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«Il Governo ci regala il vento dell’Africa» dalla illusione garibaldina a Lu Setti-e-menzu (Zenone di Elea - Dic. 2021)

NUOVA ANTOLOGIA

DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI

QUINTA SERIE

SETTEMBRE-OTTOBRE 1912

VOLUME CLXI — DELLA RACCOLTA CCXLV

ROMA

DIREZIONE DELLA NUOVA ANTOLOGIA

Piazza di Spagna, Via di S. Sebastiano, 3

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L’OPERA DI FRANCESCO CRISPI IN SICILIA DAL 1861 AL 1866

I

Tra gli oltraggi e le viltà della reazione politica contro il mezzogiorno della Penisola, Francesco Crispi solo, dal 1861 al 1866, vigilò italianamente sulla Sicilia, e sentì raddoppiarsi, ingigantire l’amor suo fervido, purissimo per l’isola diletta. Oscuratasi l’aurora dei plebisciti, rivide egli da Torino con isguardo superbo e geloso «l’ampio riso del suo mare», quando novello Precida, «più vero e maggiore», solcò l’onda sicula, e sul capo guizzavagli il tetro baleno «de le borbonie scuri», ma splendeangli

In core i dì futuri,

Garibaldi e l’Italia: avanti, avanti! ((1))

Prima che fosse ancora proclamato il Regno d’Italia, Crispi era preoccupatissimo, irrequieto per la Sicilia: aveva il «cuore grosso, quasi presago di qualche sciagura» ((2)). Visse in ansia undici mesi, palpitante, trepidante sempre. Il 10 dicembre 1861 protestò alla Camera Subalpina contro la Luogotenenza del Marchese di Montezemolo, il quale per imprudenza e inopportunità, per inscienza delle cose locali, per assoluta mancanza di rispetto alle leggi, avea dato tutti i motivi perché l’isola non potesse esserne contenta. Bisognava avere riguardo alle regioni, avvertiva Crispi, acciocché fosse cimentata l’unità, e fossero scongiurate allo Stato scosse violenti. Non occorreva imitare la Francia per l’ordinamento interno; agl’italiani bastava prendere a modello i Romani o gl’inglesi. Essi insegnano che non si deve mettere l’ascia a tutte le istituzioni le quali non sono uniformi a quelle della metropoli. In Sicilia bisognava essere conservatori. Noi che siamo unitari, esclamava Crispi, noi che vogliamo la gran patria italiana dall’Alpi ai due mari, sentiamo il dovere di impedire e impediremo sempre che colà accadano tumulti.

Ma in Sicilia però vi sono molti arrestati arbitrariamente, vi sono moltissimi che soffrono pene non decretate dal codice. Tale essendo lo stato delle cose, i Siciliani non possono aver fiducia negli uomini che governano l’Italia. Ricordatevi della Sicilia, diceva Crispi ai Ministri del Gabinetto Ricasoli, ricordatevi della sua città capitale, che in due epoche vicine è stata la culla della rivoluzione. Voi con un pensiero a quei luoghi, che han fatto tanto per la causa della libertà, provvederete non solo ai loro interessi, ma all’interesse di tutta la nazione, «giacché là in fondo al Mediterraneo sta anche riposto il mistero delle sorti italiane» ((3)).

Crispi non fu ascoltato. Il regime luogotenenziale doveva percorrere la sua parabola. Le lettere indirizzate da Francesco Crispi nel 1862 al Barone Vincenzo Favara di Partanna sono piene di amarezza, ma incoraggiatrici però e ammonitrici sempre con cittadina grandezza. L’audacia dei borbonici s’era già imbaldanzita, e il Governo avea dovuto comprendere di avere scaldato il serpe nel petto, e quindi non poteva che esserne morsicato. Il Ministero Rattazzi sarebbe stato «più fatale all’Italia dei precedenti». Sulla fine di maggio avvengono i fatti di Bergamo e di Brescia. Il 3 giugno 1862 Garibaldi manda a Sebastiano Tecchio, Presidente della Camera dei Deputati, una concitatissima lettera, protestando per l’arresto dei suoi legionari. «Spetta al Ministero, scrive irato il Duce dei Mille, il correggere questi fatali errori. Noi gridavamo: Italia e Vittorio Emanuele. Ed oggi, comunque sia, a qualunque costo, noi rinnoviamo lo stesso grido. Guai a chi tocca il concetto salvatore, guai a chi volesse disgiungere il Re dalla Nazione, il popolo dall’esercito» ((1)).

Crispi difende Garibaldi, svela e spiega gli eventi di Sarnico, smaschera e fulmina la condotta del Governo. «L’affare del Tirolo, dice, è una favola, una fantasmagoria, uno dei colpi montati dal Governo... Né Garibaldi né altri pensò di passare la frontiera austriaca, vi erano altri scopi, altri progetti iniziati, da lungo tempo...» ((2)). Trascorrono appena tre mesi, e avviene la catastrofe di Aspromonte. Crispi, non più leone ruggente, raccomanda in Sicilia la prudenza, invoca la calma. Lealmente monarchico, finché il Re è con l’Italia, egli attutisce le ire di parte, spegno i bollori, raffrena gl’impeti degli amici politici.

