Eleaml - Nuovi Eleatici


«Il Governo ci regala il vento dell’Africa» dalla illusione garibaldina a Lu Setti-e-menzu (Zenone di Elea - Dic. 2021)

OPERE DI VINCENZO MORTILLARO

MARCHESE DI VILLARENA

SOCIO DI VARIE ACCADEMIE

VOLUME XI

PALERMO

STAMPERIA DI PIETRO PENSANTE

Albergaria Ritiro di S. Pietro

1868

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I MIEI ULTIMI RICORDI 

CONTINUAZIONE DELLE REMINISCENZE DEI MIEI TEMPI

PROEMIO CAPO I CAPO II CAPO III CAPO IV
CAPO V CAPO VI CAPO VII CAPO VIII CAPO IX
CAPO X CAPO XI CAPO XII CAPO XIII CAPO XIV
CAPO XV CAPO XVI CAPO XVII CAPO XVIII CAPO XIX
CAPO XX CAPO XXI CAPO XXII CAPO XXIII CAPO XXIV
CAPO XXV CAPO XXVI CAPO XXVII CAPO XXVIII CAPO XXIX
CAPO XXX CAPO XXXI CAPO XXXII CAPO XXXIII CAPO XXXIV
CAPO XXXV CAPO XXXVI CONCLUSIONE NOTE NOTE

PROEMIO

L'esprit de secte et de parti n’est que pour un temps, la justice et la vérité sont de tous les lieux et de tous les siècles.

SEGUR,Oeuvres, vol. X, pag. 77.

In questa età di follie, di orrori e di disastri, in cui, sconvolti gli ordini di tutta Europa, voglionsi recise qualsisiano radici dell’albero sociale, e si ardono come tarlate le sedie delle istituzioni più vetuste, e si rovescia ogni altare ripetendosi con boria stupida le parole progresso e libertà, un pendio invincibile ci strascina all’assurdo!—Tormentati dalla passione dell’ignoto tutti corrono per l’amore del meglio da insensati con ansia febbrile dietro alle più strane utopie. ne può lusingarsi alcuno di trovarsi senza macchia, essendo ben pochi spiriti prediletti rimasti nei limiti della sana ragione, della quale non si è potuto avere intero l’esercizio e l’uso; conciossiaché, vogliasi o no, ognuno vivendo nell’atmosfera del suo secolo è travolto nel vortice di essa (1)). Sicché può dirsi che non aveva torto Solone quando interrogato se vi fossero molti pazzi sulla terra rispose, che per racchiuderli tutti in un sol luogo era necessario che dello intero mondo si formasse uno spedale.

Or se io avessi altre forze che non quelle di un misero ingegno, combatterei volontieri questa fazione che oggidì dovrebbe essere il soggetto degli odii e dei sarcasmi universali. — Fazione, che, fatta animosa nella strada della scelleranza, spasima al pari di Rousseau del desìo d’impiantare nel mondo una religione senza culto, una morale senza dogmi; e si sforza, ora piangendo ed ora bestemmiando, di avviare le genti ad un avvenire maraviglioso, artificiosamente indeciso. — Fazione che rendendo la virtù senz’onore, il talento senza ricompensa, la verità senza omaggio, la patria senza gloria, ha ridotto la società senz’armonia. E quindi ha costretto gli uomini a delirare a guisa di forsennati, precipitando le nazioni in irreparabili ruine; imperocché gli uomini in preda ad un delirio furente sono, diceva Schiller, il più spaventevole dei flagelli. A maggior vitupero questa dottrina, di cui si vantano con tanto strepito i perturbatori attuali, altro non è che dottrina rifiutata di tempi tra antichi (2). — Mentre nulla vi ha di originale oggidì, tutto è copia: ed il testimonio augusto della storia, cui Lacordaire (3)appella ricco tesoro dei disonori dell’uomo, è là per convincerceli, e per indicare a tutti in quale modo fossero finiti i fanatici di una volta; e come il disprezzo ridicolo, che ne ha accompagnato i nomi, perseguiterà con uguale accanimento i fanatici odierni.

Cedo adunque il campo alla invitta falange degli scrittori di me più acconci a tanta opera, i quali seguendo l’avviso di san Gregorio Magno(4), apertamente reclamano con invitto coraggio contro la turba sfrontata adulatrice, che si travolge nel fango, in cui rimarrà seppellita; perché se poca scienza, diceva Bacone (5), può condurre a sconoscere l'essenza primiera, un sapere più pieno conduce gli uomini sicuramente a Dio.

Io intanto, poiché non ho perduta cogli anni la facoltà duplicarmi, proseguo a dettare i miei ricordi, i quali non sono una autobiografia di aneddoti e di pettegolezzi da sollazzare gli oziosi, 0 un'opera illustrata da divertire gli allocchi, ma uno scritto, che, quantunque modesto, è però consacrato alla storia contemporanea. Ilo lusinga che esso si leggerà senza noja, perché con diletto si leggono le memorie storiche, pur quelle scritte con negligenza come le mie, quando coloro, che le compongono, vi si mostrano attori non meri narratori (6).

Né voglio differire il mio scritto, perché prevedo, che se continuare il volessi a mio bell'agio, noi potrei a data un po’ lontana. Imperocché il tempo, questo gran divoratore dei secoli, che è molto per gl’individui, nulla per le nazioni a fianco del vasto presente dei popoli e del loro immenso avvenire, fa lunghe le ore, ma corta la vita, giusta la frase del sentenzioso Fénélon: — soprattutto nell’epoca attuale, ove tutto diviene decrepito in un giorno solo, tanto quanto chi vive molto, muore vivendo. A menoché non volessi concepire la puerile speranza o di scrivere al di là della tomba come il serafico dottore (7), — o di vivere più secoli di vita come gli uomini del felice tempo dei patriarchi, — o di avere lo istinto di Giorgio Viani (8), per non essere sorpreso dalla morte prima d’avere consegnato le carte.

Continuando adunque le Reminiscenze dei miei tempi racconterò senza temerità ma con franchezza avvenimenti memorandi e verità triste come l’età mia, che oramai non è più l’età del riso o dell’incanto. E imitando il vecchio Sidrac, cui si prolungava pari passo la vita ed il cammino, non mi farò fare il rimprovero che Michelangelo diresse a Leonardo: «costui non finirà mai nulla, perché pensa alla fine dell’opera prima di averla incominciata.»

Compilate da me queste memorie nelle strettezze della prigionia, nel fracasso della rivolta, negl’imbarazzi della fuga, negli spaventi del colera, ho avuto cura di salvarle. — Anco Cesare, quando minacciato da imminente periglio in Alessandria dové buttarsi a mare per guadagnar la sua nave nuotando, tenne sporgente dall’acqua una mano coi suoi scritti (9), e mostrò tanto interesse di salvarli quanto mostronne per salvare la propria vita. Ei per tal modo fece manifesto che assai valutasse la importanza degli storici ricordi, e che fosse convinto, che i libri e regolano e muovono ed agitano il mondo (10). So bene in contrario che il Cesare dei tempi moderni, disprezzando madama di Staël e il visconte de Chateaubriand, avesse riputate arme miserande un calamajo ed una penna,... vennero però il 1814 e ’l 1815; e la penna di madama di Staël valse contro di lui un’armata, e centomila uomini la penna del visconte(11).... Io non presumo già tanto col mio nome poco noto, ne con questo mio scritto; a leggere il quale a nessuno sarà incitamento l’autorità dello scrittore, a tutti la buona fede del racconto (12). «Non ti muova, dirò infatti a chiunque colle parole di Gersone (13), l’autorità dello scrittore sia esso di poca, sia di grande dottrina, ma il solo amore della verità ti spinga alla lettura.» Son poi convinto che queste mie pagine appresteranno prova novella, che la fiamma, alla quale ho sempre acceso il cuore e l’ingegno, sia il sentimento del vero, il quale non si rinviene altrove che nella pura fonte del vangelo e nella forma visibile della credenza — la Chiesa. Esse faranno fede del pari dello amore sviscerato al mio paese, pel quale soffrirei mille mali piuttosto che costargli una lagrima sola, — amore sì forte nel petto dei sinceri, che arderebbero, han detto con fiero entusiasmo (14), il mondo intero, ove per tal guisa si trattasse di salvare la terra natia... Ah sì la mia patria ho desiderato sempre indipendente, libera, forte; non già serva d’uomini, i quali preconizzandosi suoi liberatori l’han rovesciata nell’abisso. No, non è amor di patria il loro... Esso è, come l’ha ben descritto Thomas (15)«un miscuglio d’orgoglio, d’interesse, di proprietà, di speranza, di ricordi delle loro azioni... un certo entusiasmo fattizio che li spoglia di loro stessi, per trasportarne tutta interal’esistenza nel corpo dello stato.» — No, non è libertà quella, di cui essi si vantano: la libertà è gran cosa quand’è comune, non quand’è esclusiva; quando nasce dall’ordine e s’immedesima nelle leggi:— questa è la libertà che debbe amarsi. Ma la libertà, ch’è figlia della licenza e madre della schiavitù, — che si vende, s’imbelletta a tutti gli angoli delle pubbliche vie, che apre ai suoi fondatori l’arena del libertinaggio, la fonte della ricchezza, il cammino della tirannia — oh siffatta libertà è detestabile, è abbominanda!

Che se qualche animo timido, in tempi, nei quali si sconoscono i segreti del coraggio, le gioje del sacrifizio, lo strascinamento del pericolo nobilmente affrontalo per una nobile causa, rimproverar mi volesse d’imprudenza, perché tai cose dicendo andassi contro la corrente, lo pregherei a rammentarsi di Diogene, che mentre tutti uscivano dal teatro si mise a fare calca per entrarvi. E dettogli perché andasse contro della folla?... È ciò che faccio sempre, rispose seccamente.

Comprendo che troppo pericoloso è il rinfacciamento del vero (16), perché l'empietà, ritenendo che la verità nuda sia una satira mordace, non ha sofferto giammai di essere rimproverata impunemente (17).— Ma la verità è un debito che ad ogni uomo è imposto di solvere (18); di guisaché non solo viltà, ma perfidia è talvolta ritirarsi e tacere. Ei fa d'uopo spregiare le meschine mutilazioni della storia dettate da una falsa ed impotente prudenza, come spregiare le vergognose falsificazioni della stessa!... Quanto a me ove potessi tracciare di nuovo lo imperfetto quadro di mia vita — tutto... tutto vorrei cancellarvi; — e le luci, se pur ve ne fossero, e le ombre che vi sono in abbondanza... tutto! tranne la indipendenza di animo, che non mi ha fatto mai tener conto della folla, ne mi ha fatto avere per mira delle mie azioni ricchezze od onori. Questa cara indipendenza, quest'anima dell'anima mia mi ha sempre tenuto fermo come sbarra di ferro, nulla curando la calunnia e l’invidia, che non hanno unquemai lasciato di turbarmi i riposi. E perciò che se ho trovato cammin facendo un inciampo, non l’ho affatto schivato, anzi mi sono spinto a spezzarlo o a stritolarmi con esso, senza capitolar con la fortuna; passando assolutamente pel mezzo, che, come diceva con ispirito Linch a M. d’Estaing, è il cammino più diritto e perciò appunto il più corto. Ora il mutare dei tempi non mi ha fatto mutare

... ne il può il cielo

S’arso ei non Lamini e incenerito pria (19);

perché noi mortali, ha scritto quel meglio artista che politico d’Azeglio(20), siamo d'una stoffa, nella quale la prima piega non iscompare più mai.

Giù s’intende che così parlo quanto al principiò morale; perché quanto alla politica questa non può essere inesorabilmente immutabile ed eterna. — La immobilità politica è impossibile, essendo giocoforza avanzarci e progredire con la umana intelligenza. Debbonsi senza meno contemplare con venerazione i secoli trascorsi resi sacri dalle vestigia dei nostri illustri maggiori; dappoiché

Vixere fortes ante Agamennona

Multi (21);

e quindi fa d’uopo rispettare ad oltranza la veneranda maestà del tempo: ma sarebbe stoltezza volere indietreggiare. Conciossiaché le passioni sono sempre le medesime, però le idee cambiano con la successione delle età; ned è possibile che Fumano genere fermo mai sempre rimanga nel suo posto primitivo. Dimodoché limitarsi a studiare gli uomini e le istituzioni del passato — isolarsi dalla propria epoca — fare consistere la scienza nella spiegazione di ciò che fu, senza interessarsi di ciò che dovrà essere, sarebbe scopo pur troppo difettoso.

Il passato deve servire di scuola all’avvenire; giacché gli esempii colpiscono meglio di qualunque teoria. È desso lo specchio sincero della verità, e invano il nostro orgoglio vi resiste, e vorrebbe ridersi di lui: — il vero secreto di ogni creazione durevole in politica è sapere adattare con senno le istituzioni del passato allo spirito del presente (22). —


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CAPO I

L’arresto

Non mi avevano interessato por nulla le tempestose elezioni politiche del sessantacinque, nelle quali, generalmente parlando, molti mediocri furono anteposti a buoni, e molti venduti trionfarono sopra indipendenti. — Usanza vecchia in Italia, ove in epoche diverse Zanfrigno fu preferito a fra Giocondo, Conti a Galileo, Giannotto a Machiavelli, Madera a Zeno, Forcatalo a Cujaccio, Sibiliato a Gozzi..., e ‘l giudizio dei posteri ne ha fatto vendetta. — Io che al pari di Oswald concepiva la felicità nella vita domestica (23), non proseguiva che ad intendere al buon governo di famiglia, e dava stato al mio maggior figliuolo (24). — Lieto costui del suo genial collocamento, lungi di vivere fra la folla degl’indifferenti, che riguardano il lusso come scopo obbligalo delle loro gioje, celebrate le nozze, andossene a godere nella nostra amenissima villa quella soddisfazione completa di sentimenti semplici e puri, i quali non istrascinano dappresso agitazione febbrile e violenta; e che sono cosi ben dipinti con tratti abili e toccanti in ammirabili versi da Thompson nel suo stupendo canto della primavera. In quel bel sito grato e giocondo, ch’è per me il miglior sito della terra, come cantava Orazio (25) della deliziosa città di Baja,

Nullus in orbe locus, Baiis praelucet amaenis,

anch'io disvogliato dal mondo politico, ed obbligato a comprimere i moti della mia collera, giornalmente eccitata dal morale e materiale scadimento del paese natio, mi proponea di consolarmi. Là indignato della perversità del secolo e fastidito delle persecuzioni interminabili, cui era fatto segno, pensava aver a meditare sui sepolcri, fra gli alberi ed i fiori nel silenzio delle notti.— Pareami bello, ma bello assai, che ivi ritirato avessi potuto ripetere con Dauberion di Murinais: meglio morire a Sinnamary senza rancori, che vivere colpevole a Parigi! — Non però mai per dire agli uomini: passate, passate che verrà il mio turno; ma perché la politica fa dei solitarii che scappano dalla galera del mondo, come la religione fa degli anacoreti che fuggono dal consorzio degli uomini, quasi per porre un intervallo fra le agitazioni del mondo ed il giudizio di Dio (26). Per altro a certa età, diceva il sublime e prudente Montaigne, i cui Saggi sono il primo e forse il miglior frutto che abbia prodotto in Francia la filosofia morale (27), noi non abbiamo che una cosa sola a fare; ed è quella di metterci da banda: — saper campare del proprio, poco o molto che sia, è prima guarentigia di una vita tranquilla ed onorata! (28). Non debbo intanto tacere, che mentre ogni uomo prolungando i suoi anni sente raffreddare le ore, e il domani non prova l’interesse che sentiva al giorno precedente, pure certe cose mi facevano fremere amaramente.

A buoni conti, questo genere di vita da Platone nella sua Republica, da Epitetto nella sua Tavola di Cebete, e da tant’altri filosofi consigliato come l’ultimo termine dell’umana sapienza, mi faceva supporre che avrebbe a stornare dal mio CAPO la tempesta, che non calmavasi mai. Pieno di tale speranza credea di appoggiarmi sopra un fulcro poderoso... ma Dis aliter visum. E dovetti convincermi sopra me stesso, che ogni occhio mortale si perde nel considerare le moltiplici snella che compongono arcanamente la maravigliosa catena degli umani casi.

Mia moglie, la quale ha molta debolezza ed irrisoluzione nel carattere a traverso a mille rare qualità, in quel mentre riceveva impulsi ch’erano irresistibili e determinanti pel suo cuore troppo sensibile ed affettuoso, onde tornasse a Napoli per rilevarne sua madre; cui, come unico mezzo di salute, i medici proponevano l’aria nativa. Oppormi agli slanci di affetto filiale sembrommi crudeltà; molto più che in me l’uomo pubblico è irremovibile, ma l’uomo privato è alla discrezione di chiunque vuole impossessarsi di lui. E disposi che mia moglie partisse colle figlie, che Carlo proseguisse a villeggiare, rimanendo io al sacrificio d’aspettarli:— situazione crudele, in cui sacrificandomi non era pienamente sicuro di corrispondere del tutto al mio dovere.

Scorsi però pochi giorni, poiché moriva di noja, d’impazienza e di disgusto, mi adoprai a che tutta la famiglia passasse in Napoli il soave maggio, lo splendido mese dei fiori, che gl'inglesi per antonomasia chiamano la stagione(29)... ripetendo con Tasso.. «ho desiderio di Napoli, come le anime ben disposte del Paradiso.» Ed ei diceva da senno; conciossiaché Napoli è la contrada d’Europa la più favorita dal cielo (30). ne mi mettevano in pensiero talune confidenze a voce ricevute, dopo di altre, le quali tempo prima m’erano state fatte per iscritto(31), che contro di me una perfidiosa trama si tessesse (32), della quale avrei dovuto antivedere gli strali, affinché il rimedio non giungesse tardivo.

Sgombro d'ambizione, commiserava tanti imbecilli, che cacciati di posto aveano il riposo per una malattia, dalla quale taluni arrivavano alla bestialità di morire. E sotto l'usbergo del sentirmi puronon mi nascondeva, non mi torreggiava, non atteggia varai da fariseo, alto maniera di tanti, che per dirla con Boccaccio, toccano da Guelfi in Toscana, da Ghibellini in Roma. Molto meno pensava di fuggire; giacché il timore consiglia la fuga, diceva l’imperatrice Teodora al suo debole Giustiniano, e la fuga non produce sicurtà, ma vergogna. Io fidava pur troppo nella libertà e nelle leggi; e mi persuadeva che

.... ove son leggi,

Tremar non dee chi leggi non infranse (33);

non credendo che mi s’avrebbe potuto rispondere in vista:

E di leggi tu parli, ove insolente

Stuol mercenario fa di forza dritto (34)?

Immaginavami che solamente nei paesi ove la schiavitù vi opprime «il lagno è muto e la legge impotente» (35)...

Mi persuadeva sì che

Aetas parentum pejor avis tulis

Nos nequiores, mox daturos

Progeniem vitiosiorem... (36);

quindi non supponeva possibile addì nostri, che un calunniatore, il quale avesse accusato senza prove un cittadino del delitto di lesa maestà, sarebbe stato condannato alla tortura, come disponevano le leggi dell’imperatore Costantino... Ma non perciò era di coloro che temono tutto e quindi credono tutto; non supponendo affatto che mi trovassi all'epoca di Ottone, nella quale racconta il più grande pittore dell’antichità(37), non erano sufficienti le buone leggi per guarentire i cittadini, a capriccio incolpati di fellonia (38)... Molto meno giudicava che fossi all’età maligna di quella seconda grande turpitudine dell'epoca imperiale (la prima era il senato romano che l’adulava (39)), nella quale giudici iniqui e corrotti, sotto il pretesto di vendicare la maestà violata del popolo di Roma, immolavano una quantità di vittime agli odii ed ai sospetti (40)... Aveva insomma dimenticato del tutto, che dacché sotto il regno di Filippo il bello (41)comindossi a parlare di delitto di lesa maestà, questa espressione terribile e vaga era servita d'arma a qualsivoglia tirannia.

Nello stato di profonda calma, abituato a quelle molestie, che non finiscono mai, e ricordandomi delle traversie sofferte sino al mio meriggio, non mi presagiva probabili al tramonto novelle sventure. E fra me stesso diceva: chi sa se mi sarà concesso morire tranquillamente nel letto e spirar l'anima nella maniera incantevole per un credente che spirolla Montaigne! (42)... chi sa invece se ’l fulmine, il fuoco, la tempesta, il tremuoto, un disastro qualunque repentino dovrà cogliermi alla sprovvista? — Però nelle mie previsioni...

Sovra il mio CAPO il giuro, ove non basti

Sul’onor mio (43) mai non contava poter trovarmi avviluppato in un processo... essere arrestato qual cospiratore... No affatto!... ciò non mi parea probabile; — stolto ch’io era! — non mi parea possibile, molto più ad una età si matura... quasiché per le disgrazie ci fosse età legale (44). A dir corto io aveva ancora la dabbenaggine fanciullesca, che la calunnia fosse una menzogna, e che la menzogna avesse gambe corte. Eppure sapeva che la calunnia fosse misteriosa come Anteo, cui fud’uopo d’AIcide ad atterrarla (45). ne ignorava che la calunnia aveva avvelenalo Socrate, fatto morire Anassagora, messo nei ferri Colombo, e condotti al patibolo ed all'obbrobrio migliaja d'innocenti.

Fatto è che dovei sperimentare su di me, che nel mio paese per effetto di una rivoluzione, la quale ci ha fatto percorrere in pochi anni gli avvenimenti di parecchi secoli, la giustizia è sacrificata alla vanità, la felicità pubblica agl'interessi personali. E che qui in nome della legge, la quale vi accorda la libertà del pensiero, uno spione vi denunzia, un gendarme vi arresta, e siete chiuso in prigione da coloro che si ridono dei vostri dolori, e che vorrebbero che rimaneste sepolto vivo e dimenticato onninamente per sempre, come l’uomo della maschera di ferro, che fu menato nel castello di Pinerolo (46), ov'era governatore Saint-Mars, e che fu sepolto sotto il nome di Marthioli (47)... Oh certamente quell’ubbriaco (48)di Tiberio non giunse fino a questo punto a farsi giuoco della razza umana; perciocché egli non diceva i Romani liberati per lui dalla tirannide; ne predicava al mondo di avere inaugurato una età novella di giustizia, di libertà, di morale!

Veniva adunque da villa mio figlio il martedì primo maggio, e stabilivamo d’accordo partire per Napoli il posdomani. — Quanto m’allietasse la speranza di riabbracciare si presto i miei figliuoli, di godere di nuovo della intimità che produce la vita di famiglia, primo orizzonte che si vede nella vita, e primo elemento in cui si vive, ben può comprendersi da chi comprende, che

D’ogn’allro affetto è quel di padre il primo (49);

perché impose natura che la cosa più cara a ciascuno fossero figli e congiunti (50). — Vi volle proprio tutto il cinismo di Napoleone I per dire che «nulla è più opposto allo spirito nazionale, alle idee» generali di libertà che lo spirito particolare di famiglia!» (51) — Ogni qual volta però un po’ di gajezza mi è venuta sulle labbra, ne sono stato punito come di un delitto. — Quel giorno stesso verso l’imbrunire mi ritirava tranquillo a passi lenti, perché potea dirsi di me come avea detto Voltaire parlando di Laius

Comme il était sans crainte il marchait sans défense.

Ma appunto:

Il colpo allor ch’egli aspettato è meno

Più certo è sempre (52);

ed io pagai caro il prezzo della mia stupidezza. Già prossimo all'ostello ecco un uomo vestito da borghese spiccarsi da un codazzo, che l'accompagnava: ei fermandomi in nome della legge m’invitò a seguirlo, in virtù d’un ordine giuridico lanciato contro di me, per accusa di cospirazione contro la sicurezza interna dello stato.

Avvezzo a contenermi nei momenti difficili non mi sorpresi della ingiuria balorda, che Catilina plebei mi scagliavano senza vergognarsene. ne me ne sorpresi perché di vendette siffatte, diceva lo illustre compilatore della biografia di Dolomieu (53), possiamo prendere sempre nuovo dolore, maraviglia non già, ricorrendoci agli occhi più spesso di quello che altri potrebbe pensare.

Tuttavia un certo fremito mi percorse le ossa; perché quantunque avessi letto che non tutti i cospiratori fossero stati scellerati, pure ciò lo trovava asserito in istorie, che raccontano falli molto antichi(54), non già fatti di questo secolo nostro, cui una furia chiamata progresso scrivea Filippo De Boni (55), pria d’apostatare, spinge, incalza, ne gli concede tempo di soffermarsi un istante.

Condotto alla delegazione speciale di sicurezza pubblica, ivi la pazienza mancommi; perché un insolente preposto enfiato come una botta volendo soverchiarmi mi fece inviare a tutti i diavoli la gente di questura...Un uomo, il quale ha lo spirito inasprito da un’ingiustizia somma, raramente si frena; non essendovi misura che tanto presto si colmi quanto quella della impazienza (56).

Indi a poco fui condotto dal questore ch’era un Pinna, e che volea fossi tosto tradotto alle prigioni... Immagina, o lettore

Quest’orgoglioso insultator molesto (57),

stecchito come un san Pacomio, che non si distingueva agli abiti ed al rozzo portamento se fosse un frate sfratato o un alario di curia vescovale. Seduto colla schiena ad arco, col CAPO penzoloni, cogli occhi immobili, fissi al pavimento, l’avresti creduto un padre Rodin ricopiato; conciossiaché il carattere esterno dell’uomo, Patteggiarsi della persona, il mover degli occhi, la guisa di procedere appalesano chiaro il carattere morale.—Villano sino alla nausea, scortese sino allo insulto, mi ricevé come i negri fra gl'indiani ricevono dispettosi quei di pelle bianca. ne posso assicurare che avessemi parlato; giacché

non parla

Chi orgogliose stoltezze al vento spande (58).

Ei congiungendo alla gravità dell’ufficio, per se stesso molesto, petulanza vigliacca, m’indusse a perdere nuovamente la calma; dappoiché bella, ottima cosa ch’è la pazienza, ma la pazienza più longanime anch’essa si stanca.

Sostenni con vivacità ch’ei dovesse farmi tosto presentare al magistrato; perché solo costui, dopo avermi inteso polea farmi tradurre alle prigioni. Certo è ch’egli cui non chiamai bue o asino come ingiuriano i Tedeschi, ne porco (59)o cavallo (60)come svillaneggiano i Russi, ma facchino, come spregiamo noi Siciliani qualunque incivile, si persuase al fuoco dei miei sguardi, che l’anima mia non fosse per anco invecchiata; onde permise che quella sera rimanessi al deposito centrale del bargello, della qual cosa supposi che sarei rimasto soddisfatto. Ma entrandovi, la tirannia della mia memoria fece infiltrare il passato nel presente, e mi rimembrai che questo deposito centrale fosse l'abolito convittoCalasanzio, che io aveva diretto e amministrato nell’anno 1837 (61)... Oh come cambia tutto in questo mondo! — Chi avrebbe creduto allora che un giorno vi avessi dovuto rimanere carcerato a meditarvi la vita dell'illustre fondatore, il quale a causa di segrete calunnie era stato per le vie di Roma, sotto la sferza d’ardentissimo sole strascinato da una squadra di birri al tribunale della fede? — Vi fui chiuso a chiave, guardato a vista da sentinelle, nell’ultimo piano in due bugigattoli zeppi d’immondezze, e forniti d’una putrida, fetente tinozza di legno.

Per prima volta In potere d'un’orda di ladri d'uomini e di libertà, come li appellava nel suo sdegno il visconte de Chateaubriand (62), che allagavano quella casa, passeggiai tutta la notte per la stanza con le mani conserte al seno, il CAPO chino, e lo spirito in preda a quel turbamento, profondo come l’oceano, che reca la sospensione violenta del corso delle abitudini consuete.—Passai insomma in cotal modo uno di quei momenti terribili, foriero d’altri peggiori, nei quali

Claudicat ingenium, delirat linguaque mensque!(63)


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CAPO II

L’interrogatorio

Rapida in città, menando grande fiacca, anzi facendo scalpore si sparse la nuova dello arresto mio. E siccome da una parte non vi è sofferenza che pesi tanto crudelmente sull'uomo, quanto la sofferenza morale, la quale giunge financo ad essere causa frequente di suicidi disperati (64), — dall’altra

Hanno i guai per ventura, che più spande

Lor nome egloria (65).

Violenze di tal fatta altro effetto non partoriscono in somma, che ingrandimento di fama, di amici e di parteggiatoti. In fatti non solo la stampa indipendente se ne risentì con amarezza (66), ma pure un fiero giornale di Palermo elevossi a mio spontaneo campione. Ei si disserrò con rabbia avverso i compilatori del processo tenebroso (67), nel quale si voleva far figurare me principale motore di un delirio, di cui la malizia e l'intrigo esageravano la portata e le manovre. E chiamollo attentato all'ordine pubblico e minaccia a più centinaia di famiglie che nelle elezioni politiche aveano manifestalo dividere le idee mie.

Spuntava l’alba, e mio figlio ch’era venuto a notte chiusa in precipizio da campagna, cominciava a provare

com’è duro calle

Lo scendere e ’l salir per l’altrui scale (68);

ma non fu permesso ch’ei mi si accostasse.— A mezzo giorno, mentre di ciò contristato

Giacea con guancia di pallor dipinta (69),

dischiusa la porta, un ignoto mi fece cenno di seguirlo. Messici dentro d’un fiacre sdrucito, tirato da un cavallo magro come quello dell’Apocalisse, smontammo al palazzo dei Tribunali senza averci scambiato una parola. Traversando pel Toledo, taluni (ciò che ben mi ricordo) temendo compromettersi col solo guardarmi, mostrarono apertamente l'egoismo della paura, e rimpiccoliti evitarono di salutarmi: tal altri trionfando di questo timore si stimarono a dirittura cittadini eroici dell'antica Roma. — Condotto nelle sale criminali fui annunziato al giudice istruttore. Ed eccomi in faccia a quel Nicolosi che potea dire con verità: io sono il martello di Palermo, come Attila aveva detto: io sono il martello del mondo, ego malleus orbis. Soltanto non poteva soggiungere come Corneille: io debbo a me solo tutta la mia celebrità; giacché per se stesso non valeva nulla, essendo uno strumento, e non altro, del fisco che si chiamava Interdonato. Costui rappresentando la giustizia come l’inverno rappresenta la state, jena togata chiamavalo la gente; adattandogli il frizzo che contro un giudice Vanni altra volta aveva vibrato Nicolini. — Piccolo di statura e paffuto, timido per carattere, ma reso ardito dall'ambizione, era uno degli uomini i più abili, i più scaltri, i più versatili, i più attivi: — Il suo guardo ispirava diffidenza. Invaso dell’odio che investe i rivoltosi quando pervengono al potere, egli avrebbe voluto esterminare tutti i decaduti; ond'è che si affaticava ad essermi nemico, mentre ioaffatto non avea mai pensato ne pensava a lui.

Nicolosi aveva incusso in Palermo sì spaventoso aborrimento di sé, che ognuno implorava dal cielo che ne l’avesse a preservare, come si vuole essere preservato dal colera. — Ricordo in proposito che un Giovanni Claudio Prost cognominato il capitano Lacuson afflisse tanto nel secolo passato gli abitanti della Bresse Jurassiana, che si fa preghiera a Dio sino ad oggi in quei paesi, perché li volesse sempre preservare da due flagelli tremendi, la febbre ed il capitano Lacuson. Pei nostri paesi il capitano Lacuson-mosca (70), di cui si pregava di essere liberati, chiamavasi Calcedonio Nicolosi:—sul di lui conto tutte le opinioni erano riunite in una sola!

Egli m’accolse con maniere pulite; e modi urbani, parole melate, misurate proteste, assicurazioni capziose, domande suggestive con alcun che di cortese che aveva del pungente... tutto mise in opera pria di chiamarmi ad interrogatorio formale, quale imputato di pratiche con Francesco II e di intelligenza nello attentato di Badia.

Con un viso contratto e violento che covriva di un’aria affettata di dolcezza, volendo assolutamente meco a lungo ragionare, mi richiese financo balbettando, se fosse vero ch’io avessi una volta compilato il Presente, — giornale di corta vita, e pur di lunga fama... (71). E nei suoi sguardi ansiosi avrei giurato che eravi in quel mentre un riso di gioja e d'insulto... Quasi il Presente fosse stato la Lettera sui ciechi ad uso di quei che veggono(72), che valse a Diderot non breve prigionia, ovvero l’Allemagne dans son profond abaissement che costò la vita per ordine di Napoleone I al librajo tedesco Palm che l’aveva fatta spacciare a Nuremberg.

Però credersi più scaltro d’altrui è lo scoglio, al quale rompono gli astuti. A me giovava ch’ei non si fosse ritenuto dal dire; perché una mano ignota e generosa m'aveva messo a piena conoscenza dei particolari del processo e degli svergognati motivi del suo ridicolo compilamento. ne mi era occulto l'impudente procedere di Gualterio già prefetto di Palermo, indi di Napoli, il quale aveva ingiunto a questo Nicolosi che avesse trovato modo di arrestarmi, quando l’opinione pubblica nel 1865 mi designava deputato al Parlamento (73). Ei m’aveva fatto senza saperlo l’onore di paragonare me pigmeo con un colosso; avendo detto ch’io non fossi semplice individuo, ma un individuo-potenza, come appunto (scusa o lettore l'immensa audacia del paragone) avea diO'Connell tribuno organizzatore del popolo irlandese detto Wellington nel 1836 alla Camera dei lordi.

