le ragioni che m'assistevano.

L’atto di accusa asseriva la mia titubanza e di mendicar pretesti per esimermi.

L’ atto di accusa finalmente asserì il mio rifiuto ripetuto.

L’atto d’accusa dunque non rispondeva alla verità dei fatti, e militarmente..., militarmente lo dirò più tardi.

Io invero adesso che rifletto trovo a spiegarmi come il Generale Righini si fosse valuto di termini assoluti allorché scrisse all’avvocato fiscale il 25 settembre che dinegavamo all'onorevole incarico che mi si affidava dall’Angioletti, e nulla avesse fatto per scovrire la verità.

E l'avrebbe dovuto sotto ogn’aspetto, né doveva restare alla superficie; spettava a lui non pregiudicare il suo diretto dipendente; ma, Dio buono, trattavasi di un’accusa fatta da un altro Generale per un capitano, e un capitano di più o di meno, era inezia; non cosi di un generale, ex ministro, — non n’era facile la surrogazione — e non potevasi esautorare il prestigio autoritario.

Ed ora due parole per mettere a raffronto e l’accusa e le deposizioni e la sentenza.

Dopo dieci anni, è una soddisfazione che in mia difesa posso permettermi! Per procedere con sistema ed esser facile la comprensione ridurrò in proposizioni l'accusa, le deposizioni e la sentenza.

A goccia a goccia s'incava la pietra; e ho bisogno di tutta l’indulgenza del lettore perché mi segua nell'analisi, se vuole egli comprendere la sintesi.

Dirò forse cose già dette, ma pazienza, repetita juvant, non senza permettere che non m’intratterrò mai abbastanza su questa analisi dei fatti del 1866, imperocché essi ebbero il loro crescendo, da giustificare il titolo di queste pagine — La vittima autoritaria.

Nell'atto di accusa, Angioletti dice:

Io proposi ad Appel di voler servire di guida a due compagnie del 59° Fanteria.

Nell'interrogatorio, Angioletti depone invece: Lo pregai volesse servir di guida, ec.

E cioè Angioletti lascia nell'interrogatorio l’affermazione risoluta, assoluta ed esplicita imbrancata nell’accusa e toglie invece quella condizionale.

Nell'accusa dice proposi, nell'interrogatorio pregai. L’affermativa, o la condizionale era la verità? Per la condizionale sono il Cacciatore, il Di Marziale, e la sentenza. In fatti:

Cacciatore —

depone — se volesse assumersi una fazione.

Di Marziale —

Vorrebbe andare guidando due compagnie a prendere quella gente.

La sentenza —

ritiene e dichiara sia intervenuto proprio un condizionale—e perciò non l’affermazione dell'invito — Se volesse servire di guida a due compagnie di fanteria.

Solo il Lipari —

depone per l'affermazione assoluta, imperativa dell'incarico — Prenda due compagnie e vada lei.

— Appel —

il prevenuto, il detenuto, l'accusato depone il Generale dicesse—Vorrebbe Lei prendere una compagnia fanteria, fresca sa?!

La condizionale dunque e non l'affermazione assoluta depone che non si trattasse né di ordine, né di incarico dato, ma appena di interpellanza, di esplorazione, di colloquio, di conversazione su di un idea a concretarsi se annuente chi doveva attuarla.

Incarico quindi non fu dato: sarebbe stato dato se fosse stato nei termini imperativi enunciati dal Lipari; ma il Lipari fu solo a deporre una formola assoluta, e perciò nella dissonanza dello stesso Angioletti, è il caso di dire che fosse egli più realista del Re. Passò proprio il segno, il mio capo di stato maggiore!

Nell'accusa Angioletti scrive:

Con mia sorpresa ebbi ad osservare il capitano titubante.

Nello interrogatorio, di titubanza (ch'è l’atto intimo dello spirito e delle forze riflessive dell'anima, noto soltanto a Dio!) non parla più, e depone:

Egli rispose se fossero due di bersaglieri andrei, ma colla fanteria, no.

Dunque non fu titubanza; ma fu data una risposta immediata e condizionata, il che rivela una volta di più che si era proprio in conversazione sul da fare e sui mezzi del fare.

Cacciatore —

Sentì che rispondendo Appel parlasse di una compagnia di Bersaglieri

Lipari —

Andrei se mi dasse due compagnie Bersaglieri; il che esclude la formola imperativa deposta nel 1° inciso predetto.

Di Marziale —

Ci sarebbe andato qualora avesse avuto 2 compagnie Bersaglieri.

— Appel

Io che avevo visto il contegno della fanteria... mi feci a domandargli di lasciarmi guidare due compagnie di Bersaglieri, non intendendomi del comando della linea.

La sentenza—

Se fossero due di Bersaglieri si recherebbe, ma con la fanteria, no.

Laonde la titubanza gratuitamente asserta nell’accusa (lasciata in disparte poi nelle deposizioni!) si tradusse nella condizione delle due compagnie di Bersaglieri che io credeva indeprecabili per riescire nel mio piano di attacco (e il piano era proprio mio!) La titubanza dunque fu una improvvisata per non narrare al Generale Righini la cosa, e per non dire della mia risposta del tutto condizionata, si, ma del tutto affermativa se con due compagnie Bersaglieri, arma di cui ero padrone.

Dove dunque il primo rifiuto allo incarico che mi si voleva affidare? Or quando si parlò di ripetuto rifiuto, uopo è ammettere che vi fosse stato il primo rifiuto; e questo primo rifiuto decantato, sarebbe proprio quello addidato, cioè quello in cui per pigliare gli assassini io domandavo la forza da me creduta adatta ed a me cognita essenzialmente.

Gli uomini imparziali, cui non fa velame all’intelletto passione o personalità di sorta, diranno se potevasi asserire rifiuto allorché il subordinato domandava i mezzi per l’ardua impresa, trattandosi di pigliare 1400 circa insorti o briganti.

Il rifiuto, per dirsi tale, doveva essere assoluto, non condizionato come fu.

Ma poteva io rifiutarmi ad un’azione per la quale io stesso ne avevo posato i particolari o i termini, io che mi ero dichiarato pratichissimo dei luoghi?

Era poi rifiuto, non ad un invito dato nelle forme non accademiche, non ad un ordine dato militarmente quando io accettava, replico, coi Bersaglieri e non già colla fanteria di cui avevo visto le pruove incresciose e fatali pur troppo?

Che razza di rifiuto era se domandato d'esser di guida alla fazione, richiedevo i Bersaglieri onde riescire nel compito, tutt’altro io ritenendo insufficiente e dannoso? Che dire poi quando mi si proponeva una compagnia di fanteria per una impresa ardua, su di un terreno vasto, contro masse imponenti e ben premunite?

Se il Generale avesse detto a me, come si piacque deporre il Lipari—Prenda due compagnie e vada lei— Oh, allora ogni replica sarebbe stata una colpa militarmente consumata, imperocché rivestendo il linguaggio l’espressione del comando, colpa era non adempiervi ciecamente anche a costo d’esser massacrato.

Se la bisogna fosse stata in tali termini, niun militare d’onore, avrebbe indietreggiato, e meno un Tedesco!

Lo replico, il primo rifiuto non fu rifiuto, o fu un rifiuto appiccicato gratuitamente dall'accusatore Angioletti.

Angioletti nell'atto di accusa si peritava asserire in termini assoluti mendicassi io protesti onde esimermi dall'onorevole incarico che Egli mi voleva affidare e che io conclusi col rifiutarmi ripetutamente.

Mendicavo pretesti io, io che domandavo due compagnie Bersaglieri?! E se domandavo i Bersaglieri, dov’è che mi volessi esimere dall'onorevole incarico che Egli, il Generale, mi voleva affidare? Cielo apriti! Ma ecco le disposizioni.

Angioletti —

Avendo io ripetuto tale preghiera e fatto osservare che Bersaglieri non ne avevo e che la fanteria valeva i bersaglieri, di nuovo rifiutassi.

Lipari —

Dove vuole ch'io prenda due compagnie Bersaglieri? Prenda due, tre di fanteria che fa lo stesso. Perdoni, io essendo vestito dell'uniforme Bersaglieri, non conosco quest'altra arma.

Di Marziale —

Osservato non poter disporre di quell'arma, che la fanteria valeva i bersaglieri, rispose non ci poteva andare non conoscendo i comandi della fanteria di linea.

Appel —

Egli però rispondendomi non aver attualmente a sua disposizione Bersaglieri, adiralo se andò.

La sentenza —

Gli replicò l'invito osservandogli che bersaglieri non ne aveva, e che la fanteria, valeva quanto i bersaglieri, di nuovo si rifiutò, adducendo non conoscere i comandi di quell'arma.

Dopo di che il Generale si tacque.

Angioletti dunque pregava; il che significa che si stava sempre non sul terreno militare del comando di Generale, ma su quello ancora della discussione e di quell’interpellamento di cui parla il § 19 del regolamento di disciplina militare.

Come non detti il primo rifiuto, così non espressi neppure il secondo.

Una sol volta dissi che mi si lasciassero guidare due compagnie di Bersaglieri, non intendendomi del comando della linea.

È bensì vero che il Generale ripetette non aver a sua disposizione in quel momento Bersaglieri, ma è pur vero che non [aggiunse altro e adirato se ne andò — e la sentenza constata che il Generale si tacque precisamente a quell’una mia condizione posta, di voler Bersaglieri e non fanteria, adducendo, disse la sentenza, non conoscere i comandi di quell'arma.

Il secondo rifiuto quindi non avvenne se si analizzino senza preconcezione le deposizioni Lipari, che dall'una compagnia detta dal Generale si piacque portarla sino a tre, e del di Marziale.

Questo sedicente secondo rifiuto non fu implicito che nel non meno sedicente primo rifiuto, in quello cioè che senza rifiutarmi all’azione, chiedevo i Bersaglieri; e il Lipari e il Di Marziale e la stessa sentenza ne individuarono la ragione di non conoscere io i comandi della linea.

Avendo ad esuberanza dimostrato che un primo rifiuto non vi fosse stato, così di leggieri risulta dimostrato che il secondo non avvenne per la semplicissima ragione che il Generale, dopo aver detto di non aver in quel momento Bersaglieri, andò via (e la sentenza aggiunse, si tacque, quando proprio il verbo tacere non aveva fatto capolino nelle deposizioni né mie, né dei testi!) tranne in quella del Lipari.

Angioletti nell’accusa conchiuse — Simile procedere mi sembra non degno per chi riveste l'onorata divisa di capitano dei Bersaglieri, E negl’interrrogatorii fu deposto —

Angioletti —

Ordine formale non diedi che si prestasse a servir di guida alle due compagnie. Ho sempre inteso di avergli mosso un invito piuttostoché dato un ordine. Io lo intendo come un rifiuto di servizio ad un invito fattogli, ma non un rifiuto ad un ordine datogli.

Cacciatore —

Non ho poi sentito assolutamente che il primo ordinasse all'altro una cosa qualunque.

Lipari —

Ritengo fosse piuttosto un' invito che il Generale volgeva al sig. Appel che non un ordine formale

Questa chiusa della deposizione del sig. Lipari, il mio capo di Stato maggiore!, depone una volta di più e smentisce del tutto assolutamente là maggiore proposizione enunciata dal Lipari stesso nella sua medesima deposizione allorché esordì dicendo, il Generale dicesse — Prenda due compagnie e vada lei; frasi che avrebbero proprio esternato l'ordine formale, quando il Lipari poi conchiudeva, dicendo, che un ordine formale non fosse stato dato.

In lingua tedesca, ch’è la mia lingua, le parole — prenda e vada — sarebbero proprio suonate un ordine formale: in idioma italiano e francese e ungherese che son pure i miei, quelle parole anche un’ordine formale avrebbero significato; ma se il Lipari conchiuse che ordine formale non fu dato, è chiaro come la luce del giorno che le parole imperative del Lipari furono gratuite perché non furono mai profferite dal Generale.

E ciò ribadiscono le altre deposizioni —

Di Marziale —

Non ha dato ordine assoluto, ma lo ha solamente invitato.

La sentenza —

Ordine formale non fu dato. Perché il rifiuto rivesta i caratteri di reato è necessario sia preceduto da un ordine o comando positivo: non risultata tale condizione non puossi addebitare il reato.

Dichiara non esservi luogo a procedimento.

Non so se si può parlar più chiaro.

Or qual fu l’indegno mio procedere, se interpellato ((1)) sul da fare, risposi esponendo il mio piano di accerchiamento, che il Generale si compiacque trovare troppo lungo! Qual fu l’indegno mio procedere se pregato volessi servire di guida ecc., risposi chiedendo due compagnie di Bersaglieri e per le ragioni da me deposte e perché non intendendomi del comando della linea? Qual fu la mia indegnità quando Egli, detto non avesse i Bersaglieri in quel momento, andò via e si tacque; e si tacque ha consacrato la sentenza?

Ma di grazia quale invito formale—il Generale che fa distinzione tra invito e ordine e tra invito e ordine fa proprio un Rebus e intende a modo suo—quale invito formale mi ebbi; e un invito, deve avere pur la sua formola sacramentale!, quale invito formale m’ebbi mai?

Il Generale mi richiese il modo di pigliare, bravo: esposi il mio piano, bravo ancora: il Generale prima che io avessi esposto il tutto, interruppe dicendo essere il piano troppo lungo, bravissimo: il Generale interrompe, e senza dire le sue idee e ciò che egli volesse si facesse, vien col condizionale volesse servire di guida a due compagnie di fanteria (sulla Specola parlò di una compagnia!) arcibenissimo: e chieste da me due compagnie Bersaglieri, risponde picche, non avendone; e poi va via e si tace, Osanna! Ebbene domando io, dove sta l’invito formale, dove il piano di operazione del Generale, Egli che trovava troppo lungo il mio, dove mio primo rifiuto—se coi Bersaglieri ero pronto?! — dove il secondo rifiuto, se si tacque?

Dove l’indegno procedere del Capitano Appel dei Bersaglieri??

Egli lo Angioletti intende come un rifiuto dì servizio ad un invito fattogli—e non basta che Egli intenda a modo suo: occorre che intendano tutti secondo i dettami della legge e della giustizia! Ma se non può dirsi invito nelle buone forme militari e secondo le leggi e i regolamenti militari tuttocciò che fu detto tra me e il Generale durante la interpellanza intesa a statuire i modi e il da fare, di grazia dove fu l'invito, dove il ripetuto rifiuto, dove la titubanza, dove i pretesti per esimermi, dove l’indegnità?

La sentenza del 5 ottobre 1866, sottoscritta Viara, sulla cui dizione non interloquisco, fu proprio una lanciata in sul Golgota al costato del Generale Angioletti.

Per Dio, un Generale che trovasi smentito dalla legge e dalla magistratura competente!? C’era proprio a prevedere andasse in malora l’Italia.

Laonde cosa c’è di vero?