Il suo pensiero è tutto rivolto alla regione nativa, all’isola «magnifica e sventurata» la cui vista il 10 ottobre 1859 gli avea fatto «correre un fremito per le ossa», e si sarebbe gittate «nelle onde per correre a nuoto» e baciarne il suolo benedetto. Ah, no: «un movimento in Sicilia sarebbe una calamità». Si impedisca perciò in tutti i modi «il minimo tumulto». «Nei governi costituzionali, le reazioni sono precarie: i ministeri non sono eterni, e col cambiare degli stessi muta la politica e la libertà ritorna in onore. Perché non valerci dei mezzi legali, i quali, comunque lenti, nella loro azione, hanno certo e sicuro risultato?». «Non il governo unitario» è causa dei mali siciliani, «ma gli uomini che lo rappresentano». Rattazzi si uccide con le sue misure, che suonano vendetta e non giustizia. Occorre far opera di conciliazione per ristabilire l’ordine nel paese.

«La quistione nazionale è superiore a quella dei ministri, e però deve esserci a cuore. I ministri se ne vanno, e con loro spariscono le colpe dai medesimi commesse. La nazione resta... Gli uomini onesti, i veri patrioti si riuniscano e aiutino la monarchia pel compimento dei voti nazionali. Si riuniscano e perdonino le offese ricevute» ((3)).

*

**

Dopo le dimissioni del Ministero Rattazzi, Crispi scrive il 3 dicembre 1862 al barone Favara: «Lasciamo di parlare dei casi di agosto e delle loro conseguenze. Il Ministero è caduto, un altro se ne forma al presente: attendiamone dunque gli atti e vedremo se il paese migliorerà» ((4)). La Sicilia attese e sperò invano. I Ministeri Farini-Minghetti (8 dicembre 1862-28 settembre 1864) secondarono l’invadente burocrazia, e protessero e difesero l’assolutismo amministrativo del Conte Augusto Nomis di Cossilla e la dittatura militare del Generale Govone. Costui non vide altro in Sicilia che l’efferatezza feudale, non scoprì che malviventi, non conobbe che renitenti di leva e disertori. Vito D’Ondes-Reggio e Filippo Cordova insorsero contro il Govone il 5 dicembre 1863; il giorno 10 dello stesso mese tuonò alla Camera dei Deputati la voce di Francesco Crispi. Noi che andammo, esclamò allora, sulla via dell’esilio, ma col pensiero di rivendicare la Sicilia e la libertà per riunirla alla patria italiana, noi sospirammo per ben dodici anni onde il nostro luogo natio prorompesse in un’insurrezione tutta sua e senza l’aiuto di forze straniere. Ci lusingavamo intanto nel pensiero che coloro i quali nel 1848 avevano fatto cosi misera prova di sé, essendo al timone degli affari, questa volta almeno ci avrebbero lasciati tranquilli ordinare il paese, non solo nella sua amministrazione e nelle sue finanze, ma anche nelle sue armi.

lo non voglio, osservò opportunamente, fare della causa siciliana un argomento a parte, giacché per me l’ultimo borgo del Regno d’Italia equivale alla prima delle città della Penisola; ogni zolla di terra nazionale dall’Alpi al Lilibeo m’è oltremodo cara, essendo stata mia cura e mio affetto la costituzione di questa grande nazione. Il 20 giugno dello stesso anno Crispi aveva detto alla Camera Subalpina: «Noi abbiamo combattuto da trentadue anni per avere una patria forte e indipendente, vogliamo riordinato lo Stato, instaurata la libertà, rientrando il paese nelle vie costituzionali, affinché per gli accordi degli animi e la fiducia delle popolazioni l’unità nazionale abbia il compimento». Sei giorni dopo dichiarava alteramente: «Noi abbiamo l’audacia del bene; lasciamo che altri abbia l’audacia del male. Tutte le volte che ci sarà il bisogno di sanzionare un atto, che sia un progresso per il nostro popolo, noi non attendiamo l’esempio da parte dei conservatori. La rivoluzione è un mezzo violento, al quale, quando altri mezzi mancano, bisogna ricorrere per il trionfo della giustizia. La rivoluzione è la riparazione dei torti, la ristorazione del diritto e della ragione: se non fosse tale, essa non avrebbe ragione d’essere» ((1)). Dopo i plebisciti, nella Penisola erano dannose le agitazioni; gl’italiani non potevano uscire dalla monarchia senza rompersi la testa, notava Crispi. Manteniamo la calma nel popolo, ammoniva egli il 23 gennaio 1864. Nelle attuali istituzioni v’è il germe del progresso ((2)).