Per tal guisa, io il cui vizio non è la timidezza, ebbi campo a spingermi tant'oltre nel colloquio, che fu narrato da coloro i quali orecchiavano alle porte e sentivano il mio impavido ruggito, che lor sembrai l'interrogante, il giudice l'interrogato: — io in somma Sabina non insultans et miseranti propior, egli Vitellio projectus et degener(74)... Ardimento gradito e commendato; conciossiacbè il pubblico stima l’ingegno, ma soprattutto nell’ingegno stima quella potenza che si chiama coraggio (75). — Già gli dissi a prima giunta, che viso d’uomo, fosse il più fiero, non mi aveva imposto unquemai, ne m’imporrebbe o turberebbe in eterno. Imperocché siccome i veterani non si spaventano degli oggetti che fanno paura ai coscritti, cosi a me la grandezza dell’altrui fortuna non m’impone, ne la singolarità dell'anima altrui mi schiaccia... Gli avrei potuto dir chiaramente, e non gliel dissi, che ove non mi aveva eccitato paura Garibaldi, non mi poteva intimidire un Nicolosi. Non ricordo a parola le cose solenni che in quel momento di dispetto uscironmi di bocca, e ch’essendo vere dovettero essere eloquenti; dappoiché è carattere della verità essere eloquente per se stessa. Mi ricordo si che quando l’apostrofai s'egli avesse figli, e fosser suoi, avrebbe dovuto tremare e trepidare per essi, me strappando ingiustamente dai miei figli... imbarazzato, convulso, ei cominciò a grondare di sudore; sicché nello incerto, nello inquieto sogguardare mostrò scolpita l'ansia dei rimorso. E poiché Dio ha messo in tutti i cuori, fossero i più duri, degl’istanti nei quali la bontà spontaneamente si risente e si rivela, sgorgarono lagrime in quel punto dagli occhi dei suo segretario criminale (76), cui il cielo in punimento glimponeva per testimone. —Voi, voi, gli soggiunsi allora incalzando, vi siete lasciato andare troppo facilmente a credere che bollisse una estesissima congiura, della quale me volete CAPO ; intanto indicar non sapete, come rimproverava Filota ad Alessandro, alcuna misura da me presa per farla riuscire. ne accennate ad altro che alla pubblica voce, ch’è simile all’urlo gettato nell'antro di una caverna da un uomo che passa, e ch’è immediatamente renduto al di fuori... Infame mezzo, dicea quell’uno di coloro che valsero tanto a far riverito e grande il nome d’Italia all’Europa, Gaetano Filangieri (77), con che la libertà, l’onore, la quiete del cittadino vengono ad essere esposti alla perfidia di un indegno sicofante. Voi, che dovreste persuadervi come la mia dignità non consentisse a fare il ministro plenipotenziario di notte, ne l’incaricato di affari presso delle tenebre, tira congiurati d’ogni stampo che ritenete d’esser molti, mi fate giocar la prima parte. E non avete rinvenuto né anco un meschino testimone d’udito o di viso che contro me deponesse.

Oh non più intesa

Scelleraggine orrenda (78)!

non avete per tutta prova che una denunzia di screditata accusa intenzionale

Sempre esaltata e non provata mai (79) di chi non può calunniare le azioni ed i discorsi... denunzia di tale che espia in carcere la pena di falsario (80).— Costui avendo la smania di attingere la sporca fama di Carlo Price, uno del più destri impostori di cui si trovi fatto ricordo nelle storie si è occupato di oscure frodi e di aperte accuse a mio danno. — È desso che invaghitosi del rumore che fece la congiura du bord de l'eau (81) una volta inventata da Motte-Valois (82), e volendola fuori tempo riprodurre ha osato presentare le sue macchinazioni perverse come fatti reali, e segnarne me protagonista... Ei mi ha presentato per tal uomo da fondar sue speranze sulla sventura del proprio paese; o per lo meno per un vanitoso pari allo ardito cardinal de Reti, tribuno del popolo che amava le brighe per sola voglia di brigare;—e che avendo letto nelle vite di Plutarco il nome di CAPO di parte ne aveva fatto il fine di sua inestinguibile ambizione... Ma catturare una persona seria su la fede di una calunnia triviale... supporre un delitto enorme che strascina dietro di sè tutti i delitti... cogliere in fretta alle spalle, senza prove, senza indizii, senza testimonii... priaché chiamare ad accusa, colpire con un arresto preventivo, violenza sociale soltanto legittimabile da necessità imperiosa... è commettere un giuridico assassinamento; — è un armare i tribunali non della spada della giustizia, ma dello stiletto del bandito. — Queste ultime parole pronunziate con forza e con isdegno echeggiarono sonore per la volta della sala, — e seguinne silenzio; perché il giudice ricevé i rimproveri e si tacque. Allora il colloquio si risolse in quadro drammatico vivente, nel quale io non era certamente la figura del confessore della unità d’Italia, ma rappresentava appieno quella del vero martire della libertà italiana.…dopo lunga pausa fui legalmente e brevemente interrogato. E le mie risposte chiare e precise lasciarono nell’imbarazzo l’istruttore, cui giunse imprevista la notizia ch'io nello aprile e maggio del 1865, epoca del movimento di Badia, stessi in Napoli con tutta la famiglia.


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CAPO III

Il carcere

L'alibi disturbò alquanto la trama architettata. — L’istruttore nell’accusarmi di fatti, ai quali chiaro appariva ch'io non avessi potuto avere parte, temé d’esser tacciato d’ingiustizia aperta: — e la giustizia per se stessa è si sacra e si necessaria nel successo degli affari, che quelli stessi che sono decisi a calpestarla pretendono dimostrare, almeno in apparenza, che agiscono secondo i principii di essa. Anche l’audacia avrebbe dovuto commuovere il magistrato; perché coram judice audacia saepe saepius triumphat; — non era stata però audacia quella mia; — dessa era stata forza di ragione, la quale potea far trionfare la verità, se fosse stata ascoltata dalla giustizia non dalla passione. Un uomo onesto è sicuro sempre d'esser compreso da un uomo onesto(83), ma

Quando l’argomento della mente

Si aggiunge al mal volere ed alla possa,

Nessun riparo vi può far la gente (84),

Quindi il risultamento fatale del colloquio non menò ad altra conchiusione se non a questa, cioè: che fossi gittata come uno schiavo nel circo delle fiere, ossia che fossi tradotto alle pubbliche prigioni ad aspettare che la Camera di consiglio in segreto avesse risoluto intorno al mio processo riservato...

Già la sentenza mia so senza udirla (85);

perché i miei persecutori pretendevano ad ogni costo, che apparissi causa motrice del politico turbamento; per dichiararmi in tal guisa vittima inutile di una causa perduta, e trattarmi senza meno al pari di Gualtiero Stuart conte di Athol. Riserbavansi in ogni caso a tenermi chiuso finché fossi caduto genuflesso a prestar loro l’omaggio dei vinti, e implorato misericordia della mia innocenza... Imbecilli!

Ch’io non merito oltraggi,

Ben essi il san (86);

e sanno pure che je ne erte merci qu’a Dieu, come sciamò Giovanni Desmarest a fronte della scure; anzi nel seno di mia madre, ch'è appunto la sventura, riprendo nuove forze e novella energia.— Infin dei conti, diceva fra me stesso... Voi... ma voi chi siete che tanto da me pretendete?... forse Botta, Mai, Leopardi... Niccolini, Troya, Scinà... Guizot, Cantò, della Margherita?... No—siffatte illustrazioni mondiali per eccesso di bontà e senza alcun mio merito mi hanno onorato dei loro suffragi, e taluni financo della amicizia loro... Supplite a questi nomi, se ne avete il coraggio, i nomi vostri sconosciuti.

Questi sciaurati che mai non fur vivi (87) saranno probabilmente i discendenti di quel vecchio maligno, che non avendo saputo perdonare a Tomaso Campanella l’essere stato da lui confutato e vinto, fu tra’ suoi principali accusatori a procurargli il carcere e la tortura!... Or siffatta razza d’uomini pretende che mi sberretti innanzi ad essa col vile rispetto della paura? — Eh via, scrivete i nomi vostri nel registro dei vincitori: e me, cui rincresce l’orgoglio della vittoria, le minacce dei forti faran collocare sempre al lato dei deboli. Per altro la rivoluzione è sempre proclive a servir coloro che sono passati a traverso dei suoi delitti, ma una origine innocente è ostacolo insormontabile per essa (88). Solo Teodorico re de' Goti convinto che se colla forza si vince, non si sottomette che colla generosità, non umiliò i vinti alla maniera di tutti gli eroi tribolatoti del mondo (89).

Fui adunque consegnato ad uno sbirro e trasportato alle prigioni. — Con qual animo non è mestieri che ‘ldica, ove si consideri che percorrendo la via la memoria crudele mi richiamava alla mente tutti i nomi più duri con che gli antichi avevano indicato la prigione, ora appellandola porta di Caronte(90), ora casa di Plutone(91); — e sempre cella di gemiti, — albergo di tristezza, — pozzo—laberinto(92), — baratro(93),—Lete(94)— inferno in somma, come propriamente inferno(95)in atto chiamasi al Giappone. — Pur tuttavia sostenni la sventura non con ostentazione, come la maggior parte di quei che vantano fortezza d'animo, ma né anco con lamentanze e con mestizia femminile.

Il direttore, — certo Ottavio Venturi fiorentino, mi ricevé e mi trattò con toscana gentilezza. Debbo assicurare averlo trovato ben adatto al suo posto; poiché quando ho ammiralo, non ho sentito giammai il bisogno di tacere. E manifesto ciò senza timore che altri potesse supporre che per urbanità lo dicessi; conciossiaché posso francamente ripetere il detto di Salmasi a Richelieu che pregavalo a scrivergli la vita: «io non so l’arte d’adulare.» — Anche il vice-direttore certo Giuseppe Camaiti da s. Sepolcro accusato a torlo, come pare, di avere malamente trattato Guerrazzi a Volterra, alquanto falso per carattere, ma franco per umore, e studioso di guadagnarsi l’amore di molti, burlandosi di tutti, mi si atteggiò festevole e brioso (96).

Fui da loro consegnato ad un uomo lungo e scarno come la fame, giallo come un popone, collo e volto di struzzo e naso di sparviere, che diceasi il CAPO -guardiano, carceriere-CAPO certo Giovanni Busano, nizzardo. Costui mi schiuse un cancello, chiamato porta della speranza sia per conforto ovvero per derisione; e oltrepassatane la soglia m’introdusse nella stanza a dritta, ove una specie di scriba registrò me novello arrivato, mentre un altro m’appoggiava dietro sgarbatamente un regolone dicendo a mezza voce: un metro e sessantatré centimetri; senza che mi fossi rivolto a riguardar quell’incivile, perché mi persuasi, appena entrato, ch’erano in generale tutti d’una pasta. ne così li valutai, perché dessi erano custodi; dappoiché la custodia è un mandato di sicurezza pubblica che si può e si dovrebbe onestamente e caritatevolmente esercitare.— Quella opinione, che reputasse infami i custodi pel semplice atto della custodia, sarebbe una opinione stolta del tutto ed ingiusta (97).

Alleggerito come di regola dal peso di poche monete che avea in tasca, fui di seguito condotto per l’ampio spianato ad un cancello donde mi s'indicò che volgessi su la dritta, e mi fermassi alla porta di ferro, che sta in punta della parte manca. Ivi dovei attendere il sotto-CAPO , che se ne veniva lentamente dietro, canterellando ed agitando in aria di soddisfatto un grosso mazzo di pesanti chiavi, e che mi fece, non volendo, ricordare dei versi di Manilio (98) ...immitisveniet poenaeque minister

Carceris.

Messo piede sul tavoliere, quel sotto-CAPO certo Luigi Borgogna piemontese a capelli rossi, rossi mustacci, sopraciglia folte, di figura villana, di aria malandrina, un misto di contrabbandiere e di spione, mettendomi d’improviso addosso le sue sporche mani cominciò a frugarmi e rifrugarmi; e con tanta mala grazia che su di me sento ancora sì vivo il formicolare di quelle mani, quasi fossi stato tocco dalle granfie infocate di Satana. — Poiché mi ebbe sazievolmente perquisito squadronami in viso coi suoi occhi verdastri, duri, senza sguardo, aperti per metà, e mi richiese con ridicolo sussiego sul mio onore se sopra di me nascondessi cosa alcuna... Allora con sogghigno sprezzante e con isforzata pacatezza a denti stretti: monta, gli dissi, buffone, or che hai fatto il tuo da fare. E coll'indice della mano destra gli segnai l'angusta scala, per la quale preceduto da lui montai mogio mogio, col CAPO a quando a quando tentennante.

Oltrepassati due cancelli, giunsi allo affumicato corridojo che s'appella dei civili. Son ivi dall’un lato e dall’altro alcune tetre, luride tombe di esseri viventi, nelle quali non il sole ma il vento, e un flebile chiaror di luce penetra da alte finestre senza vetri, aperte sopra giacitoi, i quali non servendo per cani, non si possono con proprietà di linguaggio, e pur lo si dovrebbero, appellare canili.

Introdotto nelle squallide mura di un abituro segnato 20, mi avvidi che dovea ohi sa per quanto tempo vivervi e vegetarvi in una specie di panteismo, a vedere inerte e veloce sparire il torrente rapido della propria esistenza; senza che il corso ne fosse arrestato dagli anni pesanti. Giacché questi anni pesanti non sono ancore, le quali si gittano nelle onde del tempo.

Appena entratovi mi abbandonai su di una sedia com’uomo stanco e rifinito per lungo e faticoso viaggio, colla fronte bassa e gli occhi socchiusi; — e per buona pezza pari a Fazio degli Uberti rimasi

... come

Mozza la lesta, poi rimane il busto (99).

Indi girando lentamente lo sguardo mi vidi accerchiato da parecchi compagni di sventura, i quali non riflettendo

...quanto sien brevi

E dubbii i doni della instabil sorte (100),

facean le maraviglie del mio caso. E dimenticavano l’adagio: che questo mondo è fatto a scarpette, chi se le cava e chi se le mette (101).

A dir vero avrei voluto allontanar tutti colle parole di De Fontanes

Laissez-moi ma tristesse

Et ne l’insultez pas...

23 ma essi mi si stringevano pietosi, essendo al pari di me infelici, e

...gl'infelici

Pleiade han sempre delle altrui sventure (102);

senza che perciò recassero conforto. Imperocché é menzogna da far fremere d’indegnazione che

Aver compagni al duolo è gran consuolo (103),

comò proverbio insensato e crudele «mal comune mezzo gaudio,» — Qual mai consuolo ad un animo sensibile può offerire l’angoscia di tant’altri che portano il giogo della stessa tirannia? — Facilmente si piange dagli sventurati alle sventure altrui, ma dura poco il loro pianto; perché le tribolazioni proprie consumano tutto il pianto, e questo qualche volta non basta. Ha poi ogni core dei secreti diversi incomprensibili ai cuori degli altri; per la qual cosa ciascuno soffre dolori speciali, ognuno ha le sue pene rispettive, le quali aumentando il peso delle sofferenze comuni fanno si che lungi di recar conforto

comunica sventure

La compagnia degl’infelici! (104) Nè le proteste di affetto che si vanno a poco a poco suscitando pel riconoscersi a vicenda amici di amici comuni valgono a suscitare sensi veri di dolcezza. Imperocché non c’è dubbio che

Les amis de nos amis sont nos amis (105);

ma è indubitato che ciascuno non parlando che di sé cagiona agli altri noja profonda; onde queste amicizie improvvisate, ivi stesso muojono ed hanno tomba ove hanno avuto la culla.

Un tavolinuccio di legno, una colonnetta, due sedie mal ferme, un’anfora, un bacile, un innominabile mobile che rende più umiliante la dimora... ecco il sito concesso a pagamento al prevenuto civile!... ceco l'oasi di questo deserto popolalo di gente civilizzata come i barbari, e barbara come i civilizzati (106).

Un'ampia finestra senza vetri sta sulla dritta del corridojo, esposta alla pioggia, al furiare dei venti, agli ardori del sole, all’afa insopportabile dello scirocco secondo le stagioni. Dietro le grosse sbarre di essa è permesso sedervi; ma ivi gli occhi corrono attristati d’orrore profondo alla stanza ch’è all'angolo in faccia. — È ivi lo abbominevole strumento della vendetta sociale che fu instancabilmente esercitato dallo umanitario Robespierre, riottoso proclamatore dell’abolizione della pena di morte, appunto come lo sono gli umanitarii di oggidì, i quali strimpellano per abolir la pena capitale, con una sensibilità che può dirsi estrema... mentre fanno scannare senza posa pel gran bene della specie umana.

In fondo al corridojo è un altare, sfornito di tutto il bisognevole... ricordanza di tempi retrogradi ormai felicemente trascorsi.

Lasciato in pace, mi accovacciai nel fondo della cella, fiero e sdegnoso

A guisa di leon quando si posa (107),

sospirando la notte — e inneggiandola mestamente colle seguenti parole di Alfieri (108):

Notte, o tu, che regnar dovresti eterna

In questa terra d’ogni luce indegna,

Del tuo più denso orrido vel t'ammanta.

Indi a ben lunga angoscia, socchiusi stupidamente le palpebre, e cessi a quell'agitata sonnolenza, ch’è diversa ahi quanto! dal sonno riparatore e dalla calma. In quel mentre le lagrime scendevano chete chete, smunte dalla oppressione del cuore che non trovava altra via di sfogarsi. — Ciò che m’era refrigerio, essendo vero pur troppo quel che da esperto espresse Ovidio (109):

...est quaedam Acre voluptas

Expletur lacrymis, egeriturque dolor.

Però cessando le lagrime la tristezza non cessava, perché lamenta ac lacrymas cito, dolorem et tristitiam tarde ponunt; e il mio maggior cordoglio proveniva dall'amarezza che prevedeva avessero a provare in Napoli i miei cari. Questo dolore ch'era grandissimo, perché

Dolor qual mai si agguaglia

Al duol di padre e di marito? (110) non potea consolarsi, ne manco esprimersi con grandi parole; conciossiaché le grandi parole, diceva Thomas, esprimono debolmente i grandi dolori. ‘Certo è ch'io non aveva avuto mai nella mia vita il cuore avvolto in una maninconia più profonda: — e questa mi si rendea più grave per lo peso degli anni. Nella primavera dell’età ogni sventura è lieve, vedendosi tutto a traverso del prisma di lusinghiere speranze; ma nella maturità i giorni accordati all'uomo essendo giorni di grazia, anzi nulla essendovi di più incomodo che una semi vecchiezza, questo prisma non brilla (111).

Compresso adunque dubitai che in quella prima notte nel carcere non avrei saputo resistere contro l’avversa fortuna. E cercando esempli a fin di confortarmi, or mi rimembrava dell’infelice La Harpe... e ora dello sconfortato Carlo Botta, che stretto nelle prigioni di Piemonte sconsigliava chiunque di versarsi giammai nei politici imbarazzi. Incarnandomi però nel pensiero di Giovan Pierio Valeriano (112) considerai che se essi ebbero molti che alzarono la voce a detrarli, i nomi dei detrattori di loro sono rimasti nel fango e nell’oblio, mentre la fama dei perseguitati è cresciuta più bella... Oh sì davvero! — agli occhi degli avvenire non sono belle che le esistenze ingiustamente infelici! La lietezza terrena scade di pregio dopo la morte — morte senza di cui diceva Tasso moriente, non vi sarebbe al mondo nulla di più miserando che l’uomo. Fra tanta angoscia adunque trovai mezzo di scrivere a mia moglie a fine di rassicurarla; e ’l domani al giungere di un vapore supposi l’impossibile arrivo di lei provocato da un telegramma che mio figlio nella sua afflizione avea diretto a Napoli. Mi aggrappo allora alla grata del corridojo, donde a traverso vedevasi il porto, ma ove non iscorgeva che creature la cui pelle impregnata di sale è rossa e rigida come la superficie dello scoglio battuto dalle ondate — e soldati e coscritti che s’imbarcavano per la guerra della quale farò cenno in appresso. Già di essa nulla mi caleva in quel momento, nel quale ne m’importava dei campi di battaglia, ne dello scrollamento dei troni della terra, ne del rovesciamento di tutto l’universo. — Poco di poi vidi arrivare un piroscafo postale su cui perveniva il novello prefetto.

Era stato traslocato da Palermo a Napoli il prefetto marchese Filippo Antonio Gualterio, ove appena giunto avea fatto arrestare i quattordici vescovi di quella provincia (113). Questo scrittore logomachista (114) comparso sulla scena politica italiana in settembre del 1847 avea partecipato al trionfo conseguito dai romoreggianti che espulsero il gran duca di Toscana. Ei credeasi un Macchiavelli o un Guicciardini trapiantato nelle Due Sicilie, come lo si era creduto una volta fra Paolo Sarpi in fondo alle lagune. Eppure chi gli volesse far grazia di paragonarlo a Vibio Crispo, e valutarlo generosamente colla rettitudine severa di Tacito, potrebbe annoverarlo potentia, ingenio, inter claros magis quam inter bonos(115). — Arrivava in sua vece per seconda volta prefetto di Palermo l'imbarazzalo cavalier Torelli, che si diceva un genio amministrativo, e ch’era uomo mezzano, sprovvisto di sensibilità e d’immaginazione; senza le quali doti non vi può essere unquemai ombra di genio. Parve a me travedere a bordo vicino a lui mia moglie e ’l mio minor figliuolo, e divenni convulso e caddi fuori i sensi.— Fu fortuna che non sia stato vero l'arrivo; onde ebbi tempo a dispormi acconciamente per rincontro effettivo che ora passo a narrare.


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CAPO IV

L’incontro

Una campana squillante a tutte l'ore, — uno scricchiolare continuo di chiavistelli,—un’oziosità opprimente, mortale, inevitabile,— una incresciosa gravezza, nel carcere mi stringevano il cuore, mi affievolivano la mente, mi rendeano inefficaci e fin fastidiose le lettere, — questa cagion principale di purissime gioje, questo rifugio dell’avversa fortuna. Davvero

... cessò mia vera vita

Dal punto in cui mia libertà cessava! (116)Però non v’è cosa al mondo per orribile che fosse, cui l’uomo non si adusi; perché la forza del sacrificio si acquista imparando a soffrire (117)....Mi adusai adunque allo stato novello, e fino consolandomi della speranza di essere libero un giorno mi proposi continuare i miei ricordi e profittare della prigionia. Convinto che l’occupazione è un bisogno dell’uomo, bisogno che la cattività rende imperioso, mi feci vivo e movente; e la vita e ’l movimento dierono libero corso alla febbre del pensiero, il cui esercizio innovella le fisiche forze. Però il manco di sonno mi era supplizio crudele; conciossiaché la immaginazione mia era forse più forte della mia lassezza.—Che se talvolta la natura vinta da stanchezza richiama un cotal poco a quiete i sensi miei, immerso allora in malinconici concetti, orridi sogni

Più mi travagliai! che le lunghe veglie! (118)L'ostinazion mia adunque ad occuparmi divenne prevalente, e misi la pazienza a tutta prova: mi sobbarcai financo al monotono passeggio nel ristretto spazio ch’era a forma di trapezio, con una muraglia sul far della cinese, oltre alla quale non iscopriasi cosa alcuna. Vidi colà realizzarsi il fantasma dell'uguaglianza sociale—fantasma, non altro; perché il disprezzo per la umanità povera si presenta generale presso coloro, ai quali la filantropia artefatta, la quale è antipatica assai, sta nella bocca melata, a pompa di leziosità umanitaria... e ‘lfantasma sparisce.

Un giorno stando a cerchielli coi compagni, nell'ora del passeggio, traversò la via il mio conosciuto accusatore. — A cotal vista

Perl’ossa un gelo universal trascorre (119),

e tutti con grido spontaneo di rabbia forsennata sciamarono:

Giuda tre volte... accelera

Via per la selva il piè (120).

E siccome egli aveva il CAPO coperto di cappello, contro l’usanza del luogo, un tale da una finestra che sulla voce ai gridanti dicendo:

Va sciagurato, cala il cappello (121),

soggiungendo sonori fischi ed urla prolungate. — Ai fischi, agli urli colui affrettando il passo

Sen gio come persona trista e matta (122).

Commosso e stordito anch’io gli lanciai uno di quegli sguardi che non si dimenticano mai... ma l’ira mia subito s'estinse, perché

Bollor non dura entro alle vuote vene(123);

e i miei occhi si velarono, anzi divennero mesti. Oppresso, interruppi il passeggio, risalii a gran passi la scala, e dirigendomi difilato all'altare derelitto

... mi rendei

Piangendo a quei che volentier perdona (124),

...e perdonava!... senza che per questo mi credessi un eroe. Conciossiaché non è già anima grande quella che perdona, ma quella che non ha bisogno di perdono.

I miei compagni seguirono le pedate mie, e nel vedermeli intorno taciti e compunti, dissi loro: perdonate

... un uom che offende

Scemo ed ebbro ha l’intelletto (125).

La sventura insegna agli uomini la loro debolezza e unisce i voli loro; quindi tutti sciamarono

... o Signore!

... ci concedi

D’amar sempre e perdonar (126).

Per tal guisa riconfortali da spirito religioso recitammo le preci alla Vergine-madre, cui si sono rivolti e si rivolgono in ogni tempo i cuori dei mortali. Dappoiché la madre del Redentore accessibile a tutti, a tutti offre la sua inesauribile clemenza, e dei bisogni di ciascuno amplissimo quodam miseratur affectu, secondo la espressione di s. Bernardo (127), il quale, essendo stato senza saperlo e suo malgrado (128) grand’uomo e gran genio, esercitò sul suo secolo un'autorità senza pari, e regnò colla forza dell'eloquenza, della virtù e del coraggio (129). — Questo convegno fu riprodotto ogni sera con silenzio e con raccoglimento, quasi usanza vetusta. Esso servì ad alleggerire le pene d'uomini che non per ippocrisia, ma con sincerità si prostravano innanzi al Creatore, la cui

Bontà infinita ha si gran braccia,

Che prende ciò che si rivolve a lei (130).

Sopravvenne intanto la domenica, ed io richiesi ingenuamente ove dovessi condurmi ad ascoltare la istruzion religiosa; avendo letto di recente che la negligenza della istruzion religiosa nelle prigioni di uno stato che sì desse nome di cattolico lo covrirebbe d’una nota d’infamia(131). Ma un riso beffardo fu la risposta a questa mia domanda; quasi a persuadermi che la religione divina, la quale non altera ma perfeziona la morale, non distrugge ma garantisce la società e l'ordine pubblico (132), fosse privilegio esclusivo della gente onesta; mentre è dessa bisogno indispensabile per tutti, balsamo per tutti i nostri dolori, oggetto per tutte le nostre tenerezze, ed unico mezzo col quale è sperabile che s’indietreggi nella carriera del delitto ch’è infelicemente progressiva. Giacché la riforma morale dell'uomo non è possibile, diceva lord Stanley (133), che possa essere risultamento di un meccanico processo.

Scorato mi limitai quindi a chiedere donde potessi almeno assistere alla messa. Oh! quanto alla messa, mi fu detto a fior di labbra, puossi vedere a sbieco dalla latrina del proprio corridojo. E da quel sito indecoroso dovetti presentarmi in faccia dell'altare; ne ivi seppi elevar la mente a Dio, perché un pensiero fisso cominciò a rodermi la mente... Qui dunque, dicendo fra me e me indegnato, debbesi essere ateo ed ozioso?.. Nel medio evo che fu un’epoca di fede, di lotta, di discussione, di dignità, e innanzi tutto di libertà (134), nella preghiera e nel travaglio si riconosceano le occupazioni rispondenti alle due nature, di cui componesi la esistenza nostra: — ora et labora... Oggi queste massime di tempi ridicolosamente disprezzati sono un’anticaglia, non volendosi ritenere che il fondamento unico di quiete e d'onestà fosse il principio religioso.—Eppure sarà vano e vano sempre pretendere di far morali gli uomini coi soli spedienti di governo civile, la cui autorità non può assumere tale mandato... come sarà sempre vero che *1 lavoro nobilita e che l'ozio avvilisce (135).

A questi riflessi che sgocciolavano l’uno sull'altro mi fermai; — temendo d’aberrare, perché secondo Esopo la riflessione è un arco che, quando si tende forte o lungamente, d'improvviso si spezza. E Iddio credo accogliesse la voce delle mie secreto sofferenze; perché le sofferenze sono anch’esse una preghiera.

L’indomani venne mio figlio ad accertarmi che la mia famiglia quel giorno s'imbarcava; onde passai in veglia la notte, e allo spuntar dell'aurora mi collocai dietro la grata, dalla quale si vede la riviera. E cominciai a seguire colla mente il meccanismo dello imbarco, lieto che fossero placide le acque e ‘lvento soave... ora tendeva le orecchie quasi cupo cupo sentissi il fragore delle ruote che spezzavano Tonde... ora credea vedere gli spruzzi e risentirne la brezza... ora mi parea di avvertire quel tonfo speciale, che Tacito appella sonum immergente.—A quando a quando spalancava gli occhi aguzzandoli sino all'orizzonte... e alitava... e sospirava... e avea dipinto in viso

Il pallor della morte e la speranza! (136)Il cuore, quest’organo che in me sarà l’ultimo a morire, come madama Maintenon diceva del cuore di Boufilers compagno di Turenna, palpitava si forte che pareami scoppiasse. L’idea di dovermi presentare in quell’abiettezza alla mia famiglia, la quale dovea senza meno venirmi incontro con le mani sporgenti, mi rimescolava il sangue.— Settantasette volte maledetto l’uomo che condanna l’uomo a disperarsi l'anima dentro simigliante avello, aveva imprecato nel forte di Volterra l’iracondo Guerrazzi (137)... Io però tuttoché non avessi lasciato di esclamare come Augusto (138): o utinam celebs vixissem, orbusque perissem, pure mi confortava coi Soliloquii sublimi del portoghese Alvarez de Andrada, composti in una tetra prigione (139), e colle tenere pagine di quel Pellico (140), al cui nome ogni anima sensibile a pietà si commove. Onde infine dissi a me stesso risolutamente:

...non nella pena

Nel delitto è l’infamia (141);

né la sventura degrada l'uomo s’ei non è dappoco: anzi talvolta son da compiangersi più i vincitori che i vinti, più gli esultanti che i mesti. Cosi fui al caso di potermi presentare, colla serenità dell’innocente, colla tranquillità del rassegnato, col contegno ilare del padre che rivede la sua reduce famiglia.—In tale attitudine avverto nell'atrio lo strepito di parecchie carrozze, e veggo prima la mia che somigliava a quella di Adriana Cardoville descritta da Eugenio Sue (142). E vedi bizzarria di mente... mi rallegrava il colore azzurro del blasone mio!.. Quel colore proprio del cielo — quel colore che ha detto Montlosier essere il colore della vita — quel colore della fazione guelfa, ha nell'araldica un bel significato. Esso importa zelo nel bene operare, perseveranza nelle imprese, saviezza in amare, cauta promessa (143).

Solo mi straziava il motto dell'arme di mia madre, la cui famiglia ha per istemma un cuore con la divisa espressiva: avulsum rabesco! (144)... era proprio l’emblema della mia posizione straziante!! — Abbracciai tutti carezzevolmente, ricevei l’amplesso di tutti, evitammo tutti

Di sospirare e di morir di pianto (145).

Mia moglie nello abbracciarmi ristette alquanto guardandomi fisso, quasi avesse voluto dirmi:

Io lacrimar non oso

Nell’abbracciarti, che ’l tuo pianto io veggo

Da viril forza raffrenato starsi

Sopra il tuo ciglio (146).

Il pennello di Rubens non avrebbe sdegnato ritrarre con la sua consueta magnificenza d'effetto, con l’entusiasmo e la varietà della composizione questa commovente scena. Partecipava ad essa pur con interesse il mio vispo cagnolino Monsiewr, che parea procreato sullo ideale Monsiewr della principessa Saint-Dizier (147).

Ci dividemmo, augurandomi che spesso sarebbero venuti a rivedermi; nissuna faccia riuscendo più stupenda agli occhi del padre quanto quella dei figliuoli suoi: — ne la gioja che nasce dal rivederli viene meno giammai. Allontanandomi ci turbammo, — sparve la calma apparente, e io rimontando per la scala sentii lo infrenato singhiozzare dei miei... singhiozzare inutile, perché la porta del carcere è come la porta del sepolcro, sulla quale è vano il piangere, diceva Properzio (148),

Panditur ad nullas janua nigra pretes.

Piansi ancor io, perché alla mia età, scriverà Chateaubriand (149) on n’a guère que des larmes; e

Null’altro che pianto al mondo duca (150),

perché infin dei conti è il pianto la nota dominante dei lamenti umani. —Né v'è speranza che il pianto cessasse giammai; dappoiché quand’anco tutti i dolori creati giungeranno a tacersi, esso continuerà eterno nell'eterna bolgia!

Ma qual rimedio? — Il cuore è di carne, e se esso prova amarezze cocenti, se gli occhi spremono involontarii le gocce del dolore, non è vietato di piangere. Cristo stesso immerso in un mare di pene provò quel sentimento di repugnanza che fa indietreggiare dinnanzi alla sciagura (151), ed ei c'insegnò che son beati i piangenti, ma che verranno consolati. Noi in verità vorremmo seguir Cristo fra gli splendori del Taborre, non nelle amaritudini del giardino degli ulivi; però bisogna persuaderci che il miglior precettore degli uomini sia la sventura, la quale distillando gli occhi tempera il carattere.

A questo punto fo sosta, avendo mezza paura di diventare un po’ troppo Geremia.


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CAPO V

Il traslocamento

Sia per l’aria, sia pei disagi, sia per le commozioni ricevute — certo per una causa possente, mi si svegliò quel mal di gotta, che spesse volte mi ha minacciato mortalmente. Erami duro non poco infermarmi in una tomba più tetra di quella destinata al mio frale, e ove spero riposo... Veramente non ho mai creduto che avessi dovuto essere sepolto nel mele come i Babilonesi (152), ma né anco sotto un diluvio di pietre come i Trogloditi (153). Detesto le tombe vanitose, ed ho sempre ammirato la sapiente sentenza del filosofo Frontino diretta al suo discepolo Marc’Antonio: impensa monumenta supervacanea est, memoria nostri durabit si in vita meruimus, ma un sepolcro modesto in luogo sacro, lo pretendo, lo voglio, e me l'ho fatto vivente (154). Solo ai traditori della patria per pubblica legge si negava una volta sepoltura (155); solo i ribaldi e gli scellerati dal governo teocratico si condannavano alla pena d'essere seppelliti cogli asini — sepultura asini sepelliantur...