Un Rebus l'accusa e le deposizioni Angioletti: molte deposizioni contraddittorie alla verità del fatto in generale e a sé stesse, e la sentenza, per quanto ossequente nelle parole, la vera verità nella sostanza. Il si tacque, dice più che non abbia detto tutta la sentenza! Oh, i miei figli non avranno da arrossire, e molto meno i gloriosi Bersaglieri d’Italia che mi ebbero nei loro ranghi, e Palermo che mi accorda un pò di stima, e la stampa che disse strenuamente la sua parola in mio favore! Sarebbe proprio il caso di domandare col poeta.


Ma il crescendo meglio spiegherà tutto.

Avanti, al suggello nero.

IX. Il suggello nero

Francesco Mastriani nella sua Jelma o la Stella di Federigo II di Svevia, scrive che Federigo dicesse a Jelma, quale gli chiedeva in marito Gualterio di Capua, dicesse— «E guarda... una impronta del mio nero suggello su un foglio di pergamena darebbe a Gualterio di Capua la stessa morte di Giovanni Antonio suo padre, che l’imperadore Arrigo mio genitore condannò ad essere sospeso alle mura di Capua e ad aver bruciate le piante dei piedi».

O che ricordo io? I più grideranno, ma questo signor Appel è proprio un mentecatto. Che ha a fare il suggello nero del grande Federigo al caso? Mutarono i tempi; e la giustizia è giustizia! Tutti uguali dinanzi alla legge! Ma è davvero poi codesto? E il suggello nero o bleu di un ministro dei sedici anni non valeva forse quanto quello del gran Federigo? In un altro modo, se vuoisi, ma la sostanza la stessa.

Pel suggello di Federigo un uomo era in un fìat spicciato nella stessa guisa come i Bachi-Buzuchi ora spicciano Bulgari ec. ec.; — pel suggello di Cugia nel 1866 e di Ricotti nel 1872 invece alla chetichella un uomo era consumato moralmente e economicamente.

E che sia cosi, giudichi il lettore.

Come si è veduto, la sentenza della commissione d’inchiesta fu emessa in data 5 ottobre 1866, in guisa che io fino al 5 ottobre ero appena un prevenuto, un accusato, ma non un giudicato. Il reato commesso era ancora immaginario, e perciò non ero ancora passibile di pena. Forse anche Federigo di Svevia avrebbe detto stessamente e forse altrettanto Ali Thebelen, Nerone, gli stessi Bachi-Buzuchi, ecc.

Eppure, no. Il generale ministro di guerra — non la pensò nello stesso modo.

Di fatti dovette egli dire presso a poco—dal momento che c’è un’accusa, dal momento che una commissione d’inchiesta inquirisce per sapere se il reato ci sia, il reato ci dev'essere e il reato mena alla pena. Non sarà una pena alla Federigo di Svevia — i tempi non si prestano, — ma sarà una pena mite, una pena di consunzione, una pena umana: e detto fatto prende il suo suggello nero, e prima della sentenza, prima di sapere il costrutto, antivedendo il reato e la colpabilità dell'accusato, detto fatto, sottopone alla firma augusta del Re un Decreto in data 3 ottobre 1866 (due giorni prima della sentenza!?) e colloca me in aspettativa per soppressione d’impiego. Altro che Federigo!

Nel caso mio così era una feroce punizione perché mi feriva addirittura nell'onore e nella mia posizione, mi feriva presso i compagni dell'esercito, metteva il suggello a ciò che non era, infirmava implicitamente la sentenza stessa, qualora fosse stata assolutoria come fu, imperocché la sentenza medesima dai più sarebbe stata ritenuta un giuoco di parole quando un R.° D.° aveva fatta giustizia sommaria, ritenendosi dai più che per fare così il ministro responsabile, quasi in foro conscientiae, doveva aver buoni elementi in mano.

Puossi ammettere, anche in Italia, che un ministro costituzionale, agisca a capriccio e da despota? Eppure, come spiegare la punizione il 3 ottobre, e la sentenza il 5 ottobre, che non ammette il reato, che non fa luogo a procedimento, che mette in libertà la vittima, che stigmatizza l’accusatore Angioletti, e se no ’l chiama calunniatore e diffamatore è perché il compito della commissione no ’l consente? Io no ’l so spiegare: e me ne appello al senno degl’italiani e alla loro giustizia, da cui son certo sarà trovata la parola che precisi a segno l’atto feroce segnato dal suggello nero del signor Cugia.

Dunque senza ombra di reato, con la dichiara della commissione di non farsi luogo a procedimento, rimasi qual capitano di fanteria in aspettativa per soppressione d’impiego dal 5 ottobre 1866 al 12 febbraio 1871. In altri termini rimasi attraversato nella mia carriera perdei ogni legittimo avvenire.

Che avevo fatto? Avevo soltanto esposto il solo piano possibile di attacco, per risparmiare stragi e dispendi al paese, ad un Generale che domandava a me non suo diretto dipendente! il da fare! Ne fui proprio ricompensato.

Il Precursore nell’articolo — Siamo giusti! —a questo punto scrisse.

«Questo fatto dimostra appieno quali e quante siano le garanzie che hanno i nostri ufficiali: prima d'esser giudicato, un’ufficiale è punito, e risultando immune di colpa resta sempre in punizione come accadde al Signor Appel. Forse cosi si fa nell’Indostan.»

Ma è tutto forse? ((1)) No. C’ è altro.

La via del Golgota è interminabile.

«Di vacca nascer cerva non vedesti,

«Nè mai colomba d’aquila.

Ho tanto da dire, che mi debbo limitare a riassumere molti particolari.

Con Decreto del 12 febbraio 1871, amministrazione Ricotti, facendosi sopra alla legge della materia, fui transitato capitano nello stato maggiore delle piazze, continuando in aspettativa (bollet. n.° 10 anno 1871).

La legge sugli ufficiali. prescrive che gli ufficiali che (I)

Io mi trovavo precisamente nel caso della legge—non potevo esser dunque tenuto e restare in aspettativa! Eppure, nò.

Quindi per questa infrazione alla legge venni a soffrire jatture nello avanzamento, nella carriera, nelle condizioni economiche.

Quando mi avrei dovuto trovare maggiore tra i maggiori Rottini Alberto e Rovighi Cesare (annuario 1872, pag: 69), avendo io meritato già nel 1866 dal Gran Comando di Palermo, per come mi si disse, la proposta ad avanzamento, mi trovai illegalmente transitato nello stato maggiore delle piazze, e in aspettativa per di più, anche contro la legge.

Ne chiesi verbalmente spiegazione, e mi fu risposto che il provvedimento si era preso per tutti quelli in aspettativa per ragion di economia. Reclamai fino a S. M. il Re, ma giustizia non mi fu resa.

Ma ammesso anche l’espediente, doveva io trovarmi in quel momento in aspettativa dopo. la sentenza 5 ottobre 1866 collocatovi con Decreto del 3 detto mese? Non era obbligo sacrosanto del Ricotti di esaminare la sentenza per filo e per segno, e richiamarmi al mio posto in attività di servizio, secondo la legge? Protestai anche nelle forme legali, ma non ebbi né tanto, né quanto.

Lo spirito autoritario della passata amministrazione in Italia aveva inaridite tutte le sorgenti della giustizia. Un Ricotti non risiliva, vero ministro forte, vero ministro autoritario!

Sotto l’assolutismo, anche in Italia, avrei trovato maggiore giustizia! A che dunque le leggi?

«La tirannide è un bel paese, ma non ha uscita» — è sentenza di Solone.

E qui debbo imbandire al lettore, un altro piatto — proprio un suggello nero, tutto ma tutto, del gran ministro riformatore dell'esercito Italiano — Un dispaccio cioè, proprio sottoscritto dal Ricotti in data 22 settembre 1871 N.° 9243, Divisione Fanteria, Sezione 1° — Eccolo.

«Pei motivi retrospecificati, V. S. è nel caso previ-sto pel collocamento in riforma, a senso dell’art. 1 della legge del 3 luglio 1871.

«Nel porgerle ((1)) questa partecipazione, la invito a dichiarare se accetta, o non la suaccennata posizione; e le unisco uno stampato che Ella vorrà riempire, e che servirà per la dichiarazione ora detta.

«Per sua norma la pongo poi in avvertenza, che il tempo utile per questa dichiarazione, a senso dell’articolo 11 del decreto che fa seguito all'anzidetta legge, è di 15 giorni a far tempo dal giorno dell’avuta comunicazione.

«Il ministro

«Fir. Ricotti

Motivi dell'invito

«Non idoneo al servizio nell’arma di fanteria a cui apparteneva per difetto di carattere.

*

**

Cosa fare a vista di tanta spietata ingiustizia, a vista di tanta denigrazione, a vista di tanta manifesta conculcazione di diritti? Dovevo provare che carattere ne avevo, carattere di soldato. E poiché l’art. 4° del decreto di seguito alla legge me ne facultava, respinsi la riforma, e domandai esser sottoposto a dar saggio della mia. idoneità.

Ciò importava che pel detto art. 4° dovevo esser richiamato temporaneamente in effettivo servizio nel corpo ed arma cui appartenevo prima dell'aspettativa.

E con Decreto ministeriale 5 marzo 1872 (non c’era bisogno di fretta!), a datare dal 1° aprile 1872 fui richiamato temporaneamente in servizio al 4° Reggimento Bersaglieri in Capua.

Il suggello nero dunque di Ricotti, in continuazione al suggello nero di tutt'i suoi predecessori Cugia, Bertholè, il ministro delle 100 guardie, e Govone, mi teneva illegalmente in aspettativa, poi facendo man bassa della legge mi dava l'ostracismo nello stato maggiore delle piazze e poi ancora, immisericorde, mi faceva la grazia della riforma, destituendomi di carattere — io inetto per carattere?! Oh Shakspeare —

«Questa trama, miei signori

«Ve lo dico brevemente,

«È una trama sorprendente

«Delle trame la miglior...

Via, non si scoraggi il lettore, che ora comincia il gran dramma o la ridda infernale.

Non riveste proprio tutte le forme stereotipate del romanzo?

Non alletta forse? Che si vuole di più?

Via, cui non piace, fa difetto il carattere, monopolio esclusivo degli Angioletti, dei Ricotti e compagnia magna, di quelli che fecero la rivoluzione ab alto!

Non meraviglia sentire che un uomo arrivato a capitano, che ha dato pruove in guerra e pruove in missioni politiche e pruove amministrative e pruove nelle stesse giornate di settembre, stato già proposto per l'avanzamento, venga dichiarato non idoneo al servizio di fanteria per difetto di carattere!

Difetto di carattere non poteva esser certamente, per esempio, per una sovrabbondanza di carattere militare.

Se si fosse posto dal ministro dichiarante un qualificativo qualunque al suo verdetto, avrei capito un che, e ognuno capirebbe; ma dire puramente e semplicemente— per difetto di carattere—militarmente parlando non potevasi, non puossi, intendere che difetto di carattere militare, e cioè non fermo, non risoluto, non coraggioso ec.

Non saprei trovare altri qualificativi, sempre militarmente parlando.

E questi qualificativi non poteva e non posso che respingerli. Non mi appartengono, e ne detti prove non dubbie.

Che se poi quel difetto di carattere avesse voluto intendersi per un complesso di qualità morali o in deficienza o in esuberanza, e cioè piccoso, suscettibile, disobbediente, non rispettoso, burbero, diffidente, non zelante, non fedele, incoerente; mi scusi l’ex ministro Ricotti, tali e tante deficienze o esuberanze, nel caso, non erano da tanto da dichiarare inetto un ufficiale, imperoché le leggi militari tengono esse il correttivo per richiamare al dovere e punire chi manca secondo le leggi stesse.

Inetto un’ufficiale per difetto di carattere senza individuare il difetto, è cosa proprio che non ha neppure il linguaggio militare! E andiamo alla ridda infernale.

«Di numerosi eserciti il comando,

«Di politici eccelsi il lavorio,

«In faccia al cavalier del nuovo tavolo

«Son tutte inezie che non vanno un cavolo.

Dice un giovane e gentil poeta di questa terra ferace d’ingegni.

Ma la ridda, la ridda?


X. É ridda infernale

E fui all’esperimento presso il 4.° Reggimento Bersaglieri in Capua.

Io non so in che dovesse consistere un tale esperimento, una volta che non si trattava di cognizioni militari e di servizio attivo militare; e non si trattava di questo certamente se lo esperimento versar dovevasi a mostrar del carattere di cui aveva proclamato il ministro avessi difetto.

Il certo si è che durante la mia permanenza in esperimento al 4.° Bersaglieri, con superiori all’altezza del-loro mandato, mi pare avessi dato in essi ottimi convincimenti in mio favore, ed io stesso ne rimasi del pari contento, come ebbi poi a sommettere al ministro Ricotti nella mia confidenziale del 17 luglio 1872.

Intanto il lettore avrà inteso a dire che ogni ufficiale ha uno specchio caratteristico che lo riguarda, specchio che è formato e informato dai superiori in quanto a condotta, cognizioni, azioni e quant’altro costituisce lo stato morale di un ufficiale. Un tale specchio è il tutto. Il superiore pensa a suo modo del tale individuo, e scrive come meglio gli pare senza che l’individuo ne sia a giorno o per difendersi in caso di caratteristiche gratuite e insussistenti, o corriggersi. È vero che l’ufficiale ha il diritto di domandar lettura del proprio specchio caratteristico; però tale lettura è limitata a talune caselle di esso, in guisa che un ufficiale non legge mai tutto e quanto ha pensato e pensa di lui un superiore o pensarono i passati superiori.

Egli dunque in molte cose che lo concernono resta nel bujo, imperocché è inutile dire che lo specchio caratteristico è del tutto riservato: è inutile del pari aggiungere ch'è segreto: è inutile poi dicessi che esso è informato in foro conscientiae del superiore: inutile altresì dicessi che è inappellabile—è una sentenza della famosa Santa Inquisizione che accompagna continuamente l’individuo; è il vero segreto autoritario che decide del presente e dell’avvenire di un individuo: il superiore quindi in grazia dello specchio caratteristico in pugno, è Dio, o il Diavolo nero di cui parlò testé il console russo Kartzooff in Belgrado.

Or sottoposto che fui allo esperimento in Capua e quindi alla ispezione del Generale cavaliere Ferrari, ebbi da esso Generale lettura di parte del mio specchio caratteristico, dove, se non erro al postulato carattere, eravi scritto—molto diffidente.

Francamente non compresi una tale caratteristica, né avevo diritto a chiederne spiegazione, e molto meno a sapere per quale circostanza e da quale superiore mi si era affibbiata. Era scritto così, e neppure Dio poteva cassare quelle maligne parole.

Molto diffidente, potrebbesi intendere in linguaggio volgare, accorto, malizioso, istintivamente critico, o che so io: in linguaggio militare però mi pare che non abbia senso se da inferiore a superiore, l’inferiore non avendo altro dovere, e cieco dovere (non c’ è diffidenza che valga!) di obbedire e sempre obbedire al superiore. Che se poi quel motto dovesse intendersi, in quanto a me, da superiore ad inferiore, in tal caso non avrebbe avuto che il significato di accortezza, quell’accortezza o diffidenza che durante gli anni di servizio in Italia viddi, per sistema, inaugurata dai superiori verso gli inferiori.

