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"Alessandro Romano" To: eleaml Subject: MSG 05 - 055 - Assedio di Messina Date: Thu, 3 Mar 2005 23:07:30 +0100 |
Rete di Informazione delle Due Sicilie |
Riportiamo la foto ed il comunicato del Gen. Fergola del 12 marzo del 1861, giorno antecedente la resa della Fortezza di Messina. |
"Uffiziali, Sottouffiziali e Soldati,
è questo l'ultimo ordine che io vi rivolgo, e la mano mi trema nel vergarlo. Allorchè presi il comando di questa Fortezza e di voi tutti, sacro giurammo di difendere fino agli estremi questo interessante sito fortificato che la Maestà del Re (N.S.) aveva affidato al nostro onore e alla nostra fedeltà. Avete ben veduto che tutti abbiamo mantenuto il giuramento, serbando fedeltà, attaccamento e devozione al nostro amatissimo sovrano Francesco II. Immensi sono stati gli sforzi che per lo spazio di cinque giorni si son fatti colle nostre artiglierie per distruggere i lavori di attacco che il nemico costruiva sulle alture della città di Messina ed in altri siti ancora, ma poco effetto à provocato il nostro fuoco, sí perché quasi tutti i lavori erano al di là della portata delle nostre artiglierie, sí perché altri trovavansi mascherati da casamenti ed oggetti occasionali. Quindi l'inimico profittando di tali suoi vantaggi à compiuto inosservato la maggior parte dei suoi lavori. Poco dopo il mezzo giorno di oggi e precisamente quando estenuati di forze prendevate un po' di ristoro, à aperto simultaneamente un fuoco formidabile contro questa Real Cittadella, che l'à ridotta in poche ore nello stato in cui si ravvisa, ad onta di quella resistenza che si è potuta fare colle nostre artiglierie di una portata molto inferiore a quella delle sue. Veduto dunque che inutile si rendeva qualunque altro nostro mezzo di difesa, e che eravamo a causa dello incendio sviluppatosi minacciati da una sicura esplosione della gran polveriera Norimbergh e suo magazzino attiguo anche pieno di polvere, se non vi si apportava un pronto rimedio, è chiesta per ben due volte per mezzo di parlamentari una tregua al nemico per la durata di 24 ore. Ma vedendo egli di quanto aveva col suo fuoco prodotto di danno e della trista posizione in cui eravamo, à rigettato la mia domanda, e mi ha fatto sentire che dovevamo renderci a discrezione, e che se a tanto non divenivamo e non gli si dava risposta decisiva per le ore 9 della sera, avrebbe riaperto il fuoco con l'aggiunta di altre batterie che ancora non erano punto a vista della fortezza. In tale stato di cose, riunito il consiglio di difesa e sentitone anche il parere, è stato forza sottoporci a quanto il nemico imponeva. Quindi mio malgrado e vostro, domani la Piazza sarà resa. Cosí non avrei giammai ceduto, ma gli incendi che seco noi minacciavano 1000 e piú tra donne e fanciulli mal ricoverati, e che vi si appartengono, e la nostra eccezionale posizione, perché le potenze europee àn permesso una aggressione non mai letta nelle istorie, e noi da chicchessia sperar non potevamo soccorso di sorte, mi ànno obbligato a cedere. Cediamo alla forza perché sopraffatti dalla superiorità dei mezzi e non dal valore dei vincitori. Certo che la nostra resistenza non avrebbe salvata la Monarchia, sagrificata con la resa di Gaeta; non ci restava che salvar solo l'onore militare e nazionale: e mi lusingo che lo stesso nemico ci farà giustizia di concedercene l'orgoglio, come spero che voi me la farete: nel convenire d'aver visto con voi fino all'ultimo i disagi, le privazioni, ed i pericoli. Un dovere però mi resta a compiere ed è quello di esternare a voi tutti i miei sentiti e distinti ringraziamenti per aver saputo ognuno cosí bene secondare le mie vedute nel difendere questa Real Cittadella, ove rinchiusi per circa 8 mesi abbiamo dato le piú grandi prove di abnegazione e di fedeltà al nostro Augusto Sovrano Francesco II. Se l'abbiano particolarmente però i signori generali De Martino, Combianchi ed Anguissola, Ten. Col. Recco, Capitani Lamonica, Di Gennaro e Lauria; e fra tutti il mio capo di stato maggiore ed Uffiziali dello stesso signor Ten. Col. Guillamat, Capitano Cavalieri e Subalterni Gaeta e Brath. Io vi ringrazio tutti di cuore, poichè tutti avete