Forse avverrà che neghi

A me pure un sepolcro invida sorto,

Ma non Ila ch’io mi pieghi

A crederla si cruda oltre la morte! (156)Scoraggiato di vivere, mi parca nella mia feconda immaginazione, ch’è grande maestra di torture, prossima a discendere su di me l'eterna notte. E mi si svegliavano in mente le amare frasi del poeta polacco Zarviski:.. «una mano ignota chiuderà le mie pupille... il tintinnio d'una campana (157) sconosciuta annunzierà il mio trapasso... voci che non saranno quelle dei miei cari pregheranno per me!..»: queste frasi mi saettavano come vere stilettate da farmi fare uno sbalzo effettivo. — Chiudeva gli occhi e l’orrida stanza mi sembrava ripiena delle ombre funeste dei miei estinti congiunti, venute a condurmi nell’asilo dove finiscono tutte le querele; richiamandomi al vivo le danze della morte maravigliosamente espressive del celebre Holbein. La morte in realtà consolar ci dovrebbe, non già perché ci libera da tutte le miserie di questa vita, ch’è ciò di cui gioiscono i barbari delle Canarie (158); ne manco perché fra tanti beni favolosi ci farà lieti d’un convito, ove si avrà un toro che s’ingrassa sin dalla creasnae del mondo, un pesce che occupa un intero mare, e un uccello che spiegando le ali oscura il sole, come agii Ebrei moderni fa imboccare il Talmud (159); mi perché essa ci persuade chiaramente che il Creatore non ci ha dato per fine supremo i miserandi vaneggiamenti di quaggiù, e ci ha diretto a più sublimi destini.—Noi ricusiamo di riconoscere la morte per amica nostra, dacché essa ci si presenta mascherata; e la sua maschera spaventa, giacché ogn'uomo strascina sempre dietro di se una lunga catena di speranze deluse. Pieno di raccapriccio allora desiderai un medico ed un prete; ma un solo medico ed un frate prestavano l'opera loro ad un numero di detenuti, che per ordinario montava a due migliaja (160), in quello edificio che si presta a stento a contenerne metà. — Ciò che vi rende probabile lo sviluppo delle malattie perniciose che fanno strage degli infelici prigionieri (161); fra le quali è spaurevole il tifo speciale che appellasi febbre di prigioni, prodotto appunto dalla calca di uomini e dalla mancanza di nettezza: — e ’l timore di poterne essere contagiate distorna l’accedervi alle autorità di sorveglianza (162).

Avvertissi adunque che in tal modo io mi sarei ridotto ah fantasma errante al chiarore del giorno. E poiché la salute è quel bene senza del quale rimangono inefficaci tutti gli altri, sicché ben a ragione fu detto che non est census super censum salutecorporis(163), si pensò farmi trasportare altrove, profittando delle prescrizioni del codice penale (164). Fu compilato il verbale medico di uso; ma l’istruttore Nicolosi lo mise da canto, e si dové insistere perché il tribunale spedisse un giudice e due altri medici per rivisitarmi (165). Avendo costoro favorevolmente riferito, si seppe l'indomani che sarei passato allo spedale civico della Concezione. ne propagava la nuova il direttore, il quale soggiungeva aver saputo da sicura fonte che Quintino Sella, allora in Palermo, si fosse di me spontaneamente interessato, e avesse spinto il fisco ad ultimare l’interminabile processo. E che alle scappate di quel magistrato di ventura, di quell'uno dei moderni Gracchi, sicuri di non essere gittati nel Tevere o pugnalati nel bosco delle Furie, come i Gracchi antichi, avesse risposto parlando di me, come del duca di Broglio avea detto Alfonso La Martine: «io non amo quest’uomo, perché non lo conosco, ma io lo stimo». In prova di che avrebb’egli soggiunto che quand’ei s’ebbe per prima volta il portafogli di finanze (166) me avea designato Ispettor generale del Tesoro... ne io a dir vero meritava siffatta benevoglienza per l’incompatibilità assoluta della mia natura.—Ciò però servì a confermarmi nell'idea, che la mia inflessibilità d'umore e di principii se non è a molti piaciuta, non è a tutti riuscita discara. Ma quanto al suppormi ambizioso, è stato un vezzo maligno delle mediocrità d’anticamera, da gazzette e da caffè... Inganno che s’è accolto facilmente, in tempi, nei quali la sete delle cariche è insaziabile, come lo era all’epoca della romana decadenza; nella quale, diceva Seneca indegnato, i cittadini non contenti delle cariche tribunizie aspiravano alle pretoriane, ne paghi di queste aspiravano con ardore al supremo consolato (167).Sefosse vero ch’io avessi dell’ambizione, oh non è questa affatto l’ambizione degl'impieghi… ma mi vergognerei se per soddisfare siffatta mia ambizione dovessi usare le arti miserande svelate dalle opere di Lilienthal (168), di Bianchini (169) e Paganini (170),— arti che son pur troppo comuni in questa età depravata. A me che sono risoluto dormire saporitamente a lungo, come Epimenide, diletta soltanto il ritiro, lo studio e la quiete; ed aborro quella folla pronta sempre a farvi ovazioni e condoglianze, e pronta del pari a rinnegarvi per malignità o per paura.-—Folla incapace di riconoscenza, folla di uomini, i quali

Or superbi, or umili e infami sempre (171),

non vanno in cerca di altro che dell’oro, e trovano financo comoda la politica per servire di pretesto e di scusa alla ingratitudine più nera, la quale in questi tempi è tale e tanta, che a fare il bene bisogna proprio alzare gli occhi al cielo. Non perciò ci dobbiamo privare delle delizie del conversare innocente con pochi antichi e scelti amici, cui sarebbe stoltezza dar commiato per soddisfare la maldicenza altrui (172). La quale idea espresse Molière (173), felicemente ispiralo, nei seguenti versi, la cui melodia è bene che interrompa questa mia povera prosa:

Ce serait dans la vieune faucheuse chose,

Si, pour les sots discourt oùl’on peut être mis

Il fallait renoncer à ses meilleurs amis.

Et quand mème on pourrait se resondre a le faire

Croiriez-vous obliger tout le monde à se taire?

Contrela médisanceiln’est point de rempart.

A tous les sots coquets n’ayons donc nul égard,

Efforçons-nous de vivre avec tonte innocence

Et laissons aux causeurs une pleine licence.

Fatto sicuro del traslocamento, volli segnare un labile ricorda della mia dimora in quel sito di squallore, ov'era stato rinchiuso. E tracciai sulle pareti della cella col carbone una epigrafe, che fu assenza d’angoscia spremuta dal cuore; ma non rampogna suggerita da rammarico, da ira o da tristezza. Giacché non mi ispirai a quella orgiaeffumée, a quella ripaille bourgeoise, a quel réveillon de Noel (174) che è la vita di Gargantua e di Pantagrael di Rabelais (175); — nemmeno al trattato dette ingiurie o al povero diavolo di Melchiorre Gioja... ne il carbone che tenni nelle mani alludeva affetto alla vendetta di Rapin: esso era spento e non fumava. Io m'ispirai invece nei Promessi sposi di Manzoni, il cui scopo è stornare il lettore da ogni vendetta personale e da ogni desiderio di farsi giustizia da se stesso, tallo sventure e nelle persecuzioni.

L’epigrafe fu in questo modo da me concepita:

PER NEQUIZIA DEGLI UOMINI

VITTIMA DI ASSASSINIO GIURIDICO

QUI STETTE

NEL MAGGIO DEL 1866

IL MARCHESE VINCENZO MORTILLARO

SOSPINTOVI

DA POLITICA PROCELLA

E TUTTI SORPRESI

IL CODARDO ATTENTATO

CONTRO UN CITTADINO

REO NOND'ALTRO

CHE DELLE SOLLECITE CURE

VERSO AMOREVOLE RIAMATA FIGLIOLANZA

TRANQUILLO NEL CARCERE

EI NON DISPREZZO COMPIANSE GLI OPPRESSORI

DOLENTE

DI NON POTER TANTOSTO RICOMPENSAR COL BENEFIZIO

L'ONTA CRUDELE

CANCELLATA DAL PERDONO.

Se avessi avuto a lamentare non che la perdita della libertà, ma pur quella della vita, avrei nell'ugual modo conchiuso; dappoiché trovo che sia più difficile perdonare l'ingiuria che l'oppressione, tollerar l’onta che In morte: infetti del rinomato Quel chefu avvertito che non iniuram,sed mortem patienter tulit. — E poiché non mi perito a professare apertamente lo mie religiose convinzioni, dichiaro con incrollabile credenza, che siffatta tolleranza nasce dalla persuasione che gli uomini e le cose, le ingiustizie ed i processi, la povertà e le afflizioni; tutto ciò infine che arreca sofferenza è strumento della Provvidenza divina, — Provvidenza che fa sempre bene quand’opera, e che opera ciò che vuole, senza che alcun ostacolo fosse capace di ritardare l’esecuzione dei suoi voleri.

Giunse é pur vero la setta stoica ad affettare la pace in mezzo delle ingiurie; e l’illustre Focione disprezzando i nemici bevve la cicuta, e seppe prescrivere ai suoi figli l'oblio dell'ingiustizia cittadina, che poi si volle riparare ergendogli statue e trofei, che taluni stimano insulto maggiore;

...chétardo e vano omaggio

A chi visse oltraggiato è novo oltraggio (176).

Anche Cesare per politica sollecitò il consolato di Calvo che avevalo offeso con frizzi ed epigrammi; ed offri abitazione principesca nel proprio palazzo al padre di quel Catullo che l'aveva diffamato.

Né son pochi coloro che anco per amor di riposo amano meglio, come Giovanni Michele Sailes (177), essere calunniati per dieci anni, anziché consumare un giorno a difendere la propria innocenza, e tollerano e fin dimenticano le offese.

Nulla però di eroico e di sublime evvi in tanta diversità di motivi. — Il solo credente nel vangelo divinamente perdona; e perdonando benefica, pronto a sopportar l'oltraggio e la morte, anziché desiare o provocar la vendetta! — Eroismo stupendo, di cui non altri che un Dio poteva dare all’uomo il modello e la forza(178). Or chi non istima un romanzo la fede, ed aspira al giro eterno dei secoli beati, fa d'uopo che si conformi a queste massime d'una morale pura e celeste, che comanda l’indulgenza, che ordina di render bene per male, e che conduce alla virtù col vincolo delicato dell'amore.


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CAPO VI

Teoria delle prigioni

Prima di continuare il mio racconto e mestieri alleggerirmi d'un far* dello. Non posso abbandonare le prigioni. e non dire almeno una parola intorno alla teoria delle stesse... Debbo già per questo rendere grazie agli eroi moderni del paese mio; senta dei quali avrei indubitabilmente lasciato la vita, ignorando che cosa fosse la prigione; e mi sarebbe mancata questa alcerto non ultima prova. A tanta delicatezza ho potuto riconoscere appieno la bontà, la generosità, la giustizia, l’onore, l'umanità, i sentimenti liberali degli odierni peaniferi di piazza.—Forse la prova fu corta, ne saziò le loro voglie; ma la detenzione durissima che mi federo io Seguito soffrire nel carcere-spedale fu lunga, e avrebbe dovuto soddisfarli.

Il carcere fu riputato sempre luogo infame; e vi furono tempi nei quali infamato ritenevasi nella opinione generale financo chiunque, reo o non reo, vi fosse Italo rinchiuso per un poco (179). Eppure nelle carceri sono stati rinserrati in ogni tempo uomini di probità specchiata, di fama immortale, di sapienza sublime! Poi dall’ottantanove addì nostri i dominatori del giorno vi hanno relegato tutti gli uomini superiori di mente, dei quali o non hanno saputo giudicare il merito, o non hanno potuto sostener lo splendore. Diguisaché riuscirebbe utile ed istruttivo riepilogarne le vicende, e metterle in contrapposto all’opera di Titon du Tillet (180) che s’occupò degli onori resi ai letterati. Molto più che sventuratamente sarà sempre cosi; essendo la storia non altro che una ripetizione dei medesimi fatti, applicati ad uomini ed a tempi diversi. Vero è intanto che la prigione se priva della indipendenza, del domestico focolare, degli amici, della fortuna, non può privare dell’onore: — questo sfugge a qualunque tirannia, come l'anima dei martiri, la quale, mentre il corpo era sbranato dai leoni, scappava per la volta è conduceva seco tutto l’uomo. — Quello di cui non puossi dubitare egli è che in modo infame sono stati sempre trattati nel carcere i detenuti, e ve lo saranno dove più, dove meno.

I papi che hanno la missione di sostenere la causa della morale oltraggiata, e di far temere alla potenza terrena la giustizia divina;— i papi che rappresentarono l’indipendenza politica distrutta dapertutto, e nel mondo gotico furono i difensori delle franchigie popolari, e nel mondo moderno i difensori delle libertà pubbliche d'Italia, e i ristoratori delle scienze, delle lettere e delle arti; — i papi che Ugo Foscolo non solo volea che regnassero sempre in Italia, ma che vi regnassero difesi dagl’Italiani all'ultimo sangue (181); — i papi furono i primi (182) a concepire il miglioramento del carcere, il quale in realtà non fu inventato che per ritenere non per torturare i prigionieri (183). Sia lode dunque ai papi; dappoiché ogni qualvolta si tenta di fecondare un pensiero di bene pubblico non si deve omettere giammai di prestare l'omaggio della riconoscenza a coloro ch’ebbero il merito della iniziativa.

Sino alla prima metà del secolo trascorso non crasi pensato che alla sola sicurtà delle prigioni: fu d'uopo degli scritti di Beccaria e di Howard, ad abbattere i quali a nulla valse l’opera di Muyartde Vouglans (184), per attirare l'attenzione sul carcere. Allora si cominciò a pensare alla sanità, al travaglio, e in seguito alla sorveglianza, alla istruzione morale e religiosa delle prigioni; — quindi alla figura dell'edificio. E se ne costruirono a raggi, a stella, a ventaglio, a mulino a vento; mentre prima costruivansi a forma quadra o rettangolare, come può ben osservarsi in tutte le carceri antiche, a cominciar dal Mamertino, ch’è l'avanzo più vetusto di fabbrica romana, il quale andando al Campidoglio dalla parte del Foro trovasi alla dritta. Esso fu fatto costruire da Anco Marzio successore del terzo re dei Romani Tulio Ostilio nell'anno 640 innanzi l'era volgare (185); e indi Servio Tullio vi fece scavare sotterra altre più crude latebre pei criminali di state, nei quali perirono Giugurta e i complici di Catilina.

Dopo dell'Italia si fecero riforme in America, ed anche in Inghilterra, il cui popolo eminentemente pratico possiede, secondo la felice espressione di Guizot (186), il genio del buon senso(187). Si parlò di riforma penitenziaria in Francia, e se ne parlò forse troppo, senza che l'esito avesse corrisposto ai divisamenti vantati; essendo quistione difficile assai quella della riforma delle prigioni, e questione essenzialmente pratica per sua natura (188). Colui che può dirsi l'avesse operata in effetto fu Gasparin nel breve periodo del suo ministero (189); — e le carceri centrali di Fontevrault e di Monpellier divennero carceri-modello.

Però in tanta profusione di dottrine, in tanta immensità di progetti, in tanto lusso di teorie, poco o nulla si è trattato delle regole speciali per lo imprigionamento preventivo al giudizio. Quasi ciò fosse un fuor d'opera, o un'eccezione impercettibile e fugace, si ècreduto di essersene detto abbastanza, coll’essersi accennato di volo (190), che procurar si deve di conciliare quel riguardo che meritano coloro, i quali non ritengonsi ancora per rei, colla custodia forzata cui astringe la cautela dei sospetti fondati sulle azioni immorali ad essi attribuite. Sotto un tal punto di vista le prigioni offrono uno spettacolo affliggente davvero, soprattutto le prigioni americane(191), peggio di queste le italiane, e fra le italiane a preferenza le nostre.

Tutti i riformatori si sono divisi in due drappelli: gli uni seguono il sistema americano, gli altri il francese. La prima scuola applica il sistema penitenziario degli Stati-Uniti sotto due forme distinte, delle quali una riposa sul silenzio, là cui misura produce forse più inconvenienti che vantaggi; e l’altra sulla reclusione individuale separata. — La prima forma ebbe nascimento ad Auburn,la seconda in Pensilvania nel carcere di Cherry-Hild, in cui s’è realizzato Io scopo del sistema cellulare, il quale originariamente senza il travaglio era stato già introdotto a Pittsburg. — In Auburn il prigioniero travaglia in comune silenzioso durante il giorno, e sta chiuso e solitario la notte.

Gli Svizzeri parteggiano pel sistema inglese; e i penitenztarii di Ginevra e di Losanna sono fondati, come quelli inglesi, sulla doppia base della classificazione e del silenzio, la quale ne poche vittime ha fatto, ne pochi furibondi (192).—Il sistema che dicesi francese è il sistema della reclusione individuale, col diritto di locomozione.

Quanto al sistema delle prigioni di Palermo esso può presso a poco riputarsi coevo a quello dei matti, prima delle riforme di Pisani; quando i pazzi erano trattati come animali nocivi, anziché come esseri compassionevoli. Già non è a parlare della parte igienica individuale e generale — del vitto — del vestire — della proprietà — delle latrine. Non è a parlare di calorificazione nell’inverno, ne di ventilazione giornaliera. — Sarebbe follia sperare che si adottasse fra noi il metodo calorifico ormai antico di Sylvester (193), e quello di Meyler (194), cosi bene applicato in Alemagna dal professore Meissner (195). Follia del pari lusingarci che vi s'introducessero le macchine destinate a rinnovare l'aria, e di cui fece applicazione alle prigioni il naturalista Station, e con miglior successe il bavaro Hàeberd (196).Ilsistema di queste nostre prigioni adunque è un regime straniero ad ogni sistema, in cui fra l’altro, secondando la vituperevole tendenza che ha una gran parte degli uomini a vivere senza far nulla, tutti son condannati all’ozio; quell'ozio che Solone (197), dichiarava infame, e Platone (198)caratterizzava per sacrilego. Dappoiché siccome Giove, diceva Orazio

... nil sino Magno

Vita labore dedit mortalibus;

cosi l’ozio va riputato effettivamente per padre di tutti i vizii(199), per causa generatrice d’innumerevoli malori (200), ed è chiamato nemico dell’anima dal più grande dei legislatori monastici s. Benedetto (201), cui la posterità riconoscente ba dato il titolo non d’istitutore dell’inerzia, ma di fondatore della pace(202).

Or, come s’è detto, tutte le riforme relative alle prigioni provengono dai tempi nostri. Intanto il nostro secolo non ha sino ad ora saputo attingere lo scopo delle leggi relative alla assicurazione, alla punizione, alla riforma dello imprigionato.

Ei pare, se mal non m'appongo, che la vantata teoria delle prigioni non fosse stata ancora radicale.

A leggere gli scrittori spedali si rileva, che alcuni si sieno contentati mancar di logica per non avere a mancar d'umanità; — altri all inverso: nissuno ha mirato diritto al suo soggetto, nissuno ha creduto fissare in che debba consistere la pena della prigionia. Sembrerà risibile? e pure è lacrimevole... il carcere come pena non si sa affatto cosa fosse: gli stessi lessici non te lo sanno definire. Essi lo chiamano «luogo pubblico dove si tengono serrati i rei» dò che importa mal definire l’edificio, e non indicare la pena che si espia nello edificio stesso.—Or quando si è d'accordo nelle definizioni, osservava il conte di Ségur (203), può sparire la più gran parte dei dissidii umani. ne solo i lessicografi, ma quel ch’è più i giuristi sono discordi fra loro nel definire il carcere, come ben si ritrae consultando Bartolo, Farinaccio, Caravitta, Boba hi li a, Scanarola e tant'altri. Quel celebre giureconsulto che fu Ulpiano (204), istitutore dell'imperatore Alessandro Severo, ti dice che non ad poenam, sed ad custodiam è istituito il carcere, nel che si conforma alla Bibbia (205). Isidoro (206)tiavverte che carcere, viene a coercendo, quod nimirum ibi asservati ac retenti alio ire prohibeantur. Francesco de Amaya (207) lo vuole locus deputatus ad custodiam eorum qui ob delictum vel aliam causam retinentur inclusi. Varrone (208)intanto aveva assicurato esse locum a quo exire prohibentur noxii. E Cicerone te l'avea chiamato (209) scelerum vindicem. Altri poi, dice Bombardino (210), hanno usurpato la voce carcere al singolare per indicare custodiam nefariorum hominum, e al plurale pro repagùlis intelligendum, cioè per sbarra o catenaccio. Il chiaro pubblicista Pellegrino Rossi (211)infine sostenne, che lo imprigionamento è per se stesso nientemeno che la pena per eccellenza, nelle società civilizzate.

Cosi essendo, con qual diritto, con quale giustizia, con qual cuore domando io si può questa per soffrire a chi non è giudicato reo, ma è detenuto sotto presunzion legale d'innocente?—Se l’imprigionamento preventivo è un sacrificio imposto alla libertà individuale perl’interesse generale e morale della società, questo imprigionamento non può, ne deve essere equivalente alla pena della prigionia; giacché il primo è una misura di precauzione, la seconda è una espiazione di condanna. Confondere l'uno con l’altra è una massima ingiuria al buon senso, è il più grave e dissennato abuso del potere. In tutte le cose, ammonisce il savio, bisogna mirare lo scopo (212); conosciuto lo scopo, è facile disputare dei mezzi adatti a conseguirlo. Però per iscopo intendesi lo scopo diretto, cui mirandosi non siavi timore di smarrirsi; giacché è in taf caso che tutto s'incatena, si lega, e qualunque discrepanza svanisce.

A maggior prova che sino ad oggi non si fosse andato pel sottile nel trattare le basi della teoria delle prigioni basterebbe osservare, che non volendo s’è caduto in assurdo. — Non essendosi infatti determinato che cosa fosse lo imprigionamento preventivo,—che cosa fosse la pena della prigionia—a furia di regolamenti speciali si è data ai preposti locali una autorità così elastica e vasta, che mette al loro arbitrio i detenuti d'ogni classe. ne queste cose si possono raddrizzare; conciossiaché avendo dimostrato che il sistema generale delle carceri è un sistema mancante di radice, non puossi in altro modo provvedere che con una riforma veramente radicale; riforma che costar deve di due atti, cioè distrarre e riedificare; perché allora soltanto appellasi riforma(213).

Elevate ora la vostra voce, o statisti; perché bello è sempre elevare la voce per una causa giusta, Cominciate dal deplorare, giacché v’è della dolcezza a deplorare certi mali che non sono stati deplorati da alcuno. Indi insistete perché si cambiasse il sistema dell’imprigionamento radicale:—ciò che vai più che distrurlo, perché vale con convenienza rimpiazzarlo (214); senza vagare nello indeterminato e nello astratto. Nulla più complica le quistioni che il lasciarle nel vago e nell’incerto: ov’esse non si som mettono alla precisione dell'analisi, non si rischiarano mai; ne puossi giudicare degli ostacoli, ne considerare questi per ciò ch’essi sono in aè stessi e per ciò ch’essi valgono davvero. ne debbe mai dimenticarsi che la organizzazione delle prigioni sia uno degli elementi più vitali e più pratici della legislazione criminale d una nazione, cerne ha ben detto il chiaro Lagarmitte, nel render conto dello stato delle prigioni d’Alemagna.

Avea scritto tai cose quando fui lieto d’apprendere da Vander Brugghen (215), che la legislatura penale del 1840 in Olanda, accennando allo sconcio di cui ho fatto verbo, avea prescritto che si facessero cose di arresto pei prevenuti, e cose di giustizia per j condannati. Ma questo pensamento, che fa travedere l'importanza del vizio che deturpa le attuali legislazioni criminali, è rimasto lettera morta in Olanda, in Francia e dapertutto: —lettera morta in danno di miriadi d'uomini in gran parte ingiustamente torturati, perché oppressi dal più ingiusto dei soprusi.


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CAPO VII

La Concezione

Io non sono molto tenero per Giovanni Wolfang Goethe, principe del dubbio, re del sofisma (216), poeta della materia, il quale ha preferito al dio della croce il dio di quell’Olimpoche fu riempito di viali, come M Panteon lo fu di tiranni. Se però avessi sortito da natura l'ingegno creatore di quel moderno Alighieri (217), di quel CAPO della riforme letteraria di Alemagna, avrei prese occasione dalla prigionia per descrivere i miei tempi con un romanzo alla maniera del celebrato------ Werther, da eccitare le simpatie più energiche e più universali, da destare un incendio negli animi, da trarre da tutti gli osati to lagrime, da commuovere tutte le fintaste; facendo un’opera in somma cui

…………………….. nec Jovis ira, nec ignes,

Nec poterit ferrum, nec edax abolere vetustas (218).

Forse incarnato in un somigliante pensiero l’illustre Cesare Cantù chiuso in up carcere, oppresso, solitario, abbandonata da amici e da nemici, temendo di perdere il ben dell'intelletto si contentò di sfogare il suo dolore scrivendo un interessante racconto patrio: la Margherita Pusterla!

Ma io confinalo in una terra di duolo, scarso d'ingegno, povero di dottrine, dimentico di molti e gravi avventure che avrebbero dovuto nella mia mente rimanere fittamente scolpite, privo di libertà di parola, mi acconcio, dopo aver fatto da Cassandra, a fare il Battista, predicando al deserto col mio stile consueto; e con una lingua che i lambiccatoli diranno se buona o cattiva, perché per me dirò con Giusti (219): non sono gran cosa forte nella chimica applicata alla lingua. Ammazzo per colai modo il tempo, contento la mia piccola vanità di scrittore, e come ogni mosca projetta la sua ombra, lusingo me stesso che non avessi del tutto a sprecare l'inchiostro. Per tal modo assiso sugli avanzi di un naufragio, da me tante volte previsto, vaneggio credendo, se non di preservare le virtù dall'obblio, di attaccare bensì alle parole e alle azioni perverse il timore dell'infamia e della posterità. — Ad ogni modo scrivendo le mie reminiscenze parrai resisteste di vivere; giacché sì ridicola è la vita ch’ero ad altro non si riduca che ad un riflesso della memoria. Anzi secondo Pitagora essa non è che semplice reminiscenza, come ben si sperimenta nei viaggi, la cui maggiore delizia consiste nella rimembranza che se pe serba: – memoria e rimembranza, le quali in fondo sono fantasmi che non hanno, esistenza, se non nel semplice nostro ricordare!

Ripiglio adunque la narrazione dei miei casi alquanto interrotta, e mi riporto al carcere per indicarne l'uscita.

Passate tre lunghe settimane (chè anco i giorni più nojosi passano ed hanno fine), mercoledì 16 maggio a mezzogiorno quell'ignoto, che mi avea condotto senza muovere un zitto dalla questura ai tribunali, mi conduceva dalle prigioni allo spedale, cortesemente meco ragionando (220).

Com'ebbi varcata la porta dell'inferno, vidi dapertutto alle finestre braccia, che sventolavano fazzoletti in segno di saluto: ciò che eccitò un senso di tenerezza in me, di dispetto in altri. Pria d'uscire mi pedinava un uomo d'aspetto increscioso, il quale mostrando indifferenza mi tenea d'occhio guardandomi a traverso le pupille. Com'io pervenni in vettura allo spedale, me lo trovai accosto, e mi risovvenni di lui, che seppi fosse certo Carlo Zanori milanese, anima e corpo del questore Pinna, é a cui rimasi confidato. Stelli sino a sera allo spedale in piena libertà di girare per ogni dove seguito da lui; e quanto più svariate e nuore mi erano le impressioni presenti, tanto più indebolivansi quelle anteriori. Percorsi le sale e le villette, rondai pel baluardo, squadrai lo intero fabbricato; ne quasi di altro m'avessi dovuto occupare che del sito, rilevai tostamente come siffatto edificio, il quale da poco si era voluto destinare agl'infermi, non vi si sarebbe ben adattato giammai. Desso era stato sino a qualche anno addietro monastero di benedettine, sotto titolo della Concezione— monastero splendido fondato dalla nobile donna Laura Barbèra e XXM.(a) vedova di Gismondo Ventimiglia, con uh» chiesa ammiranda per ricchezza di marmi (221) e d'ornati, per preziosità di arredi (222), per eccellenza di pitture (223).—Senza legge, ossia violando la legge, e dicendo di conformarsi allo spirito di essa (224), la notte del 12 al 13 maggio 1864 ne erano state discassate con violenta le porte, scacciate dalla pubblica forza le recluse. Non fu risparmiato né anco il cadavere della ven. suor Benedetta Riggio morta nel 1012, che n’era stata abbadessa perpetua, e di cui svenne parlato con plauso gl’illustri scrittori p. Ottavio Gattoni (225), Francesco Baronio (226), Tornamira, Spadafora, Bariotta, Alberto, Mongitore, Aprile, Aghilera, e più degli altri l’eruditissimo can. Michele Soavo(227). Esso non Rilasciato in pace, nel suo vetusto sepolcro, (228); e la sua lapide, cancellatanel’epigrafe(229), fu destinata per coperchio alta latrina.—Cosi preso di assalto, invaso furiosamente, anzi predato, vi s'improvvisaronofilantropicamente quattro cliniche, due corsee, una sala a pensione, e un gabinetto per l'anatomia... Non mancò chi avesse gridato allo scandalo, stampando in proposito Bennate proteste, onde impedirsi il sopruso. Ma a siffatti scritti altra Consolazione non toccò, che quella stessa ricavata da Belisario quando scriveva a Totila per dissuaderlo dal sacco di Roma:—-la consolazione d’aver detto delle verità inutili; senza che queste avessero fatto alcuna breccia sull’animo di coloro, che avrebbero dovuto accoglierle, e che invece te schernirono cosse colpi impotenti, pari a quelli del fiacco e vecchio Marno

... telum imbellesine ictu!

Ritiratomi nella cella affittatami, parve a me che fossi passato dal fiume Acheronte ai campi Elisi, dal Tartare all’Eden, dalla morte alla vita. L’aria era fresca per l'esposizione a tramontana, ridente la prospettiva, avendo a fronte i due golfi di Sferracavallo e A Mondello, — a diritta l'arida roccia gigantesca dell’Eretaconl’acutissima sua cima, che risveglia l'idea di una tomba immensa fra le acque e la pianura; — a sinistra la dilettevole montuosa costa dei Petratti. Infine l’aspetto dei fiori, degli alberi, della verzura, e l'olezzo del fior di arancio mi. fecero credere che quel luogo fosse il giardino di Armida-— o il favoloso paese d'Eldorado.—Proprio, proprio come Palinuro parvemi d’essere entrato in porto a piene vele... inopina quies... Dopo pochi istanti mi si recava un foglio dellaFesta elettorale(230),ove si leggevano caldi rimproveri ai fabbri giuridici del processo-mostro, e ti diceano forti cose per l’arresto mio. Me lo recava un mio parente, il quale mi soggiungeva con dispetto ciò che quel cervello da repubblica in albagia, Giovanni Interdonato, gli avesse suggerito sul mio conto.—Interdonato, cui forse non riusciva discaro tenermi nelle mani, aveva il difetto di valutarsi troppo; anch’io se si ritien per difetto ho quello di valutarmi per nulla. Egli molto occupavasi di me, senza che mi traversasse il cervello che fra lui e me vi potesse mai essere nulla da spartire; ed avrebbe voluto che mi si fosse insinuato di emigrare... Era un bel dirmi che da me stesso mi fosti inflitta quella pena, che m’avrebbero potuta infliggere i magistrati casomai fossi stato reo di quel che m'erasi imputato (231).— Insomma che mi fossi sobbarcato alla emigrazione volontaria, la quale è mai sempre sciocchezza, anzi follia.

Io avrei voluto risparmiare a me stesso lo Spettacolo miserando che mi offrivano tante bassetto, tanti delirii, tanti delitti. Mi bruciavanoi piedi nel mio suolo natale, ne più sapeva abituarmi a vivere sotto il bel cielo di Palermo, dove non sentiva desiderio di rimanere; in vista di tante fronti ch’erano altere pel timore del disprezzo che sapeane di meritare. — Se mi fosti travato nel flore degli anni avrei detto come Montaigne: tout ciel n'est un... E dato l’addio completo alla mia patria, con una gioja soverchie, che forse avrebbe meritato d’essere punita, e mi sarei posto in viaggio per altri paesi, nei quali se non avesti potato mostrare per raccomandazione la scienza, avrei potuto però presentare per titolo di considerazione, la persecuzione el’innocenza. Ma c'est si dous de rester chez soi!(232) …anzi arrivato all’età in cui c’è bisogno di riposo, fa d’uopo morire dove si ritrova, non sobbarcarti a quella pena che Cicerone e Bolinbroke hanno dichiarato di essere fra la dure pene la più insopportabile — l’esilio. Esilio che pei caratteri vivi e sensibili, come il mio, è un supplice, dicea madama de Stael (233)che avevate provato, beaucoup plus cruel que la mort.

A buoni conti io non era affatto disposto ad abbandonare i luoghi ore area passata tutta la mia vita,—e abbandonarli non per altro che per far piacere a certi imbecilli, i quali prendono sul serio grandi spaventi di me; avendo loro atto tanta paura, quanta ne faceva l’ombra del cavallo di Richard ai Filistini! Pronto son io piuttosto a proseguire a soffrire impavido mille ingiusti processi, come ho sofferto mille ingiusti soprusi; ma lieto di assaporare viemmeglio come sta nobile il trionfar della sventura senza mettersi in ginocchio dinnanzi della forza. Cosi se non ho saputo vivere lungi dalla patria, ho almeno saputo e spero sapervi rimanere con piena indipendenza, non inchinandomi giammai per timidezza a chi saliste in possanza: dinanierachè se s'avesse a giudicare dei miei anni, dall’odio crescente che m’ispira l’oppressione e la bassezza, si troverebbe ch’io festa giovane assai ringiovanito totalmente.—Già di queste mie parole gli amici mi faranno rimprovero acerbo, perché si vorrebbe ch’espatriassi, con minore rudezza verità così forti; ossia che le annunziassi tergiversando, diluendo, inzuccherando, tremolando... ah no, questo per me è impossibile— fo non so farlo affatto.