Così non la pensava Giuseppe Mazzini, il quale, non ostante la solennità del plebiscito, rivagheggiava con più ardore l’antico sogno repubblicano, e intendeva prendere le mosse dal Sud per maggiore sicurezza di riuscita. A questo fine, il 20 maggio 1862 indirizzava da Londra un monito ai giovani dell’Associazione Universitaria di Palermo. «Voi avete, diceva loro, una bella e grande missione: compitela. Siete figli d’una terra che iniziò colla lingua, in Italia, l’unità letteraria delle nazioni, e che insegnò, più secoli dopo, coll’insurrezione il segreto dell’unità politica, l’azione collettiva del popolo» ((3)). Tre anni dopo li riammoniva e scriveva per essi e dedicava loro un lungo scritto sul Cesarismo, pubblicato dal Precursore ((4)). Le durezze frattanto del Governo verso la Sicilia incrudelivano vie più e perciò impensierivano maggiormente. I borbonici ne profittavano avvedutamente, e, un anno dopo la campagna d’Aspromonte, fecero udire la loro voce per mezzo de Il Presente, loro gazzetta politica, amministrativa, letteraria. Noi passeremo in rassegna gli ordini ecclesiastici, civili e militari, dichiaravano nel loro programma, e saremo impassibili narratori del vero, mettendo le cose al nudo in modo da convincere sempre più i restii... ((5)). Il legittimismo apparve all’aperto e si pose in cammino. I partiti politici erano irosi e rabbiosi, e la loro discorde animosità diè luogo alla costituzione della «Società del Plebiscito», presieduta dal Perroni-Paladini, e avente per organo Il Patto Nazionale. Il popolo è rimasto in balìa di sé stesso, confessava tristamente cotesto periodico, non illuminato, non diretto, s’è lasciato tirare a diritta e a sinistra secondo le passioni di questo o di quello, e talvolta perfino è caduto in mano dei suoi nemici ((6)). La scissione era pure nelle altre classi sociali, e ne soffriva la borghesia, il clero, il patriziato, ne soffrivano i partiti unitari, entrambi spinti agli estremi da gente maligna, e sfogavano i loro dispetti contro il governo, le tasse improvvide, i balzelli odiosi. Ci vuole ben altro per gridare sulle piazze e sui giornali, avvertiva Crispi il 13 febbraio 1864 ((7)). È fiacchezza morale, colpa civile l’abbattimento per la fiscalità delle nuove leggi. Gli uomini che governano non sono un sistema. Qualunque cosa facciano non deve recare scoraggiamento. Il regime costituzionale ha il vantaggio di poter essere migliorato. Tempo ci vuole e pazienza. Gl’Inglesi sin dal 1854 fanno petizioni per la riforma elettorale, e non ci sono riusciti. Tuttavia non si sono mai stancati. Le cure patriottiche di Crispi sono ansiose e premurose per la Sicilia, l’invigila amorosissimamente e procura di rabbonirla negli scoppi d’ira, nei momenti di eccitazione popolare. Nella primavera del 1864 Palermo insorge sdegnosa contro l’ufficialità del presidio per le villane accuse rivoltele d’inciviltà; avvengono sfide, partite d’armi numerose, e Lattanzio Tedaldi fa sentire cavallerescamente al Generale Govone la barbara mano della Sicilia ((8)).

Colta l’occasione, il 17 maggio 1864 Crispi scrive al Favara: «Fatti i duelli, bisogna levare il grido della concordia, imporre alle due parti che si stendano le mani e si abbraccino. Potrebbe ciò essere causa di bene per l’unità, mentre, al contrario, se si lascia libero il freno alle passioni, potremmo vedere il principio di ima grande catastrofe» ((1)). Le passioni, raffrenate a stento in Sicilia per motivi locali, furono scatenate violentemente in tutta la Penisola dalla Convenzione del 15 settembre. Con essa il Ministero di Marco Minghetti cedeva al Trono Imperiale di Francia. L’Italia assumeva l'impegno di non invadere il territorio pontificio e prometteva di impedire che altri l’assalisse. Le truppe francesi avrebbero, fra due anni, sgombrata Roma, a patto però che Vittorio Emanuele II avesse rinunziato all’Eterna Città, dandone solenne testimonianza col decretare il trasferimento della capitale da Torino a Firenze.

La strana nuova recò un doloroso stupore, rattristò gli animi, scosse il Piemonte. Il partito d’azione rizzò la testa, il mazzinianismo riaffilò le armi. Abbasso il Ministero! si scrisse sui giornali, si gridò negli Atenei, per le vie cittadine. Abbasso il Ministero! ripeté tra furiosi tumulti Torino, e vide insanguinata la Piazza San Carlo, coperta d’uccisi e di feriti la Piazza Castello.