gareggiato nella difesa della rocca. Accettate tutti vi prego tali miei ringraziamenti che partono da un cuore leale e riconoscente. Miei bravi compagni d'armi, nella mia lunga carriera militare di 47 anni ò veduto diverse peripezie non dissimili alla presente, ma però la provvidenza o presto o tardi ha fatto sempre rilucere la sua giustizia quando meno si attendeva, per cui non ci perdiamo d'animo, e confidando in essa auguriamoci giorni piú felici, i quali compenseranno i tristi e dolorosi che abbiamo sofferti. Mi avevo prefisso di porre ai piedi del Real Trono le mie umili suppliche per chiedere alla munificenza Sovrana un compenso speciale al vostro attaccamento, alla vostra sperimentata fedeltà, ma la sorte avversa delle armi me lo à impedito e con dolore mi divido da voi tutti, ma porterò scolpito profondamente nell'anima mia la rimembranza di voi, della vostra fede. Della vostra lealtà, del vostro militare coraggio. Non so quale sarà il mio destino ed il vostro in avvenire, ma se la mia età mi permetterà in seguito potervi rivedere, sarà sempre una vera gioia per me poter stringere la mano a qualcuno dei difensori di questa Real Fortezza, ai quali nè le minacce, nè i pericoli, nè le lusinghe, nè i pravi esempi, nè men la morte seppe far declinare da quella via d'onore che solo è sprone e ricompensa al prode che pel suo Re combatte per vincere o morire. Addio miei bravi camerati! Addio! La sventura ci divide, fede e lealtà fu la nostra divisa, e questa non si spogli giammai da noi, ciascuno di voi porti scolpita in core la nobile parola, che l'univa con nodo indissolubile al nostro sventurato, ma eroico sovrano.
Fergola 12 MARZO 1861
Il 14 marzo, essendo state richieste piú volte da Torino le bandiere della Real Cittadella, il gen. Fergola rilasciò una dichiarazione nella quale affermava che le bandiere avrebbero dovuto essere sei, ma che di esse non restavano che le aste essendo stati strappati i drappi dalle truppe quale ultimo gesto di fedeltà al Re Francesco II.
LA STORIA
Il 13 marzo del 1861 la Real Cittadella di Messina si arrendeva a discrezione alle truppe piemontesi del Gen. Cialdini. Inutilmente le reali milizie duosiciliane della 13º Direzione Artiglieria, del 2º Battaglione del Genio, del 3º, 5º e 6º Reggimento di linea avevano cercato di controbattere il micidiale fuoco dei 43 nuovissimi cannoni rigati e dei 12 mortai delle truppe savoiarde.
La guarnigione della Cittadella (più di 4.000 uomini) non subì un trattamento migliore di quello del suo Comandante: venne infatti internata sotto buona scorta nei fortilizi di Scilla, Reggio Calabria e Milazzo. Alcuni suoi ufficiali come il Col. Guillamat, il Ten. Gaeta ed il Ten. Brath vennero addirittura imprigionati a Messina e quindi processati sotto l'accusa di aver fomentato la resistenza nella Cittadella, cioè di aver fatto il loro dovere di ufficiali fedeli alla Patria e al Re Francesco II. Accusa dalla quale, naturalmente, con gran vergogna per i piemontesi, vennero assolti con formula piena.
Da allora ad oggi si sono sempre onorati i garibaldini conquistatori della Sicilia e gli oltre 10.000 piemontesi che espugnarono la Cittadella di Messina; mentre i poveri soldati napoletani e siciliani che la difesero eroicamente, sacrificando la loro vita in difesa della Patria, furono vilipesi da tutti come soldati della "tirannide borbonica". Perché, fu forse meno censurabile il malgoverno piemontese che segui a quello borbonico? Certamente no. Ma ormai siamo abituati sin dai banchi di scuola ad adorare questi ´eroi del "risorgimento", dimenticandoci spesso che forse tra i valorosi e non ricompensati difensori dell'ultimo baluardo patrio in Sicilia ci fu un nostro avo.
A 143 anni di distanza,
il ricordare quest'ultima battaglia costituisce un dovere verso la
nostra radice da non dimenticare mai. Oggi i resti della Real
Cittadella di Messina, abbandonati ai vandali ed alle costruzioni
abusive, attendono pazientemente chi li restauri e voglio fermamente
sperare che la nostra indifferenza non ci faccia perdere
irrimediabilmente questo inestimabile patrimonio storico e che
finalmente le autorità competenti, dopo tante belle ma inutili
parole, facciano seriamente qualcosa di concreto.