Rimasto solo nella mia stana seraficamente addobbata, mi si fece avanti labori con una faccia antipatica e smorta; e con tuono birresco dichiarommi, che dovessi stare rinserrato, che non potessi veder chicchessia, che dovessi star separato interamente dalla mia famiglia... che la somma, gli ripigliai, fessi io un carcere più aspro di quello al quale mi converrebbe ritornare: al che risposemicon un inchino riverente ch’esprimeva, facessi a senno mio. Ecco sparito in un baleno per tal modo tutto il mio contento: quei luogo mi divenne di supplizio, ove soffersi gravi privazioni ed amarezze sento il conforto della compassione, ch’è gran cosa; conciossiaché l'aspetto degli uomini, cui duole della tua sventura, quando anco non abbiano modo di sollevartene pii efficacemente, te addolcisce (234). — Però la gente che osservava me da lontano mi stimava collocato in una parte del paradiso terrestre, di cui quell'angelo che con in mano una spada candente custodisce la porta, per compiacenza m’aveapermesso l’entrata; — ed io invece ivi crudelmente straziato ebbi indi a poco a bramare il carcere come un refrigerio! E questa cosa mi convinse appieno della sentenza di Redi, che «in questo mondo non v’è il maggiore e il più terribile nemico del bene che il volere star meglio.» E che perciò sia più giudizioso sopportare un male discreto, onde non avere ad incorrere in qualche altro peggiore.


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CAPO VIII

Il carcere-spedale

Nelle carceri l'impero della forza mi conservava

Fermo volto e imperturbabil core (235);

ma nello spedale, — in questa accozzaglia di tutte le umane miserie, la cui vista (diceva Voltaire (236)) è per l'umano orgoglio sì umiliante, ed è si ributtante per la nostra delicatezza, mi riduceva in agonia; giacché non ho io la rara qualità di Cesare, cui, scriveva Giovenale, nissuna cosa batteva sotto la sinistra mammella:

Laeva sub parte mamillae

Nil salit…

Ivi uno scampanio perpetuo a rintocchi non t’annunzia in tutte le ore che l’arrivo d’un miserabile sofferente; ne ascolti di continuo che lamenti, voci di dolore, urli d’operati, strida di partorienti, spasimi d’agonizzanti... là un prete che conforta un moribondo, qua un altro che porta il santissimo ad un pericolante... I facchini ti trasportano in faccia i cadaveri al deposito, e i becchini te li ripassano davanti per condurli alla fossa... Tutto, ahimè! mi stava sott’occhi senza che avessi potuto evitarlo, costretto com’era a un domicilio coatto, che mi teneva rinserrato fra quattro mura nella mestizia più profonda. — 0 melanconia! ebbe ben ragione di sciamare Bélarius nel Cymbeline di quel genio creatore profondamente pensoso e filosofico Shakespeare... o melanconia! — chi può mai scandagliare i tuoi abissi?

Arrogi a questo tante esalazioni disgustose per se stesse, che la infermità, l'affluenza, la morte accrescono e pervertono a dismisura, anco negli spedali meglio regolati... immagina in uno spedale, che fatta precisione degli uomini (perché ne in questo ne in nissun altro capitolo intendo affatto far la critica degli uomini, ma solo quella delle cose) presenta per se stesso mille incoerenze.

Non ho al certo la voglia di dogmatizzare, o la smania d’erigermi a censore; perché odio lo spirito satirico, spirito facile, comune, e il più insipido di tutti gli spiriti; e aborro gli Aristarchi, Che biasimano tutto e declamano contro d’ogni cosa. Ma essendosi tanto e poi tanto scritto intorno agli spedali, mi parrebbe vergogna il non sapere dire nulla di quello, ove mi hanno proditoriamente tenuto rinchiuso per oltre ad otto mesi, e che fu impiantato di nuovo ed eretto a furia ed a mano armata.

Se manca alle mie parole ogni autorità, non mi contrasta nissuno un giudizio franco, indipendente e sincero. — Or io dico che veramente quando la necessità costringe a mantenere, com’esso si trova, uno spedale, bisogna tollerarlo; perché uno spedale non è una vettura che si trasporta a piacimento. Però quando esso erigesi di pianta, si ha tutto il diritto a volerlo ben adatto; ne dovrebbe soffrirsi che s’impiantasse sconnesso, pel capriccio di volere dare a un edificio una destinazione che non può affatto convenirgli.

Nulla è più facile che ’l fare progetti, concepire piani, nudrirsi di belle illusioni..; ma i pubblici affari non sono alla portata di tutti (237). È vizio dei tempi, nei quali viviamo, il venirsi ai fatti di un salto, correre a tempesta, non curarsi del fine e dei mezzi; cioè agire senza maturità, senza consiglio. Di che gli astuti profittano; perché se mai s’avverte di essersi errato enormemente, si rifà, si abbandona, s'imprende nuovamente, e si corre, si corre senza posa. Appunto perché certi barbari della moderna civiltà, adatti a distrarre come i Goti, non hanno già come quelli la potenza di fondare; soprattutto quando si tratta di opere dì filantropia, le quali intraprendonsi sempre all’impazzata, ond'è che non tardano a languire e a corrompersi prontamente.

Per ordinario la maggior parte dei preposti occupati dai proprii affari, non ostante le loro buone intenzioni, sconoscono la natura delle opere che debbono regolare. Vedono essi per gli occhi degli a* genti subalterni, i quali fanno consistere l'obbligo loro nel tenere in regola i conti, col mezzo di cifre artisticamente disposte e coordinale. Così le ambizioni si svegliano, gli scaltri s'avventano al bottino, e ’l numero crescente d’impiegati burocratici e di lusso diminuisce la porzione degl'indigenti; dissipando a capriccio dei vivi le ricchezze che tramandarono i morti, non per giovare ai sani, ma per sollevare gl'infermi (238)! Ciò che si deve avere il coraggio di osservare solennemente in favore della causa dei bisognosi; giacché vale meglio lo scandalo che la menzogna (239).

Affinché poi non mi si dica di rimanere sui generali quanto alla Concezione, accenno di volo che l'edifizio è inadeguato, e inadattabile — gl'inconvenienti gravi e funesti. Chi crederebbe, se non fosse un fatto, che le sale di questo misero spedale circuite di terra vegetabile, d'orti e di giardini sieno tutte umide e a pianterreno, e soltanto una sola sia appena appena sopra terra? — Chi crederebbe che non ve ne fosse alcuna esposta, come prescrive la scienza, ad oriente (240)oppure a mezzogiorno (241); ma che sieno volte a greco e a tramontana? — Chi crederebbe che s’aprano tutte nel quadrato interno ama che fossero ventilate, ne mance riscaldate dal sole, di cui non vi penetra il raggio, e spesso spesso nemmeno una debole luce?— Chi crederebbe che la sala della clinica-medica fosse a maniera d'adorno fiancheggiata da due vaste, sporgenti, mal disposte latrine, che spargono in centro dell’atrio i loro germi funesti? Cose tutte che io credei avesse a rilevare il direttore di clinica Carlo Maggiorana nel suo dotto Ragguaglio(242) non è guari pubblicato; nel quale tanto a lungo ragiona della mancanza d'igiene presso noi.

Tutto questo riguarda le disconvenienze del fabbricato; ma l'arte ha forse procurato di mitigarne l’asprezza, o ne ha peggiorato le condizioni? Si le ha peggiorate permettendo l'ammissione promiscua d'infermi di qualsivoglia malattia; vai quanto dire di corpi impuri, che esalano da tutti i pori un vapore mefitico, che può dare occasione allo sviluppo delle terribili febbri di spedali, le quali potrebbero dilatarsi per l’ambito della città ed ammorbarla. Molto più che i letti lungi d’avere fra loro l’intervallo almeno di quattro piedi, come vogliono i sapienti professori, sono spesso spesso proprio in contatto; e questi letti, almeno allora, li trovai composti d’uno straccio imbottito di paglia, e con ruvide tele da far venire la prurigine anche a corpi di legno. Non possono inoltre eccitare che dispetto le risibili disinfestazioni che s’adoprano ad orpello dei gonzi.—Difetto forse comune anco degli spedali più riputati, Bei quali il punto di vista igienico non è sempre a sufficienza rispettato; — come ha ultimamente rilevato il diligente Jaquemet, il quale dopo aver fatto uno studio profondo sullo stato attuale dei diversi spedali, ha dato fuori un lavoro che meritò di essere coronato dalla società imperiale di medicina di Bordeaux (243).

Della cibaria, dei farmaci, del servizio debbo meglio tacerne che parlarne con leggerezza. Voglio tuttavia conchiudere, che se da me dipendesse, non affiderei che alle donne la cura e l’assistenza dei malati; — bea inteso alle donne religiose ospedaliere, sotto la immediata autorità d’un consiglio di direzione e sorveglianza: coverà fervo desiderio e consiglio del rinomato Foderé. Non già che io volessi assicurare la superiorità delle donne sugli uomini al pari di CornelioAgrippa (244), il quale si spinse a ciò dall'interesse che aveva egli di piacere alla famosa Margherita d’Austria, la quale governava i Paesi Bassi; ma perché sono convinto che le donne abbiano un istinto celeste per la sventura; essendo pel cuore di esse meno seducente la poesia della fortuna che quella della disgrazia(245).Anzi, secondo Guerrazzi (246), non v’ha creatura che tanto si esalti pel sacrificio quanto la donna: infatti ovunque è un dolore da mitigare, un sollievo da porgere, ivi è quasi sempre una donna. Per lei è gloria consolare i pianti, e curare gl’infermi di malattia disperata: essa trovasi dapertutto ove la carità richiede un’anima sensibile; perché è nelle donne che trovansi facilmente cuori compassionevoli, i quali si commuovano all’altrui sventura, e che sappiano rasciugare una lagrima. ne vale a distrarre queste verità di fatto tutto il cinismo virulento di Giovanni de Meun, di Matheolus, e dei loro impudentissimi copisti e piaggiatori; ispirandosi ai quali Pope proruppe in quell’epifonema, che ogni donna in fondo del cuore sia un cattivo soggetto (247)! e descrivendo Atossa, e in Atossa, tutte le donne, si spinse a dire: «offendetela, essa non sa ciò che si fosse il perdonare; rendetevela obbligata, essa vi odierà per tutta la vostra vita; morite ed essa vi adorerà!»

Di questo mio pensamento sull’importanza della donna religiosa risentire non si dovrebbe la suscettibilità del secolo che corre, — secolo che veramente ancora non promette di essere qualificato secolo bello, come lo aveva pronosticato assai per tempo nella sua troppo ardente fantasia Alfonso Lamartine (248): le siècle sera beau! Che se mai se ne risentisse, se ne risentirebbe a torto; conciossiaché sarà sempre indubitato che la religione è la colonna più solida a sostenere le basi dello edificio sociale; e dal punto di vista del pubblico bene credo ilsentimento religioso sia la pura sorgente della moralità la più elevata. Il resto è belletto ed impostura; essendo abisso senza fondo questo nostro consorzio civile. Molto più nell’epoca attuale, che guazza in loto di poveri vizii e di virtù floscie (249), e nella quale cedendosi facilmente ai fracasso di parole altitonanti d'alcuni uomini politici, si è dichiarata aperta guerra a tutti i sentimenti generosi; rimpiazzandoli colle due fiabe divinità del tempo: l'onore e la filantropia.—Questa filantropia si dice Bitta coll’uomo, di cui si suppone l'amore... eppure questi nomini congregati a popoli, composti a nazioni non ebbero cura giammai dei soccorsi di beneficenza agl'infelici—giammai. Questi soccorsi emanano dallo stabilimento del cristianesimo, il quale, giusta le parole del sommo Montesquieu, dovendo fare notre bonheur dans l’autre vie, y contribue déjà dans celle-ci: essi sono figli esclusivamente della carità cristiana. ne ciò dicendo diciamo una filosofica bizzarria, sibbene una stearica realità, la quale costringe alla impossibilità del negare; perché i fatti valgono meglio che i sistemi. Fu allora che si eresse il Brefotrofio pei lattanti (250), l’Orfanotrofio(251) per gli orfani, il Gerontocomio(252) pei vecchi, il Ptocotrofio(253)pei mendicanti, lo spedale o Nosocomio(254)per gli ammalali, e le case delle Ripentite(255)per le prostitute ravvedute... Oh sia benedetta le mille volle la fondatrice primiera degli spedali d'Italia Fabiola (256), donna, e donna cristiana, — cara dama romana di quella prodigiosacasa dei Fabii, di cui trecento si fecero uccidere in un sol combattimento per Roma; e donde a salvare questa città uscì quel grande, contro il quale il braccio di Annibale non potè prevalere (257).—Sono rari, ma rari assai gli stabilimenti di beneficenza disinteressala dovuti alla filantropia mondana, la quale altro non è che la carità cristiana cambiata di nome e sfigurata. — A dir corto è la carità di mona Candia e di don Jubero, che masticavano lo zucchero ai malati; cioè la carità di quelli che sotto specie di giovare altrui cercano l'utile proprio. Già la tendenza esagerata degli economisti alla circolazione dei capitali fino li vorrebbe soppressi; condannandoli come perniciosi allo stato e nocivi all’industria (258); perloché il crudele e superbo Arrigo VIII ne fece demolire molti e molti in Inghilterra; bandendo che fossero seminarii di contagione ed asili di poltroneria. Taluni troverebbero più conducente alla prosperità degli stati, che i dominatori del mondo avessero cura della vita dei cani e dei cavalli che di quella degli uomini, come prendono più interesse a diffondere il tabacco anziché a propagare l'evangelo. La filosofia dell'età nostra non ha creato che la miseria morale; e quindi non ha fatto che vittime, più di quante ne abbia fatto la fame... Già io così parlo com’uomo la cui vita circoscritta non abbraccia il vasto orizzonte umanitario... son uomo retrogrado... attaccato ad una morale che fa ridere...morale caduca di tempi miserandi che arrestano la civiltà ed il progresso... sono cattolico testardo in somma con la cervice così dura, che, ajutato dal Signore, tutti i genii sublimi del mondo non mi strapperebbero la fede. Che volete? La vecchiezza è una viaggiatrice di notte (259), che non vedendo la terra altro non discopre che il cielo, il quale brilla sopra del suo CAPO : — è perciò che compiango quegli uomini vili per eccesso di orgoglio, i quali si crederebbero umiliati ove loro si provasse che hanno un'anima e che indi a questa un’altra vita li attende.

Non dissimulo pertanto a me stesso, che in mezzo alle circostanze nelle quali ci troviamo, ci sia attaccata poco popolarità a queste idee; ma quando si ha la convinzione d’una verità buona a dirsi e a consigliarsi, considerazioni siffatte non arrestano punto gli uomini di buona fede, e molto più i cattolici, i quali vorrebbero persuadere tutti; imperocché diceva il sagace autore del Genio del cristianesimo (260) a M. de Fontanes: nous autres papistes avons la fureur de vouloir convertir notre prochain; non dilettandoci affatto il camminare col progresso; dappoiché la religione cattolica non è progressiva ma stazionaria, ferma, immobile, come quella rocca sulla quale è fondata (261).


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CAPO IX

La Prussia

Volgo indietro lo sguardo a questo punto per discorrere intorno al vasto edificio che costruitasi al di fuori dei miei sogni. Facendomi storico, senza cessare di essere scrittore di ricordi, vo' raccontare fatti generali, mentre pure mi occupo delle mie piccole avventure; imperocché l'universo umano si compone di individue esistenze, e tutti abbiamo parte nella grande catena della storia comune: è cosi che la storia diventa, com'era una volta, dramma piacevole, non isterile giornale qual divenne di poi.

Mi riporto adunque allo imbarco di soldati che aveva veduto dal carcere, quando affaccialo alla grata attendeva il ritorno della mia famiglia. Bruciava in quel tempo le teste il fuoco rivoluzionario; e l’odio contro dell’Austria era la passione dominante: da ogni punto d’Italia si spedivano truppe per piombare riunite sull’Austria; affinché questa cedesse

l’alma Venezia, che in tranquillo mare

Cuna si specchia (262),

dopo l'inconsulto tentativo di Aspromonte per impossessarsi di Roma con la forza, — Roma ch’e la più grande spoglia del mondo. Lavoravasi in segreto, e l’astuzia napoleonica cercava di attirare la Prussia ai suoi disegni.

Napoleone I, che al pari di Cesare aveva riguardato gli uomini come la materia legittima dei suoi trionfi, e come gli strumenti obbligali della sua grandezza, suppose aver distrutto nella catastrofe di Jena in mezzo a vortici di fumo l’aquila prussiana. Però Stein (di cui scrisse Pertz (263) stupendamente la vita), Bliicher e Handenberg (che s’ebbe a panegiristi Hippel e Klose (264)) con invitto coraggio, con costante fermezza la richiamarono in vita, riconducendola nella via da vent'anni abbandonata; dimanieraché dalla Prussia parti al 1813 l’appello alle armi e alla reazione violenta contro la francese dominazione. Il suo popolo si levò in massa, il suo sovrano si mise alla testa del movimento, ed incusse tanto timore a Napoleone, che costui dichiarò al corpo legislativo (265)volere la pace... essere questa pace necessaria al mondo.—Ma la Prussia incalzando portello alla guerra, e si ebbe splendida e principale parte a Waterloo nel rovesciare il formidabile colosso(266). Per lo che ottenne larga ricompensa dal congresso di Vienna (267), senza che gli ostacoli, i quali in seguito le opposero la vigilanza inglese e l'operosità austriaca, fossero valsi a fermare il corso rapido del suo progressivo innalzamento.

Prima della pace di Vesfalia (268), quando l'Europa non contava al Nord che tre sole potenze, Svezia, Danimarca, Polonia, il ducato di Prussia era oscuro e dimesso; fino a che il grande elettore di Brandeburgo Federico-Guglielmo scosse col trattato di Vehlau (269)il giogo del vassallaggio. Dopo la vittoria di Fehrbellin (270) i duchi di Brandeburgo (271)si rivestirono del titolo regio, e surse rigogliosa la monarchia prussiana, la quale debbe al pari di tutti i governi attuali la sua nascita alla conquista, la sua polizia alla forza militare, il suo accrescimento alla fortuna. Essa rapi la Slesia, concorse nello spoglio della infelice Polonia, quando questa fu cancellata dalla lista delle nazioni per soddisfare la vendetta di Caterina II, e l'ambizione di Federico Guglielmo. Ottenne poscia colla pace di Teschen porzione della Baviera, e rese celebre nella storia la cosi detta guerra dei sett'anni (272)) in cui sostenne ventiquattro battaglie, le quali ebbero principio con quella di Lowositze (273) finirono con quella di Torgau (274). ne ancor soddisfatta, ottenne in seguito nuova parte di Polonia e varii principati. Conquassata da Napoleone, riebbe tutto colla pace europea, e si accrebbe di mezza Sassonia, della città e del territorio di Danziga (275), di porzione della Vesfalia, dei ducati di Posen, di Berg, e di Giulieri (276), di buona parte degli elettorati di Colonia (277)e di Treveri (278)e della Pomerania svedese (279).—Quando le società segrete la minacciarono nello interno (280)collegossi a Carlsbad (281)coll'Austria, e frenò l'idra rivoltosa: indi ricomposto un esercito del quale potea fidarsi, che le libere forme al 1825.

Scoppiando a Parigi nel 1830 l'insurrezione, il fragore del cannone di Anversa (282) minacciò la guerra universale; onde la Prussia si uni d’animo e d'interessi alla Russia, e con perseverante fermezza spinse l’effettuazione dell’unione politico-commerciale di Alemagna, mercé la creazione dello Zollverein, la cui prima idea suscitossi a Staggardia(283)il cui vero autore fu M. Colta.

Prodigiosamente poi ingrandissi col principato di Lichtenberg (284), coi principati di Hoenzollern (285) coi ducati di Oldenburgo (286).

Potente in tal modo la Prussia, e sempre rivale dell’Austria, come la Danimarca lo è della Svezia, la Inghilterra della Francia, e la Russia della Turchia, ambi di rialzare l'impero germanico. Essa non si stimò soddisfatta, che essendo uscita dalle sabbie del Brandeburgo (287)si fosse estesa sul Baltico, sul Varta (288), sull’Oder, sull'Elba, sul Reno, Ano alle frontiere della Francia (289)e della Svizzera (290); occupando uno spazio immenso di più che ottanta mila miglia quadrate (291), e reggendo milioni (292) d'uomini diversi per carattere, per leggi, per religione e per costumi.

La spingeva a tal passo il filosofismo, il quale profittando delle circostanze tenta al cozzo delle quistioni politiche far subentrare le religiose, il cui sentimento è cosi alto che non riesce mai straniero alle rivolture più gravi. Esso nella Germania ha trasformato stoltamente in iscienza umana la fede; ha tentato di rivestire d'una nuova luce le incrollabili verità divine, per rifare un cristianesimo primitivo in un cristianesimo vecchio, sperando così ottenere sotto una forma supposta progressiva di civilizzazione e libertà la supremazia sullo intero mondo civile. E ciò con un impero germanico protestante, in contrapposto a quel sacro romano impero che durò già dieci secoli (293), essendo passato dai Carolingi alla casa di Sassonia, alla casa di Svevia, a quella di Ausburgo, di Austria, alla casa di Baviera, infine a quella di Lorena; sotto la quale si sciolse (294) dopo la pace di Presburgo (295), per la rinunzia che fece Francesco II, alla dignità d'imperatore elettivo d'Alemagna, per investirsi di quella d’imperatore ereditario di Austria. Allora una gran parte degli stati che formavano l’antico impero presero nome sotto la protezione della Francia di Confederazione del Reno; alla quale altri se n’aggiunsero coi trattati di Tilsitt (296)e di Vienna (297);—essa disciolta al 1813 prese titolo di Confederazione germanica in seguito agli avvenimenti che nel 1814 e 1815 cambiarono la faccia dell’Europa.

Però il protestantesimo non è molta o fomite di civilizzazione e libertà, ci ha detto uno dei pochi protestanti che credono, dei politici che ragionano, degli storici che amano la verità ed hanno il coraggio di proclamarla (298), l’illustre Guizot (299). Giacché la riforma ha rafforzato non affievolito il potere dei sovrani; essendo stata mai sempre contraria alle istituzioni liberali, anziché favorevole al loro sviluppo. Ciò che si rileverebbe ad evidenza, ove venisse in luce la vasta ed importante corrispondenza di Calvino, di Beza e di altri di tal risma, che si conserva, credo, ancora manuscritta nella biblioteca di Ginevra (300); e che spargerebbe gran lume per la storia civile, letteraria ed ecclesiastica del secolo XVI.

Adunque la Prussia fidente d’aver in pace un esercito di 199,452 valorosi soldati, che in tempo di guerra potea aumentare a 362,868(301), stimando ch’era per lei ornai tempo d'ardimento, cominciò col non volere più attendere dall'accordo con questa o con quell'altra potenza la soluzione mai sempre irresoluta dei ducati dello Sleseviga-Holstenio (302) del Lauenburgo(303). Trasse quindi d’un colpo ai suoi potenti voleri l'Austria, la quale ciecamente fidossene senza addentrarne il pensiero profondo, che doveva essere causa della sua e dell'altrui rovina. E attaccò risolutamente la Danimarca, sprezzando e proteste e minacce; — sprezzando financo la pubblica opinione, la quale, tuttoché la quistione dano-alemanna fosse poco conosciuta e mal compresa (304), gridava allo scandalo, nel vedere due grandi potenze unire le loro forze per ischiacciare un piccolo stato. —La Danimarca lasciata sola nella lotta fu battuta, fu vinta: il trattato di pace, sottoscritto il 30 ottobre e ratificato il 16 novembre del 1864, dispose in favore dell’Austria e della Prussia il condominio dei ducati.


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CAPO X

Politica del momento

Bismark, uomo di mente, ma astuto ed infido, ambiva annettere alla Prussia ad ogni costo i Ducali. Egli, mentre il diritto è nella natura, nella storia e nella scienza (305), aveva detto un giorno alle camere senza esitare che la forza va prima del dritto (306). E tuttoché avesse ciò detto col suo carattere irritabile e mancante di flemma e di educazione parlamentare (307), non ne fu ripreso da alcuno. Dappoiché oggi non si è sgridati pei vizii, ma per lo virtù: anzi la virtù trova dappertutto un supplizio, l'innocenza un'insidia, la debolezza un pericolo, il vizio un incoraggiamento. Ei mise quindi in non cale il diritto delle genti, ritenendolo, qual é per altro, un codice imperfetto, che si può eludere colla scaltrezza e violare colla forza; e prescelse l’usanza degli antichi popoli del Nord, i quali non conoscendo altra ragione che le armi, non cercavano pretesti per covrire di un'apparenza di giustizia le loro invasioni. Dimanieraché ne il possesso immemorabile, ne i trattali solenni, che fissano i limiti rispettivi, sono più di freno alle ambizioni smodate, o di guarentigia contro le occupazioni violente. Vero egli è che non puossi indietreggiare pel diritto politico della Europa al trattato di Vestfalia; come èvero del pari che non si potrebbero facilmente applicare ai tempi nostri le regole della diplomazia di D’Ossat, di Grozio e di Puffendorff; ne trarre le conseguenze che emergono dai principii del più celebre che pregiato Emerico di Vattel;—non perciò è lecito aprire alla infedeltà ed al tradimento la carriera spaurevole del politico brigantaggio.

Bismark adunque, nullostante il trattato, suscitò delle divergenze ai primi periodi del 1865. Poi diresse all'Austria un Ultimatum(308), cui Mensdorff Pouilles respinse con aperto rifiuto; facendo comprendere alla Prussia che l'imperatore avrebbe risposto con la spada e col coraggio alle minacce. Indi con la convenzione di Gastein(309) fu ripartito provvisoriamente in via geografica l'esercizio dei diritti rispettivi sui Ducati: ciò che a Salisburg (310)confermarono, abbracciandosi, i due sovrani contendenti.—Quest'accordo, la cui nuova giunsegli improvvisa,dispiacque a Napoleone,—a Napoleone che come Attila (311) minacciava tutte le nazioni, e tutte le nazioni lo temevano;—a Napoleone che poteva ripetere con maggiore verità che noi ripeté lo imperatore Cajo Caligola quel verso di Omero:

«un re basta all’Universo,»

e pretendere il titolo di arcimonarca, ch’era l’ambizione suprema di suo zio (312). —Filosofo nei suoi scritti, arbitrario nella sua condotta, egli era uomo di quello stampo di potenti conformi ai disegni della Provvidenza, ai quali Dio accorda delle qualità per secondarli, e dà quei difetti che debbono perderli, al debito tempo. Egli, il quale aveva appreso dal fondatore di sua dinastia che la politica è jouer aux hommes, fece immantinente dai giornali vituperare l’accordo di Gastein. E questi cantarono in tutti i toni che l'Austria avendo ceduto alla Prussia coll'articolo nono del trattato il Lavenburgo (313), mercé due milioni e cinquecento mila talleri danesi di compenso, era mestieri che in questo tempo, nel quale tutto vendesi e si compra, cedesse Venezia, ch e la regina degl'italiani(314); che è

... d’Italia dolente

Eterno lume (315).

Ricominciossi quindi a bandire essere insopportabile vergogna vedere prostrata sotto il bastone di Cesari tedeschi quella nobile sposa dell'Adriatico, quella Cibele dei mari, come l’appella il bardo scozzese (316), che aveva umiliato i Cesari germani... quella già dominatrice delle onde che aveva atterrato l'oriente ed abbattuto a Lepanto la mezza luna... quella repubblica illustre che aveva dato una volta gl'imperatori a Costantinopoli, a Cipro i re, i principi alla Dalmazia, al Peloponneso ed a Creta; — che aveva accordato per grazia a monarchi potenti l'onore della sua cittadinanza nobilesca (317), che aveva ricevuto nel suo inviolabile caseggiato con solenne pompa il benefattore del genere umano papa Alessandro III, a’ cui piedi s'era umiliato l'iroso Barbarossa. Dopo di ciò emanò Drouyn de Lhuys un’aspra circolare (318)che fece correre Bismark a Parigi (319), ove conferì a lungo in impenetrabile segreto col ministro; e poi a Biarritz s'intese coll'imperatore, profittò dei suoi lumi, e tennesi in guardia dalle sue passioni. Rimasero in tal guisa concordi già se non amici, per ché non può esservi amicizia fra due ambiziosi, ma interesse comune che per un momento li lega. Napoleone si lusingò forse potere riguadagnare alla Francia, come colla pace di Lunéville (320)aveva ottenuto suo zio, la riva sinistra del Reno — fiume che sorgendo dalla inaccessibile e dirupata vetta delle Alpi Rezie oggi dette dei Grigioni (321) piega leggermente verso l’occaso, e va a mescersi coll’oceano settentrionale. — Ma Bismark non era tal uomo da cederla a lui come Cavour gli aveva cesso Nizza (322) e la Savoja; — delle quali la prima al 1793 non aveva potuto resistere al generale Anseime, eia seconda al generale Montesquieu. La finezza, lo spirito di osservazione, il tatto, la fermezza, diciam pure la dissimulazione e la falsità, rendevano Bismark un tipo singolare. Al ritorno di costui manifestaronsi le freddezze della Prussia verso dell’Austria;—in breve dalle freddezze si venne agli urti... dagli urti ai rimproveri... dai rimproveri alle minacce... e dalle minacce a ciò che il cardinale Ximenes, reggente di Spagna durante la minorennità di Carlo V, avea chiamato l'ultima ragione dei re-—le armi, le quali diceva Tacito attraggono a sé tutti i diritti.

Si chiari allora apertamente che la Prussia seguendo l'ardimentosa politica di Federico non mirava a pacificare l'Europa, ma a soppiantare l’Austria e ad assorbire l’Alemagna.

La libera stampa, ch’è proprio la elettricità sociale (323), gliene fece rimproveri da ogni banda. Anche dalla Francia, tuttoché paese ove ogni cosa è tributaria della moda, e ogni avvenimento, ogni opinione, ogni novità sono certi di ottenere alla lor volta un momento d'entusiasmo che strascina la moltitudine agli eccessi della credulità. Conciossiaché le genti stanche delle lotte parteggiavano generalmente pel riposo ad ogni costo: ciò che fu dimostrato luminosamente da Michele Chevalier (324), il quale novello Musonio Rufo (325)ragionò con forza del bene della pace, dei pericoli della guerra.

Questo amore del riposo, quantunque non fosse per ordinario che un sentimento di debolezza, pure era divenuto il bisogno e la passione dello intero mondo. L'allarme della guerra eccitava tristezza, perché n’erano minacciati il commercio, il credito, l’agricoltura,l'industria, insomma gl’interessi d’ogni sorta. E in Francia, quantunque al dire di Chateaubriand le française aura bien faire, il ne sera jamais qu'un courtisan, n importe de qui pourvu que ce soit un puissant du jour,si giunse alla minaccia di denunziarsi alla pubblica opinione i nomi di coloro che avrebbero meritato la esecrazione dei contemporanei ed il disprezzo della storia (326). — Tutti in quel momento riputavano illegittima la guerra, come la reputano in massima i Quaccheri fondatori di Filadelfia, cioè della città amante dei fratelli.

Ma l'ambizione non ha mai ripiegato innanzi al timore o alla preghiera; e la guerra sarà; sempre la storia degli uomini (327), come la pace il desiderio dei saggi... la pace perpetua dell’abate Saint-Pierre un sogno... la perfezione una chimera.

Napoleone allora s'accorse che fosse il caso di stabilire in Italia una politica novella, precaria, da fondarsi sull'alleanza prussiana, la quale avrebbe procurato ad entrambe scambievole appoggio; ben conoscendo che la politica debbe cambiare secondo gli avvenimenti, gli uomini ed il tempo. — Non poteva sfuggire alla sua fina penetrazione che la fermezza con cui la Prussia aveva seguito la formazione dello Zollverein, malgrado gl'intrighi dell’Austria e le resistenze dei piccoli governi, aveva preparato quell’unità politica, che la condusse a riconoscere il regno italiano.

E poiché in politica le migliori idee isteriliscono quando l'applicazione non ne fatta a proposito, e che riesce meglio concertare i passi conversando, anziché per iscritto, cominciò a gettare destramente l’olio sul fuoco. Spinse il principe Napoleone a viaggiare da Parigi a Firenze e da Firenze a Parigi, —il generale Covone da Firenze a Berlino e da Berlino a Parigi; indi al quale via vai si scoperse impegnato il conflitto austro-prussiano, e manifestossi negoziata l’alleanza prusso-italiana. Per la quale combinazione l'Austria avendo due guerre sulle braccia sarebbe stata nella impossibilità di riunire le sue forze per tentare qualche colpo decisivo, che avrebbe potuto trascinare in impegni tutti i potentati.

La Russia in quel punto ambendo l'onore di mediatrice, fece dei tentativi per impedire la tenzone. Ed Alessandro II, aspirando al titolo di ange blanc de la paix, con cui era stato salutato Alessandro I predecessore di suo padre da Madama Krudener, propose un congresso che balenò come ultima speranza. — Era però oramai troppo tardi; imperocché sebbene il barometro politico sia sempre al variabile, pure il dado era tratto, la spada sguainata, e si opponevano a cedere le passioni di tutti i contendenti; molto più che mentre l’Austria volevasi spogliare, contro dell'Austria gridavasi ad oltranza. Si giunse a chiamarla tiranna dell’Europa, che metteva in cimento la pace generale, e quindi rea dei mali che sarebbero derivati dalla guerra... guerra che i deputati nostri (328) voleano grossa, lunga, italiana, sino a che l'Austria avesse ceduto Venezia da essa posseduta pel trattato di Campoformio, poi pel trattato del 1815, infine per l’art. 18 del trattato di Zurigo. E si pretendeva, che l’Austria senza combattere, si fosse lasciata umiliare da nemici che sprezzando le sue forzo ne voleano diminuita l'importanza: ciò che vie peggio spingevala alla lotta; perché un popolo fiero può rassegnarsi ad essere vinto, ma non mai a vedersi umiliato... Va ora e sentiti dire da Thiers che il vero genio del nostro tempo consista nel semplice buon senso!.. Forse, divenuta come diceva Bonaparte (329), la coscienza degli uomini di stato una coscienza di convenzione, debbesi ora al bene e al male, al giusto ed all'ingiusto surrogare il buon senso!