Nella tornata del 17 novembre 1864, alla Camera dei Deputati si udì concitata e accusatrice la voce di Francesco Crispi contro il Gabinetto La Marmora, succeduto al Ministero Minghetti. Biasimò acerbamente la politica estera del Governo, flagellò i trafficatori della dignità nazionale, denunziò con isdegno e condannò l’ingerenza napoleonica nelle cose interne italiane. Si revochi la Convenzione del 15 settembre, non ostante che porti la firma del Re. Sotto quella del Sovrano c’è pure la firma di un ministro responsabile, e la Camera ha il diritto di respingere qualunque atto del potere esecutivo. Il Re è inviolabile; la responsabilità è di coloro che apposero il loro nome sotto quello di Sua Maestà. Autori della Convenzione e del trasferimento della Capitale sono quelli, esclama Crispi, che da quattro anni regnano e governano l’Italia, producendo quel male di cui ancora la Sicilia si duole; sono quelli che, prima d’insanguinare le vie di Torino, hanno insanguinato le vie di Palermo ((2)).

Calmo con gli amici politici della Sicilia, Francesco Crispi è sempre furibondo alla Tribuna della Camera Subalpina. In Sicilia deve affratellare gli animi, avvicinarli, stringerli alle nuove istituzioni, e gli occorre di essere paziente e prudente; in Parlamento, rappresentante della Nazione, sente altissimo il dovere di tutelare la Patria, di ravvivare nella coscienza del popolo la fede nella Monarchia; e perciò alza la voce, ha parole di fuoco, accenti di minaccia contro ogni viltà. Sono convinto, dichiarava il 18 novembre 1864, che il patto nazionale, il quale ha base nei plebisciti del 21 ottobre 1860, viene ferito dalla Convenzione del 15 settembre. Non è la prima volta — soggiunse — che ho qui creduta violata la legge; non è la prima volta che altri, i quali la credettero al pari di me violata, mi invitarono a lasciare questo posto. Ma il soldato non diserta il posto che gli fu dato dalla legge, e deve morire anche sotto i colpi di violenza della legge medesima. Io non ho altra bandiera ad innalzare; la bandiera mia è quella che innalzai, sbarcando, con Garibaldi a Marsala: Italia una con Vittorio Emanuele.

«Coloro che vogliono un’altra bandiera non desiderano l’unità d’Italia. L’ho detto più volte, l’ho ripetuto ultimamente nei comuni in cui sono stato durante il mio viaggio in Sicilia, che la monarchia ci unisce e la repubblica ci dividerebbe. Noi unitari, innanzi tutto, siamo monarchici, e sosterremo la Monarchia medesima meglio dei monarchici antichi» ((3)).

Il Parlamento Subalpino si commosse: applaudì il Presidente del Consiglio Alfonso la Marmora, applaudirono calorosamente i suoi colleghi, i deputati di destra, quelli di sinistra, acclamarono le tribune della stampa. Giuseppe Mazzini se ne adombrò, e il 3 gennaio 1865 scrisse corrucciato una lunga lettera a Francesco Crispi. Voi, confessandovi fedele alla monarchia di Vittorio Emanuele, contraddicete il vostro passato — gli disse — e dimenticate, ingiusto e ingrato ad un tempo, i morti ed i viventi ai quali un giorno foste amico e collega di cospirazione: i migliori furono e sono unitari e repubblicani... La bandiera diversa dalla vostra — soggiungeva il Mazzini — la sollevo io. I principii l’additano unici malleveria di un vero progresso, perché intorno ad essa si avvolgono i più splendidi ricordi del nostro passato ((4)).

«Voi avete evocato un momento dell’antico entusiasmo per gridare con volto agitato, con accento commosso, un saluto di gladiatore morente alla monarchia, e un anatema a quei tra i vostri fratelli che hanno serbata intatta quella che fu vostra fede» ((1)).

Provocato, Crispi si difese sobrio, avveduto, compostamente calmo e dignitoso. Sì, la monarchia ci unisce e la repubblica ci dividerebbe — rispose al Mazzini — e bisogna non conoscere il paese, ignorare le condizioni d’Europa per credere altrimenti. Se oggi si levasse in una città del mezzogiorno il grido di repubblica, non vi troverebbe eco; se vi fosse accolto, non si estenderebbe oltre il luogo in cui sarebbe sorto. Se cotesto grido trionfasse in una o più provincia dello Stato, se guadagnasse tutto il territorio di là dal Tronto, non sarebbe ripetuto dalle popolazioni del centro della Penisola, everrebbe respinto da quelle del settentrione. Si vedrebbe quindi diviso il nucleo di ventidue milioni d’italiani e si spezzerebbe l’unità nazionale. Si ammetta pure che i Piemontesi scaccino Casa Savoia, che i Lombardi si affratellino coi repubblicani di Torino; si conceda altresì che i Toscani, i quali nel 1849, guidati da Guerrazzi, si rifiutarono di unirsi a Roma, abbiano la repubblica; e che in Firenze nella sala dei Cinquecento si accolga l’assemblea nazionale e al palazzo di Pitti sieda il triumvirato.