In quanto a me, la caratteristica era ben originale, imperocché se fossi stato molto o poco diffidente io, altrimenti mi sarei regolato nel lasciare l’esercito austriaco, altrimenti col grande Cavour, altrimenti nel dare i miei documenti circa le difficili missioni all'estero, altrimenti nel 12.° Bersaglieri e altrimenti fin presso il Gran Comando di Palermo e forse pure nello stesso colloquio col generale Angioletti.

Se meritai la fiducia e la confidenza del grande statista d'Italia, vuol dire in qualche modo, che Cavour non conobbe in me un uomo molto diffidente; Che se per molto diffidente si volle considerare il modo con cui condussi la mia compagnia, che con accorgimento ridussi a modello di contegno e di amministrazione, e ne riscossi lodi, allora quel motto è appena una mistificazione che voglio lasciare in disparte, avendo ben altro, e molto altro a dire d’importante; che se lo si volle affibbiare così per indicare quasi il Tedesco, in un’epoca che tutti erano francesi, e per dare al Tedesco l’ostracismo moralmente, in tal caso, ripeterei che senza patti e guarentigie mi donai al servizio della causa italiana— e basta.

Adunque il lettore ne ha quanto basta di me: ha me accusato per difetto di carattere senza saper quale difetto! —, invitato ad optare per la riforma, ovvero ad uscire dall'esercito come inetto; mi ha molto diffidente— senza saperne il modo ed il come—secondo l’antico mio specchio caratteristico che mi fu letto. Si può volere di più? Fui proprio la Befana! Oh, come il mio antico Colonnello del 39° Fanteria Dom Miguel s’ingannò sul mio conto, egli che non voleva darmi la dimissione, égli che mi lasciò quell’ae-stato di compiacenza, egli che dichiarò che il reggimento mi vedeva allontanare da sé con rammarico!? Via, quel Colonnello era Tedesco!

Ma queste sono inezie da retori, c’è altro—c’è la ridda infernale.

Oh, Quetelet:

«La società prepara il delitto, ed il colpevole non è che lo strumento che l’esegue».

Come ho detto, già per decreto del 1“ aprile 1872 fui chiamato al 4° Bersaglieri in Capua. Capua dipendendo dalla Divisione militare di Napoli, mi trovai così sotto gli ordini diretti del Generale Angioletti comandante allora la detta Divisione.

Avrei potuto fare gli esperimenti presso un corpo di guarnigione in Palermo e ci sarebbe stato il mio tornaconto economico e meno disagio di famiglia e il tornaconto dell'erario nazionale che avrebbe risparmiato spese di viaggio e indennità; però se si voleva là dove si puote che io mi fossi trovato sotto la dipendenza dell’Angioletti, i quattrini erano una inezia, una freddura.

Giunto a Capua, era giunto il pesce all’amo—e che amo, amo di quei signori, arrogi, religiosi, che hanno in odiò a parole la bestemmia contro i loro Santi e Dio, non fa niente che immolano il prossimo e chi loro dipende. Per la bestemmia sono morali: per la conculcazione dei dipendenti sono e si chiamano uomini forti. In fondo è conservazione propria, è spirito autoritario, è dispotismo! Possibile che un Generale, ex ministro, di quei coi fiocchi, poteva restare sotto l’incubo d'una smentita avuta dalla sentenza del 5 ottobre 1866? Possibile che un Angioletti angiolescamente non si fosse ricordato nel 1872 di quell’Appel del 1866?

Erano passati sei anni, però in sei anni, aveva dovuto macerare lo spirito autoritoriamente per vedere come addentare quell'uomo che osò dire, a lui generale, come si dovevano pigliare i briganti. Se il verbo pigliare non è tanto militare, almeno in Ansbach, uopo è riflettere ch’è del Generale— non mai abbastanza lodato.

E per pigliare questa volta, non i briganti che egli non pigliò, ma bensì colui che li voleva pigliare davvero, cioè pigliare me Appel, ecco quanto scrisse da Napoli in data 13 aprile 1872 n.° 331 in lettera riservata al ministro della guerra.

(Premesso che leggendo il mio nome si era ricordato del passato e specialmente dell'incontro alla Specola di Palermo — e parlando degl'insorti) così proseguiva:

«Scorsi che questi {gl'insorti) si tenevano fortemente in alcuni fabbricati non molto distanti dal palazzo e dei quali conveniva anzitutto impadronirsene.

«Mi rivolsi pertanto al capitano signor Appel, che trovavasi in quel momento a me vicino, e gli chiesi, se come dimorante da qualche tempo in Palermo conoscesse bene quelle località, e le vie secondarie che vi conducevano..

«La di lui risposta fu affermativa, perlocché lo invitai ad assumere l’onorevole incarico di servire di guida a due compagnie di fanteria che avrei subito inviate colà.

«Mi rispose che appartenendo ai Bersaglieri non avrebbe saputo prendere il Comando di compagnie di fanteria.

«Ma qui non si tratta di Comando gli dissi, ma di incaricarsi di condurre le due Compagnie per la via più breve e meno esposta.

«A tale mia replica, egli impallidendo rispose che non si sentiva…………..…….. che ricusava infine. —………...…………..

«Trattandosi d’un ufficiale che non era a mia dipendenza, io mi limitai pel momento a redarguirlo severamente per la sua pusillanimità, mentre m’affrettava ad affidare l’incarico da lui rifiutato ad altri, che fu ben lieto d'assumerlo.

«Più tardi poi ho riferito il fatto al luogotenente Generale Carderina ed anche al luogotenente Generale Cadorna pei provvedimenti a prendersi a riguardo al capitano signor Appel e questi venne denunziato all’avvocato fiscale.

«Qui vi è stato un equivoco, poiché il capitano signor Appel non ha già rifiutato d'eseguire un mio ordine, non potendo io dargliene per essere egli non a mia dipendenza, ma a quella del luogotenente Generale Carderina, sibbene dimostrò pusillanimità nel non assumersi l’incarico che io gli voleva affidare di guidare due compagnie che dovevano andare a circuire alcuni fabbricati occupati da insorti.

«Dopo ciò è evidente che il capitano suddetto doveva essere assolto, ma non può, né deve essere dimenticato questo di lui antecedente che intacca il carattere che sempre deve contradistinguere un ufficiale.

«Laonde sarebbe stato il caso non di sottoporlo ad un giudizio, ma di convocare un consiglio di disciplina per decidere se egli potesse malgrado tale preti cedente continuare a rimanere nell'Esercito.

«Fir. Angioletti

Allorché venni a sapere di un’accusa cotanto gratuita, ne fui sorpreso, niente altro che sorpreso, sembrandomi nuovo il caso e quasi impossibile che un superiore potesse scendere alla bassezza di calunniare l’inferiore e tentare un sì vii mezzo per salvarsi dalle conseguenze di quelle colpe che la sua coscienza doveva rimproverargli.

Un uomo dell’indole degli Angioletti, Ricotti e compagnia, e quindi poco ossequente o fiducioso nella legge e nella giustizia, sia pur lontana, avrebbe forse dato in eccessi, sarebbe forse passato a quelle risoluzioni che sono estreme pel calunniatore e pel calunniato, l’ira l'avrebbe forse accecato, avrebbe fors’anco smarrito il bene dell'intelletto, e chi sa ciò che avrebbe potuto succedere.

Ma l'educazione di razza, i principii, le abitudini decidono, e un uomo istruito e colto, e certamente un tedesco, pensa e agisce molto diversamente che il toscano Angioletti e compagnia.

In fatti — e i dieci anni trascorsi mi autorizzano a dirlo — io, cui, secondo Ricotti, faceva difetto il carattere, io, notato come molto diffidente, ebbi invece il carattere di fidare-nelle leggi Italiane, nei magistrati civili e militari d’Italia, nel Re galantuomo, nei RR. Principi, ebbi fiducia nello stesso ministro generale Ricotti, malgrado m’avesse diretto quel tale invito di riforma per difetto di carattere.

La differenza stava in questo — che un Tedesco si regola da Tedesco, e se altri vuol far sopra alla legge, il Tedesco, freddo, calmo, fermo, intrepido, tenace, sia pure, nella sua freddezza, si giova appunto non altro che della legge, ritenendo che chi agisce in onta alla legge presto o tardi ne paga il fio.

Cosa fare intanto di primo acchito? Andare a Roma per esporre le mie ragioni al ministro.

E mi ci recai, ma non fui ricevuto; e poiché mi premeva troppo, così poiché era finito il classico esperimento, prima di lasciare il 4° Bersaglieri, feci istanza formale per le vie gerarchiche chiedendo una udienza al ministro. Rientrai in questa città e ne attesi il responso.

E il responso venne fuori dalla spelonca di Trofonio, e fu comunicato, dopo che passò pel laboratorio di Angioletti, dal colonnello del 4.° Bersaglieri al 33.° Distretto militare (Palermo) addì 10 luglio 1872 n.° 124 con lettera riservata.

Ecco questo responso ministeriale —

«Non ravviso opportuno che il capitano sig. Appel si rechi da Capua a Roma per presentarsi in udienza.

«E però fatto al medesimo facoltà di esporre per iscritto le sue ragioni, le quali pervenendo a questo ministero anche con lettera suggellata e per la via regolare, saranno prese ad esame ugualmente che se fossero state esposte di persona.

«Voglia pertanto la S.(a) V. renderne informato l'interessato per sua norma.»

Dunque il ministro, gravato dalle enormi cure di Stato, deficiente di tempo per sentire col vivo della voce un capitano sul cui capo si erano addensate tante accuse, anziché in chiacchiere autorizzavate ad esporre per iscritto le proprie ragioni anche in lettera suggellata.

Credetti cosi che fosse volontà franca del ministro di saper tutta la vera verità dei fatti; e altera io, ingenuo, ingenuo io che ero stato caratterizzato per molto diffidente! esposi tutto in due mie lunghe memorie del 15 e 17 luglio 1872 da Palermo nelle quali il tutto esposi.

Quella del 15 luglio consegnai al comando del Distretto militare in piego chiuso a cinque suggelli, chiaramente scrivendo sull'indirizzo — Riservato e confidenziale alle proprie mani del ministro, e apponendo in cima alla memoria la parola confidenziale, il che voleva significare parlassi io esclusivamente al ministro e per uso interno e riservato di lui, l’altra del 17 luglio inviai direttamente, raccomandata, al signor Durandi Segretario del Ricotti, con indicazione del pari confidenziale e riservata pregandolo di farsene interprete presso il ministro.

Dirò più tardi alcun che di quello che sommisi al prefato ministro, e intanto metto sotto gli occhi del lettore il dispaccio dell'eccellentissimo Ricotti, 8 settembre 1872 n.° 981 (Fanteria, Cavalleria e Giubilazioni) diretto al comando della Divisione di Palermo, in cui, il ministro fatta la storia del fatto sulla Specola, cosi proseguiva —

«In quella circostanza egli rifiutavasi di assumere lo incarico, al quale lo invitava il Generale cavaliere Angioletti, di servire cioè di guida a due compagnie di fanteria per agire contro i rivoltosi, e veniva quindi sottoposto a procedimento.

«Però la commissione d’inchiesta presso il tribunale militare territoriale di Palermo dichiarava non farsi luogo a procedere essendo l’accusa stata formulata di rifiuto d’obbedienza.

«Passava dopo il capitano in aspettativa per soppressione d’impiego, ed in considerazione di tale precedente, come altresì pel suo carattere di difficile convivenza, che aveva già dato luogo a richiami, si credette applicargli la legge di riforma 3 luglio 1871 e gli venne indirizzato apposito invito.»

(Qui continuava nel dire che io avessi rifiutato e raccontando a suo modo come mi fu data visione del nuovo rapporto calunnioso n.° 331 riservato del 13 aprile 1872, a firma Angioletti ecc. ecc.) così proseguiva —

«Di tale comunicazione data per sola norma nel formulare il parere sul complesso della qualità del preti detto ufficiale, l’ispettore ne dava al medesimo visione «nell'intendimento di correggerlo se ancora possibile.

«L’Appel ne fece invece argomento di richiamo e chiese presentarsi in udienza del ministro per proti durre le sue difese.

«Il ministero lo autorizzava a trasmetterle in iscritto; ma egli non peritavasi di muovere accuse, insinuazioni e severe critiche sulle disposizioni militari prese da un suo superiore in quelle luttuose giornate, anziché a rendere ragione del suo operato.

«Ora la grave accusa mossagli dal Comandante Generale la Divisione di Napoli in suo rapporto pone il capitano Appel in una posizione assai compromettente; innanzi quindi di procedere sulla sua posizione io credo conveniente di sottoporlo a consiglio di Disciplina Divisionale.

«Egli potrà così addurre le sue difese sopra la taccia gravissima di pusillanimità, taccia che offende nell’onore un ufficiale che ove venisse confermata lo renderebbe oggetto di disistima dei suoi commilitoni e passibile del disposto dell'art. 27 n.° 3, legge sullo stato degli ufficiali ecc.

«Fir. Ricotti

Dunque il rifiuto dell’incarico del 1866 si traduceva in pusillanimità, il difetto di carattere si traduceva in difficile convivenza, il molto diffidente era tradotto di fatti in un uomo molto fiducioso, che non per muovere accuse, insinuazioni e severe critiche ad un superiore aveva avuto la ingenuità preadamatica di esporre le cose come stavano al ministro (nello stesso modo che le avrebbe esposte a voce), che pur pel suo alto mandato era in diritto e in dovere di conoscere il tutto pei provvedimenti di giustizia.

Chi dunque poteva capirne jota? Non ero io l'uomo più spregevole di questo mondo? Non era un'alleanza autoritaria per subissare un individuo?—altro che le streghe di Macheth!

«Double, double, toil and double

«Fire, bum; and cauldron buble.

Altro che ridda infernale! Il Precursore nel suo articolo — Siamo giusti! — intorno allo stadio che sono a descrivere, scriveva — «Ma c’è un terzo stadio. E un romanzo delle mille ed una notte. Il principio autoritario dell'Angioletti era rimasto a terra colla sentenza del 5 ottobre 1866, e Angioletti non la cede, egli che odia la bestemmia, egli che intentò giudizio per diffamazione al Pungolo di Napoli per la parola caparbietà (v. Riforma 20 gennaio 1874), egli sorretto con tutt’i mezzi in potere del Generale Ricotti, e che però nel fatto del Pungolo rimase a terra del pari, Angioletti doveva meditare altro pel capitano Appel; sia pure una bestemmia.»

Via, un ministro di guerra doveva in qualunque siasi caso fas aut nefas garentire non il capitano, ma il Generale.

Cosi importava la tradizione del partito; così l’alleanza per qualunque evento; cosi il principio autoritario.

Altro che ridda infernale.

E perché il lettore fosse a giorno dei formulati di accusa e del procedimento, fo seguire l’ordine di convocazione del consiglio di disciplina divisionale emanato dal Comandante la Divisione militare di Palermo, Generale Sacchi — eccolo—

«Il sottoscritto luogotenente Generale Comand. Generale la Divisione militare di Palermo.