Ora quantunque l’Europa avesse messo in arme sei milioni e duecento venticinque mila soldati (330), pure si previde che la guerra si sarebbe circoscritta. Dappoiché d'ordinario i campi di battaglia sono quasi sempre in Italia o in Alemagna; e i barbari del norte, e i tiranni del mare si guardano e sorridono allorché vedono scorrere fiumi di sangue italiano, francese od alemanno; ne si prendono cura dei danni degli altri quando loro non toccano davvicino. Essi s'intendono per fare il male dell’umanità, per farne il bene, ravvolgendosi fra incertezze ed intrighi, non s'intendono mai o raramente; e per frivole gare, per discrepanze ambiziose, per interessi speciali commettono gli stessi errori, e perdono il vantaggio della riunione delle forze. —La Russia che dai confini della China si estende fino al mare Baltico, che lacera la Persia, circonda l'impero ottomano, aspira di regnare ai Dardanelli, e dalla estremità settentrionale dell’Asia precipita sul mezzodì dell’Europa, dovrebbe essere un antemurale agli scompigli.—Pur tuttavia questo colosso coi piedi d'argilla, come chiamolla l'enfatico Diderot, — questa grande potenza che ’l principe Gortchakof disse calma, maestosa, potente (331), non è mistero per alcuno (332) che abbia la pretensione di dominare l'Europa. Scappala essa dalla oscurità e dalla barbarie, e preso posto fra le grandi potenze europee pel genio di Pietro I, che, scartato il titolo di czare, assunse quello d’imperatore, è divenuta pei suoi eserciti numerosi, atti a sostenerne la più vasta ambizione, una minaccia perenne.

Gl’Inglesi poi che usurpando l’impero dei mari dominano l'universo, e senza avere mai fretta regolano il mondo (333), perché

Le trident de Neptune est le sospiro du monde (334),

non sono che calcolatori del momento, egoisti, Carnìvori, i quali come protestò nel 1791 Longhbourougli (pria d'essere cancelliere dello scacchiere) scorrono tutte le regioni del globo per immolarvi vittime umane; ne altra politica essi stimano che la politica positiva, la politica degl'interessi. La fedeltà ai trattati, gli scrupoli morali sembrano loro puerili;—pronti sempre a sacrificare senza rimorsi alle loro private vedute repubbliche e monarchie. — Usanza perversa che ormai s'è resa universale; dappoiché i sovrani, anco i più severi nella loro condotta privata, credono che la politica non sia obbligata di sottomettersi alle regole morali, onde l’interesse detta e rompe i loro giuramenti. Però la vecchia Europa, nella quale addì nostri sono rari gli uomini capaci e molti i presuntuosi, giacché la presunzione è inseparabile dalla incapacità (335), operando in tal guisa nel momento presente hanno mostrato sconoscere appieno che un secolo nuovo marcia sovr’essa. Addì d’oggi non trattasi d'ingrandimenti di stati o di rovesci di alcune dinastie: oggi trattasi del cambiamento delle nazioni, della fine di un mondo antico, del cominciamento di uno nuovo. Trattasi in somma della rivoluzione, la quale da un lato con l'industrialismo minaccia di materializzare l'intera umanità, e dall'altro si oppone in massa all'antica massima espressa da Claudiano

Numquam libertas gratior extat,

Quam sub rege pio.

Essa intende seppellire l'Europa monarchica per impiantare dappertutto trionfante il vessillo della democrazia alea e comunista, la quale ormai può dirsi che regna e che governa; senza che sdegni intanto i titoli orgogliosi di duchi, conti, commendatori, cavalieri e tutta la serie delle frivolezze sostituite da Costantino alle corone civiche e alle modeste distinzioni cittadine.

Le antiche dinastie avrebbero dovuto far chiaro che se i troni possono essere scossi, non perciò possono essere distrutti; e che le corone non dipendono dal successo dei delitti o dai giuochi di fortuna. — ne avrebbero dovuto tollerare che si fosse di nuovo applaudito all'applicazione dei principii di Buchanan (336) e di Mariana (337); anzi che si deificassero i regicidi, i quali prima si tanagliavano, si squartavano, si condannavano all’infamia perenne.—Però le antiche monarchie, non contano più tra le file dei loro uomini di stato personaggi della tempra di Metternich, cioè campioni incrollabili di politica conservatrice, di legittimità e di controrivoluzione. E lungi di celebrare a suon di tromba, come fecero al congresso di Troppau, il sistema d’intervento qual altro vangelo (338), destinato a liberare il mondo da tutti i mali rivoluzionarii, e quale ancora di salute indispensabile a salvare ogni ordine stabilito negli stati, si sono scoverte impotenti e si sono trovate avvilite; ragion per cui han professato il non-intervento. Gl’imhecilli poi suppongono ch'esse credessero che il bene debba nascere solamente dall’eccesso del male, e le suppongono oompatte e di accordo pel rassetto generale!! —.La cosa poi che sopra ogn'altra si rende inesplicabile in faccia all'anello primario della rivolta (Napoleone) è l'abbattimento della scaltrissima Inghilterra;— Inghilterra che dapprima seppe si astutamente contraddire ai furori della rivoluzione dell'ottantanove tanto quanto con decreto ridicola la Convenzione arrabbiata dichiarò Pitt nemico del genere umano; —Inghilterra la quale in seguito travolse e stritolò l'onnipotenza del grande Bonaparte, cui fin anco, derise appellandolo Nic(339). Essa ne conquassò la flotta ad Aboukir, ne arrestò i passi a s. Giovanni d’Acri, gli tolse gli ultimi vascelli a Trafalgar. — Egli invano sciamò nell’eccesso del suo orgoglio al corpo legislativo (340): lorsque je paraitrai au delà des Pyrénées, le Léopard épouvante cherchera l'Océan, pour éviter la houle, la défaite ou la mort; dappoiché il leopardo comparve al di qua dei Pirenei e lo costrinse a sgombrare dalla Spagna. — Anzi il leopardo passò oltre, e s’impossessò del mezzogiorno di Francia sino alla Garonna; indi a piè fermo aspettollo a Waterloo, donde lo strascinò a sant'Elena, ve lo seppellì, e custodi con disprezzo e gelosia la tomba di lui, il quale, non potendo vincere colle armi l'Inghilterra, avea tentato annientarla per mezzo dell'isolamento,col vagheggiato sistema continentale, per la quale via intendea privarla dei mezzi che le danno inesauribile forza e vita rigogliosa (341).—Però dacché le ceneri di Napoleone scapparono alla custodia inglese, l'Inghilterra decadde, ben essendosi apposto il poetaKuminoff vaticinando che

Da quel cener di nuovo vicende

Nuova messo potrà germogliar (342);

ché davvero ben larga fu la messe nuova del cenere di colui, cui non l'umana potenza, ma solo il dito di Dio potè realmente abbattere ed annientare:

Non la forza dei popoli irati

Il tuo soglio al terreno adeguò,

Niun rivale fra' tanti assembrati

La tua faina, il tuo nome uguagliò.

Ma colui che l'immenso Oceano

Limitò con eterna barriera,

Egli sol nella ultrice tua mano

Potè il valido brando spezzar,

Fare in polve il tuo scettro, e l'altera

Tua coorte nei ghiacci atterrar (343).

L'Inghilterra ora trema in faccia al piccolo Napoleone, di cui soffre curvata la preponderanza; ne ha più il potere di richiamare col fischio i suoi compagni, com’era solita di fare (344)quando era governata da giganti e non da nani. E non pare affatto che sia per essere in istato da contrastare per ora la potenza di colui, il quale vent'anni prima che fosse arrivato al potere, anzi mentr'erain esilio e nella desolazione, fu giudicato dall’autore del Genio del cristianesimo il solo uomo capace d'occupare con gloria il trono francese; allorché, spenta la linea diretta dei Borboni, la repubblica fosse abortita (345).

Bisogna conchiudere che fu più rispettata l’Inghilterra e più influente quand'ebbe a reggitore della sua politica un poeta (346), e fu più compatta l'Europa monarchica quando i ministri importanti degli allori stranieri erano poeti ancor essi (347), anziché quando per isventura si misero al timone degli stati gli economisti di mestiere. L’Inghilterra—-pare impossibile!—ha financo rinunziato al protettorato della Grecia all’epoca appunto dell'apertura dell'istmo di Suez, il cui canale di mezzo, Strabone attribuisce al grande Sesostri, Erodoto e Diodoro siculo a Nechos figliuolo di Psammetico — canale che Dario re di Persia fece continuare, e Tolomeo II ristorare.—E quando vi ha rinunziato? quando appunto il mare jonio si rende importantissimo al commercio europeo.


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CAPO XI

Le finanze

Torno un passo indietro, perché io languiva nelle grandi prigioni, quando si disponevano le cose della guerra; — ivi apprendeva dai giornali le deliberazioni, inconsiderate che le camere emettevano senza titubare. — I corpi politici, ben disse il conte di Ségur(348), sono al pari degl’individui più spesso condotti dalle passioni che dalla ragione! Essi da principii saggi tirano conseguenze esagerate, fanno applicazioni false delle massime più vere, sostituiscono gl'interessi privati a quelli dello stato, i sistemi alla verità, e allo spirito pubblico lo spirito di parte.

Dovea prima d'ogni cosa provvedersi al denaro, indispensabile nerbo d'ogni guerra, e necessario in copia nelle guerre attuali; dacché Luigi XIV introdusse (349) l'uso fatale delle grandi armate, uso divenuto epidemico in tutta Europa... Già, soltanto Pompeo, ingannato dalle carezze della fortuna, potè credere fanciullescamente che in uno stato libero si potesse governare senza forza, usurpare senza violenza, e arrivare alla tirannide per via della pubblica stima— ne fu a tempo di pentirsene!

Non c'è dubbio che le finanze dell’Austria trovavansi al verde; però il suo bilancio nel tempo normale presso a poco pareggiava; ma le finanze italiane erano in ruina progressiva. L'ordinario disavanzo nel breve periodo di sei anni (350) sorpassava i due bilioni e settecento milioni (351); per colmare la quale voragine si era ricorso a quindici operazioni di credito fra prestiti ed alienazioni disastrose (352). Ora la guerra schiudeva un abisso, in cui Scialoja doveva profondare la finanza italiana, a furia di economiche dottrine, di ridicole larve, e di sogni misteriosi e funesti.—Avea sennatamente detto a Diderot la Cleopatra del nord Caterina seconda, cui il principe di Ligne chiamava Caterina il grande «voi travagliate sulla carta, la quale soffre tutto; ma io povera imperatrice debbo travagliare sulla pelle umana, che irritabile e molto riottosa». Però Scialoja preferiva di lavorare sulla carta come Diderot; e il Parlamento, permettendogli di spaziarsi a suo bell’agio, lo rese perfetto protagonista del Turcarot —immortale commedia di Le Sage, e la più pungente satira che siesi falla contro i finanzieri (353).— Le camere, la cui vera importanza consiste nel bilancio, cioè nel freno che dovrebbero imporre alle gravezze smodate ed alle spese inconcludenti, si dichiararono inette ed incapaci a fronte del cipiglio di un economista. — Deputati (354) e senatori (355)all'unisono accordarono arbitrio illimitato al ministero di fare, di disfare, d’imporre, di disporre, di estorquere senza limite, di taglieggiar senza misura; nel mentre che i giornali officiosi gridavano (356), che era mestieri mettere le finanze sul piede di guerra, che facea d'uopo far la guerra alla guerra. E i fatti sorpassarono le previsioni più lontane; tuttoché talun dottrinario (357)con un piglio sprezzante e di ostentazione fosse rimasto contristato che ancora qualche rendita sfuggisse dall'imposta.

Egli è vero che non sia più il caso di parlare di governi a buon mercato presso popoli dotati delle delizie di una civiltà incontentabile nelle sue esigenze, la quale spingendo tutte le classi a procurarsi con avidità insaziabile agi, ricchezze e lusso, ha spostati deplorabilmente tutti dallo equilibrio delle professioni sociali rispettive.—Civiltà ruinosa che coll'aumento della superficiale istruzione, crescente in proporzioni esagerate, con la mania del concentramento, con l'oziosità d'un gran numero di figli di famiglia, ha dato nascimento a quella professione e piaga del secolo che chiamasi burocrazia:—idra a cento capi ch’è penetrata a viva forza nelle amministrazioni più modeste; ed ha suscitate a dismisura le vanità locali, ha multiplicato illusoriamente e dannosamente lo scuole, ha sostituito la comunità alla famiglia,— sistema utile nello interesse delle sette, ma non già nell’interesse sociale.—Di guisaché a Gaetano Filangieri che parlando della sua epoca chiedeva (358) se vi fosse stato mai tempo nel quale gli uomini abbiano pagalo più e forse ottenuto meno dalla società, potrebbe sicuramente rispondersi di sì... c'è il tempo nostro.—Tempo che i posteri non chiameranno antico, ma incredibile, per avere divorato con le sue stranezze in pochi anni a furia di tributi affliggenti e di tasse, sproporzionate alle forze di chi debbe pagarle, un tesoro di ricchezza che sorpassa di gran lunga quello levato prima in un secolo intero:— tasse e tributi in somma quales a saeculo nunquam fuerant, come era stato detto (359) dei tempi di Costante II imperatore (360). — E ciò senza curarsi i governanti che le imposte non debbono far tagliare la palma per coglierne il frutto,come fanno i Coraibi;—e molto meno far seccare l'albero dalla radice. Che se le leggi di finanza sono indispensabili, non perciò debbono essere ingiuste e opposte ai bisogni comuni e ad una politica avveduta.—Si emisero adunque decreti e si pubblicarono leggi da fare raccapriccio;—delirii e non altro d’intollerabile dispotismo, abuso detestabile di potere o di forza produttore di onta e di dispetto. Dappoiché non è unquemai l'autorità o i legislatori che rendono eque e rispettabili le leggi; — è la sola giustizia e la verità che può renderle tali. Ma mettiamo da banda le parole più o meno pungenti: qui non trattasi di parole, ma trattasi di cose, dirò con frase prestatami dall’eloquente Lattanzio (361).

Fu prima tra tutte la legge della carta moneta(362), o meglio del corso forzoso dei biglietti di banca (363), dono funesto pel paese e per la banca, secondoché dichiarollo apertamente l’illustreChevalier(364). Nulla di nuovo avrebbe avuto la creazione di ce triste signe du temps, come la qualifica Wolowski (365). Questa piaga di epoca antichissima nella China(366), ove la trovò In uso Marco Polo, pare che ivi fosse stata in vigore sin dalla metà del secolo decimo: essa è antica del pari presso i Tartari, ove assicura Klaproth (367), che fin dal 1153 circolavano degli assegnati fatti di corteccia di bambù; è antica pure in Persia, ove nel 1436 Giosafatte Sbarbaro viaggiando trovò moneta di carta. Siffatta piaga poi oramai comunemente s’incontra nella storia dolorosa degli stati moderni: essa sin da quando fu decretata dall’Assemblea francese per istigazione di Mirabeau ha prolungato tante illusioni, ha creato tanti funesti prodigi!, ha pagato tanti orrendi delitti. L'Italia però non aveala ben bene assaporata, e ora dové amaramente gustarla, ragunando materia da piangere per lungo tempo; imperocché negli affari umani non può riuscire a buon fine ciò che manca di senso comune (368). Fu detto da taluni che siffatto decreto esiziale non fosse stato emesso nell’interesse del tesoro, ma nell'interesse della banca. — Questa è pur vero trovavasi nella impossibilità di rimborsare i valori fittizii che aveva messi in circolazione nel commercio, cd era quindi ad un pelo dal suo fallimento (369); perciò con insistenza reclamò ed ottenne che i suoi biglietti fossero sostituiti alla metallica moneta. Ciò era un andamento naturale; imperocché la banca nei pericoli di guerra temer doveva, che ognuno avesse cercato di realizzare i suoi biglietti, ed essa non potendo tutti soddisfarli sarebbe fallita, tuttoché legalmente e senza disonore fallita: era perciò scnnato avvedimento che richiedesse quell'unico riparo. Ma il vero movente di quel deplorabile decreto non fu il solo dissesto della banca, fu il manco di danaro nel banco di Napoli e in quello di Palermo. Questi banchi di mero deposito effettivo erano stati spogliati di somme rilevanti; e ove si fossero per cagione dei bellici rumori richiesti i capitali, non potendosi questi rendere in intero, il governo si sarebbe coverto di vergogna e dichiarato frodatore. Fu per questo che il ministro di finanze pensò d'imitare l'audacia dello scozzese ciarlatano(370) Giovanni Law, trasnaturando l’indole dei biglietti di banca e riducendoli menzogna. — Dichiarò adunque Scialoja (371), dopo averne giorni prima smentito la notizia, con acrimonia rispondendo alla interpellanza del deputato Torrigiani (372), ch'ei si strascinava a quell'estremo, vinto dalle circostanze; vai quanto dire come spediente supremo di pessimi giorni.

Per un tal modo furono salvati pel momento la banca ed i banchi, e l’erario n'ebbe un prcstamo di dugento cinquanta milioni, che poi di fatto s'accrebbero di più e più altri milioni. ne l'ideologo ministro s'atterri mica delle conseguenze, sicuro della vittoria bellicosa, la quale spiravagli fiducia, che i biglietti tornerebbero fra poco ad essere soddisfatti sia dalla banca o in ultimo caso dal tesoro:— doppia illusione che fece marciare innanzi alla carta moneta come marciossi innanzi del nemico; cioè secondo ne scrisse Duprat (373) pour se fair e battre par un comme par l'autre.

Fu profondo e immediato il turbamento che dilatossi nella economia nazionale. I biglietti di banca, nella origine loro e quando una banca appresta garanzia e procede lealmente, sono di grande vantaggio. Non già che questi biglietti davvero fossero moneta, come in un certo senso ha sostenuto il valoroso professore Horn (374); dappoiché non può mettersi in forse, come egli stesso consente, che la moneta fosse una vera mercanzia; anzi non può non esser tale, dovendo essa essere un valore, ed un valore per eccellenza (375). Ciò ch’è perfettamente in opposto della strana teoria di Patterson (376), scrittore brillante, ma eccentrico, che ha riputate simbolo barbaro le monete fabbricate col metallo prezioso. — Falsa idea tuttavia da più tempo penetrata in Italia e di cui si fece pubblico spaccio a Torino nel 1854 dallo avvocato messinese Giuseppe Lombardo Scullica, il quale ripetè il suo paradosso in Messina nel 1857 (377), pretendendo dimostrare, che l’introduzione della carta moneta a corso forzoso rende più ricca una nazione, mentr'essa evidentemente non può che renderla miseranda. — È questa pur troppo la proprietà di questo secolo progressivo, filosofico, illuminato, che non solo si commette il male, ma sfacciatamente si difende come un bene (378);—ma non più ci debbon sorprendere i paradossi, perché appunto il nostro tempo è proprio paradossale(379).

Siffatti biglietti, come ha sostenuto il chiaro Wolowski (380), non fanno che adempiere la principale funzione della moneta, ch’è quella di servire come misura del valore. È per tal guisa ch’essi porgono agevolezza al commercio colla rapidità e col comodo che apprestano alla circolazion dei capitali. —Il che non si avvera però dell’ugual maniera che nelle cambiali, come ha poco esattamente sostenuto Chevalier, ma come mezzo sicuro col quale non si creano i capitali, ma si trasmettono i valori.—E si trasmettono in modo che quantunque non formassero aumento di dovizia, pure la loro rapida circolazione, che si calcola al triplo del capitale effettivo, accresce il commercio e per conseguenza la ricchezza: — in somma nel mentre il biglietto non è per se stesso aumento di valore, la sua circolazione produce aumento di ricchezza. — Esso intrinsecamente è una parola d’onore che promettesi adempire a semplice richiesta;—promessa intanto che se si volesse da tutti i possessori mantenuta nello stesso istante svelerebbe la sua fittizia natura e la sua ideale sussistenza. — Or immutandosi l’essenza del biglietto, — dichiarata menzogna la promessa che racchiude, — obbligato ognuno per ineluttabile legge a contentarsi della sua cifra nominale senza che potesse effettuarla — costretto chiunque a dovere ritenere forzosamente per valore ciò ch’è del tutto privo di valore, la società si conquassa, si ammiserisce, si rovina.

Per giunta una crisi secondaria suscitossi all'esordire di questa legge rovinosa, per non essersi saputo provvedere alla moneta spezzata, indispensabile al traffico manuale. — Era provvedimento della più facile veduta, ma che intanto non si seppe prevedere; perchè le idee più semplici sono quelle che vengono il più tardi (381), e perchè la impazienza e la mancanza di previdenza sono le malattie comuni dei politici odierni (382). Tali turbamenti conglomerati in massa fecero esclamare ai giornali francesi, che Scialoja avesse di sicuro perduta la testa interamente; imperocchè ogni sapere è scemo quando non si compone ad un tempo della teorica e della pratica, — dell'astratto e del concreto, — del principio e della applicazione opportuna. Tuttavia non mancarono vagheggiatori dell'insulsa e falsa tesi di Storch, la quale vuole sacrificato l'individuo alla specie, e ti vuol provare con sofismi, che le perdite si compensano appuntino, siffattamente che se uno perde, un allro guadagna, e la ricchezza nazionale mantienesi intatta. — Menzogna lagrimevole! — menzogna fatale! Conciossiaché quando una sorgente d'immaginaria ricchezza si schiude, quando questa potenza fattizia s'introduce, le predizioni della saggezza si dimenticano, la follia concepisce nuovi calcoli e communica speranze il limitate; — appunto come accadeva al 1648 quando Richtausen con un granello di polvere mostrava di convertire in oro tre libbre di mercurio in presenza di Ferdinando terzo imperatore.

Ben presto intanto sostituita l'ombra alla sostanza, lo straccio al metallo prezioso, il valore nominale segue leggi capricciose; ne più il commercio e l'industria trovano sicurezza. Si distrugge il credito che non è per certo un capitale, come ha voluto sostenere Chevalier, ma ch'è una promessa pel futuro, le cui combinazioni valgono a facilitare l'applicazione dei due grandi strumenti del progresso, che sono il travaglio ed il risparmio; – il produttore si scoraggia; — il lavoro vien meno; — la società languisce; — l'importanza delle imposte s'attenua, e le popolazioni duramente soffrendo si lagnano, s'inaspriscono, si disperano.

Balzate infine le finanze sul mare agitato della carta-moneta, con cui un governo non fa che estorquere ad imprestito e senza frutti e senza restrizione di tempo dai suoi nazionali, divenne impossibile negoziare prestiti comuni e volontarii. Ed eccoli per necessità un imprestito forzoso, per eufuismo appellato nazionale (383), che fece rivoltare non che la giustizia e la carità, ma fin anco il senso comune (384). Per esso si ordinò strapparsi a furia l'enorme cifra di trecento cinquanta milioni effettivi (385) dalle smunte tasche di sconfortati cittadini, che si videro prossimi ad essere ridotti tali quali Cambon e Marat nel 1793 aveano proposto volere ridurre i proprietarii francesi, cioè a non avere più de quoi se couvrir le derrière; mettendosi in non cale quell'inconcusso principio, che scopo d'ogni legislazione si fosse la garanzia delle proprietà. E che perciò una nazione, quantunque legislatrice superiore, non può togliere le proprietà, mentr'essa non esiste che per proteggerle, diceva con robusta energia l'abate Sieyes il 10 agosto 1789 all'assemblea di Parigi. Mutuo forzoso intanto al quale parea strano che si accordassero premii, e pure erano indispensabili onde stuzzicare l'ingordigia delle provincie e dei comuni, perchè questi accorressero pronti in surrogato degl'individui, i quali in massima parte doveano scovrirsi impossibilitati o renitenti.


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CAPO XII

Il terrorismo

Profittando del tempo. burrascoso le Camere dopo di avere dato ai ministri i pieni poteri di finanza votavano la soppressione del monachismo, ch 'è una istituzione sapiente, levata a cielo financo nei suoi Miserabili dal dispettoso Victor Ugo, che ne dipinge bellamente la vita e ne difende con calore i diritti. Istituzione la quale fra' tanti vantaggi ha pur quello di stabilire l'equilibrio tra la popolazione e i mezzi della sussistenza; ricevendo il soprappiù di coloro che hanno disposizione ad essere continenti. Continenza che, diceva il sommo medico Foderé (386), non è una situazione cosi penosa come pretendono taluni; e che ha sin dalla rimota antichità ottenuto suffragi inarcati, riputandosi utilissima a procurare una buona popolazione.

L'odio di tutto ciò, che ha un'origine sacra, è la caratteristica dei comedianti di libertà, ossia degli odierni rivoltosi radicali. Quello ch'essi perseguitano è lo spirito di corpo, la vitalità d'associazione, la forza rinvigorita mediante la vita comune, che la Chiesa ha sempre creato, e in cui s'è sempre ritemperata (387). Votandosi l'abolizione delmonachismo, taluno si fece sue le frasi dette il 29 ottobre del 1789 nell'assemblea costituente sulla proprietà dei beni del clero da quell’astuto Volney, le cui dottrine erano dirette al rinnovamento politico generale. Questo spoglio dei claustrali, che Voltaire chiamava ingiustizia d'un giorno, ma che durando secoli potea produrre del bene, fra noi era stato tentato sin dal 1814, e ne aveva data la spinta il barone Ventura (388).Ma la opinione pubblica allora vi si oppose richiedendosi riforme (389), ma non tollerandosi soprusi; e mille penne (390) ne perorarono gagliardamente le difese. Ora fu dato il colpo alla radice, e questo colpo mortale argomentò fra noi il malcontento lungi dallo estinguerlo, riscaldo le passioni che avrebbero dovuto raffreddarsi, svegliò le diffidenze che si dovevan dissipare, e slargò l’epoca delle rivoluzioni invece di chiuderla solennemente.—Ha egli è sempre cosi! Un eccesso ne chiama mill'altri; e nel mondo intellettuale e morale, del pari che nel mondo fisico accade, che quando troppo si tira, giungesi all'estremità opposta per qualche ripicco in senso inverso.

Nello stesso tempo dichiarossi la patria in pericolo; dichiarazione mai sempre imprudente, perchè aumenta il pericolo lungi dallo allontanarlo, e fa nascere i torbidi interni per le rigorose misure, che il timore spinge a prevenire. A partito dominante non vedendosi appoggiato dalla opinione generale ricorse all'arbitrario, che lungi d'essere rimedio non è che veleno; e si crede costretto a sostituire apertamente la forza alla persuasione, il timore alla giustizia. Si gridò nelle camere, come area gridato in Francia al tempo della ristaurazione Fiévés, che le leggi di eccezione doveano essere cosi violente come violento era il male ch 'esse dovevano guarire. Si soggiunse, come avea soggiunto allora Cuvier, ch'era mestieri far la guerra alla guerra, e che il bene pubblico ciò richiedesse; quasi il bene pubblico potesse nascere dalle lacrime e dalla desolazione, o doveste essere oggetto di spavento; e dovesse segnare orme sanguinose e fatali tosse le orme della pesto. E fatta circolare prima la voce che un comitato borbonico in Malta tentasse promuovere una reazione nel mezzogiorno d'Italia (391), fu votata tempestosamente una legge detta di difesa e sicurezza dello stato.

Questa prese nome di Crispina, perchè proposta dal democratico Francesco Crispi, cui Carlo di La Varenne, immemore del detto di Giovenale (392), si è travagliato a dimostrare (393) che fosse discendente di quel Crispo patrizio romano d'Agrigento, il quale brillo nel patriziato quando gli stipiti degli attuali nobili di Europa erravano in istato selvaggio nelle foreste della Germania e delle Gallie. -- Legge (394) che in sostanza era la legge dei sospetti, che facultava il governo a condannare sulla intenzione delle opere, e fino sul pensiero (395), noto a Dio soltanto, anco gl'indiziati di volere ristaurare l'antico ordine di cose, o nuocere in qualunque maniera si fosse all'unità italiana.

E ciò con un giudizio iniquo, perchè senza difesa non solo, ma senza che neppure si sentisse l'imputato. Indi si fece annunziare che il governo aveva notizie positive che re Francesco tentasse ritornare a Napoli, epperò la squadra avesse a invigilare (396).... Era paura, non altro; ma la passione della paura, adulabile come tutt'altre, e causa infelice della rarità dei buoni governi, turba il giudizio. A forza di temere d'immaginarii perigli si fanno nascere i reali, spirando tosto o tardi qualunque siesi governo la diffidenza che mostra ed il terrore che prova, ed abituandosi a tante chimere disgustose che lo rendono ludibrio delle genti.

Questa legge tremenda colla quale il governo proclamava:

... Odiate, ma obbedite; ed anco

Obbedendo tremate (397),

chiamò virtù la delazione, che fu qualificata invece per pubblica peste da quell'imperatore Costantino, cui il senato aveva riconosciuto degno del titolo di fondatore del pubblico risposo (398). Essa dichiarò merito la infedeltà, come avea fatto vergognosamente la Francia nel novantatré, allorquando per isbarbicarela voce delle coscienze resistenti agli strani decreti; tentò distrurre qualunque idea religiosa; abbenché invano. Giacché la religiositàsista inalterata; essendo il gran punto fisso dintorno a cui si ravvolge 0 aggira il mondomorate(399).

Questa legge dei sospetti, e la soppressione in massa dei monasteri e dei conventi, fornirono arme nefande dì proscrizione e di tormento contro uomini innocui d’ogni classe, che si appellarono in massa reazionarii-clericali: -— qualifica tremenda, paria quella cristiano d’una volta, il cui solo nome fu pei primi tre secoli della Chiesa il più grave delitto (400); anzi nome siffattamente aborrito dai tiranni che fu riguardato come causa di tutte le sciagure, e perciò meritevole dell'ultimo supplizio. Si Tiberis redundaverit, si terra movit, si fames affiscit (è Tertulliano che il racconta (401)) statim Christianos ad leonem. Ed ora bastava contro i decaduti, come ai tempi di Cornelio Silla, avere dispiaciuto ad alcuno dei partigiani oscuri di lui per essere annotato nella esiziale tabella dei proscritti; infamando agli occhi del popolo i relegati quai seduttori della nazione, quai cospiratori pubblici contro dello stato. Per giunta abbandonossi il culto all'ignominia, alla profanazione ed al disprezzo, intendendosi di scuotere per tal via il giogo della religione che lo stesso popolo romano, ch'è il popolo più rinomato che vanti l'antichità come politico ed avveduto, nel suo furore per la libertà non ardi di spezzare giammai (402)...

Era cosi che si dimostravano i vantaggi delle libere forme... così rendevasi inviolabile la sicurezza personale — sacra la proprietà — attiva l’industria — energico il pensiero — dolce la giustizia... Ah Cavour, Cavour...

A vergognarti vien della tuafama (403) poteva dirsi a lui, come Dante ebbe a dire ad Alberto tedesco. — Pare inverosimile come volendo puntellare il grand’edificio della libertà si fosse lavorato a rovesciarlo, avvilendo la dignità ed i talenti col dispotismo e con l’anarchia.

Bisogna conchiudere che l’energia che dà la libertà riesce funesta, allorché dessa è priva della saggezza che la conserva e della prudenza che la nudrisce; epperò che la libertà deve temere più le passioni di coloro che la servono, anziché i nemici che l’attaccano. —Le passioni non sanno mettere limite agli odii ne all'entusiasmo, perché esse non ascoltano ne la giustizia, ne la politica, ne l'umanità. La moderazione, così sapientemente espressa dagli antichi nel precetto da Apolline dato a Fetonte interutrumque tene, divetta perfidia agli occhi degli uomini di parte, ne altrove che nei posteri può sperare indulgenza. La violenza tien luogo d’ogni altro merito; ed è perciò che in tempi di turbolenze il potere si guadagna necessariamente dagli sfrontati, i quali hanno la temerità di gridare: viva il popolo cui tradiscono, viva la libertà che rovesciano.—Così Robespierre, Danton che per le sue forme d’atleta e la sua voce stentorea sembrava il Goliat della rivolta, Marat, Collot-d’Herbois, Billaud, Conthon, si trovarono di dritto dominatori della Francia nel secolo passato. Che se con loro si associarono uomini più dolci, questi non consentirono a servirli che per timore, per politica o per ambizione. Però, guai, guai, diceva Rocco re di Mauritania compagno di sventura di quel Giugurta di cui trionfò Cajo Mario, guai a quel regno ove i buoni sono timidi, audaci i malvagi;—ove si spretarne i pacifici e sono favoriti i faziosi (404). Effetto di cosi fatte mattanze fra noi fu il cambiarsi interamente lo spirito pubblico per produrre a suo tempo tristissimi frutti. Il nostro popolo confondendo financo i principii con l’abuso, gli amici della libertà cogli anarchici, non più attaccò giuste idee alle cose e alle parole. E tutto odiando disprezzò tutto, con un contegno tristo. con un silenzio cupo, con quella calma spaventevole che annunzia e che precede le tempeste; desiderandosi fino generalmente, come fu desiderata ai tempi di Niceforo, la dominazione dei Barbari e dei Saraceni. — E l’epoca era sì corrotta, che mentre la bontà sembrava debolezza, quel contegno, quel silenzio, quella calma, quel desiderio disperato parvero coraggio.

Io, che tali cose osservava attentamente, era intollerante di trovarmi chiuso in una cella, che privava di prender consiglio dalle circostanze me che non amo le lotte politiche, le quali rimpiccioliscono il cuore, ne lo scetticismo che lo lascia vuoto a dii ha bisogno di emozioni generose odi verità positive. Mi riusciva insopportabile la studiata lentezza del mio procedimento criminale; e mi turbavano i pronostici sinistri, di cui per altro non facciamisi mistero. La malvagità dei partiti è tanto spudorata fra noi, che si onorano gli uomini di parte farla da sfacciati delatori. Infatti svergognati fogliettisti, risparmiati all'obbrobrio dalla passata signoria, insistettero all'aperto per farmi cacciare a domicilio coatto: essi imploravano che per lo meno fossi riportato alle prigioni. E l'istruttore scherniva i suoi compagni, perché mentre egli aveva avuto il coraggio di arrestarmi, essi non aveano quello di ricondurmi al carcere centrale. 11 processo architettato non Veniva a compimento; — era il processo senza fine, era la storia di Giovanni Bull, era la legge è un fosso senza fondo (405) della penna-satirica di Swift (406);—era. la spada di Damocle, però che dovea starmi sempre pendente sulla lesta. ne bastava che mettessi, ogni opera per ispingerlo al fine; dappoiché in realtà la giustizia è amata da tutti, ma intesa da pochi, voluta da nessuno. Ora siccome non tutti odiano quanto me i costumi del Brasile, ove si preferisce la morte al far le cose con un po’ di fretta, puossi immaginare che strazio facesse alle mie viscere tanta straordinaria lentezza!