Quale ne sarebbe la conseguenza? domandava Crispi. La repubblica, osservava egli, non potrebbe vivere senza espandersi di là dalle Alpi. I principii in virtù dei quali il nuovo governo dovrebbe esistere ci metterebbero in diffidenza con tutti i monarchi del vecchio continente. Napoleone ingrosserebbe le sue truppe a Roma e nella Savoia, e prima che un soldato italiano varcasse Ventimiglia e il Moncenisio, i Francesi occuperebbero Napoli e il Piemonte. Gli Asburgo, come nel 1849, sarebbero nuovamente di accordo coi Buonaparte, e passando il Po andrebbero a Firenze. Gl’Inglesi o scenderebbero in Sicilia per tenere un pegno in previsione delle future combinazioni diplomatiche, o guarderebbero impassibili l’occupazione del territorio italiano. La repubblica si dissolverebbe con la unità ((2)).

Il Mazzini aveva detto a Crispi: «Conosco troppo il vostro passato e vi so d’ingegno troppo arguto per ammettere un istante che voi siete un monarchico di fede. Voi siete, come oggi barbaramente dicono, un opportunista. Unitario sincero sì, ma educato a tendenze guicciardinesche. Voi trovate che la monarchia potrebbe, volendo, fare l’Italia, e l’accettate siccome mezzo all’intento. Se domani ci vedeste forti, sareste nuovamente con noi» ((3)).

Crispi rispondeva: «Avreste dovuto ricordarvi che mai sono stato codardo. Nel tempo che fui nelle cospirazioni con voi, ammirai il vostro ingegno, venerai la vostra fede, ma non mi accorsi della vostra forza. Affrontai per incarico vostro molti pericoli, ma cimentando la vita non fui così stolto da sperare che, ove fossi caduto in mani nemiche, voi sareste venuto a sottrarre il mio capo alla bipenne del carnefice. Vi rispetto quale uomo; se foste potente, se ritornaste triumviro, io non mi curerei più di voi. Per le tendenze guicciardinesche, che vi parve di trovare in me, potrei ritorcervi l’argomento. Dal 1831 in poi voi non foste sempre sposo fedele della repubblica. Sapreste rivelarmi perché, di quando in quando, disertandola, vi siete avvicinato alla monarchia?».

Nel nostro paese, notava Crispi, nessuno è forte; solamente l’Italia può esserlo, ove i suoi figli siano uniti nell’amore della patria ed abbiano la coscienza dei propri doveri. Faceva osservare al Mazzini che dopo i casi del 1860 erano mutati metodi e condizioni al moto italiano. Le sette e le insurrezioni entro le frontiere del nuovo regno erano divenute un anacronismo, e sarebbero un vero delitto dopo d’aver acclamato l’unità con la monarchia. Avendo prescelto un sistema e chiamato la moltitudine ad accettarlo, non si poteva cospirare contro di esso, senza mancare di logica e di lealtà. Non Crispi dichiarava di non aver rinnegato il suo passato e si onorava delle antiche convinzioni. Non poteva però entrare nel palazzo Carignano diffidente e sospettoso, fingere di piegare la bandiera repubblicana e minacciare di spiegarla alla prima occasione. Ripugnava alla sua coscienza che sotto la veste del legislatore si celasse il congiurato. Se i repubblicani in Italia avessero voluto rimanere puri nella loro fede, avrebbero dovuto astenersi dai moti militari e politici del 1859 in poi, aspettarlo di scendere nell’azione, quando fossero fallite le prove della monarchia. La quale, nata per volere del popolo, era simbolo dell’unità della patria. Il 21 ottobre 1860 si era costituito un fatto giuridico a cui nessun italiano poteva più ribellarsi perché esso era l’espressione della volontà nazionale.

Il 22 maggio 1865, il Mazzini contro rispose a Francesco Crispi ((1)); ma l’opuscolo Repubblica o monarchia rimase integro e vittorioso, e fu, per così dire, il baluardo granitico del principato plebiscitario, la cittadella formidabile della democrazia e del partito unitario costituzionale contro gli assalti del repubblicanismo rivoluzionario, che restò fuori il diritto nazionale e fu riconosciuto violatore dei plebisciti.

II

La lettera di Crispi al Mazzini si lesse e si meditò in Palermo, e venne diffusa dal Precursore, che si affrettò a ripubblicarla. «Non l’ho potuta scrivere di seguito, causa i miei lavori parlamentari e quelli della professione, avvertiva Crispi al Favara. Ho sette volte interrotto e ripreso l’argomento, che ogni volta ingrandiva. C’è tutta la storia del partito, ed una esposizione, breve ma completa, della mia politica al 1860» ((2)). La Sicilia frattanto perdurava nel suo stato di palese irrequietezza e di occulta perturbazione. L’anno 1865 apparve molto agitato, le rivalità politiche sembrarono più aspre, più risentiti i dispetti e più permalosi i sospetti del Governo.