«Visto l’ordine contenuto in dispaccio ministeriale delli 8 settembre 1872 n.° 981 direzione generale delle armi di fanteria e cavalleria di cui è annessa copia al presente unitamente allo stato di servizio e delle punizioni e documenti relativi —

«Ordina quanto segue:

«1.° È convocato un consiglio di Disciplina Divisionale pel giorno 30 settembre a ore 9 ant. in Palermo nel locale della biblioteca militare affine di esprimere il suo avviso sulla questione se il capitano Appel signor Luigi dello stato maggiore delle piazze in aspettativa per soppressione d’impiego trovasi egli nel caso di essere rimosso dal grado e dall’impiego per mancanza contro l’onore a senso dell’articolo 2° n.° 7 della legge sullo stato degli ufficiali.

«Ove poi il verdetto si pronunci negativo sulla precedente questione, sarà dal presidente proposto quell’altra al Consiglio.

«Il capitano nello Stato maggiore delle piazze Appel signor Luigi in aspettativa per soppressione d’impiego trovasi egli nel caso di essere rivocato dall'impiego a norma dell’articolo 27 n.° 3 della legge sullo stato degli ufficiali per grave mancanza contro la disciplina.

«2° Il Consiglio sarà preseduto dal signor Maggior Generale Charvet cavaliere Leone Comandante la 1 Brigata di fanteria della Divisione e sarà composta inoltre dai membri seguenti Luogotenente colonnello Strani cavaliere Enrico del 43° Reggimento fanteria, Maggiore Bergalli cavalier Augusto Comandante la 1 Brigata del 10® Reggimento Artiglieria, capitano Guagnini cavaliere Pietro del 44® Reggimento fanteria— capitano Marchetti Melejna cavaliere Ferdinando dell'8° Reggimento Bersaglieri, i quali non sono per quanto costa al Generale sottoscritto, né congiunti, né affini nei gradi vietati dalla legge dell’ufficiale chiamato innanzi al consiglio, né autori della lagnanza, né del rapporto speciale che lo riguarda.

«3° II maggiore Bergalli cavaliere Augusto adempirà alle funzioni di relatore ed estenderà il processo verbaie.

«4° Il Presidente del consiglio veglierà all'esecuzione del presente ordine ed osservanza specialmente negli articoli 58, 60, 61, 63, 64, 65 della legge 25 maggio 1852, nonché del reai decreto 7 luglio 1852 e dell'istruzione ministeriale di pari data.

«Il luogotenente Generale Comandante Generale la divisione militare di Palermo

«Fir. Sacchi

Intanto perché il lettore gusti proprio l'accusa, credo indispensabile renderlo edotto degli articoli della legge sullo stato degli ufficiali del 25 maggio 1852 sui quali era poggiata l'accusa, e doveva contenersi il verdetto, appena per semplice interrogazione e perciò appena con un si o un nò.

«Art. 2° L’ uffiziale non può perdere il suo grado, fuorché per l'una delle cause seguenti — 7° Rimozione per mala condotta abituale, o per mancanza contro l'onore.

«Art. 27. La rivocazione dall'impiego è la posizione pell'uffiziale il quale, non avendo diritto alla giubilazione, è divenuto non più ammissibile al servizio effettivo per alcune delle cause seguenti — «3° Negligenza abituale o mancanza grave in servizio, o contro la disciplina.»

Non dò il testo degli altri articoli espressi nell'ordine di convocazione del Consiglio comeché concernenti la forma e le garenzie del procedimento.

Adunque il verdetto doveva riflettere, o la rimozione, o la rivocazione, in quanto alla rimozione, se per mala condotta abituale, o per mancanza contro l'onore, e la rivocazione se per negligenza abituale o mancanza grave in servizio, o contro la disciplina.

E esposta la nuova accusa Angioletti e i termini in cui la si confermava dal generale Ricotti posso ora passare alle deduzioni e alle conclusioni; ed in ciò fare sono molto facilitato per aver già posto a raffronto la prima accusa e le deposizioni e la sentenza.

Bisogna convenire che dopo sei anni il generale Angioletti assunse un tono tutto autoritario, affermativo e assoluto.

Dove prima parlò d’incarico che voleva affidare coi modi, vorrebbe, volesse? nel 1872 tolse proprio il piglio autoritario — Lo invitai ad assumere l'incarico, locuzione assoluta, che non poteva ammetter repliche. Questa locuzione venne smentita dai testi e dalla sentenza del 1866.

Nel 1866 Angioletti m'accusò che mendicassi pretesti per esimermi dall'incarico: nel 1872 scrisse che impallidendo rispondevo che non mi sentivo... che ricusavo in fine. Eppure non impallidii nel senso di Angioletti e non mendicai pretesti per esimermi, e risposi tosto esser pronto ma con due compagnie di Bersaglieri, perché ignaro del comando della fanteria.

Nel 1866 Angioletti m'accusò di rifiuto ad un' invito che prima disse, che voleva fare, poi che aveva fatto: nel 1872, scrisse, non ha già rifiutato di eseguire un mio ordine, non potendo io dargliene, sibbene dimostrò pusillanimità nel non assumersi l’incarico.

A corriggere l'equivoco slanciò la bomba della pusillanimità! Ma fu forse, secondo il prelodato Generale, che egli avesse detto tale brutta parola soltanto nel 1872? Mai, no, no.

Nel rapporto del 1872 egli scrisse, mi limitai pel momento a redarguirlo severamente per la sua pusillanimità. Dunque redarguì severamente? dunque nel 1866 parlò sulla Specola di pusillanimità?

Or come va che del redarguire severamente né lui, né i testi, né la sentenza avessero parlato nel 1866? Come va che la pusillanimità non fè capolino nell'accusa, nelle deposizioni e nella sentenza del 1866?

E la parola pusillanimità doveva essere tutto un Deus ex macchina nel 1866, e il Tribunale di Palermo non l’avrebbe passata sotto silenzio, e niun superiore per fermo.

E se il Tribunale militare di Palermo stereotipò nella sentenza il si tacque, comprende ognuno che il redarguire severamente non ci fosse stato, che la pusillanimità non mi fosse stata slanciata sul viso li sulla Specola.

Fu proprio una invenzione postuma per promuovere un consiglio di disciplina a pura ed assoluta vendetta dell’onta subita colla sentenza del 1866.

Ed io ora, dopo dieci anni, domando ai militari di qualunque nazione, se è pusillanime un’ufficiale a cui gli si dica da un Generale, da cui l'ufficiale non dipende! — «prenderebbe Ella e farebbe Ella tale e tal altra operazione militare? — cui l'ufficiale rispondesse, ma si Generale, però con due compagnie dell'arme mia nella quale ho fiducia e conosco!» Sarebbe pusillanime quell'ufficiale? Pusillanime in che cosa se invece ne vorrebbe i mezzi?

In che il rifiuto, se non si rifiutò quell'ufficiale per Dio, ma invitato accademicamente non richiese altro che i mezzi? E perché non seguì invece un invito formale?, e perché andò via il signor Angioletti? E se si tacque, dov’è che redarguì e gittasse in faccia la parola pusillanimità 1 che non fu mai pronunziata!

La seconda postuma accusa del Signor Angioletti fu dunque del tutto gratuita!

Fu una calunnia, fu una diffamazione, l’una e l’altra studiate crudelmente in sei anni.

Altro che ridda infernale.

Ma che disse proprio il Ricotti nell’ordinare il Consiglio di disciplina?

Dette per fatto il rifiuto di assumere l’incarico, rimandando la vittima dinanzi al Consiglio per difendersi dalla taccia di pusillanimità; Egli che pur aveva ricevuto le due mie rimostranze del 15 e 17 luglio 1872, nelle quali erano esposti da me tutt’i fatti e tutte le ragioni in mio favore e come era a considerarsi nei provvedimenti dati nel 1866 il Generale Angioletti.

Ebbene il Ricotti va oltre, muta indrizzo a quelle mie riservate e confidenziali rimostranze fatte a lui come da figlio a padre, come da subordinato a ministro, che spera e fiducia in lui, in lui soltanto, e le traduce in accuse, insinuazioni e severe critiche mie verso del superiore: esterna il suo parere, parere di grave forza verso il dipendente Consiglio, trovarmi io in posizione assai compromettente, e quasi proclama e corrobora così la taccia di pusillanimità, taccia, che ei dice, offende l’onore.

Fin quando il Generale Righini a tromba suonante fu sorpreso dall’accusa Angioletti e ordinò senza disamina alcuna gli arresti, e poi senza saper altro mi si sottopose all’inchiesta, non c’è tanto da meravigliare.

Che poi un ministro di guerra edotto di tutt’i particolari da me narrati corroborasse l’accusa e la facesse sua e la proclamasse in un dispaccio e segnasse nel medesimo quasi il profilo dei suoi convincimenti, quasi per imporli in un modo qualunque, ciò eccede proprio tutt’i confini del possibile: ciò chiamasi in terso linguaggio, mutua consociazione autoritaria; e ornai è saputo che per questa mutua consociazione ogni soggetto o subordinato in Italia avesse avuto sempre torto e il maggior torto quando aveva ragione e la massima ragione.

Non sono gratuite asserzioni: la stampa libera italiana dei 16 anni rilevò in lungo e in largo questo gran sistema autoritario, che ebbe i suoi frutti— la disillusione alle istituzioni.

Io ero dunque condannato a non poter aver ragione: ero spietatamente riserbato all’ignomia e alla conculcazione d’ogni mio diritto a furia di frottole e calunnie e gratuite diffamazioni.

C’è un nome al mondo per tutto codesto?

Si, è quello del dispotismo sotto manto liberalesco, e taccio qualche altro nome forse più vero e più espressivo.

So che un Cardinale della Chiesa cattolica, apostolica, romana dicesse «datemi due riga di un uomo e per quanto innocenti siano troverò materia a farlo impiccare».

Immagini il lettore se materia ne trovasse il Ricotti nelle mie rimostranze lunghissime e dettagliate, egli che se non aveva la preconcezione di Federigo di Svevia, aveva quella di abbandonarmi all’ignomia e alla fame—egli che mi aveva negata la parola sommessamente domandata.

E nel dispaccio di ser Ricotti, il lettore avrà rilevata una menzogna là dove ha letto che io dopo la sentenza del 1866 passavo in aspettativa per soppressione d’impiego. No, no—ser Ricotti, vi fui condannato il 3 ottobre dal ministro Cugia cioè prima della sentenza che fu emessa il 5 ottobre 1866.

Ma il magno Ricotti non finì li—completò il quadro; scrisse di richiami cui ero stato soggetto durante il tempo che ero rimasto in attivo servizio, scrivendo avessi carattere di difficile convivenza.

Da difetto di carattere per cui egli mi slanciava la riforma, da molto diffidente che era scritto nello specchio caratteristico, passavo là tutto di botto ad essere uomo di difficile convivenza, inetto, disobbediente, indisciplinato, pusillanime, disonorato—in somma tale un uomo odioso e odiato e disprezzevole.

Altro che scomunica maggiore; altro che ridda infernale, arrogi autoritaria; altro che streghe di Macheth.

E quel che feci per rifalla?

Oh Foscari, oh Garibaldi.

«Questa è dunque la iniqua mercede

«Che serbaste al canuto guerriero

«Così han premio il valore e la fede

«Che han protetto accresciuto l'impero?»

Ma che, la giustizia era forse un nome?


XI. La giustizia è un nome?

Non so dove avessi letto

«Se la giustizia usasse

«Di tutto il suo rigor, sarebbe presto

«Uh deserto la terra»

Se vera questa sentenza, è da dire che poiché la terra non è poi un deserto, la giustizia non usasse tutto il sue rigore, e perciò fosse appena in molte cose un nome o un mito.

Autorizzato dal Ricotti a sommettere per iscritto le mie ragioni, rassegnai, come ho detto, due rimostranze 15 e 17 luglio 1872, riservate e confidenziali, nelle quali esposi per filo e per segno tutt'i particolari inerenti alla mia condotta nelle giornate di settembre 1866.

E dissi le cose con animo aperto e con franchezza di soldato trattandosi di riservate e di confidenziali. Ero autorizzato a mettere in luce le magagne per le quali ero stato accusato in tanti e svariati modi: dunque scrissi tutto ciò che sembrava dovesse ignorare il signor Magnani-Ricotti.

Sotto l’incubo d'imputazioni tanto strane e svariate, coll’animo esulcerato e chiamando il bianco, bianco, il nero, nero, scrissi con lealtà e vivace parola.

Un soldato ignora le mezze tinte e le frasi melate. Dovevo difendermi; ecco tutto.

Molte delle cose che subordinai in quelle scritte non pubblicherò qui perché troppo delicate di propria natura e d’altronde se furono riservate allora verso il ministro, non sarò io che verrò a metterle in piazza quasi per inciprignire le odiosità piombate addosso alla passata amministrazione dei consorti; sicché dirò in breve quel che posso dire al lettore e che egli già sa in parte.

Sarà questa una pruova della mia difficile convivenza!

In quella del 15 luglio accennavo al ministro, che se fossi stato pusillanime non mi sarei con pericolo di vita recato al Gran Comando; non mi sarei recato in piazza Bologni; non sarei andato e riandato sulla Specola, non visitati i cannoni, non pensato a chiedere i pompieri e le. guardie doganali per piazziarli sul terrazzino della prefettura, non trasversata la piazza del palazzo infinite volte sotto le fucilate degl’insorti; non avrei io sulla Specola fatto vedere al Generale la posizione degl’insorti dietro le case e la barricata in corso Pietro Pisani; non avrei io dato a lui i più minuti dettagli e notizie; non avrei esposto a lui il mio piano onde circondare e prendere gl’insorti, ch'erano come dissi circa 1400; non avrei risposto a lui esser pratichissimo di quei luoghi e dintorni: che, pusillanime io, mi sarei rimasto a casa colla moglie e coi bimbi, e esempi non ne erano mancati.

Erano questi fatti abbastanza eloquenti che smentivano l’assurda asserta pusillanimità.

In quanto poi all’una compagnia di fanteria che voleva darmi il Generale—80 o 90 uomini non era forza per quella impresa—scrissi tutto quello che già sa il lettore, se ricorda la mia deposizione fatta dinanzi alla commissione d’inchiesta, e aggiunsi «l’incarico sarebbe stato onorevole qualora il signor Generale m’avesse dato i mezzi da eseguirlo onorevolmente, cioè le due compagnie Bersaglieri da me richieste ed assolutamente necessarie per mille ragioni; ed ancorché misi avesse dato i Bersaglieri, l’impresa sempre restava a ancora incerta, difficilissima ed arrischiatissima perii ché dovevo cacciarmi tra mezzo due fuochi, cioè tra la posizione degl’insorti tenuta in Corso Calatafimi, Pietro Pisani e quelle bande che stavano dietro i Porli razzi ed adiacenti terreni fino verso i monti» (si vegga la difficoltà dell’impresa nella pianta che si alliga in fine del volume. Un occhio militare anche ora la direbbe cosa impossibile!).

Scrissi ciò che invece si fosse fatto mandandovi due compagnie, la 7(a) e 8(a) del 59° fanteria, in forza di 150 uomini sotto la guida del Tenente Castaman del 2° Granatieri, facendo attaccare la barricata di fronte, le quali due compagnie furono insufficienti, e si abbandonò la presa della barricata; che per la via degli orti si minacciò di fianco la ritirata degli insorti, epperò impiegandosi l’intero Battaglione e sparando colpi di cannone.