Mi sarei contentato financo d’una pronta condanna, anziché di una lunga processura, che non avere per iscopo se non protrarre quanto l'assedio di Troja la mia ingiusta e violenta prigionia. — Meno male che in fondo io non restava vinto dalla fiera procella, fornito di animo bastante a tolleranza; nulla ostante i nuovi soprusi, e le nuove misure di rigore, delle quali mi riserbo favellare indi a che avrò fatto sommario racconto delle cose della guerra, di cui parmi tempo che dessi il breve cenno che promisi.


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CAPO XIII

La guerra

Quella Prussia, la quale nel 1863-aveva protestato con Napoleone III (407) che i trattati del 1815 erano il fondamento dell’edificio europeo, e fondamento che tutti i governi doveano consolidare; — quella Prussia fu la prima a far brillare i lampi precursori della gran tempesta, scrivendo Bismark (408)una circolare diplomatica insolente. Con essa fece, come avea fatto altra volta Richelieu, rappresentare al re la seconda parte nella monarchia, ma la prima in Europa; poco curando di deturpare il principe, purché avesse illustrato il regno. E poiché di tutte le umane passioni l’ambizione è la più attiva e difficilmente ai comprime, detto fatto re Guglielmo (409) fece imprigionare il commessario austriaco dell’Holstein, e fece marciare le sue truppe sopra Altana contro il generale Gablentz, che ivi aveva ragunato i membri del governo.

L’esercito prussiano, forte di 650,000 uomini sotto gli ordini immediati di lui, avea per CAPO di stato maggiore l’ardito generale Moltke (410),il quale d’un colpo occupò Dresda capitale del regno di Sassonia (411), che presto o tardi, predisse Chateaubriand, sarà preda prussiana; e accelerò le marce ed i combattimenti, non ignorando che la fama è necessario d’incalzarla; perché quali i primi successi, tale per ordinario suol essere tutto il restante.

Gli facea fronte con sei corpi d’esercito, composto di giovani a occhi fieri e cerulei, a capelli biondi, a gran corporatura, forti nel dare o pigliar la carica, avvezzi a tollerare il freddo e la fame, se non il caldo e la sete, il feld-maresciallo Benedeck, il quale aveva scelto a generale Olmuzza, ch'è CAPO luogo del Margraviato di Moravia, e cittadella delle più forti, collocata sulla March o Morava riviera dell impero austriaco, la quale sorge appunto in Moravia al versante meridionale dello Schnerberg presso Altstadt. — Benedeck entrando nell'alta Slesia si tenne in Boemia sulla difensiva, e a Gallizia prese l’offensiva; essendo Berlino l’oggetto delle sue operazioni militari, come dei Prussiani lo era Vienna.

Il giorno 20, per quel sistema d’ingrandimento che sembra, dicea Segur (412), aver caratterizzato sin dalla sua origine la casa di 8avoja, il generale La Marmota che nella ultima afta nota alla Francia aveva detto: «Noi abbiamo armato per avere la Venezia e dobbiamo averla o colla pace o colla guerra» mandò dal quartier generale di Cremona (413), in nome di re Vittorio Emanuele, la sua dichiarazione di guerra all'arciduca Alberto. Questo principe comandava tre corpi dell'esercito austriaco il 5°, il 7° e ‘l 9°, destinati per la guerra italiana; di essi il 5° col generale Hartung stanziava a Padova, il 7° col generale Marvich a Treviso.

Nello stesso giorno 20 da Firenze il re diresse i suoi proclami al popolo ed alla guardia nazionale, ne’ quali bensì non trovasi un molto di Dio, di virtù, di libertà... parole possenti che piacciono agli uomini, li rassicurano, li consolano; dappoiché gl'Italiani di oggidì non usano che frasi affettate, locuzioni pagane, fatalità turca. Il re partì per il campo l’indomani, ove giunto indirizzò nello stesso giorno il proclama all'esercito che si componeva, dicessi, di 424,193 uomini oltre ai volontari che seguivano Garibaldi, il quale avea giurato di dover costituire l’Italia una, indipendente, libera, repubblicana (414) sin da quando erasi ascritto alla Giocane Italia sotto nome di Borel(415).

Il principe Eugenio di Savoja Carignano assunse allora da luogotenente il governo dello stato, affiancato da un ministero di assoluta possanza formato di persone ripetutamente ricordate(416); giacche in Italia chi è stato ministro, non importa a qual titolo, ritorna ad esserlo altra volta, non essendo un primo ministero che scala pel secondo, quasi rimanga nell'individuo costantemente l'odor del portafogli. Il re da Canneto il giorno 22 manifestava che il domani col sagace Durando, col volgare Cucchiari e con La Marmora, che mostrava palesamento di credersi il solo ed unico Messia dell'arte militare(417), avrebbe oltrepassato il Mincio a Goito, collo scopo di penetrare tra Mantova e Verona. Era questa la parte più forte della frontiera austriaca che presentava sul Mincio Peschiera, Mantova e Governolo; sull'Adige Pastrengo, Verona e Legnago, e le colline e i monti in appoggio di queste due munitissime linee. Egli passò realmente il Mincio, andando ad urtare improvvisamente di fronte ai più forti ostacoli che opponeva il territorio nemico; e avviò la sinistra e il centro alle posizioni di Taleggio e Villafranca.

La parte più debole della frontiera austriaca era quella del basso Po, chiusa in prima linea da Ostiglia ad Adria dal Po, ed in seconda linea dall’Adige da Legnano ad Anguillaia. Cialdini grande nome in Italia, ma senza grandi fatti, varcando il Po doveva cooperare di sua parte al buon risultamento dell'attacco principale, comparendo in tempo sul campo: egli aveva il suo quartier generale a Bologna e spiegava le sue forze lungo la via Emilia da Seggio a Forlì. Le strade che conducono a Venezia a traverso quella barriera d'acqua passano per Borgoforte, s. Benedetto, Bevere, Ostiglia, Ficarolo, Occhiobello, Ponte Lagoscuro, Polesella. Di esse le prime tre portano direttamente nel quadrilatero; e queste erano chiuse da teste di ponte sul Po;—tre altre, chiuse del pari da teste di ponte sull'Adige, mettono nella linea di Padova a Mantova.

Ma i fatti sogliono essere duro disinganno alle speranze più belle; giacché entre l'intention et l’action, ha scritto Guizot (418), la distance est grande et la route difficile: è per questo che ammonisce il savio, noli canore tuba ante victoriam. — Fidenti sempre nelle proprie forze in generale i condottieri e nell'aura felice di fortuna non vogliono mai accettare per sé le grandi lezioni, che la sorte delle armi in tutti i secoli ha dato financo ai genii più sublimi, con gl'impreveduti disastri di Carlo XII, con la posizione critica di Pietro il grande sul Pruth, con gl'inattesi rovesci di Luigi XIV, con la distruzione dell'amata invincibile di Napoleone Bonaparte. Vero è che nos ipsi fortuna, ma pochi si persuadono che appunto perché la fortuna, che si divinizza, dipende in parte dagli uomini, sarà sempre leggiera per la temerità come costante per la prudenza, la quale è frutto della esperienza del mondo, ossia della saggezza dei secoli. L'intiero esercito italiano componeasi di quattro corpi comandati:I. da Durando, II. da Cucehiari, III. da Maroszo della Rocca, IV. da □aldini;—in tutto contavansi effettivamente 225,000 uomini con360 cannoni. La Marmora era il generale maggiore a lato del re. — L'esercito austriaco contava 95,000 uomini e 240 cannoni (419).

Le truppe italiane con un piano di guerra più precipitato che maturo, marciando contro Albando credeano trovare gli Austriaci al di là dell’Adige,—ma costoro dietro l’Adige non erano. Il giorno 24 il campo di battaglia presentava la figura d’un trapezio, i cui quatt’angoli si trovavano a Peschiera, Dossobuono, Mozzecane e Valeggio. Fin dall’albeggiare sereno messe in moto le divisioni italiane; quanta mentr’esse spingeano la loro marcia furono scusa tanti preamboli tolto ad un colpe assalite d'improvviso dalla cavalleria di Polis, che pretese sfondare due divisioni italiane.—Non c'è dubbio che la cortesia nelle battaglie è nobile ed incantevole, ma questa è rara ma rara pur troppo: infetti nelle storie fu ricordato sempre come un'occasione singolare l’aneddoto della battaglia di Fontenoy. Allora il reggimento delle guardie francesi s’incontrava colla colonna inglese comandata dal Duca di Gumberiand, e dicesi che lord Charles Bay capitano delle guardie inglesi si fosse avanzato gridando: Messieurs des gardes françoises, tirez!... Al che, narra Voltaire (420), rispose il conte di Auteroch luogotenente delle guardie francesi:MessieurslesAnglois,nous ne tirons jamais les premiers, tireznous mèmes.

Le truppe italiane stupefatte dallo immenso fragore di armi, di cavalli e dalla conflagrazione di tanti soldati nemici che gridando sacrament der teufel(421), le une sulle altre si scagliarono e si precipitarono. Azzuffassi davvicino, da lontano, a quadrati, a conii, correndo l’un uomo contro l'altro e venendo alle armi corte; finché le file già allargate si rompono, ne fu possibile riordinarsi anco per gli ostacoli che opponevano loro i proprii carriaggi e gli attrezzi di guerra. Sbigottiti, tentennano, si sperperano, si disperdono (422), si volgono in fuga affamate... e nella fuga corrono in braccio alla morte più spietata: — una palla rovesciò Io sventurato generate Cerale, che come quel Ceriate di cui scrive Tacito (423)colla spada in pugno procurava riordinare ed animare le sue gentil

Gli Austriaci, preso prima d'assalto Monte Vento, sostarono per la stanchezza; indi ricominciato con maggior violenza il combattimento guadagnarono Gustosa. E ai nostri imbarazzati in un guazzabuglio di bagaglie e vivandieri entro una strada, che sarebbe stata angusta anco ad un’armata, la quale avesse dovuto solamente marciare, toccò una irreparabile disfatta — una catastrofe che sparse migliaja di vittime sul campo, confuse fra sani e feriti, tra semivivi e boccheggianti.

La posizione complessiva di Custoza si costituiva di un vallone che si distende in direzione di Staffalo, e che al nord è fermato da un’altura, la quale si protende dal Belvedere alla Bagoline;—all’est dai duo colli di monte Torre e monte Croce. — Conturbato La Marmora dagli enormi sbagli commessi non seppe trovar modo di salvare l’armata,.e persuase il re a ritirarsi al di là del Mincio, ove anch’egli passò, abbandonando il campo in momenti supremi, e lasciando senz’unità di comando i corpi diversi. Questi lottarono impavidi o vennero meno a seconda guidavanli esperti o impreviggenti condottieri: dimanieraché non mancò loro il coraggio per cadere con onore, conscii che

...nonè già la vittoria.
È il valor che onora i forti (424)

Chi di essi fecesi intorno alle proprie insegne, chi ne andò in cerca... chi gridava, chi accorreva, chi chiamava,, o secondoché avea ciascuno baldanza avanzava nelle prime e rinculava nelle ultime schiere; senza trovare il generale in CAPO , che come Rochejaquelein avesse detto loro: «andiamo a cercar l’inimico, se io retrocedo, ammazzatemi; se vo innanzi, seguitemi; se muojo, vendicatemi» — fu l'ignoranza in somma della mente direttiva causa del disastro luttuoso. ne già perché è questa l'infelice condizione delle guerre, cioè che i prosperi eventi se li appropria ciascuno, e dei tristi si dà la colpa ad un solo (425); ma perché un grande disastro nella guerra, diceva il primo Bonaparte, désignait toujours un grand coupable(426). Senza dubbio questa mente direttiva avrebbe dovuto ricordarsi delle parole di Gustavo III re di Svezia, cioè che ci vuole una guerra per caratterizzare un regno(427), e non mostrarsi anco agli occhi dei meno veggenti ineducata alla scienza della guerra, ignorante e confusa negli ordini dati prima, durante e dopo del combattimento. Bisogna confessare che avea pur troppo ragione l'amabile filosofo Frontonet quando dicea che valesse meglio essere affatto imperito ed ignorante, che sporto e addottrinato per metà!

D’altra parte non si potè contare gran follo sopra taluni generali, i quali senza covrirsi il viso di rossore e senza ascoltare la vergogna dei rimorsi portavano l'orgoglio sulla fronte, perché aveano disertato la propria bandiera: la loro voce era priva di effetto sopra un’armata indispettita e scoraggiata. ne i loro nomi potevano eccitare prestigio e fiducia; giacché les défections n’ont jamais grandi personne(428); anzi i Francesi sentenziano che à un traître il en faut deux autres. — Ci racconta Cicerone (429) che Labieno generale illustre di Cesare, e da costui colmato di benefizii distinti fu appena mediocre nel campo opposto di Pompeo. — Il bullettino del 24 giugno pieno di desolanti reticenze allarmò il paese; annunziando il campale rovescio con leggerezza e con affettata indifferenza, senza dare un’idea del conflitto accaduto. E poiché erano vietati i discorsi sulle posizioni della guerra, perciò appunto si faceano pii frequenti e più bugiardi. In quello stesso giorno l’armata prussiana entrava in Boemia: —il primo corpo comandato dal principe Federico Carlo marciava da Zittau e Sddenberg aopra Beichenberg; e il corpo dell'Elba sotto gli ordini del generale Herwartb de Bittenfeld occupava a dritta del primo la frontiera di Boemia ad Kalnaberg e Sehlur-kenau nella direzione di Boobmiseh-Leips e di Hunerwsspr.

Telegrafossi in seguite (430) dagl’italiani perdenti che concentravansi sopra Cremona e Piacenza, rie la battaglia di Costosa non era stata vinta ne perduta; — l'annunzio si dava direttamente dal re, cui le catastrofi tragiche non istordiscono granfatto.

Però la storia, nullostante la tracotante impudente imbecillità dei giornali del tempo, che ebbero la sfacciataggine di gridare: abbiamo vinto(431), ha segnato questa tremenda disdetta fra le nostre umiliazioni clamorose, ove tutto fu perduto senso che nella si fosse realmente tentalo. E perduto mentre in atto rimanevano il 25 giugno 112,000 uomini con La Marmora che ne aveva perduto 8,060; e 70,000 con Cialdini che insieme compongono un esercito di 182,000 soldati, cioè numericamente il doppio del corpo austriaco di operazione (432).

Quantunque però, ottima o trista, pende

Dell’evento la fama (433);

pure la sorte dispone della vittoria non della gloria. — Ci saràquindi permesso di notare che se l’insuccesso delle arme italiane fu completo, la vittoria costò sanguinosa ai fortunati. ne gli Austriaci poterono ripetere sul canapo di Costosa l’esecrando motto detto sul campo di Bodrjac (434)da Aulo Vitellio imperatore (435). Certa è che i nemici ai astennero dall’inseguirci, e ci ritireremo nelle posizioni primitive, onde tenersi pronti ad ogni evento. — I soldati italiani rimasto al bivacco, nella incertezza delle risoluzioni a prendere, le quali nei più alto segreto s’attendeano dalla Senna. Conciossiaché l'Italia sventuratamente non è che un corpo di riserva della Francia, anzi un’appendice, un dipartimento francese, secondo il detto Incisivo di Siotto Pintor senatore (436). E dissi sventuratamente, perciocché non può rivocarsi in dubbio che di tutte le forme di tirannide la più crudele è quella d'una nazione sopra un’altra nazione(437). Ragion per cui ebbe giustamente una volta gran favore alla corte diBisanzio il seguente proverbio:

Τον Φρανκον φίλον εχης, γειτονα ουκ εχής

Cioè

Abbiate il Franco per amico, ma non per vicino (438).

Ora il bivacco agli eserciti riesce nocivo; perché la vita dei campi quando non si viene a battaglia è vita attiva ed oziosa, — vi si ammazza il tempo senza impiegarlo; e senza far nulla si fatica assai, dimenticandosi ciò che si è appreso, e non apprendendosi ciò che prima si è ignorato. Molto più in un periodo di tristezza completa, e quando i capricci della sorte e l’imperizia dei condottieri avevano dissipato qualunque dolce illusione. — E si rilasciò col fatto la disciplina, e vennero commessi degli alti del più deplorabile esempio, che per isventura maggiore non furono puniti (439).


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CAPO XIV

L’armistizio

Perché l'Italia avesse potuto insistere con una certa alterezza dignitosa nelle sue pretensioni riusciva indispensabile un evento prospero qualunque di valor militare; imperocché la sola forza garentisce la indipendenza: — questa è perduta quando si e provati deboli, e non forniti d’altro appoggio che di un protettorato straniero.— Divennero quindi i volontari e la flotta speranza principale, mentre che le passioni politiche trasformavano non che le piazze e le botteghe di caffè, ma i saloni in arene, in cui le opinioni più opposte si contrastavano e si urtavano senza posa. In essi, ove per ordinario si parla a maraviglia di affari alle persone che non l’intendono affatto e che credono d'intenderli, non si discuteva ma si disputava sull'interminabile soggetto della situazione del momento da migliaja di politici che sanno tutto, intendono il perché di tutto, e vi aggiungono del loro, come diceva Gozzi (440), il miracolo, le cannonate, il calcolo, la profezia.— Alto parlava ciascuno e poco si ascoltava; —» l’umore acre trapelava nel tono di tutti e negli sguardi; un'animosità infrenabile disuniva e divideva le società in gruppi di persone di opinioni opposte stimandosi ognuno capace di fare l’aruspice e l'indovino, anzi pretendendo spiegare i sogni come Artemidoro. — Soprattutto le donne, cui in generale nulla siedono più male che i discorsi politici (441); nullostante il vantato spirito filosofico che loro attribuisce Descartes; — nullostante gli appassionati pensamenti di tanti illustri scrittori(442) cominciare da Boccaccio (443);—nullostante le ampollosità del sedicesimo secolo, epoca che fu forse la più brillante per le donne... (a menoché non si trattasse delle imperatrici Livia moglie e consigliera (444) di Augusto, Teodora, Caterina, Maria Teresa, o qualche altra di simil tempra) si stringevano alla collera, commoveansi alla stizza. E si spogliavano di quella affabilità boriosa che forma il loro incanto speciale, la loro preeminenza, l'impero in somma ch’è il solo che non conosca ribelli.

Or dello entusiasmo dei volontarii si era scritto molto nelle colonne di tutte le gazzette: — erano giovani ardenti, al viso pallido, all'occhio aspro, allo aspetto minaccioso, alla camicia infiammata come quella di Nesso che rese Ercole furibondo. — Costoro miravano a girare il lago di Garda e prendere Verona dalla parte dei monti; ma la parte del Tirolo al nord del lago era assicurata dai Tedeschi con grasse truppe appoggiate a valide posizioni. ne pure poteansi avanzare lungo l'Adige, perché quella valle era gremita di fortificazioni sulle alture di Tivoli e la chiusa veneta: Verona infine dal lato dei monti era protetta da fortezze numerose. — Per giunta il duce Garibaldi, questo eroe fantastico, questo accanito stimolatore di guerre, questa figura leggendaria, i cui busti e ritratti non si può far un passo in Italia senza trovarli stucchevolmente collocati e nei casolari della, plebe e nei palagi dei ricchi e nei luoghi pubblici e nei ritrovi e dapertutto, non eccitava il primiero entusiasmo dopo il miserando fatto di Aspromonte... — quando invitò presuntuosamente a Roma le donne italiane, come Gustavo di Svezia aveva invitato le bellissime dame di Stockolma al balte che prometteva loro di dare a Peterhoff, e al Tedeurn che supponeva dover cantare a Petersburg.

Si sforzarono adunque i volontarii di compiere un folto d’arme (445); costeggiando la destra sponda del lago d'Idria, e passando sotto il forte di Rocca d’Anfo, per attaccare, come fecero, il nemico fra Bagolino e s. Antonio nelle alture di monte Suelloin provincia di Brescia. Ma la fortuna non fu loro propizia, e n’ebbero la peggio ad onta dell'ordine del giorno d'un colonnello Chiassi (446)che reduce da Venezia dicea voler posare a Roma l’odio e le armi. Per io che ogni speranza d’Italia si ristrinse alla flotta; dappoiché, disse Pasquale Duprat (447), elle avait, ou elle croyait avoir une flotte, la cui superiorità si stimava tanto indubitata, che non poteva guardarsi senza maraviglia e senza inarcare le ciglia; riflettendo che dal 1861 al 1866 s'erano spesi per essa trecento milioni (448). Era però la più grande delle maraviglie che non vi fosse in essa un comandante da gareggiare con quello dei nemici; e cui ben si avesse potuto dire, come aveva detto Annibale a Giscone sorpreso dell'armata di Vacrone: a non «vedi che in tanta moltitudine d’uomini non evvi un solo che si chiamasse Giscone?»

Era perciò che si mostrava indolente al combattere l'ammiraglio Persano, il quale al minacciare era stato si pronto. Vide costui per prima volta il nemico a 27 giugno, quando proprio lo venne a provocare a cimento in Ancona con audacia a colpi di cannone lo intraprendente Teghetoff, marino russo di meritata rinomanza—non meno esperto dell’ammiraglio russo del 1811 che si chiamava Tchitcbakoff.

Teghetoff comandava una flotta pur troppo ben composta dall’attiva ed energica direzione dello arciduca Massimiliano, poi sventurato imperatore del Messico (449). In essa contavansi ufficiali che senza precipitosi salti da un grado all’altro arcano percorsa una lunga carriera, e che aveano quella profonda pratica ch'è l’elemento importante dell’ottimo marino (450). Flotta che ormai salpando dal porto di Pola era stata utilmente ancorata noi vasto canale che le isole Brioni fannocolla spiaggia Istriana. Virando di prua, dopo avere scannonazzato, Teghetoff accortosi, che Persano si teneva sulla difensiva e non accettava affatto il combattimento, prese il largo con un derisorio saluto;— ne fu raggiunto nella corsa. Frattanto in tali ambagi, che non faceano pronosticare eventi felici per l’arme italiane e che indussero il ministero a rimproverare e minacciare Persano, spuntava improvvisa nel Moniteur dei 5 luglio la profferta dell’Austria di cedere Venezia allo imperatore dei Francesi, del quale accettava la mediazione per ricondurre la pace fra le potenze guerreggianti.

Causa di siffatto improvviso ed inaspettato avvenimento era stata la marcia trionfale dei Prussiani, guidati da re Guglielmo, il quale nei piani di Sadowa (451) non è però vero che avesse potute ripetere come Cesare alla battaglia di Farnace le tre celebrate parole veni, vidi, vici. Dappoiché questa battaglia decisiva nominata di Sadowa o di Koenigingraetz è indubitato che disfece l’armata austriaca del nord; ma essa dopo il tocco era già guadagnata dagli Austriaci, i quali aveano rigettato indietro su tutta la linea del Bisztra i Prussiani, nonostante i loro fucili ad ago e l'abilità dei loro generali. Gli Austriaci perdettero al cadere del giorno, perché mancarono alla diritta dell’armata austriaca da quaranta a cinquanta mila uomini, che doveano contenere i cencinquanta mila soldati che a marcie sforzate conduceva il principe reale di Prussia, il quale un’ora più tardi sarebbe arrivato assolutamente invano: —questi 40 a 50 mila uomini erano a Custoza tra il Mincio e l’Adige.

I Prussiani avendo debellato l’Austria, minacciavano d’invadere Vienna e proclamarvi il nuovo impero, per la inconcepibile inettezza addimostratasi dal vecchio Benedeek. Costui avrebbe dovuto sciamare, come aveva sciamato il maresciallo di Turenne dopo la disfatta diRhetel: c’est ma fante! giacché con quell’inerte stupore che nasce dalla disperazione egli aveva reso rapidi e facili i progressi del nemico, e non aveva saputo salvare ai suoi soldati ne il petto ne le spalle; abbenché le spalle, diceva Agricola, non avessero mai formata la sicurezza dell’esercito o di chi lo conduce (452)... Ad ogni modo la fortuna delle armi più di buon grado arride propizia a chi sa osare e scegliere la migliore ora per farlo (453).

La grandezza dell’Austria eclissala in quel frangente per motivi al di sopra dell'umana previggenza; ne più essa ritenuta per quel colosso spaurevole che eccitava insuperabili timori, non si poteva pacificare colla Prussia senza cedere alle esigenze italiane; perché in virtù del trattato di alleanza Prussia ed Italia erano ambo legale in un solo patto (454). — Allora Napoleone, il quale assicurava di cedere ad un impulso sovrannaturale, come arcano detto pria di lui i Vandali in Africa ed Alarico in Italia, divino jussu perurgeri, e vantandosi sotto la parodia di Cesare (455) (anziché sotto quella di Tiberio, di cui ha financo l'incesso descrittoci da Svetonio), d'essere il rappresentante dei diritti dell'Italia — il salvatore del mondo—l’unico uomo capace di reggere in mezzo alla tempesta la nave dello stato e guidarla a salvamento, dichiarossi indispensabile pilota dell'Europa. Egli che ne in tempo di veglia ne di riposo mai non trova requie, e la cui mente è dalla coscienza sempre tenuta desta ed in travaglio, a temperare il trionfo e a contenere l’insolenza della fortuna, da una parte si rivolse ai monarchi di Prussia e d’Italia, perché conchiudessero entrambi l'armistizio;—dall’altra, menando le cose in lunga, attendeva che un felice scontro della marina italiana avesse a sollevarne l’onor della bandiera.


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CAPO XV

L’insuccesso di Lissa

Fu questo il motivo per cui si spinse Persano a tentare l'occupazione di Lissa — isola di difficile abbordo e ben munita (456) fra le principali delle tante isole che fiancheggiano la costa Dalmatina, anzi la Malta dell'Adriatico ossia la chiave di quel mare; ma isola da lui pienamente sconosciuta, e della quale neppure tenera una carta topografica da servirgli a regolarne l'attacco: — L'avevano posseduta una volta i Moscoviti (457), indi i Francesi, ai quali la tolsero gl'Inglesi (458), cui quelli invano tentarono ritorre (459). L'Austria l'ebbe ceduta al 1815 (460) con tutta la Dalmazia; ed è forse la più sicura stazione della sua flotta.

È doloroso confessare che giammai combattimento navale oscurò tanto l'onor d'una marina, quanto quello del giorno 20 luglio!

A tutto avea creduto di provvedere Persano per l'attacco di Lissa; ma non suppose possibile la comparsa della flotta nemica. Questa per tanto la mattina del 18 luglio ad onta del mare burrascoso e della fitta pioggia che oscurava l'orizzonte era salpata dal canale di Fasana procedendo in forma di cuneo di cui formava punta della prima linea la nave ammiraglia il Max. Di là Teghetoff appena giunto in vicinanza di Lissa segnalò: correte sul nemico e colatelo a fondo (461). Indi forzando la macchina slanciò la massa di 4500 tonnellate di esso Max contro la nave ammiraglia corazzata Re d'Italia, fregata di primo ordine costata sei milioni e cinquecento mila lire (462). Questo fortissimo bastimento ricevuto in pieno il terribile colpo di punta nella posizione dell'albero di trinchetto sollevossi dall'acque; e la prua del Max penetrandogli nel fianco vi aprì una bocca di 132 piedi quadrati di superficie. Sicché prima beccheggiando, ossia tangheggiando, indi straorzando immerse la spalancata ferita nell'onde che precipitandovisi dentro a guisa di torrente, in pochi istanti lo colarono a fondo con due terzi dei seicento uomini che conteneva, e che annegarobsi insieme al deputato Boggio; il quale, invece di de scriverne i fasti, andò miseramente a lavarsi d'ogni macchia nel mare, giacché

Lava il mar tutti quanti i mali umani (463).

Il resto dei naufraghi salvossi a nuoto a Lissa, ove furono accolti con ogni riguardo. Proseguendo il conflitto la cannoniera Palestro (464) costata un milione e quattrocento cinquanta mila lire, sotto una pioggia di quei razzi inventati nel 1808 da sir Gugliemo Congreve, di granate a mano, e di materie infiammabili saltò in aria spaventevolmente: in un baleno scomparve, ne altri che un uffiziale e diciannove uomini salvaronsi prodigiosamente dei 300 individui che ne formavano l'equipaggio.

Così fu messo il disordine nella nostra squadra, il cui ammiraglio assai tempo prima smontato dalla capitana sull'Affondatore s'era messo in salvo con d'Amico CAPO di stato maggiore, ad una distanza da metterli al coverto; e ciò senza darsene avviso e alzandovi la bandiera di vice-ammiraglio, anziché quella d'ammiraglio. Di maniera chè non si seppe da nessuno ove stesse il comandante in CAPO che stava chiuso nella torricella, mentre che l'intrepido Teghetoff dall'alto del cassaro del Max, nel fitto della mischia con occhio intrepido co mandava e dirigeva le manovre, e raccoglieva la vittoria. E mentre egli ne riceveva il guiderdone (465), Persano telegrafava che era rimasto padrone delle acque eppure la sua flotta era smattata, diminuita, perdente, ricacciata dal suo temerario mal sostenuto tentativo e obbligata a rincularsi nuovamente in Ancona. In cosiffatto modo umiliante aveva miseranda fine la campagna d'Italia del 1866; la quale dopo avere destato brillantissime speranze compivasi in ultimo colla spesa di trecento cinquantasette milioni e mezzo (466) e con incommensurabili disfatto. Per lo che fallite tante lusinghe, ecclissate tante riputazioni, gli elogi dierono posto agli epigrammi, alle satire, alle caricature che toccarono l'estremo: ciò ch'è permesso per altro financo alle penne più gravi, quando sien esse animate dal cordoglio delle disgrazie e dalla vergogna della patria. — Sia pure, diceva Tacito (467), sia pure come molti suppongono che gl'ingegni degli uomini d'arme in generale manchino d'acutezza, perchè la ragione, la quale si rende nei campi, non guarda a tante formalità, ed è come se fosse grossolana, certo è che non puossi pretendere che tutti i guerrieri avessero lo spirito pronto come la spada. — Come non si può pretendere che tutti sapessero dettare in una volta in varie lingue a diversi segretarii — comporre poemi a cavallo — scrivere dispacci sul carro — meditare leggi combattendo — al pari dell'illustre romano, la cui grandezza funesta agli uomini fondossi sulle rovine della libertà... Ma potrà negarsi che men tre i talenti militari sono gli ultimi a perire nella decadenza dei popoli (468); l'Italia abbia avuto il suo generale accusato di supina ignoranza, ciò che non è tollerabile? — Fu detto nientemeno ch'egli sconoscesse pienamente le primissime regole d'un avveduto condottiero, le quali consistono nel mettere tutte le probabilità per ottenere il successo (469); e nel ritenere, come insegnava Cesare, di non avere fatto mai nulla, ove gli resti a fare qualche cosa. — Io ben so che è facile ragionare dopo i fatti, ma egli è incontroverso che La Marmora non ebbe alcun sentore dell'armata che volea combattere, non seppe indaga re i cammini e le strade che doveva traversare, — non ebbe avvedutezza strategica nel disporre l'attacco, nel provvedere al conflitto; sicché umiliato e scorpato dové dimettersi e lo sostituì Cialdini, come Cugią sostituì Pettinengo ministro della guerra.

Oh si che giunte le cose a questo punto potè dirsi di La Marmora ciò che fu detto dạ Piron nell'epigramma fatto per Rousseau: — che la sua vita fu troppo lunga di metà; perchè se la prima metà fut digne d'envie, la seconde fut digne de pitié.

Persano poi fu vituperato d'imperizia, d'inobbedienza e di codardia. Dimodochè la flotta, che volevasi coronare alla partenza a guisa di quell'antica flotta ateniese salpata pel conquisto di Sicilia e delle sue ridenti contrade, fu ricevuta al ritorno con imprecazioni verso lo imbecille ammiraglio, il quale messo in istato di accusa presso il senato s'ebbe un processo clamoroso (470), e una condanna umiliativa (471),— Processo al quale l'insolente Paolo Cassagnac con virulenza volea che fosse sottoposta tutta l'armata italiana (472), quando tal altri francesi facendosi beffe degl'Italiani l'insultavano con gli amari sarcasmi del l'anonimo encomiatore di Berengario I augusto (473), e li invitavano a metter giù le armi e darsi invece in preda alla crapula ed al lusso. — L'ammiraglio era quel desso che poco tempo prima era stato chiamato l'eroe di Ancona, il gran Persano; e ora trovossi ad un pelo di vedere ripetere su di lui ciò che aveano fatto gli sbracati (474) di Madrid al generale Riego, che prima lo chiamarono con entusiasmo il gran Riego, e poco di poi venne giorno che danzarono lieti orrendamente intorno alla sua forca.

Né l'uno o l'altro di questi due comandanti in CAPO italiani ebbe il coraggio di dire come aveva detto quel gran cuore di Bonaparte: je suis un de ces hommes qu'on tue, mais qu'on ne déshonore pas (475)!... già soltanto del re Giuba (476) si legge che vedendo distrutta l'armata si fosse data la morte, onde scappare alla disperazione dei suoi sudditi furibondi.--- Almeno qualcuno avesse avuto la magnanimità di confessare i suoi errori!... ma i pigmei non fanno siffatte confessioni; siffatte confessioni si poterono fare da un Washington. Quell'uomo gigantescamente sublime, eroico, unico forse o raro almeno nel mondo, deponendo il potere ebbe la grandezza d'animo d'annunziare nel suo discorso d'addio d'avere un sentimento profondo dei suoi difetti che gli facea manifestare d'avere commesso probabilmente errori non pochi. — Ma i nostri eroi oh questi mai sempre annunziano al paese non avere errato, ne potere errare giammai!!

Tuttavia a siffatti comandanti, pei quali la posterità è cominciata e il suo giudizio è pronunziato, non lasciò di dire il genio della nazione italiana rabbiosamente come Augusto lacerandosi le vesti e battendosi la testa al muro aveva detto a Quintilio Varo... rendimi… rendimi, o Varo, le mie legioni, --- a Varo ch’entrato povero nella Siria ricca era uscito ricco dalla Siria povera (477).