Crispi intravide qualcosa d’oscuro e di minaccioso. Rassicurò però i titubanti con la solita premurosa cura, incoraggiò, rinfiammò e rialzò la fede nei destini della Patria. L’Italia non se ne va a lembi — scriveva da Torino il 28 febbraio — i partiti si sfasciano per ricomporsene altri più logici e più fecondi di bene pel paese... Per le cadute dinastie non v’è speranza di risorgimento, e la federazione rimarrà soltanto «come un ricordo di un progetto di uomini che potevano recare imbarazzi, ma non ebbero la forza di vincere». Torino si è piegata umile dinanzi i decreti del Parlamento, e tutti i comuni del Piemonte distaccandosi dalla loro antica capitale, si strinsero al Re, che oggi è simbolo dell’unità. Se questo avviene sotto le Alpi, l’Italia non ha nulla da temere dagli autonomisti di Sicilia». Possono sorgere delle difficoltà, può anche la Sicilia fare delle enormità, ma ritornare autonoma non mai» ((3)). Non ostante questa certezza, l’animo di Crispi non si acquieta, e il 25 marzo riscrive al Favara: «La posizione della Sicilia è terribile. Da cinque anni predico le medesime cose. Tutto quello che avviene ora è conseguenza delle opposizioni fatte nel 1860 al governo dittatoriale. Sciolta la società, coloro che desideravano di riprendere presto il potere, non ebbero l’abilità di riordinare il paese. Oggi ci vuole un uomo energico, intelligente, nato in Sicilia, coadiuvato da tutti i buoni per ricostituire la posizione. Ci vuole, poi, che gli uomini onesti non si facciano protettori dei malandrini, ma tutti collaborino al ritorno della calma. In tutto questo disordine io vedo la mano della reazione» ((4)).

Due mesi dopo, Giuseppe Badia, in nome di non si sa che cosa, tentò spiegare il vessillo della rivolta. Il Generale Giacomo Medici mobilizzò il presidio; la Guardia Nazionale fu chiamata a raccolta dal Colonnello Ispettore Salvatore Cappello; la Legione Universitaria accorse sollecita all’appello patriottico di Enrico Albanese. Dopo tutta questa viva e trepida commozione, il Prefetto Filippo Marchese Gualterio s’ingegnava di dissimulare il moto rivoltoso e tentava di rassicurare la cittadinanza coi proclami del 13 e del 14 maggio 1865. «Non vi lasciate — diceva — sviare dalle esagerazioni e dalle false paure. Non vi lasciate intimidire da pochi tristi... Confidate nella vigilanza e nella forza del Governo. Le vane minaccio di pochi e stolti facinorosi si riducono a lievi e ridicole manifestazioni» ((5)).

Hanno circolato molte e strane voci — scriveva due giorni prima il Giornale di Sicilia — la setta malandrinesca, minacciata egualmente in città e in campagna, è la sola interessata a diffonderle. Alcuni proclami anonimi, di carattere sovversivo, firmati «Il Comitato», furono deferiti all’Autorità Giudiziaria. Anche i numeri il e 12 dell’ìleo di Sicilia vennero soggetti a sequestro.

In quei miseri giorni, Giuseppe Mazzini dava «un pegno fraterno» ai giovani dell’università di Palermo, ed il partito di azione protestava contro la presenza in Palermo di Marco Minghetti, uno di coloro che manipolarono la fatale convenzione del 15 settembre».

Nella primavera del 1865 avviene singolarmente questo in Sicilia: inizio del Borbonismo militante; tentativi di ribellione; sequestri di giornali sediziosi; propaganda sovversiva. Crispi intravide la reazione; il Governo non vide né previde nulla. E la tempesta civile proruppe, si scatenò spaventevole come un uragano il 16 settembre 1866. La ribaldaglia rurale irruppe nell’eroica città del Vespro, ancora intrisa di sangue per il patrio riscatto, e per sette giorni anarchicamente la sconvolse e la funestò. I Luogotenenti del Re, i Commissari Regi, i Prefetti, i Questori, succedutisi dal 1861 al 1866 ne furono moralmente responsabili. Invece di preoccuparsi dei malvagi, pensarono di tormentare i buoni, di molestare la borghesia liberale, di opprimere i quarantottisti unitari, gli autonomisti monarchici, i cospiratori del 1860, i militi sinceri della libertà e dell’indipendenza. Si elevò a sistema di governo la persecuzione politica, la fiscalità delle riforme, l’arbitrio vendicativo, la violenza poliziesca, che ruppela concordia cittadina, scisse i voleri e i propositi ((1)). E venne su, accrescendosi nell’ombra un'accozzaglia rivoltosa di ladri e di assassini, che trovò il modo di sopraffare e di farsi temere.