La Cittadella di Messina rappresentò l'estrema resistenza duosiciliana in Sicilia, dove i nostri soldati, pur sapendo della inutilità di ogni loro sforzo, cercarono di difendere la Patria, e dimostrare la loro fedeltà al Re Francesco II contro gli invasori piemontesi. Dimostrarono, infatti, con le loro gesta che il soldato duosiciliano sapeva combattere e morire per un ideale, in contrapposizione ai tanti tradimenti e vili defezioni.
Il 27 luglio del 1860
circa 2.500 garibaldini con alla testa Medici e Fabrizi entravano in
Messina, mentre il Gen. Clary, al comando di più di 15.000
uomini, obbedendo agli ordini del Gen. Pianell, ministro della guerra
delle Due Sicilie, ordinava alle sue truppe di ritirarsi nella
Cittadella, da dove, sempre per ordine del Pianell, ne faceva imbarcare
per la Calabria circa 11.000, trattenendone poco più di 4.000
per la difesa della Cittadella stessa, contravvenendo con ciò
agli ordini perentori ricevuti. Questa fu la sua testimonianza diretta:
"... Il 21 luglio un ordine formale del ministro Pianell
m'ingiungeva di ritirare le mie truppe in Calabria, e di cedere armati
i due forti di Castellaccio e Gonzaga a Garibaldi; non bastando
ciò, io dovevo cedere a questo capo Siracusa, Augusta e la
stessa cittadella di Messina, attendendosi diceva l'ordine del
ministro, che a questo prezzo le potenze dell'Europa consentissero a
garantirci la pace nel continente ... Sugli ordini reiterati del
ministro Pianell (che serví poi con i gradi di generale
l'esercito di V. Emanuele II, ndr) ... io consentii di entrare in
rapporti con il signor Garibaldi, e per conseguenza con il maggior
generale Medici, al fine di convenire con loro il modo d'evacuazione
della città di Messina dalle truppe reali ... La Storia ...
renderà, io spero, un conto esatto della condotta del ministro
Pianell in tutti i suoi affari disastrosi, essa dirà come egli
ha impedito che noi soccorressimo Milazzo; come per i suoi ordini io
fui costantemente forzato a rinunciare a tutti i piani di aggressione,
per tenermi in ontosa e letargica aspettativa. Come e per quali
combinazioni perfide, mi fa mancare tutte le risorse di cui un generale
ha bisogno in faccia al nemico che egli deve combattere, quella era la
volontà del ministro, e ciò che lo prova, è che
egli aveva incaricato il colonnello di stato maggiore Anzani di
capitolare con Garibaldi; e di comprendere in questa capitolazione le
truppe che il gen. Clary aveva sotto i suoi ordini ...."
Lo stesso giorno, intanto, alle 3 p.m. giunse Garibaldi da Milazzo. Il 28 luglio giunse anche a Messina, proveniente da Catania, Cosenz con altri 5.000 garibaldini e il gen. Clary firmò una convenzione per la cessione della città di Messina. Qualche giorno dopo, non avendo voluto cedere la Cittadella a Garibaldi, come gli era stato intimato da Pianell, il Clary fu sollevato dall'incarico di comandante della Cittadella e il 9 agosto s'imbarcò per Napoli.
Partito Clary dalla Cittadella e rimasto investito del supremo comando il gen. Fergola (che l'8 ottobre venne elevato al grado di Maresciallo di campo da Re Francesco II), la convenzione precedentemente firmata dal Clary e dal Medici regolò i rapporti fra la Cittadella e la città di Messina, in mano ai garibaldini, fino alla caduta di Gaeta.
A Messina si trovava dal 19 dicembre la Brigata piemontese "Pistoia" (35º e 36º reggimento di fanteria), per un totale di 109 ufficiali e 3.867 soldati agli ordini del gen. Chiabrera, che si era avvicendata con i garibaldini. Il Chiabrera, che in due mesi non aveva preso alcuna iniziativa militare, il 14 febbraio avvertì il gen. Fergola della resa di Gaeta e lo invitò a sua volta ad arrendersi, alle stesse onorevoli condizioni di Gaeta. Fergola respinse l'invito.
Dopo quest'ultimo rifiuto, il 27 febbraio giunse a Messina il gen. Cialdini con quattro battaglioni bersaglieri del IV Corpo, 6 compagnie del genio, un reggimento di fanteria e con l'artiglieria forte di 43 nuovissimi cannoni rigati e 12 mortai. L'arrivo inaspettato di queste truppe provocò l'indignazione del gen. Fergola che vide la convenzione non rispettata, ma al risentimento di Fergola il Cialdini rispose: "... io non vi considererò più come un militare, ma come un vile assassino ...".