Scrissi del risultato—epperò «i briganti che importava pigliare furono fugati nei monti e quindi il prolungamento straordinario del brigantaggio, la necessità dell'impiego di molta truppa per molto tempo per la repressione, e l’enorme dispendio pel pubblico erario, nonché il danno incalcolabile per la provincia, i comuni e privati.» Il pusillanime aveva consigliato l'accerchiamento per prendere in trappola gl’insorti—il guerriero strategico Generale divisò invece l’attacco di fronte e ottenne la fuga degl’insorti nei monti, impiegando un battaglione, e ottenne brigantaggio e lo sperpero del pubblico peculio.

Appel era un pusillanime di difficile convivenza; Angioletti un Generale vincitore alle Termopili.

Scrissi qualche cosa sull'impallidimento che aveva detto il Generale avvenisse in me sulla Specola, e certamente causa il pessimo cibo—poco pane di munizione, il pessimo cacio e acqua malsana di cisterna—e d'altronde mi trovavo giallissimo ed ammalato.

Scrissi sull'attribuitomi rifiuto, insussistente e sulla sorpresa dopo sei anni di sentire l'accusa di pusillanime.

«Se havvi un calunniato, conchiusi, havvi puranco un calunniatore.

«Io mi affido alla giustizia di V. E.»

Nella rimostranza poi pure riservata del 17 luglio 1872 completai le mie difese in quanto alle gratuite assertive di molto diffidente e accennai a molti precedenti riservati, qualcuno dei quali già conosce il lettore.

Parlai francamente e mi lagnai di non pochi trattamenti ingiustamente a me fatti, e accennai ciò che in Palermo civili e militari avevan detto dell’azione militare dell’Angioletti — mi ricoverai finalmente sotto l’egida del ministro, domandando venia sulla vivacità dello stile.

Quelle rimostranze confidenziali furon tradotte dal Ricotti in atto d’accusa e d’insinuazione verso Angioletti.

Ma se mi dovevo difendere uopo era dire come andassero e stessero le cose—altrimenti era inutile.

Io ho avuto il grave torto di creder molto alla giustizia degli uomini; dirò di più, di aver avuto la illusione che le libertà, le guarentigie, le leggi in Italia erano per essere una vera verità e realtà pratica.

Rimasi disilluso. Ero ottimista sotto Cavour, che meraviglia se divenissi poi pessimista, però sempre soldato e ufficiale d'onore?

Queste furono le cose che tra le altre dedussi a cognizione del sig. Ricotti in via però tutt’affatto privata e confidenziale, non mi stancherò di ripeterlo.

Egli intanto si compiacque stranamente a ritenerle come accuse e insinuazioni e critiche al Generale Angioletti.

Possibile mai che un inferiore, anche ammesso a difendersi dall'accusa di pusillanimità, doveva serbare silenzio, e non dire le cose e non sommettere gli apprezzamenti relativi se da tutto questo poteva scaturire la luce e la difesa e la giustizia? O che non siam tutti eguali dinanzi alla legge in quei momenti che la legge prescrive?

E cominciò il procedimento nanti il Consiglio di disciplina.

Epperò, e ne tengo prove autentiche, fui invitato dal maggiore relatore Bergalli a scrivere la mia difesa, difesa che il maggiore stesso ebbe la degnazione di dettarmi, non senza farmi comprendere che qualora mi fossi negato a presentare la difesa sì e come si voleva, che egli dettava, sarei stato irremissibilmente posto sul lastrico, e che docile prestandomi, si sarebbero invece regolati in modo i voti da uscirne salvo. Una giustizia a questo modo non la intendo io.

Ed ebbi dettata una difesa tale, che io, a consiglio anche di ufficiali superiori, non credetti sottoscrivere e presentare, imperocché in mio danno e che per effetto di sottintesi e sfioratore non risultava la verità dei fatti, e risultava forse anche svisata o contraddetta le mia prima deposizione o risultavano svisate le mie rimostranze sommesse già al ministero.

Da pusillanime secondo l’accusa, sarei passato ad essere un vile bugiardo e relativamente un calunniatore e un diffamatore del Generale Angioletti. A ciò si rifiutava assolutamente il mio. difetto di carattere o quel-l’altro motto di difficile convivenza!

Coll’onore e colla verità non transigetti mai, né transigerò. Se questo è il mio difetto di carattere, ne son lieto.

E la suggestione del sig. Relatore mi fece penosa impressione, ma mi ricordò poi quanto ingenuamente un giorno mi aveva detto il sig. Lipari, quel mio capo di Stato maggiore!, che cioè—tutta l’ira contro di me nel 1866 era derivata dall'aver io ricorso al Commissario regio Generale Cadorna, e che se non avessi reclamato mi avrebbero data una semplice lavata di testa. — Mi convinsi quindi che il sistema non era altro che la transazione per salvare l’autorità del superiore. Io mi trovavo proprio agli antipodi.

Io dunque rifeci il dettato del sig. Relatore, conservandone le frasi stereotipate o gesuitiche in quanto non offendevano sostanzialmente i fatti e il mio onore.

Una difesa dolosa non era per me!

Oltre alle cose già note al lettore, conchiusi nella difesa, che deposi nelle mani del Generale Charvet, invocando i provvedimenti di giustizia e che il Consiglio avesse preso precise informazioni sulla mia condotta militare.

E fu scritto al colonnello Sauli, al maggiore Quadrio, al capitano Chetan e al colonnello Brunetta.

Le risposte che il Relatore mi lesse, furono tutte a me favorevolissime. Quella del Quadrio, mi fu detto, non essere giunta.

E però a completare le tinte del quadro non debbo tacere che il maggiore Relatore dette nelle furie allorché lesse la mia difesa trasformata e diversa da quanto egli mi aveva dettato; e che egli pretendeva che avessi esibito al Consiglio buon numero di documenti originali per farne una cerna e trattenersene una parte. A ciò non potei prestarmi; i documenti essendomi troppo cari.

Inoltre voleva che nella difesa avessi esposta anche la mia acquiescenza nel senso d’invocare una qualunque punizione ministeriale disciplinare purché non fossi stato revocato dall'impiego.

Mi si voleva far fare in ogni modo la figura di reo confesso e pentito per salvare il reo superiore surrettiziamente coverto dall'usbergo della legge.

Ch’è che non è; e il verdetto del consiglio di disciplina fu a me sfavorevole, e con R. D. 15 ottobre 1872 fui revocato dall'impiego, e cioè non per mancanza contro l’onore militare, cioè per pusillanimità, oggetto dell’accusa principale ministeriale (art. 2 — 7); ma per grave mancanza contro la disciplina (art. 27—3).

Il signor Angioletti neppur questa volta rimase vittorioso, avvegnaché l'accusa di pusillanime era smentita una volta che non fui rimosso, ma rivocato. È vero che il risultato era sempre uno, cioè quello di non leggere più il mio nome nell’annuario militare, che gli avrebbe potuto suggerire altre accuse e divedermi a terra senza gli spallini.

Il verdetto poi di rivocazione dovette compiacere il Ricotti perché fondato tutto sulla mancanza di disciplina, mancanza ch’era stata quella dall’eccelso ministro fabbricata colle stesse mie confidenziali da lui ritenute come critiche e insinuazioni e accuse contro un superiore.

Angioletti dunque con premeditazione mi aveva colpito nella vita civile: Ricotti mercé la sua grande autorità e sovrabbondante influenza e ascendenza mi aveva dannato alla miseria.

Potevano esserne soddisfatti!

Ché di più autoritario?

Ma fu rispettata la giustizia più elementare dei paesi meno civili che siano, o non fu velato il tempio di Temi, o la giustizia non divenne un nome e un mito? A che parlare più di giustizia?

Ma che dev'essere la giustizia pel più forte?!

Il Precursore nell’articolo — Siamo giusti!—scrisse:

«Ciò che è accaduto a lui (Appel) è increscioso per un italiano, ma è incresciosissimo per uno straniero che lasciando tutto dava sé stesso all’Italia….........

«……………………………………………..………..…..

«Noi deplorammo; e non ci stancheremo di deplorare, il nefasto indirizzo dei sedici anni scorsi in cui senza salvare il principio di autorità, tutto fu lecito al più forte: tutto fu una mutua associazione autoritaria; ma ciò non conforta mica il signor Appel.»

Dopo ciò il lettore giudichi, e passo oltre.

XII. Il santuario della legge

Il 24 aprile 1873 compilai una memoria riassuntiva di tutt’i fatti dei quali ho fatto cenno, memoria che in data 19 giugno di quell’anno rassegnai al Procuratore del Re in Palermo, dando querela per reato di diffamazione e di calunnia contro il Generale Angioletti, sperando cosi il trionfo del diritto violato e della verità schernita e calpestata dalla iniquità e dalla prepotenza.

Tale mia querela, trattandosi di reati esclusivamente riferibili a militari, fu con sentenza della Sezione d'accusa di Palermo del 31 luglio 1873 rinviata al tribunale militare per essere trasmessa al Senato giusta le norme dello Statuto.

E qui trova posto alcun che, che proietta tutta la luce sul verdetto emesso dal Consiglio di disciplina nel 1872 e che io esposi in data 16 luglio 1874 al Procuratore Generale del Re in Palermo —

Ecco quanto esposi —

«Vengo a sapere che il Generale Charvet ecc. già preside, nonché il maggiore Bergalli già relatore al Consiglio di disciplina, sul 30 settembre 1872, abbiano detto a più persone, all’incirca: che, se non mi fossi atteggiato si arrogantemente in presenza del Consiglio, se non avessi sparlato con tanto sfarzo e voluto aver ragione su tutt’i punti, se non mi fossi mostrato cosi indisciplinato ed insubordinato, il Consiglio m'avrebbe senz'altro riammesso e mandato al «corpo eco.: —»

Or essendo tutto ciò una infame menzogna, avendo tenuto la più esemplare condotta ed un perfetto silenzio durante il Consiglio, e soltanto invitato dal presidente e dal relatore preso la parola per leggere una difesa già dettatami dallo stesso relatore, circa negli stessi termini... e qui esposte tutte le ragioni in mio favore e chiedendo il richiamo degli atti del consiglio per esaminarli e constatare i fatti ecc., diedi nelle mani del prefato magistrato querela contro il Consiglio di disciplina instando perché gli atti fossero poi rinviati all’autorità competente per io aver giustizia.

Dunque non fu la sostanza della cosa e cioè la colpa di pusillanimità che fu guida e norma al Consiglio di disciplina nel verdetto sfavorevole, ma appena appena le apparenze o la preconcezione o la prevenzione.

Ed era giustizia codesta?

Quali garenzie adunque?

Intanto il 12 aprile 1874 rivolsi mia istanza corredata dalla memoria del 23 aprile 1873, alla Camera dei Deputati chiedendo i provvedimenti di giustizia e dando querela contro all’onorevole ministro Ricotti, Deputato, in ragione che nell’atto di calunnia e diffamazione Egli aveva avuta gran parte e la massima parte, se vuoisi riflettere ai doveri che gl’incumbevano per l’alta carica che rivestiva, spettando a lui di sentire, esaminare e vedere ciò che ci fosse di vero nella 2 accusa del signor Angioletti, anziché pregiudicare l'accusata vittima, quasi di sua autorità, coll’ordine di convocazione del Consiglio di disciplina, nel quale Egli compromise del tutto la condizione del suo dipendente e asserì ciò che non era, che io avessi presentate accuse e insinuazioni e critiche sulle operazioni del Generale Angioletti in Palermo.

Ed ora andiamo alla querela sporta contro Angioletti, per la quale doveva giudicare il Senato.

In data 18 agosto 1875 spedii in carta da bollo all’eccellentissimo Presidente del Senato del Regno la seguente mia istanza —

«Appel Luigi di fu Enrico già capitano nei Bersaglieri presentò sul 19 giugno 1873 una querela (in data 24 aprile) per diffamazione e calunnia contro il Senatore Diego Angioletti a questa regia Procura generale, la quale in virtù della sentenza 31 luglio 1873 della Sezione d’accusa rinviò col mezzo del tribunale militare gli atti al Senato per ragion di competenza.

«Non avendo peranco conosciuto l’esito, l’esponente si è rivolto a questa R. Procura generale con scritta delli 28 febbraio 1875 perché avesse richiesto la pratica in discorso dalla cancelleria del Senato. Il Procuratore generale però dichiarando di non voler dar corso alla domanda, perché non di sua competenza, ha invitato l'esponente di ricorrere direttamente al Senato.

«Nel frattempo il sottoscritto poi venne a conoscere avere la commissione istruttoria Senatoriale nel 24 settembre 1873 già dichiarato non farsi luogo per inesistenza di reato.»

«Il supplicante non sapendosi punto spiegare perché gli si voglia negare il diritto di leggere tale sentenza e vedere i motivi, sui quali naturalmente quella deve basare, si rivolse a qualche Deputato onde si fosse indotto interloquire al riguardo negli uffici del Senato, e si seppe avere il Senato inviato copia conforme della sentenza 24 settembre 1873 a questa R. Procura generale affinché l’interessato possa accudirvi ed esserne pienamente informato.

«Anche al primo presidente signor Schiavo di questa Corte di giustizia si ebbe cura di ricorrere. E questi espresse il parere che il Senato non avrebbe trasmesso la sentenza in discorso, se non voleva fosse comunicata a chi spetta, e che sentenze certamente non si emettono per tenerle in cassetta; poi riparlatone al Procuratore generale Calenda, questi si scusò dicendo non aver avuto ordine dalla Presidenza del Senato di informarne la parte.

«Laonde l’esponente prega l’Eccellentissimo Signor Presidente di volersi degnare emettere ordinanza conforme in proposito, affinché questo R. procuratore gen: sia invitato a dare comunicazione di detta sentenza al richiedente.»

In esito a tale istanza mi pervenne il 10 Settembre 1875 una lettera del signor Sindaco di Palermo N.° 4880 partecipandomi per incarico del presidente del Senato «che nessun provvedimento può aver sul suo ricorso, ostando alla domanda di cui in esso le prescrizioni di procedura penale in vigore, non che la giurisprudenza sancita da una recente decisione della Corte di Cassazione di Torino del 13 febbraio 1873, a norma della quale nessuna copia degli atti penali può essere rilasciata, fuorché all’imputato od alla parte civile.»

«Non verificandosi alcuna delle sopra accennate condizioni nella domanda del signor Appel, la sua memoria non può essere presa in considerazione.»

A questa partecipazione negativa, in data del 23 Settembre 1875 sommisi altra istanza chiedendo non altro che aver semplice visione e prender nota dei considerando della sentenza dovendo rientrare i fatti di cui nella mia querela rispettiva, nelle previsioni degli articoli 161, 163 ecc., codice penale militare 1859, nella mira della luce e della verità.