Costernata per tanti insuccessi dopo quattro giorni (478) l'Italia con discese all'armistizio, attendendo, per favore d'altrui quei frutti di pace che non poteva reclamare pel proprio valore. Perlochè in tutti i modi bersagliato il governo soffrì dalla stampa nazionale il rimprovero d'interminabili querele, contro le proposte pacifiche, ripotendosi da tutti quasi le stesse parole poste in bocca ad un duca di Ligny (479) «che se la pace consentita dalla gloria e dalla forza è il grande, feconda e magnifica, quella consentita dalla debolezza è sterile, disastrosa e disonorante;» ---idea espressa anche una volta in maniera più precisa da Caterina seconda con quel verso

Une honteuse paix n 'est qu'un affront sanglant.

Sicché non molto dopo la stampa seria francese fece sentenziare da Giuseppe Garnier (480) che se la gloriole militaire est partout déplorable; elle est de plus ridicule en Italie.

Italiani e Tedeschi, con quell'impeto irresistibile dell'agonia, avrebbe detto Dumas (481), che spingeva i Titani a dar la scalata al cielo, che spingeva Ajace a mostrare il pugno agli Dei, gridavano intanto a più non posso volere proseguire a battagliare, ambo sconfitti ed ambo volendo farsi credere invincibili... a somiglianza di Teodosio II imperatore, il quale quando non ebbe più armata da apporre ai suoi nemici volle assumere il soprannome d'invincibile. -- Erano ciance, già s'in tende, perchè più sembravano pronti al combattere, più desideravano tutti la conchiusione della pace; scovrendo a vicenda la riflessione in essi ed anco esagerando i pericoli della impresa rispettiva. — Se davvero si fosse aperta una nuova campagna, questa avrebbe comunicato il fuoco all'Europa, ne si sarebbe stati in tempo da smorzarlo; conciossiaché si sarebbero suscitate guerre complicate, le quali sono mai sempre pericolose e funeste ai corpi politici, come ai corpi umani le complicate malattie.

Adunque un trattato a Parigi tra Francia ed Austria (482) regolò la cessione del Veneto; e tra Austria e Prussia a Praga si sottoscrisse la pace, i cui preliminari (483) si erano offerti a Nicolsburg città di Moravia nel circolo di Brünn (484). Per questo l’Austria dové aderire al compromesso proposto dalla Francia, consistente nella formazione di una confederazione del Nord e d'una del Sud unite da un legame internazionale: — divisione che in ottobre 1814 Metternich dirigendosi ad Hardenberg aveva detto a Vienna in modo riciso (485) che lo impera tore suo padrone non avrebbe consentita in alcun tempo giammai.

Napoleone a salvare l'amor proprio degl'Italiani, e a farli uscire dal mal passo, dichiarò poi che rendeva i Veneti a sé stessi per ispiegarsi con un plebiscito; — ritrovamento appreso da suo zio, il quale se ne avea saputo giovare sin dal 1.° dicembre 1804. Per lo qual modo mirò a ingraziarsi l'Austria per poterla trarre in seguito ai suoi voleri negli eventi futuri. Non iscappando alla sua penetrazione i progetti degli altri potentati financo sulla quistione di Oriente; quistione ch'è il pensiero culminante, e che fa vivere in un vago e lusinghiero avvenire di opinioni discordanti, dettate ognuna con tuono di assoluta sicuranza, indi al progetto di Pietro il grande dovuto abbandonare pel trattato del Pruth (486), ma che i suoi successori non hanno mai perduto di vista. — ne è difficile la distruzione dell'impero Ottomano, il difficile è sempre, diceva Giuseppe II, l'accordo delle potenze per la ripartizione di esso.

La Francia impertanto seguiva la sua politica tradizionale, ch'è quella appunto di tenere sospesa la bilancia tra Berlino e Vienna; allegandosi alternativamente con quella delle due corti, che si è mostra la pel momento più moderata, contro l'altra la cui ambizione avesse minacciato l'equilibrio generale. Ciò non tolse che si dicesse essere questa una offesa che si recava al sentimento nazionale italiano (487), anzi una confusione, una contraddizione sciocca, un puntiglio dispettoso e umiliante (488), una maniera strana e burlesca del compimento dell'unità nazionale (489)... Arrivano tempi in somma in cui gli individui d'un popolo divengono ciechi e infiammati dallo spirito di parte, che toglie ogni rettitudine nel giudicare. Questo si osserva chiaro allorché una nazione è oppressa pei successi d'una nazione vicina, o perché è malcontenta del proprio governo (490); le quali cose si riunivano insieme in quel punto. — Sia che si voglia, gli avvenimenti distruggono gli avvenimenti: i disegni della Provvidenza, come avrebbe detto il Demostene della tribuna evangelica: l'Isaia della chiesa cristiana, Bossuet, — ovvero il progresso; come direbbero i pensatori d'oggidì, giustificano tutto, o non giustificano nulla come meglio si voglia; e Napoleone seppe impiegare a proposito la dolcezza e l'autorità, l'audacia e la destrezza. Il plebiscito se non era cosa di sostanza, serviva di formalità per le apparenze della diplomazia (491); e quantunque ognuno ne avesse compreso l'artifizio, pure era parte di ossequio fingere di non comprenderlo.

Re Vittorio Emanuele, non appagato ma stupefatto, dové ripetere allibito le parole stesse dette dallo imperatore Alessandro I alla illustre Baronessa de Staël: je ne suis qu'un accident heureux.

Siffatto ripiego fe' concedere all'Italia la sospirata Venezia; ma non le ottenne il riposo, perchè rovinata da un'amministrazione impreviggente, e da una guerra disastrosa. Assicurò però al Bonaparte la continuazione dei suoi piani; tornando egli ad essere per l'Italia l'alleato unico, esclusivo ed esigente; senza che gl'Italiani avessero saputo o potuto giovarsi in futuro dell'alleanza prussiana. Conciossiaché quando si è debole di carattere e di mezzi ogni sistema federativo è nullo (492); ed è chimera smentita dalla storia e dalla esperienza, che uno stato debole, il cui gran mobile non è che il timore, possa tenersi indipendente in faccia del più forte.


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CAPO XVI

Scoppio d’una polveriera

Mentre si alternavano le notizie dell'armistizio e della pace, si alternavano pure le notizie del mio liberamente, di cui mi si facci sempre

Lunga promessa coll’attender corto (493)Chiuso in una celletta di spedale era custodito da un cerbero insolente che m'impediva financo ciò che l'autorità giudiziaria m'aveva conceduto; e me l'impediva con una sgarbatezza che mi pesava enormemente, perché la maniera è tutto per un gentiluomo (494). Incerto sempre dell'esito di un processo segreto come i processi della inquisizione spagnuola — segreto, diceva Chateaubriand(495)che vient ajouter l’effroi du silence du silence du bruit. non lo vedeva spingere d’un passo ad onta delle sferzale di qualche giornale (496), — e quindi languiva nella monotonia...

Di' oggi di’ domani, a forza di sospirarne la fine, quei giorni mi davano un’idea di quanto dovettero essere lunghe le giornate della creazione, e sospirava canticchiando sempre:

Com'è misera la vita

Quando il giorno che riviene

Spunta all’alma impaurita,

Pari al giorno che passò! (497)

Per lo meno quei giorni mi sembravano i giorni delle regioni polari che hanno la durata di sei mesi; —e non mi parea sperabile che il giudice accusatore e fabbro del processo avesse a votare contro il fatto suo. Questa incoerenza cardinale mette in repentaglio la personale sicurezza d’ogni cittadino: — giudice e parte del processo due volte decide l’istruttore su la stessa cosa;—errore grave, condannato dalle antiche leggi, perché condannato dal buon senso. Unitosi a lui l’altro giudice, il quale dichiarò senza mistero trovarsi sotto pression morale e obbligato a cedere alla ragion di stato, fu deciso ch’io fossi tradotto alla sezione d'accusa indi a chiarimenti che l'istruttore medesimo si riserbava attingere nel periodo di trenta giorni (498)... Dichiarazione, colla quale si svelava che i giuocatori non avevano buono in mano, e che lo attendevano dal tempo. Tale annunzio mi perveniva quando mi trovava attristato per l’immatura perdita del mio antico amico prof. Salvatore Furnari (499), il quale giorni prima crasi da me congedato per ritornarsene a Parigi. Chiaro si manifestava a tutti che scopo del processo altro non fosse che tenermi sotto apparenze legali in lunga prigionia, e perseguitarmi non altrimenti che a forza di colpi di lingua, che il codice penale il quale fa giustiziare gli uomini pei colpi di spada o di daga, non contempla affatto (500). -— Nel quale andamento non eravi già nulla di straordinario o di nuovo; giacché ess’è antica e invariabile pratica del mondo, arte malvagia della gente perversa «cor machinationibus legere, sensum verbis velare, quae vera sunt falsa ostendere, quae falsa sunt vera demonstrare» com’avea detto sin da tanto tempo s. Gregorio magno. Infame pratica bensì che prese nome di zelo in Caifasso, di politica in Pilato, di prudenza in Erode;—e chiamasi zelo, politica, prudenza mai sempre da tutti gl'ippocriti ed impostori della terra.

Al mese appunto, il caso o l'intrigo offersero all'istruttore il mezzo di riportare la causa più raffazzonata.

Un tal P. M., anima e corpo della rivoluzione del sessanta, era stato nelle prime caldezze compilatore di alcuni tagliuzzi, nei quali non s era scordato di pungere me secondo il vezzo del tempo. — Costui venuto a colloquio con Nicolosi (501)confutagli che quand'ei svignatasela in maggio 1866 e andatasene in Napoli pei timori d'un tumulto, io mi trovava sullo stesso piroscafo fra coloro che se ne partivano da Palermo. — Questa notizia Nicolosi raccolse come preziosa, perché gli sembrò di cogliermi in fallo; conciossiaché on cherche toujours des crimes à ceux qu’on persécute(502). Parve a lui avere la prova lampante ch’io fossi in Palermo nei momenti del concerto rivoltoso, nel turbamento dei moti di Badia... che tassi andato a Napoli a intendermela con quei del continente... che fossi ritornato a presedere il convegno... ch'indi men fossi ripartito per vedermela da lungi... —. E vedi infamia!... Era notorio ch’io fossi andato a Napoli per l'improvvisa malattia di mia suocera, e che vi fossi dimorato a questo oggetto; — e se là mi fossi mosso di un sol passo tutte le polizie sarebbero state avvertite, tutti i telegrafi si sarebbero messi in movimento, sarei stato frugato e rifrugato, e si sarebbero architettato nuove fandonie, calunnie novelle... Ma queste erano buone ragioni; — e le buone ragioni, dicea madama Guizot (503), quasi mai non persuadono alcuno: esse sono come il frumento che per germogliare bene fa d'uopo che sien divelte dal terreno le erbe cattive. A buoni conti farebbe d’uopo che si rendesse comune il costume dei giudici ateniesi, i quali ascoltavano le ragioni senza guardare in faccia a chi le dicesse.

Recossi adunque il giudice istruttore in persona all’amministrazione dei vapori perché si testificasse la mia ultima partenza—però egli ebbe il certificato dell’intero mio viaggio, che rivelava il fatto nella sua purissima innocenza. Pur tuttavia ostinossi a non dubitare ch'io fossi il CAPO dell’impresa, che tutti eran nel segreto e concorrevano ai miei disegni, facendo sospettare che si fosse messo senza punto avvedermene dietro di me il notaio e lo strolago per notare, indovinare, fare comenti ad ogni mia occhiata, ad ogni parola tronca, a quante membra insomma ho avuto indosso. E sacramentò ch'io avessi preseduto il numerosissimo convegno senza che alcun indizia avesse potuto presentare. E poiché

A giurar sempre i mentitor son pronti (504),

ottenne che il mio processo passasse alla sezione di accusa; — e se fosse stato in vigore il sant’Uffizio non m’avrebbe forse risparmiato la colla, e financo suppongo avrebbe avuto la buona intenzione di condannarmi all’eculeo che servì una volta unicamente per punire i rei di stato(505).—Allora si sopracccitò la insolenza del poliziotto mio custode; ei con piglio severo usando del suo grado con il dispotismo del quale i subalterni di quest'ufficio godono servirsi tutto ad un tratto pretese coabitare nella stessa stanza, impormi le movenze degli occhi, il suon delle parole, volendo ridurmi come un vero trappista col guardo fisso in terra o verso del sepolcro. Ad evitare i risentimenti della mia collera seguii il consiglio dato a Cesare dal filosofo Atenodoro; ma poiché la doglia m’ebbe fatto un gran nodo al cuore, e tale che non lo potea più soffrire tacendo, volli sfogarmi e reclamai perche quel brutale custode si mutasse onde non mi nascesse qualche briga da farmi perdere il cervello: solo per raccomandazioni di potenti ottenni a malincuore dell’autorità, governativa che me ne fossevenuto un altro più discreto (506).Intanto si menava il can per l’aja, protraendosi all’infinitol’ingiusta processura; e facendomisi a quando a quando balenare come lampo fuggevole l’amnistia... parola che esaltava i miei nervi ed infiammavansi stregue nelle rene; imperocché da me non si voleva grazia ma giustizia oramai troppo oltre differita; ritrovando importante il distruggere tutto l’ammasso di false imputazioni delle quali era piena l’accusa,—Costretto mio malgrado al silenzio ed alle ristrettezze, lo che di carattere sono stato sempre quietamente allegro, un po' lavoricchiando, un po’ strascinandomi per tutta la giornata mi sobbarcava alla mia croce, adorando i decreti di Dio e confidandomi in lui, che è (ha scritto il padre Lenfant (507)) les ecritable ressource et le moyen de vivre en paix. E mi raccomandava alla Madonna; giacché in certeoccasioni (diceva Chateaubriand) una lampada accesa dinnanzi affa immagine della Madonna infonde più coraggio di dieci volumi di filosofia.— Accettava la prigionia però, non accettava lelusinghe, non tremava degli sdegni; procurando del tutto allontanare la tristezza, memore delle belle parole del savio: «tristitia non sit in te, multos enim occidit tristitia, et utilitas non est in ea.» Presi fra l’altro a conforto le lettere e trovai vero ciò che aveva assicuratoD'Aguesseau, che ritornando alte belle lettere si prova il sentimento dell’uomo che ritorna nel paese dov’è nato, e dove ha passato i più belli anni della vita sua, perché in somma, diceva Gozzi (508), sarebbe troppa modestia a dirvi che sono una zucca:—era tuttavia sempre persuaso che non aveva bevuto ancor fino all'ultima stilla il calice amare che mi s’appestava a tracannare. —Toccommi infatti tra le altre sventure l’assistere ad una scena di terrore—sabato 4 agosto 1866—da rabbrividirne per tutta la mia vita.

Aveva di recente finito di leggere l’opera a me graditissima delle Mémoires d’outre-tombe di quel grand’uomo di spirito che fu il visconte De Chateaubriand. — A me italiano piacquero assai tra le altre cose certi suoi delicati giudizii intorno a scrittori italiani; dimanieraché per mie esercizio privato m’era da più giorni messo ad improvvisare giudiziisu diversi illustri scrittori della Francia.

E già un primo lavoretto di poca fatica avea composto relativo alle tragedie di Corneille, ch’è cosi profondo nelle riflessioni, quanto nelle espressioni è felice Racine. Aveva conchiuso il mio lavoro dicendo che per, trovare il CAPO d opera in cui Corneille si dispiega intero facea d’uopo scegliere tra il Cinna e il Poliuto, dei quali l'uno è l'apoteosi della monarchia, l’altro è il trionfo della religione cristiana: in quanto al Cid lo giudicava il primo dei suoi CAPO -lavori, ma non certamente il più bello:—questa conchiusione a dir vero del saggio era pur troppo assoluta.— Nell'esaminare intanto per minuto Corneille e Racine la mia mente se ne volava all’impareggiabile Shakespeare, innanzi a cui mi pare che spariscano tutti i tragici moderni. Shakespeare! grande, straordinario poeta, che con uguale sangue freddo s'innalza alle sommità e s’interna negli abissi più profondi del pensiero; con pari sublimità ti rappresenta il buffone ed il re; facendoli palpitare la carne e scuotere i nervi. — Falstaff è forse l’autore principale della farsa umana —le sue facezie dipingono al vivo la perenne caricatura dei nostri istinti o dei nostri brutali appetiti. — Riccardo III vivrà sino a tanto che la ricordanza dei tiranni non sarà cancellata dalla memoria degli uomini.—Macbeth e l'espressione ardente delle coscienze con la sua implacabile giustizia, — Giulietta e Romeo è la canzone della gioventù e dell’amore spinto al delirio... Se Shakespeare ruba dei versi (e ne ruba assai), mirabilmente li trasforma, e cavando dai barbari i suoi materiali, ha eretto monumenti ammirandi che non periranno giammai, mentre tanti scioli saccheggiano i classici, per creare opere miserande, come i nordici che saccheggiando Roma demolirono il Campidoglio, il Colosseo, i templi di Giove e della Fortuna e le terme di Diocleziano, per costruire abituri senza nome.

Ora per la cattiva abitudine mia della carta e dell’inchiostro, che mi fa sempre lavorare come quei poveri giumenti cui si mette il basto sopra il guidalesco, confinato ad un tavolino tutto il di e buona parte della notte ancora, già scombiccherava un secondo discorsetto intorno ai romanzi del popolare Victor Ugo; per contentare l amino mio e non più.— ne per far questo vi fu bisogno che mi legassero ad una sedia come Alfieri, il cui organismo non si prestava al tavolino... Stupiva meditando come questo grande scrittore dell’Ultimo giorno d'un condannato, ch’è notomia maravigliosa del cuore umano e di tutte le passioni che vi si celano, di questo compilatore di prefazioni, che sono modelli d’ispirazione sublime e CAPO -lavori di facondia e di stile, si fosse potuto deliziare nel fango d'una concatenazione di. gente perduta; fra veleni, pugnali, adulterii, parricidii, assassinii, patiboli, tradimenti e tirannidi d’ogni maniera, — e tessere quindi quagli spettacoli d’iniquitàche si chiamano Lucrezia Borgia, Angelo tiranno di Padova, Marion De Lorme, (la più bella cortigiana dei tempi di Luigi XIII, l’innamoratadell’infelice Cinq-Mars, il quale fu ultima vittima dello implacabile cardinal di Richelieu), Maria Tudor, Le roi s'amuse, Hernani.E sopra tutti questi quello schifo e spavento di tutti i vizji e delitti Notre Dame de Paris; — in cui divinizzandosi le donne che fanno mercato di sé, le prostitute, s’esalta quel vizio, che, figlio d’una delle più imperiose passioni dell'uomo, esercita la sua maggiore influenza nelle grandi città, regnando sull'intera superficie della terra. — Vizio, che se bisogna soffrire come una necessità, non potendovisi opporre un rimedio radicale, però procurare si deve d'infrenare; dappoiché distrarre il male nella sua essenza è moralmente impossibile; ma disputargli a palmo a palmo il terreno è mezzo unico con che si preservano i buoni dai suoi effetti maligni.

Osservava intanto come in si gran lezzo sitrovasserosparse gemmepreziose, ammirande, stupende. Quell’ultimo dialogo della Lucrezia e la scena del veleno... quella scena delle due donne nell'Angela.., quel dialogo prima del supplizio, e l'addio in Marion Dolorme... quel punto della congiura edelsuon di tromba dellHernani... i monologhi di Tribolet nel Rois’amuse... il supplizio di MariaThudor...edaltri ed altri sono portenti di genio; sono miracoli d’arte. — Veramente ad onta di tutta la sua tristizie, io scriveva, Victor Ugo non è Onorato Balzac, le cui opere sono una raccolta d'ingegnose oscenità artisticamente raccontate, ed una continuata dilegione ridicola del matrimonio, aspreggiato a coniare dal sofistico e matto dilemma di Biante sino alle strane impudenze di Antonio Cocchi detto il filosofo Mugellano contro cui sgherrescamente scrisse Baratti.—Né manco è Giorgio Sand ossia madama Dudevant, l'avvelenatrice dello spirito pubblico, nei cui libri essa pare Alcibiade narrante le sue imprese d'amore e che dà scuola di viali e di voluttà insultando alla rettitudine della vita... Victor Ugo, a parlar corto, è il Rembrandt della scuola romanzesca; egli ha esercitato ed esercita la più potente influenza sulle scuole tutte d'Europa che furono dischiuse colle prime ballate di Scott, colla prima poesia di Byron, coi primi canti di Moore...

Mentre stava proprio internato in queste riflessioni verso l’imbrunire, uno scoppio simile a quello di un cannone di grande portata mi scosse d’improvviso tutte le fibre. Volsi l’occhio ansioso lungo l'orizzonte per ricercare collo sguardo donde fosse partito quell'inaspettato fragore, e una colonna di fumo che m'avvidi innalzarsi sulla dritta mi fece certo che fosse accaduta una esplosione apportatrice sicura di qualche grave disastro: era nientemeno scoppiata la polveriera di Barbera lungo la Strada che metta a monte Pellegrino. L’esplosione area ridotto un mucchio di macerie la fabbrica, area mandato in aria tra le fiamme diversi sventurati, le cui membra in un attimo cosparse in frantumi erano state travolte in mezzo alle rovine ed inghiottite in quella fornace, in men che un'ora entro sacchi e cestoni siffatte residuati membra si trasportavano alla Concezione insieme a poche informi figure arse sino alle ossa, disseccate, annerite come le mummie egiziane. Per completare il quale quadro affliggente e per renderlo più atroce, qualche infelice sopravvisse mal vivo alla catastrofe, e venne allo spedale per ispirarvi l'anima fra gli spasimi delle anime dannate.

Questo incendio sospettossi procacciato; forse perché da altri incendi a poca distanza di tempo precedute. Itera avvenuto un primo nel fitto della notte fuori porta Carini, ove una viva luce prima biancastra, poi rossa, indi del color del rame aveva senza strepito illuminato l'orizzonte ed eccitato l’allarme. Altri brugiamenti erano avvenuti net sobborgo dell’Olivuzza dalla parte della Zisa; ma questo della polveriera, ch’era l'ultimo e il più disastroso, ai danni materiali accoppiava lo strazio atroce della carne umana.


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CAPO XVII

L’allarme

Quando Romagnosi accusato di delitto di stato fu messo in prigione ad Innsbruck, i magistrati tedeschi, tuttoché servi d'un impero, che era tipo di reggimento assoluto, lo dichiararono innocente; e a dippiù contestivamente esiliarono il suo calunniatore. ne tutto questo riputandosi riparazione bastevole all'offesa che gli s'era fatta si passò più avanti. E quel governo di Croati permise che in Rovereto la stampa avesse onorato a suo bell'agio il cittadino suo, — che gli si avessero potuto erigere trofei, — e Melchiorre Cesarotti potè dettare l’epigrafe solenne, nella quale fra le altre cose si dicea:

JUSTITIA ET INNOCENTIA

EXULTABUNDAE

DE CALUMNIA DERELLATA

UTIYAU ET IN PERPETUUM OPPRESSA (509)...

Qui non è quistione di nomi, ne quistione di paragone fra nani e giganti: ho accennato un tal fatto soltanto perché chi legge traesse le sue conseguenze da questo storico-politico racconto.—È affliggente dover parlare male del proprio paese!.. Ma come si può tollerare sotto un governo non assoluto, ma che vantasi d'essere costituito a libertà, che magistrati i quali si suppongono indipendenti cedano vituperevolmente alla pression morale e decidano colla ragion di stato? È un calpestar la giustizia — è uri farsi gioco delle libere istituzioni, è un commettere quelle vergogne, di cui i governi che si son riputati tirannici hanno avuto rossore di lordarsi.

Non par vero, pure è fatto indubitato che i miei avvocati avevano a sdegno presentarsi a Interdonato... che gli nomini pubblici onesti non si fidavano abbordarlo: una grande capitale era per me divenuta deserto; — tale era l'opinion pubblica ch’avevasi del fisco, che niuno voleva aver che fare con lui.

Pertanto sia lode ai buoni; che i buoni coraggiosi trovansi in ogni tempo, essendovi anco in terra qualche volta giustizia. Volle fortuna che fosse presidente della sezion d’accusa un genio di pazienza, il cav. Carlo Moreno da Dego, ch’è piccolo paese dell'Alto Monferrato vicino Savona ed Acri, sulla riva sinistra della Bormida, 0 in cui nel 1796 gli Austriaci erano stati battuti dai Francesi. — Costui poteva dirsi l’Ormuso della magistratura, ossia il genio del bene, come Interdonato n’era l’Arimane.—Mingherlino di figura, gracile di complesso, parca che affinché qualche soffio non l’avesse a sollevare per aria come piuma gli sarebbe stato mestieri d'adottare il rimedio che lepidamente Plinio diceva adottato dallo elegiografo Fileta Coe, portare cioè i calzari di piombo. Eppure quest'uomo era un uomo di ferro; e tuttoché avvertito che l'eccessivo zelo è la fatica ne distruggessero le forze, rispondeva colle parole del cancelliere d’Aguesseau: «poss'io, quando so che vi sono tanti uomini che soffrono, riposare?» — Il popolo riputavalo per probo; — e il popolo, avea detto Machiavelli, ha l’occhio sicuro per ravvisare la probità. Moreno adunque rassicurò solennemente sulle sciempiaggini del processo, e ne spinse l'andamento, nonostante gl’intoppi che si frapponevano a ritardarne la conclusione. Giammai in mia vita dimenticherò il suo leale procedere, la sua toccante marca di confidenza… iola meritava, ma egli mi ha ben indovinato. Tuttavia il passaggio del mio processo dalla camera di consiglio alla sezion d’accusa si iniziava con auspicii sinistri; giacché tuttofaceapresagire il mio ritorno al carcere centrale. Il 16 agosto quando apposto imbandivasi ilmio frugale pasto, mentre ch’io fluttuava in tante perplessità, fu aperto l’uscio pian piano, e mi si presentarono i medici fiscali, i quali in parole mostraronsi cortesi, in fatto riferirono in modo tale che fu deliberato (510)che io tornassi alle prigioni:—ciò che da Moreno nonsi ebbe mai cuore di farsi effettuire.

Questa decisione funestommi in vista dell’avvenire minaccioso che dubitar faceva della guerra generale (511)... guerra che sempre differita, al fine scoppierà tremenda quando meno sarà preveduta; essendo impossibile la pace perpetua ch’è il sogno d’ogni uom dabbene, come diceva il cardinale Dubois. Al quale timore se n’aggiungevano altri più vicini: il colera e la rivolta. —Il colera invadeva tutto il continente, ed era certezza che si sarebbe esteso sino a noi;—la rivolta non era panico d’ardente fantasia, era una catastrofe inevitabile avvertita da sintomi sicuri.

Vero o non vero il giorno 7 si disse accaduto un caso di colera allo spedale civico di s. Francesco Saverio; — notizia fatale ch'eccitò l'ansia in un paese stanco di vedersi tribolato da guerre, rivoluzioni e pestilenze. Cose tutte che ai tempi dei padri nostri erano accidenti rari nella vita; ma dacché Newcomen adoprò come forza motrice l'acqua ridotta a stato di vapore; e Watt (512), perfezionandone gli apparecchi ne divulgò l'uso; e le strade ferrate ed i piroscafi fecero sparire le distanze, si ripetono con precipitanza. ne l'un disastro attende il compiersi dell'altro; anzi quando pare che si fosse all'ultimo dei turbamenti, le rivolte si riproducono tantosto, perché ad agevolarne lo scoppio si sono aggiunti i telegrafi elettrici e la coscrizione esagerata. Coscrizione che strappando innumerevoli braccia al lavoro fa rincarare la vita; e togliendo ai connubii la miglior gioventù fa deteriorare la nostra razza. — E poi riversa guasti, corrotti e svezzati dalle abitudini primitive miriadi di proletarii miserandi che si concentrano nelle grandi città, in cerca di vizii e di pane, e conturbano tutto l'universo; strascinandolo rapidamente all'abisso.

Quand’io leggeva prima del sessanta la storia dei commovimenti mondiali, davvero non mi persuadeva come si potesse vivere in siffatte congiunture, in siffatte lotte di uragani desolanti. E pure io son vissuto nel mio turbatissimo paese oramai tremendamente tribolato da interminabili sciagure, e fin da malanni che ne hanno guasta talmente e viziata la natura che son divenuti abituali i mali fisici m compagnia dei morali, senza dar più requie od almeno intervalli. Può assicurarsi che la Sicilia non ha conosciuta età più miseranda, più calamitosa, più disperata di questa età presente, nella quale il dissolvimento sociale apparisce completo. Il potere, i costumi, le leggi, gli studi, la religione... tutto, tutto è condannato alla ruina in mezzo a disordini e conflitti che agitano e desolano l'umanità, pei traviamenti prolungati d’uno spirito malaugurato di frivolezza e d’innovazione: — movimento incessante e senza riposo, che riesce per l'uomo un supplizio atroce come il supplizio favoloso di Sisifo. A maggior colmo poi di sventura, mentre per ordinario il pericolo comune, il bisogno di mutuo soccorso, dicea Markus (513), stringono i legami sociali e fanno brillare le virtù consolatrici dell infortunio, — fra noi invece puossi dire che l’inferno si fosse scatenato per consumarci con tutti i suoi fuochi e per corromperci con tutti i suoi veleni. Infine s’aggiungeva fra noi un altro flagello; un che di simile al napoletano brigantaggio: bande numerose di malfattori e di renitenti alla leva scorrazzavano tutte le campagne, invadevano il circuito dei monti, minacciavano d’invadere Palermo. Cosi la sicurezza pubblica spariva, e la stampa riducevala peggiore, esagerando l’audacia dei predoni, e l’imbecillirà ed impotenza del governo... Si pretende invano di rabbassar colle parole l’influenza dei giornali: son essi che leggonsi da tutti, son essi la storia del momento; e la perversa associazione degli stessi non è un semplice male, ma è la riunione di tanti mali. La parola d'ordine dei novelli anarchisti era la repubblica; la fazione repubblicana di fuori l’aizzava, e la plebe ch'è mobile per natura abbenché non fosse sollevata da quel grido, pure con quel grido doveva insorgere; un pazzo facendone cento. ne c’era da far le maraviglie che ’l movimento si eseguisse;—Il giornalismo, spinta e sostegno di tutti i turbamenti; non aveva detto al popolo le mille volte che fra un popolo oppresso ed un governo tirannico altre ragioni non sienvi che le armi? —Non gli aveva detto che erano veri, moltiplici, universali i motivi di malcontento pei soprusi della tirannia?… ch’eramestieri financo di non pagare le tasse, di negare gli nomini alla leva?.. Non si era derisa la vecchia massima di Marziale

Numen habet princeps, sacra est res, sacra potestas?

...Non s’era decantata là dottrina dei regicidio di Buchanan e Mariana, e fatta l'apoteosi agli assassini? — S’era sparso seme perverso, ne s’era avuta altra cura che di un’istruzione falsa, somodata, e troppo universale. — La istruzione è mezzo di perfezionamento 0 di felicità; ma essa può essere del pari strumento di corruzione e di ruina. La istruzione debb’essere legata ai sentimenti religiosi, non deve oltrepassare la portata delle diverse classi che compongono l'umana famiglia; debb’essere bastevole per eccitare in tutti l’amore della patria, del travaglio, e dell'adempimento dei proprii doveri: ov’essa vuol fondarsi sulle idee d'unmiglioramento esagerato rende i popoli malcontenti, inquieti ed infelici. Era per questo che la istruzione, Frégio (514)la paragonava alla luce, la quale rischiara o brugia secondo ch’è bene o male diretta. Come domandare a gente guasta da una falsa istruzione, depravata dalla miseria, corrotta dalle sofferenze, solleticata a desiderii insaziabili, usa ad essere strumento ai faziosi, calma, riflessione, impero di se stessa, sentimenti di giustizia?... Come parlarle il linguaggio della ragione, mentre se l'erano smosse tutte le pacioni, che altro linguaggio non intendono che quello della forza; dappoiché sola

Può la forza al ben far l'uom guasto trarre? (515)Ah! se la palla uccide, il giornalismo deprava: esso sostituisce la ciarlataneria alla fatica, la cabala al merito, il meccanismo all’ingegno.

In siffatte commozioni poteva mai starmi tranquillo allo spedale?... Proprio, proprio, come il Tacito dei satirici (516), avrei preferito non che Suburra o Procida, maunoscoglio qualunque alla mia terra natale (517).Miconturbavanoipronosticisicuri, i gravi pericoli del momento, lo slancio che tentavano di fare i. popolani

Per poi restar con ria vergogna oppressi (518).

Molto più che gli allarmi cresceano di giorno in giorno; e gl’incitamenti, i proclami, le minacce, le jattanze succedevano al fermento segreto e alla costernazione ch’erasi vista sotto forti colori... Un mormorare sommesso, un sospirare profondo, uno stringerai le mani alzando gli occhi al ciclo, tacendo per timore di spioni, si osservava dapertutto nel popolo che è

...a temer pronto, a distemer del pari (519)...

Giù per le bocche di tutti sentivi il concetto di Lucano

Tolle moras, semper nocuit differre paratis

cioè in buoni termini: osate, osate... parola fetale pronunziata una. volta da Saint-Just, e in cui riducesiin fatto tutta la politica delle rivolte, perché

... se ardir bollente,

Alle imprese difficili non spinge,

Saviezza alcerto non vi spinge (520).

Osate, osate aveva detto madama Saint-Brige a Luigi Stanislao Fréron, ed eccoti scoppiare la rivolta dell’ottantanove... Osate, osate si era in ogni rivolta ripetuto; od ora che si ripeteva ora impossibile che la rivolta mancasse. I popoli sono come gliammalati;essi stancandosi delle sofferenze amano mutar posizione, giacché ogni qualunque movimento da loro speranza di potersi trovarmeglio.—Là ove ipopoli seno costati, scriveva Macchiavelli, le cospirazioni non sono possibili...ma popoli contenti come sperarne ai tempi nostri, nei quali le genti volendo essere onninamente felici sono e saranno perennemente conturbate?