Il primo marzo, alle cinque pomeridiane, l'armistizio che durava da più di sette mesi cessò e iniziarono le ostilità. I piemontesi per prima cosa sistemarono sei batterie: ai Gemelli, al Cimitero, al Bastione Segreto, al Noviziato, a S. Cecilia e a S. Elia. Nello stesso giorno dal porto di Messina si allontanò una fregata francese, mentre erano ancora in sosta navi americane e inglesi. Il 5 marzo iniziò il blocco totale della cittadella. Il 6 marzo si allontanarono dal porto di Messina anche le navi inglesi e l'8 marzo Fergola iniziò a sparare contro le opere d'assedio piemontesi.
Il 10 marzo giunse da Roma una lettera del Re Francesco II al gen. Fergola che lo autorizzava a desistere dalla resistenza, ma l'intrepido Fergola il giorno dopo fece cannoneggiare anche le batterie piemontesi poste al Noviziato, che era la parte più vicina alla città. Il giorno successivo, mentre tutti i cannoni duosiciliani sparavano contro i lavori d'assedio piemontesi, alle otto precise Fergola diede ordine di tentare una sortita dal Forte Don Blasco, ma l'azione fu arrestata sia dalla reazione dei bersaglieri piemontesi, sia dalla concentrazione di tutto il fuoco nemico sullo stesso forte Don Blasco, che era il fortino più avanzato della Cittadella.
La potenza e la doppia gittata dei cannoni rigati piemontesi ridussero ad un cumulo di macerie in poco tempo il fortino, che venne sgombrato dai nostri e subito occupato dai piemontesi. Il gran deposito Norimbergh (pieno di polvere da sparo), centrato più volte, prese fuoco, rischiando di saltare in aria. Anche la zona della Cittadella, dove erano ricoverati oltre 1.000 civili (per lo più donne e bambini), subì un barbaro cannoneggiamento.
Da parte napolitana si cercò di allungare il tiro dei vecchi cannoni (alcuni avevano circa 150 anni di vita), interrandone una parte, ma perdendo così la facoltà di mirare. Ma tutto fu inutile: la schiacciante superiorità dell'artiglieria nemica costrinse presto al silenzio i nostri cannoni. Il gen. Fergola, nonostante la drammatica situazione, si astenne dal bombardare, per motivi umanitari, dal Forte S. Salvatore (dove oggi sorge la Madonnina benedicente Messina) e dalla Cittadella, la città di Messina dove si trovavano le truppe piemontesi e concentrò fino alla resa l'inutile fuoco dei suoi cannoni sulle irraggiungibili batterie piemontesi. Anche dal mare le navi piemontesi Vittorio Emanuele e Carlo Alberto spararono molte salve, ma senza arrecare alcun danno, perché il Persano se ne stava prudentemente ben lontano. Alle 5 del pomeriggio, la Cittadella ormai ridotta al silenzio alzò bandiera bianca e alle 9 si arrese a discrezione.
Il 13 marzo alle 7 del mattino Cialdini alla testa del 35º fanteria con musica e bandiera fece il suo ingresso "trionfale" nella Cittadella di Messina, dichiarando "prigioniera" la guarnigione duosiciliana. La resa fu firmata a bordo della nave Maria Adelaide. L'ottuso gen. Cialdini non concesse neppure l'onore delle armi ai vinti che avevano fatto il loro dovere fino alla fine ed anzi al momento della resa respinse sdegnosamente la spada dell'anziano Gen. Fergola e gli disse in francese: ´Vous n'ètès pas des italiens, Je vous cracherais sour le visage ...! (Vi sputerei in faccia). Frase che fece morire di crepacuore a Napoli qualche anno dopo il povero Fergola.
La cavalleria d'altri tempi dimostrata dal Fergola fu così ripagata dal Cialdini, che del resto aveva già dimostrato di essere lui un "buon italiano" bombardando vigliaccamente con i famigerati cannoni rigati il borgo di Gaeta e mietendo la vita di migliaia di innocenti, "colpevoli" soltanto di essere rimasti fedeli alla Patria e al Re.
Francesco II, dal suo
esilio di Roma, ammirato dal coraggio e dalla fedeltà dimostrata
dai suoi soldati a Messina, concesse loro una medaglia in argento,
appositamente coniata a Roma.
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