Raffaele Cadorna arrivò il 22 settembre con i pieni poteri, pose lo stato d’assedio, ordinò il disarmò, sciolse la Guardia Nazionale e istituì i Tribunali di Guerra. Guai ai vinti! Incominciò il periodo del terrore: dalle 6 pom. di ogni giorno sino alle 6 ant. del giorno appresso, non fu permesso uscire da Palermo, senza una carta di circolazione, che doveva essere rilasciata dalle Ispezioni di Sicurezza Pubblica, e rinnovata volta per volta. Furono proibite le riunioni, vietati gli assembramenti ((2)). Il Corriere Siciliano se ne compiacque; se ne rallegrò L'Amico del Popolo, che volle svelta dalle radici «la mala pianta del malandrinaggio» ((3)). E questo, in fretta e in furia, intendeva di fare con il codice militare il Cadorna, Luogotenente Generale comandante le truppe di Sicilia, Regio Commissario Straordinario per la città e provincia di Palermo. Francesco Crispi se ne sdegnò e sfogò il suo dispetto. «Che ce n’è dell’indipendente popolazione di Palermo? domandava al Favara. La paura ha invaso tutti voi, e siete divenuti reazionari senza avvedervene. L'Armonia del 1850 non fu umile e servile quanto L'Amico del Popolo d’oggi. C’è da disperare di cotesto povero paese. Sotto il dispotismo non cadde mai così basso» ((4)).

L’ira di Crispi era suscitata dagli errori del Governo, che aveva investito «di pieni poteri» il Cadorna, «dopoché ebbe la follia di credere che i moti di Palermo furono l’effetto della reazione clericale» ((5)). Questo si volle far credere a Bettino Ricasoli dall’ingordigia faccendiera e sovvertitrice per affrettare e compire la soppressione delle corporazioni religiose e mettere subito all’incanto i beni di manomorta, attesi da impazienti e avidi ereditieri. Crispi alzò la voce, e la sua protesta smentì le relazioni ufficiali delle Autorità politiche sul moto anarchico del 16 settembre. Si accusarono di ribellione i conventi, e si vollero annoverare tra i rivoltosi gli Arcivescovi di Monreale e di Palermo. Raffaele Cadorna, Gabriele Camozzi, Luigi Torelli furono ingannati e ingannarono ((6)).

La prevenzione del Ministero Ricasoli contro il clero secolare e la frateria palermitana non tardò a manifestarsi dopo il 22 settembre.

Il giorno 28 il Cadorna scrisse una lettera altezzosamente minacciosa all’Arcivescovo Naselli, «chiedendogli spiegazioni sulla condotta» da lui tenuta «nelle ultime dolorose vicissitudini, acciocché» il Governo e il paese «potessero» giudicare se e fino a qual punto l’Arcivescovo fosse responsabile «degli ultimi eccidi perpetrati e del sangue versato» ((1)). E il furore reazionario crebbe e inferocì contro i preti e contro i frati, che si erano battuti per l’unità della Patria. «La colpa è di quei codardi, notava Crispi, che in Palermo chiesero lo stato d’assedio ed i Tribunali militari. Cadorna... vi aderì senza capirne le conseguenze» ((2)). Il lugubre presagio del 18 gennaio 1861 ebbe il suo avveramento. Gli avvenimenti palermitani del 1866 furono presentiti e preveduti da Francesco Crispi, e con divinazione dolorosa lampeggiarono nel suo spirito fatidico nei primi anni del Regno d’Italia in Sicilia. Tentò egli di scongiurarli da Torino e da Firenze, ed a questo fine altissimo s’ispirò l’opera sua di cittadino, di patriota, di rappresentante del popolo, bramando l’affratellamento dei partiti e la pace sociale, promuovendo una propaganda di sapienza civile, infervorandosi in un apostolato di gagliarda italianità.

Egli desiderò e procurò d’instaurare in Sicilia una scuola d’educazione politica per gli uomini usciti dalla rivoluzione, e si adoperò di ravvivare nel popolo il sentimento unitario, di consolidare le nascenti istituzioni e di spiegare in pari tempo e diffondere il funzionamento del regime costituzionale.

Custode geloso del diritto nazionale e della sovranità dello Stato, Crispi pensò all’avvenire italiano, e consigliò perciò, ammonì, ammaestrò, secondo gli eventi, la possibilità dei pericoli, la gravità delle agitazioni regionali. Per il compimento dell’unità morale e politica della Penisola tentò unificare i voleri, comporre le discordie, italianizzare gli affetti e le speranze dei nuovi cittadini, le azioni e le opere dei cospiratori di un tempo, dei vecchi compagni d’armi, degli amici della sua giovinezza, avvezzi alle congiure, pronti al-l’insorgere, solleciti alla lotta. E vegliò su loro con vigile avvedutezza, ne presentì la collera, seppe prevenirne gli sdegni, gl’impeti furenti... Fu grande nel pensiero e nell’azione, perché superbo era il suo ideale di grandezza. Si distaccò da Giuseppe Mazzini, quando si convinse che la repubblica non poteva risolvere il problema nazionale e darci l’unità, e si unì a Garibaldi; ma antepose l’Italia al Duce dei Mille ((3)), il plebiscito a Vittorio Emanuele, pronto a ridivenire repubblicano, se il Re «disertasse la causa nazionale, se il principio monarchico mancasse al suo compito» ((4)).

Andrea Maurici.

NOTE

(1) Nota. Dal volume di prossima pubblicazione La Sicilia e l’unità italiana.

Giosuè Carducci. Poesie. Alla figlia di Francesco Crispi. p. 991. Bologna, Nicola Zanichelli, 1907.