Questa istanza spedita in carta bollata e ricevuta in Roma addì 30 Settembre 1875 dall’on: Senatore A. Scialoja, rimase senza risposta, ed io il 20 Ottobre di detto anno la rassegnai di nuovo per dupplicato che alla sua volta ebbe la stessa sorte.

Il 30 novembre 1875 insistei con altro reclamo presso il signor Presidente della Commissione d’inchiesta nominata per la Sicilia, recatasi qui in Palermo a fidando «—cosi conchiusi nel reclamo—che l’onorevole Consesso vorrà affermare la sua integrità, la sua indipendenza, il suo amor di verità e di giustizia e seguire la via già luminosamente tracciata dalla Sezione d’accusa sedente in Palermo con sentenza 31 luglio 1873.»

Il 10 gennaio di questo volgente anno poi rassegnai anche un mio reclamo allo stesso fine e sulle stesse basi al signor Presidente dell’alta Corte di giustizia Senatoriale in Roma; e poiché restò come tutti gli altri, senza risposta, malgrado avessi alligato un francobollo di centesimi venti per francatura della risposta desiderata, inviai il 10 marzo 1876 centesimi 50 in francobolli perché il riscontro mi fosse stato spedito raccomandato a scansare ogni dispersione postale.

Dopo il premesso risulta non altro che questo.

Che mi querelai, e la Sezione d’accusa in Palermo emise sentenza e mandò il tutto al Senato:

Che il Senato il 24 Settembre 1873 emise sentenza dichiarando (almeno come mi si riferiva da onorevoli Deputati) non farsi luogo per inesistenza di reato'.

Che copia di questa sentenza fu mandata a Palermo per restare nel cassetto della R. Procura Generale:

Che della stessa non mi si volle rilasciare copia:

Che ai miei reclami reiterati per averne visione e prenderne nota non mi si rispose affatto:

Che finalmente il mio diritto a sapere integralmente e legalmente la ridetta sentenza rimase di fatti in una vacuità di reclami miei e di amici miei a mezzo della stampa indipendente locale {Sferza, Precursore, Voce del Popolo, Fionda), ovvero in uno sciupio di carta bollata e francobolli postali e nella inanità di voti, di speranze, di aspettative e di giustizia—Si di giustizia.

L’alleanza autoritaria poteva essere più completa?

Ma che dire di un giudice che nega far noto la sua sentenza a colui che di fatti ne rimase e rimane vittima? Che debbo pensare io in vista di prove di fatti e parole e smentite che rampollano dalla logica e dai fatti medesimi e dalle accuse contradette, ora presentate in un modo, ora in un altro, sempre smentite, respinte dalla Commissione d’inchiesta, non ritenute dallo stesso Consiglio di disciplina o ritenute sol perché io volli con tanto sfarzo aver ragione su tuffi punti e fui arrogante, o che d’altro?

Che debbo pensare io della sentenza senatoriale del non farsi luogo per inesistenza di reato?

Che ne debbono pensare tutti gl'Italiani?

E credo che agl’italiani importi più di me, imperocché e vero che il mio è appena un fatto individuale— una vittima di più, una di meno, non monta — ma se questo fatto con tanta disinvoltura guardato, per sistema continuo si fosse ripetuto per questi e per quelli, e si dovesse ripetere ancora (ciò che non è più possibile dopo il 18 marzo!), si dovesse ripetere, così per ipotesi, allora il sistema minaccerebbe tutti, e ognuno lungi di fregarsi le mani e restare indifferente al caso del terzo e del quarto dovrebbe temere che il fatto dell’uno non si scaraventi su di lui domani coll’inesorabile hodie mihi, cras tibi.

Quali guarentigie, e quale giustizia? Ho diritto io ad una giustizia, ad una riparazione? Me ne appello ai Poteri costituiti d’Italia, al gran popolo Italiano!

Se è giusto il verdetto senatoriale; e perché allora non mi si comunica? E perché si è inibito pure di darmene visione e di farmi prender nota dei considerando?

Quale preoccupazione per un verdetto giusto?

E se è ingiusto codesto verdetto; ebbene perché il calunniato e il diffamato iniquamente ha da trovar chiuso il santuario maggiore della giustizia, e dico maggiore trattandosi di un verdetto senatoriale, nel Senato potendosi e dovendosi ottenere il maggiore grado della giustizia, quel grado della serena antica giustizia? Ma potrà dirsi—eh via, soffri, Appel, in pace, ché c’è il principio autoritario a salvare, un Generale a salvare, un ex ministro di guerra a salvare, un Consiglio di disciplina a salvare!

Che vuoi tu, Appel, tu povero ex capitano, fare un ecatombe, perché a te sia reso un briciolo di giustizia?

Io non credo che infra gl’italiani si trovino uomini scettici a tanta oltranza.

È vero che mi ricordo del capitano di Stato Maggiore Bianco di S. Jorioz che per aver pubblicato talune verità ebbe le unghie mozze e il muso pelato, e a lui non si pensò tanto e quanto: è vero che mi ricordo del capitano del Genio Paulo Fambri che per aver annaspato al pio scopo di covrire in qualche parte certe patrie nudità dovette dimettersi—i ministri non soffrono consigli e obbiezioni—: è vero che mi ricordo di altri e di altri; ma credo che ci siano degli estremi poi a cui, volere o non volere, gli stessi Italiani non possono tollerare. Questi estremi si personificano proprio nel fatto mio.

E domando un pò—Se avessi perduto il ben dello intelletto, se non avessi avuto sangue freddo e pazienza, se non avessi saputo soffrire tanta conculcazione di diritti, 6e non avessi avuto in me la virtù di saper fare qualche cosa per vivere colla famigliola, se avessi imbrandito un arma e fatta giustizia sommaria, di grazia qual sarebbe stata la mia condanna? Via, si sarebbe detto, è pazzo, e si sarebbe detto quel motto — muori carogna: ché non sapesti esser pecora e ilota.

Eppure, lo ripeto, Dio mi concesse senno e calma e fiducia nella legge.

Invocai la legge; ma il santuario della legge fu trovato da me chiuso.

Sarò esigente io, o di difficile convivenza, o uomo cui fa difetto il carattere, se attendo non altro di esser giudicato ora dagl’italiani nel foro della loro coscienza ch’è il vero Santuario della legge, senza orpelli e mistificazioni e mutue alleanze e consociazioni? Disse l’Abate Maurv all’assemblea costituente di Francia— «Ci avevate promessa la libertà, ci avevate promessa l’uguaglianza, e ci avete negato la giustizia.»

Giustizia pei dipendenti? Ma si — ce n’è una, quella che si legge nel dramma del Barattani — cioè —

«Non sai che il diritto è sempre

«Per ehi comanda? Mangia servi e taci,

«O securtà non fo che un giorno o l'altro

«Più della lingua non t’allunghi il collo.»

Eppure di sorpresa in sorpresa, c’è altro—c’è la mentecattagine, di cui tra non guari.

XIII. Il criterio militare

Secondo Tartufo—Il y a avec le Ciel des accomodementes. Eppure un Tartufo non potrebbe acconciarsi colla inesorabile logica che accompagna un criterio militare, ma veramente militare.

A Sarrebruk non ebbe luogo che il poco serio combattimento di tre divisioni francesi contro una compagnia prussiana, occasione in cui Lulù si meritò i primi suoi allori militari. Ciò avvenne nel 1870.

A Palermo, nel 1866, si voleva prevenire in un caso inverso il fatto di Sarrebruk, e cioè con una compagnia (non 4a compagnia di guerra di 250 soldati del generale Ricotti col capitano a cavallo!) di 80 o 90 uomini pigliare circa 1400 briganti che stavano alla fossa Garofalo, nella strada dei Porrazzi e nelle case intorno alla barricata nel parco dei Teresiani e piano dei Porrazzi, mentre tutti gli altri segnati in pianta colla parola Insorti a rosso, già per quanto se ne sapeva erano in ritirata nella direzione di Parco, sotto Monreale e piana dei Greci.

Io esposi il mio piano di accerchiamento per pigliare appunto quei 1400. Angioletti trovò che il mio-piano fosse troppo lungo, e se lo trovò troppo lungo, vuol dire che non avendomi indicato altro piano, io proprio non avrei saputo che fare se mi avesse ordinato di andare all’operazione! (e ordinò l’attacco di fronte alla barricata, attacco che dovette abbandonarsi e impiegare altre due compagnie per un attacco di fianco a fugare gl’insorti).

Il Generale cosi fugò ma non pigliò, e il pigliare, che era il suo ideale sulla Specola, fu tradotto in un completivo far pigliare la fuga.

Il Generale Changarnier, il 28 maggio 1872, nell’assemblea francese disse «non abbiamo bisogno delle lezioni del conte Moltke.» Con quanta maggior ragione nel 1866 il Generale Angioletti aveva potato dire, ma che ne ho da far io di un suggerimento, sebbene domandato da me, di un semplice capitano dei Bersaglieri? Non accerchiamento dunque, ma attacco di fronte e perciò non pigliò ma fugò.

Se questo non è insuccesso militare, non saprei cosa fosse.

A riguardo poi delle due compagnie Bersaglieri da me richieste e negatemi dall’Angioletti, per non farmi pigliare ciò che egli voleva pigliare nel modo forse che pigliò, negatemi, dicendo di non averne, osservo che egli, come io scrissi il 25 settembre 1866 al Lipari, il mio capo di Stato maggiore!, me le poteva subito dare facendole dalla fanteria rilevare da altri posti.

Il Generale a rendere più aggravante, dirò cosi, la mia riluttanza nell’assumere l’operazione con fanteria di cui ignoravo il comando, si compiacque dire avermi soggiunto non trattarsi già di comando, ma di farla da guida.

In verità se il piano d’accerchiamento era tutto mio su di un esteso terreno, non era già da semplice guida che dovevo fare, sibbene ne dovevo togliere il comando.

La responsabilità era mia.

Fatti questi pochi cenni e presentando la pianta al lettore dovrei esporre tutto un criterio militare.

l’ho questo criterio; ma poiché potrebb’essere un criterio passionato o di un uomo pusillanime, cui fa difetto il carattere, o di un semplice capitano, Tedesco per di più, così il criterio mio me lo tengo a casa pei bimbi, e lascio che il lettore, massime se militare, se lo formi da sé e giudichi a suo talento.

All'uopo lascio qui delle lacune in cui ognuno, secondo pensa, potrà concretare il suo giudizio cogli appellativi e qualificativi più appropriati che stimasse — Eccone il formulato.

L’operazione Angioletti del 1866 che ebbe per obbiettiva di pigliare fu?…………………………...—

Il commendatore, ex ministro, comandante la 10(a) Di visione attiva, Angioletti, nelle giornate di settembre 1866 fu un Generale?…………………………...—

Ognuno così sarà libero di poter scrivere la sua parola e lasciarla ai posteri, qui su questa pagina.

Non ho segnato io gli appellativi e qualificativi perché fui appena un capitano. Sempre si potrebbe dire dai commilitoni e dai Generali e che so io --ma per Dio dobbiamo soffrire che un’ex qualunque giudichi dopo dieci anni un Generale e faccia insinuazioni?

Ed allora ecco un giudizio di diffamazione militare che potrebbe ancora piombare sulle spalle dell’ex, ora professore di tedesco in Palermo.

La pianta è tutto, e il lettore ne sa ad esuberanza.

Ma la mentecattagine?

Eccomi in argomento —

XIV. La mentecaggine

Credo indispensabile dare un cenno al lettore del come avessi subito anche la classifica o la taccia di alienato di mente o mentecatto.

Io non scenderò in tutt'i particolari, ché troppo andrei per le lunghe; epperò dirò quanto basti per completare anche quest'altro estremo delle mie inenarrabili delusioni e dispiacenze.

L’ho già detto, e mi piace ripeterlo. Io credevo seriamente al vero significato delle parole, mai comprendendo vi potessero essere sottintesi e mezze tinte per le quali la parola non ha più praticamente il suo significato o la sua essenza propria.

Credevo che le guarentigie della legge dovessero essere imprescindibili in ogni momento, e eguali per tutti gli individui della grande scala sociale: credevo poi che queste guarentigie, maggiori dovessero esser per colui che per una ragione qualunque fosse stato avvilito e calunniato.

Ho creduto sempre, e credo ancora, e mi piace di dichiararlo, non sia lecito da sé farsi giustizia sommaria quando si hanno leggi protettrici, ‘come quelle che vivaddio ha l’Italia; e su questa mia credenza quasi dogmatica, era naturale che per tutto e quanto mi fosse successo, io avessi dovuto domandare i provvedimenti dalle autorità competenti.

E se questi provvedimenti furono in un periodo di tempo domandati quasi in continuità, non era da inferirsene a me la colpa, ma a quella che chiamerò concitata, instancabile persecuzione.

Io posso addurre un fatto in mia giustificazione e al lettore e alle autorità politiche di Palermo e al Governo d’Italia, che cioè dall'ottobre 1866 al 1872 non vi fu un mio reclamo qualunque diretto ai funzionari politici del Governo, malgrado fossi stato collocato ingiustamente in aspettativa. Non ero insultato, non perseguitato da alcuno, e subivo in pace la sventura, che senza mia colpa mi era piombata addosso.

Non così però dall’inverno 1872 in poi, in cui dovetti necessariamente far capo alle autorità politiche e giudiziarie reclamando] favore, appoggio e guarentigie.

Ed ora accennerò a pochi fatti — Nell’inverno 1872, in cui ero dedito al commercio in Palermo, venni edotto serpeggiasse in paese una diceria nel senso che io fossi furente, pazzo e monomaniaco. Mi rivolsi perciò all'autorità giudiziaria dando querela contro i rei.

Importava trovare il sodo e non esser pregiudicato da quella taccia nei miei affari, taccia che ripetuta di bocca in bocca ebbe i suoi risultati esiziali, facendo terminare i miei affari commerciali.

Un uomo, anche colla semplice taccia di alienato, è un appestato per la società.

Ma non fu solo la diceria.

Non potevo sortire di mia casa che immediatamente mi vedevo circondato da facce equivoche, e minacciose, pedinato, spiato, e ciò in qualunque punto mi fossi recato della città, spesso accorgendomi di segni d’intelligenza da un individuo ad un altro di quelli che si prendevano la briga di pedinarmi.

Chi aveva dato loro questo mandato??

Cosa fare se non ricorrere a chi aveva nelle mani il potere della legge?

E poiché lo scherzo diveniva noioso e provocante, e prevocato potevo in qualche momento trovarmi in serio imbarazzo, chiesi, istigato e consigliato specialmente dal Giudice Istruttore Cipri e dal Delegato Scinia, il permesso del porto d’armi per stare munito in mia difesa.

Rassegnai dunque nelle mani dei Procuratore del Re querela contro i rei, e poiché fra essi c’erano delle guardie di Pubblica Sicurezza, ne indicai il numero che essi portavano appiccicato al colletto della loro tunica. Per la relativa istruzione venne incaricato il Giudice istruttore sig. Cipri.

Epperò io osservavo dei temporeggiamenti nell’istruttoria, e al fine di sollecitarla mi recavo da esso sig. Cipri, se non che dopo molti andirivieni, una volta parlandomi delle persecuzioni cui ero fatto segno, egli si diffuse sulla bontà del Delegato di P. S. sig. Scinia Michele. Risposi essere anzi lo Scinia a pieno giorno delle cose, e che anzi ancora mi si era offerto a deporre alla giustizia, se chiamato, in mio favore.

Come avvenne questa offerta?

Un giorno, il dì 8 dicembre 1873, mi recai all’ispezione del monte di pietà per reclamare contro un fontaniere per furto d’acqua patito.

Ivi trovai il signor Scinia, che salutandomi gentilmente e presentandomi al suo superiore Ispettore, in presenza di un altro di lui collega, si mise a raccontare la storia delle persecuzioni e attentati e tentativi di assassinio contro me operati da parte della Questura, collegata colla Mafia (il tutto come da me veniva deposto nella querela relativa).

Lo Scinia parlò del rescritto del ministro dell'Interno pel quale erasi ordito un piano di offese onde trovar modo per impossessarsi della mia persona, credendosi, e in ciò lo scopo era ben pietoso! avessi l’intenzione di ammazzare Angioletti, Ricotti, Charvet, Bergalli.

Lo Scinia rideva poi dello scemo contegno del signor Virzi circa il diniego del permesso pel porto d’armi.

Lo Scinia si dichiarò infine pronto di deporre tali cose dinanzi al giudice Istruttore, se richiesto, soggiungendo mi fidassi interamente su lui, avendo avuto proprio lui l’incarico speciale di perpetrare la indegna azione.

Mi abboccai tosto col signor Cipri, il quale emise i suoi dubbi intorno alla sincerità dello Scinia e aggiunse che il signor Delegato Scinia «non avrebbe osato dire il vero perché si sarebbe rovinato, né deporre contro i superiori.»

In ogni modo quando fui ad insistere, come ho premesso, per lo svolgimento della istruzione, il Cipri mi disse «se insistete, farò chiamare lo Scinia onde dece ponesse.» E a questo scopo lo stesso sig. Cipri, vedi quanta, degnazione!, si compiacque dettare a me una lettera a lui, Cipri, diretta, nella quale fu scritto che lo Scinia era consapevole delle persecuzioni e che, se richiesto, avrebbe deposta la verità senz’altro.

Il sig. Cipri quindi, tosto che ebbe nelle mani la lettera di cui è parola fece chiamare lo Scinia, e questi nel 24 febbraio 1874, depose:

«Che cosa posso dire del capitano in ritiro signor Luigi Appel? Egli è alterato di mente, e nella sua mania escogita assassinii per parte anche di funzionari. Reclama continuamente, e siccome io conosco che è un pazzo, ho sempre creduto di condurlo in buoni modi, d’onde egli vedendosi accolto e non sgarbato come gli succede per altri, si ha per me una stima.

«So che vorrebbe essere munito di permesso d’armi, ma come può secondarsi questa di lui pretesa col sospetto che potrebbe abusarne involontariamente in un eccesso di pazzia. Questo è quanto posso dire, e soggiungo che nella sua pazzia non ha tralasciato di sospettare………………………. altri alti funzionari volessero attentare alla di lui vita.»

Prima di proseguire vò dare un brano del giornale Il Bersagliere, 1° ottobre volgente anno, che mi capita fra le mani a riguardo della Moderazione predicata dal celebre partito Moderato—Eccolo.

«Non gioverebbe meglio al partito moderato continuare a parlare di camorra ufficiale, di mafia organizzata e governante, di terrorismo elevato a sistema, di corruzione prefettizia, di intimidazione elevata a canone di ragione di Stato, di ministri ladri e briachi?

Quel patriota che è Aurelio Saffi, il 10 settembre 1875 scriveva intorno alla polizia:

«È un sistema di polizia che può definirsi una permanente cospirazione dell'arbitrio e della menzogna, a danno della libertà e dell’onore dei cittadini.»

Ma proseguiamo.

Ecco intanto quanto il giudice sig. Cipri scriveva il 3 marzo 1874 (dopo la deposizione del Delegato Scinia!) al comandante della legione dei Carabinieri e al Questore.

«Il sig. Luigi Appel capitano in ritiro domiciliato in Palermo ha presentato alla giustizia istanze e querele facendo credere che continuamente ed in diversi luoghi gli si è attentato alla vita, soggiungendo che varie istanze ha fatto giungere all’oggetto a tutte le Ispezioni mandamentali delle quali ha esibito copie, ma tutte si sono fatte sorde, non avendo dato alcuna provvidenza, che anzi, dice egli, quelle persone che procuravano attentargli la vita, gli sono sembrate agenti di Pubblica Sicurezza travestiti.

«Gli stessi reclami, dei quali ha presentato pur copie, dice aver fatto giungere al Colonnello dei Carabinieri e non ha ottenuto alcuna provvidenza.

«La stranezza dei fatti che accenna nelle sue istanze, mi fa vedere che il signor Appel per lo meno sia esaltato di mente, e che esse istanze abbiano tutt'altro scopo che quello dei tentativi di assassinio che egli accenna, mentre quando io ebbi a sentirlo in formale esame, egli ebbe a dirmi che il Questore non ha voluto provvederlo di permesso d'armi, per lo che io suppongo, che il signor Appel, nello scopo forse di ottenere il permesso d’armi, viene fuori con queste lagnanze, che non è difficile potrebbero avere pure addentellato a qualche esaltazione mentale che soffre.

«Or comeché la giustizia non può fare a meno di dar corso alle istanze in parola, io mi rivolgo alla S. V. I. con preghiera di prendere le più esatte informazioni sul proposito, e riferisca i risultati, non tralasciando di accennarmi quale sia il concetto che sul tema possa formarsi.»

Il lettore cadrà proprio dalle nuvole nello scovrire l’orditura di un piano per riescire a quel risultamento preordinato e preconcetto tra il Cipri e lo Scinia che il lettore dà per sé stesso vedrà ancora meglio appresso.

Occorreva solo l’intonazione!

E il Questore sig. Biundi, il 4 marzo 1874 cosi rispondeva all'Istruttore sig. Cipri —

«Il capitano in ritiro signor Luigi Appel ha, sin da due anni perduto il ben dell’intelletto—Vede dapertutto assassinii, e per questo ha invaso tutti gli ufficiali di P. S., il Comando dei Carabinieri ed anche la Prefettura. Chiede incessantemente il permesso di porto d’armi, che la Questura gli ha negato, non potendo affidare le armi ad un uomo che ha smarrito la ragione e stanco di un ingrato andirivieni si rivolge ora agli ufficii giudiziarii.»

E il Comando dei Carabinieri, a firma del Tenente Colonnello Mezzacapo, addì 22 marzo 1874, scriveva ad esso Giudice Istruttore —

«Per le assunte informazioni il capitano in ritiro signor Appel Luigi risulterebbe affetto da interruzione di alienazione mentale, ed è per questo motivo che gli viene rifiutato il chiesto permesso porto d’armi nel timore che potesse involontariamente offendere qualcuno.

«Premesso ciò io mi credo dispensato dall’entrare in merito alle diverse denunzie che egli ha fatto alla giustizia che sono naturalmente conseguenze di una immaginazione soverchiamente fervida.»

Ecco dunque, che data l’intonazione, si ammannivano gli atti nel modo preconcetto, atti che il sig. Cipri trasmise al Pubblico ministero per le requisitorie diffinitive in merito; e il magistrato sig. Pandolfini conchiudeva il 19 aprile 1874 —

«Ritenuto che non essendovi elementi come potersi considerare veri i fatti di tentativo d’assassinio che l’Appel ha esposto; anzi essendosi per le concordi informazioni di tutte le autorità, e per la testimoniale medesima del giudice Istruttore accertato che il reclamante non è sano di mente, sarebbe opera poco seria lo attendere ulteriormente allo sviluppo istruttorio di circostanze create solo dal panico morboso dell’Appel. Richiede che il Giudice Istruttore dica non essere luogo a procedimento penale.»

E con ordinanza del 21 maggio 1874 il Giudice Istruttore signor Cipri dichiarò non farsi luogo a procedimento ed ordinò conservarsi gli atti in archivio.

È appena necessario dire che in esito a tali diffamazioni, calunnie e imposture, presentai le dovute querele, non senza lagnarmi che il potere giudiziario non avesse richiesto la perizia degli uomini della scienza salutare di legge, pel cui procedimento e quant’altro, senza infastidire il lettore, darò qui le conclusioni del Pubblico ministero (Pandolfini) in data 5 luglio 1874—cioè.

«Ritenuto che il signor Appel si querela contro il Questore Biundi ed altri innominati per diffamazione e calunnia fondata pel rifiuto dell’Autorità di P.(a) S.(a )a rilasciargli il permesso d’armi, giudicando come pazzo il querelante e perciò incapace ad esserne provveduto. Attesoché non vedesi in modo alcuno giustificato che il Questore Signor Biundi abbia qualificato per pazzo il Signor Appel, e molto meno con animo di offenderlo nell’onore e nella reputazione, che quante d’anche l'autorità di P.(a) S.(a) possa stare in apprensione pello stato di mente del querelante, e con riserbato apprezzamento opini doverglisi negare il permesso del porto d’armi nessun reato può in ciò ravvisarsi, bensì l’esercizio di un diritto che la P.(a) S.(a )si ha in relazione alle facoltà della legge concessagli al riguardo—Richiedo che il giudice Istruttore dica non esser luogo a procedimento penale.»

Eppure in tutte le mie querele io avevo indicato fatti e circostanze e persone e fondati sospetti e insulti determinati e minaccie circostanziate; ma su di tuttocciò si sorvolò addirittura, quasi che non ne valesse la pena.

Si era strombazzata la diceria che fossi pazzo, essa doveva prender consistenza e conferma legale, cosi per asserzione di asserzione senza quegli estremi previsti nel caso dalla legge, e non si doveva scendere nelle viscere dei fatti per rinvenire i colpevoli.

Io non dirò delle mie giustificazioni esposte, dei miei ricorsi a tutte le autorità, indicando fatti minuti e le indegnità a mio danno commesse con un piano vasto e preordinato—annoierei il lettore—il quale poiché è in diritto di sapere se gli è un mentecatto che scrive o un uomo in tutta la potenza dell'intelletto e serio e pacato, è prezzo dell’opera mettere a raffronto parole e documenti già nel corso di questa narrativa esposti.

Si organizza una taccia gratuita contro me di furente e pazzo: uomini di cipiglio dubbio e minaccioso mi pedinano, m’insultano, ed io non fo cosa da furente e da pazzo: mi rizelo, e reclamo, e sporgo querele alle autorità di P. (a) S. (a) e dei carabinieri e giudiziarie, espongo sospetti, fatti e particolari con franca e vivace parola e raccolgo non l’approfondimento dei fatti e dei particolari, raccolgo sistematicamente il non farsi luogo a procedimento verso questi e quelli, perché, lo si dice spiattellatamento e spietatamente, perché io ero pazzo. Che feci da pazzo?

Su quali criteri si fondano le decretali del potere istruttorio? Sulle informazioni! Chi ha dato queste informazioni?

Un Delegato di P.(a) S.(a), lo Scinia, quegli stesso che aveva detto essere incaricato del piano di persecuzione a mio danno perché io avessi dato in eccessi!

Su che si fonda la cedola di mentecatto? Si fonda sulla mia invasione degli uffici polizieschi e giudiziari con reclami scritti con viva parola! Ecco il delitto in governo libero. Sfido; se ero offeso, se al vivo mi toccava la taccia, se giustizia non potevo e non potetti ottenere in verun conto?!

Che si voleva? O la vittima rassegnata avviata al manicomio, o la vittima che avesse spaccato il cranio a qualcuno onde condannarla e mandarla proprio in galera?!

Il Giudice Istruttore scrive il 3 marzo 1874 «la stranezza dei fatti che accenna Appel nelle sue istanze, mi fa vedere per lo meno sia esaltato di mente»; e la palla messa al balzo rotola giù, e posta l’intonazione, lo Scinia risponde il 2 Febbraio 1874 «egli è alterato di mente, egli è maniaco, egli è pazzo»; e il Questore dichiara il 4 marzo 1874—«Sin da due anni ha perduto il ben dell'intelletto ed ha smarrito la ragione» cui viene la Legione Carabinieri il 22 marzo 1874 e mi dichiara affetto da interruzione di alienazioni mentali e di una immaginazione soverchiamente fervida; e il 19 aprile 1874 risponde il Pandolfini «non è sano di mente;» e poi il 21 maggio 1874 viene l’ordinanza dell’istruttore e proclama—Appel è alterato di mente; Dunque? Si suona in scala semitonata esaltato di mente, perduto il ben dell'intelletto da due anni e smarrita la ragione; affetto di alienazione mentale e immaginazione soverchiamente fervida. Altro che streghe. Si può volere di più comico o di più tragico?

Ebbene mi lagno di tutte queste benigne e compiacenti amenità e dò querela per diffamazione e calunnia, e raccolgo una variante o una scusa il 5 agosto 1874 del signor Pandolfini — «non vedesi in modo alcuno giustificato che il Questore abbia qualificato per pazzo il signor Appel, e molto meno con animo di offenderlo nell’onore e nella reputazione, che quando anche l’autorità di P. S. possa stare in apprensione pello stato di mente del querelante, e con riserbato apprezzamento» gli nega le armi.

Dunque il pazzo, il maniaco, l’uomo della fervida immaginazione, l’alienato, non fu qualificato più tale e si trovò sotto un riserbato apprezzamento!! Dall’affermazione assoluta, ineluttabile, accertata dai funzionari del governo, mi trovai mistificato, e per via di transazione sotto il riserbato apprezzamento. Chi il colpevole dunque?

Ma ero pazzo, o non pazzo? Avevo il diritto di saperlo, e in diritto di saperlo nei modi di legge la società?

Fu consultata la facoltà medica, fu fatta qualche perizia, furono chiamati quanti mi conoscevano a deporre sui fatti miei? Niente di tutto ciò. Tutto per dogma, tutto per scienza infusa, tutto per mutua associazione, tutto per principio di autorità. Si rovina un uomo, e l’uomo deve rispondere amen!

Moralità — Tutti i cittadini non debbono reclamare, non debbono insistere, non debbono difendersi, non debbono querelare i funzionari—altrimenti li attende l’ostracismo di pazzo, alienato, monomaniaco e per grazia poi di fervida immaginazione.

Sono inezie codeste, sono le inezie e le blandizie che si ebbero sino al 18 marzo, ornai confermate dalle rivelazioni Tajani, dal libro del commendatore Zini e dalla relazione Bonfadini sull'inchiesta in Sicilia.

Ma sono pazzo?

«Vedo che non son nato a buona luna

«E se da questa dolorosa valle

«Sane a Gesù riporterò le spalle

Oh! che fortuna!»

Ma ero pazzo nel 1874, già da due anni secondo il Questore Biundi!

Ero pazzo il 2 febbraio, il 3, 4, 22 marzo, il 19 aprile, il 21 maggio, il 5 agosto 1874?

Venturatamente, e son gratissimo alle tante egregie persone che prima e nello stesso anno 1874 mi tolsero, e mi tolgono così ancora ora, da sotto l’incubo in cui mi trovavo.