(2) Cfr. L’anima di Francesco Crispi — Carteggio intimo sulla politica. del risorgimento italiano con proemio e note biografiche di G. Pipitene Federico. Palermo, Libreria Edjt. Ani. Trimarchi, 1910.
(3) Atti ufficiali del Parlamento Italiano -Camera dei Deputati Tornata del 10 dicembre 1861.
(1)Atti  ufficiali del Parlamento Italiano -Camera dei Deputati -Tornata del 3 giugno 1862.
(2) Atti ufficiali del Parlamento Italiano -Tornata cit.
(3) Cfr. Scritti e discorsi politici di F. Crispi. La spedizione dei Mille. Diario pagg. 248, 253, 278 e Carteggio intimo cit. pag. 22, e segg.
(4) Carteggio intimo cit. Torino, 3 dicembre 1862.
(1) Atti ufficiali del Parlamento Italiano -Camera dei Deputati -Tornata del 24 giugno 1863.
(2) Carteggio cit. pag. 40 e 42.
(3) La Campana della Gancio, Anno II, 4 giugno 1862, n. 126.
(4) Il Precursore, cit. 24 maggio 1865, n. 118.
(5) Il Presente. Anno I. Palermo 3 ottobre 1863.
(6) Il Patto Nazionale. Palermo, martedì, 1 ottobre 1863, II. 1.
(7) Cfr. Carteggio citato -Torino, 13 febbraio 1844, p. 51.
(8) Il celebre duello tra il Generale Govone e l’Avvocato Tedaldi, vivente, che parve di assumere un carattere regionale, e sembrò una sfida della Sicilia ai pregiudizi del Nord, avvenne il giorno 11 maggio 1864, in una campagna presso Palermo detta Malaspina. Rappresentavano il Govone i Signori Marchese Di Bagnasco Luogotenente Colonnello dei Cavalleggieri di Alessandria. e Luigi Villa Luogotenente nella stessa arma. Secondi del Tedaldi erano i Signori Avvocato Niccolò Ludovico Pomar, e Girolamo Guglielmini, Capitano di Stato Maggiore della Guardia Nazionale.
(1) Carteggio cit. pag. 54 e 56.
(2) Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia. Tornata del 17 novembre 1864.
(3) Gazzetta Ufficiale del Begno d’Italia -Camera dei Deputati. Tornata del 18 novembre 1864.
(4) Cfr. Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini. A Francesco Crispi. Voi. XIV. Politica voi. XII p. 61 e seg. Roma, per cura degli Editori MDCCCLXXV.
(1) Cfr. Scritti cit. 63.
(2) Cfr. Scritti e Discorsi politici cit. Repubblica o Monarchia. Lettera a Giuseppe Mazzini p. 309, e seg.
(3) Cfr. Scritti cit. Voi. XIV. p. 63 e seg. era logico, dopo aver decretato il plebiscito del 21 ottobre, dopo di aver invitato il popolo a votare per Vittorio Emanuele, promuovere l'avvenimento della repubblica.
(1) Il Precursore cit. Palermo, sabato 22 maggio 1865. n. 103 Lettera a Francesco Crispi Deputato.
(2) Carteggio cit. Torino, 27 marzo 1865 p. 63.
(3)

Carteggio cit. Torino, 28 febbraio 1865, pagg. 59, 60.

(4) Id. Torino, 25 marzo 1865, pagg. 61, 62.
(5) Cfr. Il Giornale di Sicilia. Palermo, 15 maggio 1865.
(1) Sull’insurrezione di Palermo del 16 settembre 1866 ha scritto di recente vari articoli l’insigne pubblicista G. De Luca Aprile, importantissimi per i ricordi personali dell’egregio scrittore e le opportune e serene considerazioni (Cfr. Giornale di Sicilia 27-30 luglio; 2, 13, 23 agosto; 7 settembre 1910).
(2) L’Amico del Popolo. Palermo 26 settembre 1866. Decreti del Generale Cadorna.
(3) L’Amico del Popolo. Palermo, 18 ottobre 1866.
(4) Carteggio cit. Firenze, 17 ottobre 1866.
(5) Carteggio cit. Firenze, 31 ottobre 1866.
(6) Cfr. Giornale di Sicilia, 29 ottobre 1866.
(1) Cfr. Carteggio cit. Firenze, 14 novembre 1844, p. 69.
(2) Giornale di Sicilia. 29 settembre-ottobre 1866.
(3) Cfr. Carteggio intimo cit. p. 43. «Quest’uomo è tutto nelle mani del fato e non sa svincolarsene. Facciamo di salvare l’Italia, la quale al certo non deve dipendere da un solo nome. Il più illustre cittadino sarà sempre un individuo innanzi cui ci leveremo il cappello, ma egli non è, e non sarà la nazione Noi siamo alla vigilia di grandi avvenimenti, e bisogna tener serrate la fila ed integre le forze nostre». (Torino, 19 luglio 1864).
(4) Carteggio cit. Torino, 16 aprile 1862, pe. 18.


























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