Nel capo IV ho posto sotto l'esame del lettore una serie di attestati in buona parte dello stesso anno 1874, di stimabili cittadini o che mi conoscevano, o che dell’opera mia si valevano.

E ricorderò in riassunto — 1° ottobre 1872 del Dottore Spiaggia; 30 maggio 1874 del Direttore del Collegio di S. Rocco; 5 giugno 1874 del professore de Marchi e dell'avvocato Gorritte; del 30 maggio 1874 del Dottore Spiaggia; del 13 luglio 1874 circa l’incarico onorevolissimo della Deputazione della Biblioteca di Palermo; del 14 agosto 1874 del Dottore Pi gnocco e quelli tanti finalmente di tutti i miei carissimi allievi dal 1872 al 1876.

A chi credere intanto, a tanti pregiati cittadini che nello stesso anno 1874, durante le dichiarazioni poliziesche di mentecatto mi onoravano di stima e si degnavano valersi di me e davano mercede all'opera mia, o a quei tali funzionari che cinicamente proclamavano la taccia insensata, funzionari cui io feci capo in ossequio alla legge e che pur io contribuivo una minima parte, come contribuente, ai loro stipendi?

Via, l’accusa di mentecattaggine fu proprio gratuita, subdola, indegna, e se c’è un altro epiteto, che del resto lascio nella penna, lo aggiunga il lettore.

E il 12 aprile 1874 presentai al Regio Procurator generale querela contro il Generale e Deputato Ricotti, il 15 aprile 1874 presentai una seconda querela contro l’Angioletti, e il 16 luglio 1874 contro il Consiglio di Disciplina; se non che il Procuratore Generale credette non darvi corso attesoché il Senato erasi già pronunziato nel settembre 1873 colla sentenza, che io non conosco «di non farsi luogo a procedimento per inesistenza di reato.»

A chi la mentecattagine, se non a quel partito potente e prepotente per 16 anni che per spirito autoritario adequò al suolo ogni prestigio autoritario e ridusse in cenere le istituzioni? .

Il mentecatto sa poi distinguere per bene i mentecatti, e li distinse fin dal 1866!

XV. Che rimane?

(Conchiusione)

Rimangono molte e molte magagne e altri fatti che stanno al di sotto, e che per metterli al di sopra dovrei scrivere più che un altro volume per svolgerne i particolari a me stesso concernenti.

Credo, senza più infastidire il lettore, di aver già detto abbastanza e fatto già toccare con mani ciò che era mestieri fosse venuto sopra.

Napoleone I diceva in Sant'Elena al suo caro Fontanes—«La cosa che io più ammiro nel mondo è la impotenza della forza a fare qualche cosa. Non vi sono nel mondo che due sole potenze: la sciabola e lo spirito.

«A lungo andare poi, la sciabola è sempre vinta dallo spirito»—ed io aggiungo, dalla verità.

Che rimane?

Che Dieu fìt la libertà, et l'homme a fait l'esclavage.

Che rimane?

Una condizione di cose misteriosa che s’intuisce e non si tocca, che si sente e non si afferra, che non si vede ma brucia. Altro che i revulsivi volanti d el muto Cappello.

Che rimane?

Accusato io di rifiuto ad un invito del Generale Angioletti, che non mi fece assolutamente e militarmente, risulta che non mi rifiutai niente affatto né una prima, né una seconda volta, come egli asserì, ma chiesi soltanto i mezzi adatti allo scopo non facile, scopo che io stesso avevo tracciato: risulta il Generale smentito dalle sue stesse deposizioni, da quelle dei testi e dalla sentenza del 1866. Il Signor Angioletti si potrebbe chiamare il signor si tacque.

E cambia tono e indirizzo il signor si tacque nel 1872, e stampa addirittura un’accusa di pusillanimità.

Ma di grazia si presume per intuito la pusillanimità? Come si fa a dare del pusillanime ad un uomo senza un fatto certo, concreto, palese?

Era Domeneddio Angioletti sol perché nato al mondo col nome degli Angioli?

Su che basava egli questa pusillanimità e com’è che asseriva impallidissi e mendicassi pretesti? Oh bella; sul rifiuto! Ma se rifiuto non vi fu per come non vi fu invito esplicito e militare, allora la pusillanimità fu sogno di mente inferma, fu bassa vendetta per liberarsi dell’onta che aveva ricevuto nel 1866 dalla Commissione d’inchiesta.

E s’impallidisce forse, ammesso questo impallidimento, s’impallidisce solo per viltà, per pusillanimità? Quanti uomini impallidiscono invece per eccesso di coraggio, per eccesso d’ira e fin per una cosa qualunque inattesa e che faccia sorpresa? Era Domeneddio Angioletti!

E Angioletti rimane pure smentito nel 1872, imperoché il Consiglio di disciplina in me non trovò mancanza contro l’onore militare.

Rimane dunque Angioletti puramente e semplicemente un gratuito accusatore e un uomo che ha abusato della sua carica e del prestigio autoritario del quale si è ricoverto e pel quale è stato garentito.

«Francia, guarisciti dai tuoi grandi uomini»—disse in punto di morte Anacharsis Clootz.

Che rimane?

Rimane un militare d’onore che diè prove sui campi di battaglia, nelle missioni all’Estero, nelle stesse giornate del 1866, rimane vittima, privato del suo presente e del suo avvenire legittimo perché un ministro di guerra, il Ricotti, ebbro di autorità, lungi di vagliare i fatti e i chiarimenti e le difese a lui sommesse confidenzialmente, per salvare il collega Generale, stempera l’accusa di difetto di convivenza e di mancanza contro la disciplina—e questo ministro pregiudica così l’accusato e influisce, e al ministro risponde amen il Consiglio di disciplina.

Poteva il dipendente Consiglio non ritenere l’accusa del potente e prepotente Ministro? E le promozioni poi, e i ciondoli?

«Francia, guarisciti dai tuoi grandi uomini.»

E il Ricotti e suoi correi così restano……………….. gratuiti accusatori e restano despoti e tiranni in pieno meriggio costituzionale.

Che rimane?

La vittima chiede giustizia, chiede la luce, chiede la rivendicazione; ebbene essa non può giungere a nulla; trova chiuso il tempio di Temi, e le si nega financo la partecipazione del responso senatoriale che resta chiuso in un cassetto del R. Procuratore Generale di Palermo.

Che rimane?

Una vile e bassa macchinazione ordita negli ordini governativi polizieschi; e alle lagnanze della vittima, ridotta anche senza pane, le si getta in sul viso ufficialmente e impunemente la mentecattagine, o la fervida immaginazione.

«Francia guarisciti dai tuoi grandi uomini». La ragione veramente vacilla!

Che rimane?

Prima di un verdetto qualunque, un uffiziale punito, che resta in punizione anche dopo il verdetto negativo, assolutamente negativo!, e poi lo si passa allo stato maggiore delle piazze contro la legge, e poi lo si danna alla Riforma per difetto di carattere, e poi ancora si ordisce la pusillanimità e quant’altro per mandarlo addirittura via dall’Esercito, strappandogli violentemente gli spallini, togliendogli ogni avvenire e fin pure l’onore. Ma è troppo, proprio troppo!

Ebbene se le accuse furono insussistenti, indegne, bugiarde; se provata fino all’evidenza la mia innocenza; se dimostrate ad una ad una le infamie ordite contro di me, domando, ho diritto io, come dissi in principio, di chiedere al nuovo governo d’Italia che mi si reintegri nella fama, nell’onore militare che mi appartiene, nei miei diritti?

Che rimane?

Rimane violata e calpestata ogni guarentigia, e le istituzioni un mito; rimane la consociazione autoritaria fas aut nefas, che fa sopra a tutto per foga di partigianesimo e d’individualismo.

Che rimane?

Un Generale che non ha idee sue nel 1866 per pigliare i briganti, e un capitano che gliele somministra volenteroso e si dichiara sollecito di darsi all’operazione: il Generale, che non ha idee sue, chiama poi troppo lungo il piano del capitano dei Bersaglieri, e mentre muta e fa a modo suo e non due compagnie ma impiega un battaglione negativamente, perché non piglia ma fuga i briganti, stempera poi l’accusa di rifiuto verso il capitano, e poscia lo chiama pusillanime. Grande mercé. Più in basso non si va.

Ma è affar proprio da romanzo, e non solo da romanzo, ma da poema, da commedia, da dramma, da tragedia che un Cavallotti o un Cossa potrebbero bene scrivere.

Quali argomenti inesauribili per uno scrittore di qualunque nazione!

Che rimane?

Rimane la vittima autoritaria manomessa, inascoltata, perseguitata, conculcata, scampata per grazia di Dio e di Palermo alle estreme prove della miseria e della fame.

Ma e l’avvenire di questa vittima e della sua famiglia? Sono professore di tedesco; ma e le dubbie eventualità, e le epidemie, o altri imprevisti avvenimenti?

Quale avvenire? E tuttocciò senza colpa!

Che rimane?

La giustizia a farsi piena ed intera.

E questo ora è compito degl’italiani: è compito peculiare dell’amministrazione che assunse gli affari del paese il 18 marzo di questo anno: è compito di quella maggioranza novella ch'è venuta dai comizii generali della Nazione, maggioranza che non significa altro che riparazione e rivendicazione.

Che leggano i miei figli e i miei amici queste pagine che ho scritto per mia giustificazione e per amore alla giustizia che spero non sarà più un nome vuoto di senso, o che esprima soltanto l’alleanza mutua della forza contro lo spirito, contro la verità; ché allora lo spirito vincerà la sciabola.

Che rimane ancora?

Angioletti, Commendatore, Senatore, Generale, presidente del comitato di Fanteria e Cavalleria:

Ricotti-Magnani, Generale e onorevole Deputato:

Appel…………… Appel una semplice vittima autoritaria degli Angioletti e dei Ricotti e compagnia bella sol per aver volato il giusto, l’onesto, il vero.

Lottai sempre a questo fine.

Il risultato è portentoso: può proprio esser notato negli annali della patria rigenerata!

E qui ponendo fine io, se non altro per gratitudine, chiudo la dolorosa nenia col riportare la conchiusione dell’articolo del Precursore—Siamo giusti!—qual è quest'essa.

«Epperò noi gli diciamo, che per le nostre leggi occorre una legge speciale, come fu pel generale Sirtori, che lo ricollocasse in quel grado che gli sarebbe dovuto, e faremmo voti a questo fine; ma sino a tale estremo esorteremmo il Signor Appel, valentissimo professore di lingue e lettere fra noi, a trovare possibilmente calma e conforto nella stessa opera te sua, e gli attestati che ci ha esibito squassano a te fondo tutte le accuse e idee di strambezze e di carattere difficile e di alienazione mentale; a trovare, diciamo, un conforto nella stima che fra noi gode meritamente; a trovare finalmente il più alto conforto nell’attestato del suo antico colonnello del reggimento e austriaco Dom Miguel 39.°, certificato che sarà sempre la più bella pagina della sua vita militare, certificato e che mette in cenere le gratuite accuse del generale Angioletti.

«I fatti di Appel rilevano il sistema.

«Quanti preziosi ufficiali andarono in riforma e i e quattrini sperperati e una caterva di uomini sul lastrico!?

«Laonde, ad esser giusti, noi dovremmo reintegrare l’Appel nel grado, nella fama, nei suoi diritti. Occorre un attestato pubblico, nazionale, e ne facciamo voti al parlamento e preghiere ai nostri amici.

«Ciò solo ci sembrerebbe giustizia e riparazione sociale.» Io non aggiungo altro.

Attendo il verdetto della maggioranza progressista che vivaddio sta al potere, che fiduciosamente invoco.

Palermo 10 novembre 1876.

ERRATA CORRIGE
Pag. 69 verso 10 lato fato
» 73 » 7 armate armata
» » » 17 far fa
» 76 » 13 frappala trappola
» 81 » 18 e è
» 85 » 12 permettere premettere

(1) Matematiche, fortificazione, topografia e servizio da pontonieri.

(1) Dico dovrebbesi leggere, imperocché non si trova scritta la campagna del 1859, non avendo voluto il Ministero inscriverla comeché di un fatto anteriore al 1860.

(2) Queste due missioni equivalgono a due campagne per le quali non ebbi le relative entrate né i compensi e gratificazioni giusta l’art. 45 pag. 402, giornale militare 1850. Vuol dire che mi si pagheranno!

(1) Si calcolarono 25000 armati nella città, più alcune bande che scorazzavano per i contorni minacciando e saccheggiando i quartieri della Vittoria, dei Borgognoni ecc. a ½ kilometro da Palermo; più qualche altro migliajo di renitenti, disertori ed altri latitanti — vedi opuscolo V. Maggiorani pag. 112 2 ediz. 1867, Il sollevamento della plebe di Palermo.

(1) Per le riduzioni introdotte nel personale degli applicati presso i comandi generali; però in quanto a me lavorò lo spirito di esclusivismo, perché dovevo essere conservato per legge qual capitano e doveva restare un subalterno. Invece il Carderina conservò due subalterni che meglio gli piacquero e fece rimandare me.

(2) Seguitai e vestire la Divisa dei Bersaglieri.

(1) Avendo egli avuto il Comando Dipartimentale dal Carderina, ritiratosi bentosto e partito dall’isola d’ordine superiore.

(1) Credo che dalle lotte coi briganti non si possono raccogliere allori.

(2) I briganti colà riuniti e distribuiti nelle adiacenze ascendevano a più di 1400 giusta ulteriori informazioni avute sul luogo.

(3) Ho riso di cuore nel leggere le domande del Precursore, che voleva sapere se io facessi esame di strategia dinanzi ad Angioletti, e chi fosse il capitano, chi il Generale.

(1) Forse dispiacque un tale particolare, ma era mia colpa se doveva deporre la verità?

Dispiacerà anche ora; ma se trattasi del passato, mi pare sia lecito dir tutto anche come riscontro storico. Che hanno che fare poi i soldati del 1866, quei dell’insuccesso di Custoza, con gli attuali ritemprati e rifatti a nuovo mercé le immense e continue riforme del generale Ricotti?

(1) «L’ubbidienza dovuta dall’inferiore al superiore nelle cose di servizio dev'essere pronta ed assoluta, salvo se interpellato» — sentenza 5 ottobre 1866 — § 19 Regolamento di disciplina.

(1) —Notasi—Per la sentenza 5 ottobre dovevo subito esser posto in libertà. Avvenne ciò invece soltanto d’ordine delli li ottobre del Generale Longoni, cioè dopo che P Angioletti ebbe lasciato Palermo. Quanta giustizia! Le precauzioni non sono mai soverchie. per ordine di anzianità costituiscono la prima 4.(a) parte del proprio grado non devono esser tenuti in aspettativa.

(1)) Ed io porgo il testo dell’art. 1° della legge 3 luglio J 871 N.° 330.

«Saranno collocati in riforma ecc.

1° Gli uffiziali di ogni grado e gli Impiegati militari assi-ai milati di grado, in disponibilità od in aspettativa, i quali siano giudicati inabili per difetti fisici o per altro motivo di inettitudine alle funzioni del proprio grado in servizio attivo.












Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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