I nostri governanti locali intanto, quegl'ignoranti ed imbecilli che ci dovevan tutelare, nulla sapevano prevedere e provvedere. Taluni ch'erano nati asini ed asini dovevano vivere e morire, credeano sufficiente,misura un cappello a tre punte o una bajonetta posta a sentinella per evitarsi qualunque disastro. Non disconvenivano che l'odio fosse universale, ma lo ritenevano per odio impotente, ne capivano ch 'era questa la caratteristica sua più spaventosa; imperocchè quando l'odio è impotente, osserva il politico conte di Ségur (521), convertesi in furore. Essi sconosceano cosa significhi la coalizzazione delle forze; ne rifletteano che se un filo non alza il peso d'una libbra, mille fili tirano l'ancora d'un grosso vascello. Era ridicolo l'atteggiamento, dirò meglio l'insipienza colossale (522), la sciagurataggine del prefetto, cui sfuggivano le cose palesi ugualmente che le occulte, secondo la frase di Tacito (523), quem nota pariter et occulta fallebant, non bastandogli il cuore ne di confortare i buoni, ne di contener gl'indecisi, ne di reprimere i risoluti. — L'uragano era lì sulle sue spalle e su quelle di tutti, ed egli inerte, pavido, dappoco pacatamente, ossia stupidamente, proponeva al suo consiglio di scegliere una commessione (524) che avesse a studiare. E che volea che studiasse questo miracolo di commessione? (525)... volea che a quell'ora studiasse sci cose (526), delle quali forse e senza forse l'ultima era la più propria e di maggiore urgenza! - Niuno in fondo fu contento di lui, pure ne lo lodarono financo i giornali più avventati (527); - era un mostrare concordia in apparenza, temendosi gli effetti del rancore.

Ma ognuno in cuore sentiva una irrequietezza estrema che l'agitava come se si fosse alla vigilia d'irreparabile imprevista sciagura. – Allorquando un paese è minacciato da una catastrofe avvertonsi prima le commozioni latenti... si avverte che tutti hanno paura... tutti attentano durante la notte... guardano per ogni dove con occhi smarriti, incerti, senza sapere cosa vi fosse o cosa vi sia per arrivare.

Si trova raro, ma raro assai chi sappia seguire l'ammonimento evangelico, cum autem audieritis proelia et seditiones, nolite terreri (528)! Fatto sta che l'allarme era generale nel paese i rompicolli soprattutto n'erano atterriti, e volevano far credere che quella fosse «la reazione più violenta contro la tirannide della questura del signor Pinna ecompagni (529)». I giornali governativi affettavano impavidezza (530) mettendo in ridicolo l'allarme. E oggi la fanno, dicevano insulsamente, la fanno domani; assicurando da stolti o. fintamente che non c'era paura di nulla, ch'era impossibile qualunque specie di rivoluzione, che non valea la pena di parlar sul serio di queste baggianate; e che il giorno in cui sarebbe surto un pericolo starebbero tutti a fianco del governo. Quindi annunziavano (531) che il giorno 8 la banda che infestava Morreale fosse stata dispersa nell'ambito di san Martino, e che a calmare certe ridicole velleità reazionari ealtre truppe erano sul punto di giungere da Ancona. La gente sennata però non prestava fede a siffatti conforti. Tutto era pieno di sospetti, e se forse erano scevri di timore alcuni penetrali delle case, in pubblico c'era la paura più grande... tanto quanto a qualunque nuova che avesse recata la fama ognuno caogiavasi d'animo e di aspetto, tenendo mostrare che gioisse o diradasse. Molti quindi pensarono asilarsi in questo od in quel luogo; ne furono pochi coloro che cercarono ricovero nello spedale ov’io stava rinserrato, supponendolo silo Sicuro da non potervisi tendere alcun sinistro. Eppure indi a poco esso tramutassi la vera bolgia d'inferno, donde si stimarono fortunati coloro che ne poterono, fuggire a salvamento.


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CAPO XVIII

Giornate di settembre

Quella incertezza, quello indugiare, quel vacillare, quel trarre gli altri in temenza, fra’ timori e fra’ dubbii dell'impresa consumavano il tempo e l’ira. Per ordinario la gran massa nei momenti di crisi, in cui versano le società, sono le anime esitanti: queste per quello istinto degli uomini di seguire prontamente ciò che hanno timore o vergogna d’incominciare stanno in aspettativa della temerità di un ardito compagno. Infine non potendo durare più oltre quello stato violento, fu annunziato che fa notte del 15 al 16 settembre si sarebbe venuto alle mani; ne parlatasi d'altro che di levare il selciato alle strade e di tingere le case di barricate. Ondeggiandosi fra lo sperare ed il temere, finalmente Io sdegno compresso per il terrore scoppiò con energia la notte del 15 al 16 settembre e ingaggiossi la zuffa. — Nelle storie delle nazioni, come in quelle degl’individui, si rinvengono coincidenze strane di epoche fatali:—è proprio fra queste il mese di settembre (532).Di piccol rivo cresciuta l'onda rivoluzionaria divenne torrente, e prese un carattere veramente grave; perché ne fu rapido il progresso quanto impreveduto il cammino, s’intese dapprima, poi crebbe di momento in momento un rumore lontano lontano che a poco a poco divenne formidabile. Allora il frastuono, i fortuiti avvenimenti, la nissuna avvedutezza nel dirizzare i colpi e nello schivarli mise tutto in scompiglio, e la rivolta si sparse come unincendio per tutta la città. Non può descriversi la rabbia dei popolani contro ciò che apparteneva al partito che aveva dominato; dappoiché il popolo, e in specialità il nostro, è pronto sempre a calpestare là sera quel tale potere innanzi a cui si è prostrato la mattina; molto più in quest’epoca depravata, nella quale la frivolezza del pubblico è giunta all'apogeo. Alla sommossa non prendeano parte persone ricche od elevate, ne il clero o il monachismo: erano gli uomini delle classi operaie che contribuivano più che altri all'insurrezione; ne alcun li guidava, perché ciascuno era CAPO a se stesso. Erano questi i parteggiatori di una rivolta che assolutamente volevano, ma che non sapevano eseguire, e della quale non intendevano le vere cagioni, ne antivedevano le funeste conseguenze. Parve il paese attaccato di demenza e frenesia, eil movimento straordinario eccitossi da per tutto; riuscendo impossibile il fermasti nel cammin dell'errore quando, le passioni vi ci hanno strascinato. Brulicavano gli individui delle classi inferiori, e parlavano con vivacità, con tuono alto ed ardito, con isguardo fiero, con contegno risoluto: l'accompagnavano per istrada alcuni perchè complici, molti per la maraviglia, ed altri cheti, cheti, che aspettavano di prender cuore dalla riuscita. Una turba di ragazzi, libertini prima d'aver la potenza d 'esser tali, intrepidi perchè ignoranti dei pericoli, crudeli e pervertiti giocavano anch'essi una tristissima parte; giacché le armimoderne mettono la morte a disposizione pure della più debole mano. Essi si lanciavano con tutto l'abbandono della puerilità nella mischia; e perchè non rispettavano presumevano, e perchè gridavano si credevano forti. Anche grande baccano facevano le donne da trivio, cui tutto ciò che stuzzica la curiosità attira; e prendevano parte attiva alla perturbazione, al fracasso, alla rivolta:

no parte attiva alla perturbazione, al fracasso, alla rivolta.

Tentan duci e soldati argine farsi

Alla bollente rapidissim'onda

Invan; – disgiunti, sbaragliati o uccisi,

È un sol momento (533);

e pria che fosse mezzogiorno era già lo spedale della concezione ingombro di morti e di feriti, condottivi da squadre numerose, le quali s'impossessarono del baluardo, sporgente sulla via che dal molo conduce al palazzo regale, per opporsi di là al transito dei soccorsi d'uomini, d 'arme e di vettovaglie.

Lo spedale era rimasto alla discrezione dei popolani, di due infermieri, (uno de' quali poi a causa degli spaventi provati vi perdette la vita) di qualche medico assistente, dei facchini, dello speziale, dei cappellani, i quali oprarono prodigii di telo, sansa esserne stati a suo tempo compensati dai preposti assenti e pure borioni. Più incalzava il conflitto, più affluivano i feriti, e questi in gran parte sia perché privi di pronti soccorsi, sia perché operati con ritardo e torse da mani poco esperte perirono tutti. Rammento ancor con raccapriccio il dotarono spettacolo che offrivano tanti feriti sdrajati su paglia trita e fetente, coverti di luridi cenci!... rammento del puri l’orrenda pizia che tramandavano tanti cadaveri rimasti per quattro giorni insepolti, e che furono poi interrati nel giardino col pericolo di suscitare il tifo!

Intanto i rivoltosi dopo avere osate, cercavano capi che avessero a dominare la tempesta; molti dei compromessi gesticolavano per le strade come forsennati, e piangevano di furore, dimandando inutilmente ordini, munizioni e denari. Quindi decisero con una credulità infantile di tirar dalla loro chiunque avesse un nome, un potere, un’aura d’influenza o di ricchezza nel paese. — In tale confusione di tutto, che annunziava l’agonia della rivolta, furono condotti a forza a reggere l'anarchia Riso, Pignatelli, E. Amari, Torrearsa, Galati, Linguaglossa, ed altri meno conosciuti, i quali si assidevano, scomparivano, ritornavano e agivano in diversi sensi. Fra essi taluni non avevano altro orpello che quello d'essere uomini già messi avanti dalla moda... potente pana, cui tutto è sottomesso in questo mondo, e ch’eleva od abbassa pel memento il valore di chiunque, non secondo il suo merito reale, ma secondo le circostanze che attirano o allontanano l’attenzione su di lui. Si cercavano in somma com'è costume, ad onta di tutte le democratiche millanterie, capi aristocratici per essere guidatori, ma s'ignorava interamente che l'animo là il nobile, diceva Seneca (534), ma non facit nobilem atrium plenum famosis imaginibus. Non eravi però fra tanti nomi alcun nome di prestigio; — e nelle rivolture è un nome che equivale un'armata, senza del quale non è possibile il successo.

Dall'altrolato, tra i molti che davano consigli al governo e i pochi che prendeano parte al pericolo (ciò che sempre avviene in casi somiglianti) un pugno di consortieri i quali secondo la frase spiritosa di Chateaubriand(535) sont verteusement les hommes du pays à la barbe du pays, si riunirono col prefetto e col sindaco. E ambendo di ottener la rivincita con l'arme in pugno si fecero guidatori di birri e di soldati, e d'amministrativi facendosi battaglieri, da burocratici s’atteggiarono a gendarmi: nella quale attitudine dierono un aspetto ridicolo a quel dramma sanguinoso. Onde furono dal furore popolare immantinente svaligiate la casa e la casina del sindaco Rudini, che tirava sugl'insorti colpi di moschetto; e fu prodigio che il palazzo municipale fosse rimasto preservato dal saccheggio ardentemente iniziato. Ciò che non era avvenuto giammai, perché giammai il municipio di Palermo sera visto tramutarsi in pattuglia di sicurezza, intesa a tirare sul popolo invece di calmarlo. Efinché i municipii odierni non si persuaderanno ch'essi son fatti per amministrare e non per parteggiare con questa o con quell'altra fazione, saranno sempre in balia degli altrui capricci, amministreranno male, estorquoranno denaro con angarici balzelli, lo sciuperanno in ispese condannevoli e stravolte, e raccoglieranno odio, aborrimento e maledizione da tutti i cittadini.

Era l'attacco frenetico suddiviso tra il palazzo reale e le prigioni. Quest’ultime pretendeva espugnarle a colpi di fucile un Salvatore Miceli da Morreale già colonnello al 1818; ma capitanandone audacemente la manovra ebbe dalla mitraglia fracassate ambo le gambe.

Quest’uomo, di gran cuore e di propositi tenaci, che emulando la fama dei Sciarra(536), dei Pittaluga (537)e di quel Giordano taglia-teste che fu troppo celebre nelle stragi delle ghiacciaje d'Avignone, al solo apparire coll'archibuso in ispalla metteva in ispavento terre e borgate: io lo vidi condotto allo spedale, in mezzo dei disperati suoi compagni spirare l’anima fra tormenti inauditi senza muover lamento. Per tal fatto il generale attacco intiepidiva, come consueto andamento dei movimenti popolari: —la rapidità con cui il popolo in sommossa passa dal riposo all'agitazione, dalla tempesta alla calma, sconcerta ogni miglior disegno e favorisce talvolta la situazione del nemico che vuolsi atterrare.

Il comitato intanto s'era dapprima riunito nella chiesa di s. Agostino; poi aveva preso posto al palazzo di città, quando di là scappando municipio e prefetto e la lor servitoraglia s'eran salvati a tutta corsa nel palazzo reale insieme ad alcune notabilità del paese e a una dozzina d'arruffoni, i quali aveano la pretensione, di rappresentare la pubblica opinione.—La costernazione divenne generale perché nissuna influenza esercitava siffatto comitato, e gli assalti e le grassazioni si multiplicarono, essendo il momento di mutar padrone il carnevale dei birbi d'ogni categoria (538). Veniano in quel mentre alunghe file i soldati richiamati dall'interno ignari del trambusto, ed erano per istrada sbaragliati, com'era successo al 1718 in Caltanissetta(539)per simili motivi (540). Prigionieri e feriti mezzo-morti stramazzavano, e insanguinavano le vie, e venivano trasportati alla Concezione ove le palle e le granate fioccavano d’ogni lato; sicché fui costretto a cambiare di cella, ottenendone una meno esposta, ma che non mettevami al sicuro. E da questa avvertiva il passaggio fuori porta Carini che faceano i treni di artiglieria, i quali fulminavano incessantemente, senza che si sapesse se le detonazioni annunziassero la vittoria o l'ultima disfatta... Dio solo sa le torture ch'io soffersi nell’animo pel pensiero crucciante della mia famiglia. Quanto alla fame non me ne curai gran fatto, imitando la settimana della xerofagia(541), nellaquale non si mangiavano checose secche senza condimento o poco pane immollato nell’acqua. Non fammi possibile ottenere un pezzo di carne, quasi fossi stato in Cina od al Giappone, ove non ce ne è l’uso(542), e desiderai un pezzo di formaggio che non mancò a Zoroastro per un ventennio nel deserto (543)! In tale stato a chi per conforta parlavami di speranza, e mi dicea che la fortuna dovesse rimbalzarci al colmo, io dava in sulla voce con asprezza; stolti, dicendo loro, stolti

... tempo

Non più di speme,or di tremar è il tempo (544),

conciossiaché:

... infermo stato

Cangiar nol puoi (pur troppe è vero che in peggio (545).

Eran però parole perdute, perché quantunque Dio non avesse dispensato alcuno dal rifletterci pur tuttavia

,.. fa men probabil cosa

Vera talvolta al popol pare (546).

Dimanieraché ogn’uomo, secondo piè o meno l’energia del suo carattere, era una specie di cospiratore, il quale attendeva dalla fortuna la decisione;' facendo gli avvenimenti più traditori di quello, non pe facciano le mere opinioni..

Per soprassalto mi squarciavan le viscere le esclamazioni di tanti coscritti colpiti di moschetto!.. Quelle ultime grida di certi giovani rovesciati nel vigor della vita, i quali invocavano con ansia disperata le madri, e che sciamavano: je ne veux point mourire encore, come racconta Andrea Chenier, sciamassero una volta certi giovinotti prigionieri, m'involgevano il cuore in una mestizia profonda... io pensava alla desolazione delle povere madri... io era a parte delle trafitture del loro cuore... io non mi dava pace di non poterle confortare, e piangeva a canto di tanti sventurati... ah si

Santa natura, pur nell’uomo hai posto

Dolco e tenero il cor, tu che gli testi

Il dono delle lagrime, che figlie

Son di pietà, senso miglior dell'alma (547).

Giunse infine un momento d'estremo periglio, in cui, secondoché diceva l'imperatrice Teodora a Giustiniano suo marito, la temerità è prudenza. Era il quarto giorno della terribile settimana e diverse navi della regia squadra allora allora arrivate avean messo a terra una forte colonna di pedoni: questa serrata in massa giunse sino alla piazza ch’è fra il reclusorio del Monte e la palazzina di Staiti. Ivi allo scoperto impegnossi a conflitto coi popolani, e fu posta violentemente in rotta, ed obbligata a indietreggiare vi perdèun piccol cannoncino di bordo che le squadre condussero in trionfo al chiostro di s. Nicolò Tolentino loro quartier generale. Così i soldati

... sbaragliati e rotti

Eran già tutti, uccisi in copia, e in fuga

Cacciati gli altri, anzi che 'l sol cadesse (548),

tanto, quanto i generali chiusi nel real palazzo (549)costretti per manco di viveri a cibarsi di cavalli sermocinarono di resa e di capitolazione, non fidandosi più oltre di resistere a un numero d’insorti che sorpassava i trenta mila; perché Righini generale era un bravo soldato, un uomo dotto, ma era del pari un infelice comandante, insufficiente del tutto nei torbidi civili. Or in quel giorno fu invaso il corridojo della sala a pensione, e con infrenabile mareggio l’onda degli armati vagolava per le stanze che volea si destinassero ai feriti.

Mentre cosi cresceva la procella a dismisura, imponeami per iscrittol’infermiere che sgombrassi. Onde io a cui possono venir meno le forze, non mai

Alma robusta e di spaventi ignara (550)(tuttoché gli animi anche i più fortemente temperati illanguidiscono e vengono meno sotto il peso degli anni), la notte mi frammischiai tra la folla romoreggiante, che per parlare col poetico linguaggio di Lamartine errava sull'orlo degli abissi qual gregge privo di pastore; e per le più recondite viuzze m’avviai alla mia casa, e inatteso mi presentai alla mia porta. — Un istante prima eravi giunta Carmela mia figliuola, strascinando i suoi bimbi ch’erano

... in quella etade appunto

Atta a nulla per se fuorché a pietate

Destar nel core (551),

scappata in mezzo al fulminar delle palle da cannone, che partendo dalle regie navi aveanle conquassato l’appartamento suo nel palazzo Sperlinga,—il quale rimase abbandonato al saccheggio e fu spoglialo di tutto il prezioso... Scusa o lettore — quando si fanno memorie e si narrano le rimembranze della propria vita si è sforzali a parlare di sé e della propria famiglia!


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CAPO XIX

Il disinganno

Il tumulto non poteva attingere la vittoria, ancorché fosse riuscito a snidare la intera soldatesca, e le navi inglesi si fossero ancorate in Favignana in altitudine tale da eccitare gravi apprensioni alla Francia (552); dappoiché era tumulto senzacapi, inopportuno e circoscritto a Palermo e suoi dintorni. Ed un tumulto in cui non si facea vedere la solita bandiera che riferisce Tacito(553)avesse inviato ai Pretoriani l’esercito di Siria per meno del centurione Sisenna... antica usanza, segnale d'amicizia espresso in tante medaglie coll'epigrafe Concordia exercituum… Consensus exercituum. Or quando una rivolta non si propaga prontamente, si ferma: infatti che tempo ai regii rinforzi che piombarono d’ogni parte. ne l'idea repubblicana potea spingere il popolo all'entusiasmo, perché, come ha bene avvertito Napoleone III (554), le sole guerre intraprese di accordo col sentimento tradizionale hanno il privilegio di scuotere profondamente la libra popolare. Questo sentimento connaturale agl'isolani nostri è unicamente la propria indipendenza, non già la ridevole repubblica che si converte in anarchia, e di cui val meglio qualunque cosa per orribile che sia, diceva Catone (555); perché le sue tribolazioni fanno desiderare a tutti l'ordine ad ogni costo. — La nostra Sicilia somiglia ad una grande famiglia decaduta, la quale vive nel passato più di quello che viva nel presente, e che si crucia pensando a quel che era ed osservando dove si ritrova. — Poi per effetto di quella illusione, la quale ci porta a prendere le nostre brame per isperanze fondate, questo suo politico pensiero non si disarma giammai, e rigoglioso sotto mille forme rinasce. Imperocché le nazioni conservano come gli uomini pure la loro vanità dopo perduta la loro fortuna, la loro potenza, il loro coraggio, la loro fierezza (556): e se dimenticano talvolta ciò ch’era scritto nelle loro leggi, non dimenticano mai ciò ch'è stato impresso nei loro costumi. Anzi quell’amore per le tradizioni, quella diffidenza contro delle novità, ch'è distintivo delle razze forti (557), in Sicilia si sente più che altrove. Quivi appunto al par degl'indiani si vorrebbe essere governati da gente che parlino la stessa lingua,che professino lo stesso culto,che osservino le stesse leggi; preferendosi un sistema rozzo e grossolano,ove sia del proprio terreno, ai raffinati ordinamenti tracciati da un modello straniero amministrati da straniere mani. Era perciò universale la illusione della speranza, e tutti coi loro voti affrettavano la vittoria di quella crisi violenta che sacrificava nel sangue la generazione presente. Conciossiaché ad ogni modo gli uomini non son contenti mai, osserva Gozzi (558), e vorrebbero cambiare la vita loro con istantanee tramutazioni: oggi vorremmo una cosa, e domani un’altra: ciò che aveva pria di lui cantatoelegantemente Giuvenale(559). Nel quale grande sfasciamento gli occhi si rivolgevano all'antico, ritenendolo come tempo felice al paragone delle pene ch'eransi sofferte nel cangiamento di cui si era gementi ed attristati. E sospiravasi in core l'autonomia, che fu nell'antica Grecia idea essenzialmente municipale, poi aggrandita mano a mano ed alzata a quel concetto universale che comprende la nazionalità d’un popolo (560). Per tal modo nissuno stimando possibile la repubblica, per la quale pugnava, ardi proferire il nome di Garibaldi, o intuonare il suo inno; che se alcuno avesse osato far ciò sarebbe stato perseguitato a morte, come fu perseguitato dai terroristi quel Giuseppe Rouget de Lisle autore della Marsigliese (561), cioè della canzone che conduceva i Francesi alla vittoria repubblicana;

Pertanto i rinforzi sopravvenuti da Messina, da Napoli, da Ancona dissiparono qualunque illusione. — Perdendo tempo gl'insorti perdevano tutto; imperciocché il tempo è cosa preziosa, e tutto quello che indebolisce l'energia dell'azione è diminuzione della forza. — La sera del venerdì, tuttoché il Comitato provvisorio (562), nel mentre non voleva andare al palazzo comunale perché gli parea pericoloso traversare la città, avesse in quel giorno stessofatto appello al popolo, affinché ognuno avesse apprestato il suo braccio e la sua vita, avvenne quello che avviene ne’ casi disperati... comandavano tutti... nissuno eseguiva. Eil presidente spaventato come Pompeo, cambiati i nomi, ripeteva: Claudio cerca assassinarmi —Crasso lo paga—Catone l’incoraggia(563). — Indi a che siccome la fortuna si burla dei progetti e delle sperante degli nomini e si reca a piacere il rompere tutte le loro misure, sparirono come per incanto le squadre campagnuole ch'erano state più numerose della posterità d'Abramo. E lasciarono la cura di scaricare qualche ultimo colpo ai palermitani (564), i quali aggiravansi per la città senz’ordine e senza guida (565); finché gettate le armi cercarono la fuga eludendo artifiziosamente il nemico. Conciossiaché. la moltitudine quando uno non la regga, osserva sapientemente Tacito (566), è temeraria, al tempo stesso, timida e vile. — Allora i bersaglieri cacciaronsi dentro a furia, e si spinsero avanti per le barricate audacemente senza che alla difesa di quelle e nelle strade avessero incontrato alcuna resistenza. Essi erano guidati dal generale Luigi Alasi, quel desso che, siccome quasi tutti gli uomini politici moderni, erasi in sua gioventù occupato alquanto di giornalismo (567)quando esercitava la medicina e facea da segretario al principe di Canino Carlo Bonaparte; — e che dopo varie vicende (568) era stato fatto colonnello comandante la guardia civica di Roma nel 1848 (569). E poi nel 1860 ragunato in Toscana un piccolo corpo di volontarii denominato Cacciatori del Tevere era agli 8 settembre entrato in città della Pieve ed avanzatosi ad Orvieto allorquando l’esercito piemontese comandato da Fanti generale entrava nello Stato pontificio (570).—Né anco resistenza incontrò dopo di lui il generale Angioletti,così svaniva la rivolta la mattina di sabato 22 settembre a mezzogiorno; senza che i regii avessero ottenuto una vittoria, o al più ottenendo una vittoria tale che, come scrisse Giorgio Pallavicino(571), era deplorabile quanto i disastri di Lissa e di Custoza.—Sia che si voglia però, in tale carriera non s'indietreggia impunemente, e coloro che fanno le rivoluzioni a metà si scavano la fossa (572).—La popolazione trovossi peggio umiliata e più compromessa di prima... solita scena finale delle tragicommedie di questo genere.Gl’italianissimi vistisi sicuri trasfigurando i fatti da non più riconoscerli scrissero cose nefande contro del paese, senza sentirne rossore, che è, dicea Teofrasto, tinta della virtù, e manca affatto a quasi tutti gli odiernissimi più presto romanzieri che storici, come li appella Corazzini (573); e furono letti ed ammirati, giacché

Vuoi tu parere un'arca di scienza

Biasima sempre, e vedrai la brigata

Starti d'intorno con gran riverenza (574).

Essi vomitarono ingiurie contro il prefetto e più contro il questore; dichiarando quest’ultimo degno d’essere condannato alla pena dei parricidi (575) e dicendo, come Elisabetta d’Inghilterra, che Dio forse poteva perdonargli, ma che essi no — non gli perdonerebbero mai. Conciossiaché egli al par di Sejano allora era sventurato e non vi volea altro per esporlo alla pubblica esecrazione. Eppure il governo decorò Torelli della medaglia d’oro del valor militare e destinollo prefetto a Venezia; e collocò Pinna al ministero della sicurezza, quando insomma si faceano voti perché s'imprimesse un marchio d’infamia sulla fronte di lui (576).

Fuvvi intanto chi disse che i luttuosi fatti di settembre fossero stati l'espressione d'un bisogno sociale—che valse a protestar solennemente contro l'imbecille amministrazione di sei anni (577). Fatto sta che non potè indicarsi un sol uomo come promotore di quel moto che fu acefalo del tutto... e si crede (578)che non si manifestano acefali che i soli moti sociali. Certo è che il paese fu minacciato dell’assoluta dissoluzione: esso fu sul punto di crollar da’ fondamenti, e fu ben grave lo scompiglio di tutta la macchina morale. Imperocché pur troppo è vero che una rivoluzione di governo produce sempre una rivoluzione nel costume pubblico e nel privato (579).


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CAPO XX

La repressione

Quei pochi cittadini che s’erano chiusi al palazzo regale trepidanti, calmato il tumulto, discesero dispettosi per le strade fra soldati e gente di questura. Taluni di essi commossi gridavano: viva l’Italia, viva Vittorio Emmanuele... non vi fu alcuno però che morisse per l’eccesso della gioja, com’era morto a Parigi sulla piazza d’Epinal Perrin des Vosges, mentre gridava: viva l'imperatore a Bonaparte che ritornava dall’Elba. — Quanti individui in quel momento vennero incontrati dalla truppa o dalla polizia con arme in pugno o con mani annerite dalla polvere furono fucilati sull'istante. Perseguitando con odio implacabile i vinti si arrestava a torme e alla rinfusa; rintracciando e traendo fuora tutti quei che s’erano rimpiattati. E i carabinieri trattarono con indegno disprezzo e con sevizie gli arrestati, dimostrando a chi l’avesse ignorato quanto sia

Duro a soffrirsi il soldatesco orgoglio (580).

La folla degli arrestati, veri o non veri perpetratori dei fatti di settembre, si stivavano in prigione, in preda agli eccessi ed agli abusi (581)dell’abbietta marmaglia d’arrabbiati serventi, in attenzione d’una condanna che desse legale apparenza alle tante esecuzioni criminose operate senza giudizio, e compite senza giustizia, — disposte presso a poco come (quando in Francia tanta gente chiamavasi Bruto) disponevale quel sanguinario Carnot, il quale segnava in confidenza centinaia d'esecuzioni capitali.

Però la giustizia è cosi necessaria agli uomini, ch’essi eredonsi obbligali a prestarsene il velo, onde covrire le più arbitrarie azioni. —Le chiese furono mutate in caserme, prigioni, tribunali, e peggio... Ben poteva dirsi col salmista: Deus venerunt gentes in haereditatem tuam, polluerunt templum sanctum tuum. Cadorna generale, venuto a farla da alto Commessario, sprezzando la massima del giureconsulto Bodin, che il potere di far tutto non ne dà affatto il diritto, credè doversi regolare come Mourawieff a Wilna, come Berg a Varsavia. Sicché potè dire a Palermo quel che avea fatto dire Dante (582)da Tomiri a Ciro:

Sangue sitisti ed io di sangue t’empio.

Qualunque fazione vincitrice abusa sempre della vittoria; e lo spirito di parte rende tutti i cuori barbari, tutti i caratteri inflessibili! ne alcun influente cittadino presentossi a smorzarne la foja, come aveva fatto a Parigi Arturo Wellesley duca di Wellington, che dopo la capitolazione rinomata si oppose energicamente alla brutalità del vero vandalo Blùoher. Dopo due giorni (583)il generale Cadorna, eletto sin dal 18 settembre commessario straordinario, decretava il disarmo immediato sotto pene severe, non esclusa la pena della fucilazione(584); — decretava una carta di circolazione per chiunque volesse uscire fuori le porte della città di Palermo (585). Nel qual mentre un Pietro Biundi eletto reggente della questura imponeva la restituzione sollecita degli oggetti provenienti da saccheggio (586). E il consiglio comunale dichiarava danni della città quelli recati al sindaco; protestando contro l'orda selvaggia che aveva invasa la città;—e apriva provvisoriamente un credito di 200 mila lire per provvedere a tai guasti (587). Fu indi disciolta la guardia nazionale (588)e richiamate le arme dei militi e dei graduati. Poi affidossi la prefettura a un tal Achille Basile, dichiarandosi lui e il Biundi bravi cittadini — bravi patriotti, gridandosi nello stesso tempo il crwifige a Pinna ed a Torelli (589). — Stampò in seguito Cadorna una relazione paradossale dei fatti di settembre, che fu trovata strana, ingiusta e senza coscienza dallo stesso giornale anticlericale il Diritto, e dal partito dei sinistri(590); come la stampavano varie autorità civili e militari, che dovendo mirare alla pronta abolizione dei monasteri e dei conventi, riversavano sulle povere monache e sui frati, sui preti e sui loro aderenti il fardello enorme degli avvenimenti sciagurati. —Quasiché si fosse trattato dei Remoboth, dei Sarabalti, della mala genia in somma dei falsi monaci d’oriente, i quali senza regola e senza disciplina conturbarono intere città e provincie ai tempi di s. Girolamo (591)e di Cassiano (592). Eppure ad ognuno di cosiffatti relatori si polca forse dire con s. Romano (593):

Tu ventilator urbis, et vulgi levis

Procella, mentes inquietas mobiles

Né se imperita turba dedat legibus.

I poveri cenobiti furono a buoni conti dichiarati ad ogni costo anima e centro della reazione (594); — epperò disbrigarsi di loro essere lo stesso che salvare la patria... Parca proprio che avessero avuto sott’occhi la famosa lettera (595) di Napoleone I a sua sorella Elisa (596)ove sidicea: allez votre train et supprimiez les couvens... ne perdez pas un moment, une heure pour réunir tous les biens des couvens au domaine... emparez-vous des biens des moines, c'est là le principal, et laissez couvrir le reste. E sott'occhi del pari l’empia lettera di Voltaire a Federico re di Prussia, che lodavalo come pensare da gran capitano l’aver cominciato collo sfratto dei monaci l’attacco contro la cristiana superstizione; non permettendo loro né anco che ritornassero sui monti com'era stato ai suoi tempi desiderio di Atanasio patriarca di Alessandria. Millantavasi per giunta ciascuno di si leali relatori, financo l'imbecille Pinna (597), d’avere esclusivamente fatto e saputo far tutto... e non erano stati che una turba d'inetti e di codardi! Essi infamarono l'avvilita Palermo, ne dipinsero il popolo come un popolo guasto a dirittura (598):—ciò che valea dichiararlo incapace di libertà dopo avercelo predicato cotanto maturo; dappoiché

... fallace base

A libertà novella il popol guasto

Sarebbe (599).-

Né manco il paese fu difeso dal sindaco, o almeno scusato.—Anzi chi non invoca altra musa che quella della verità deve confessare che costui siciliano scandalizzò più degli altri (600), e disse cose che un non siciliano avrebbe esitato a scrivere e stampare (601). — Di guisaché stupiranno i posteri, e i contemporanei pudibondi si copriranno la faccia con ambo le mani, ricordando com'abbiasi potuto invitare il paese ad ergere un busto marmoreo (602)a chi chiedeva la forca ed il boja come un segnalato beneficio pel suo paese (603)...

Eppure il governo, dopo averlo decorato della medaglia del valor militate per avere tirato paternamente sul popolo col moschetto, lo destinò a prima autorità politica,—a successore di Torelli; nominandolo proprio prefetto di Palermo con plauso dei giornali d'ogni stampo. — Dissero poi orrori con una lingua volubilissima ed ardente più di quella disco i due impudenti giornalastri che risorsero trai primi: L’Amico del popolo e il Corriere Siciliano, gracchiatori per gusto, feroci per paura... ferocia ché mai sempre vigliacca, come il fanatismo politico è sempre sanguinario. Essi poco più poco meno s’avventarono contro monaci e preti, non perché li credessero colpevoli, ma perché cosi dovevano bandirli, onde schiantarli, ammiserirli, disperderli, assassinarli. Nel modo identico che lo inumano Danton aveva operato col suo re dicendo: «no, no —noi non giudicheremo il re, — noi lo ammazzeremo.» Il solo arcivescovo di Palermo si tenne in quel frangente dignitoso al suo posto, avendo risposto sulle rime alla insolente e ridicola lettera direttagli contro del clero dal generale Cadorna (604), —lettera lodata dai vigliacchi (605), ma vituperata in ogni regime civile.

Poi certi scrittoruzzi, terroristi di teoria che volevano riprodotto il sistema del terrore quando oramai non v’era più terrore, rapportando ai voluti versi i casi di Palermo, cominciarono a gridare dalli, dalli(606)e a ripetere il detto di Catone contro Catilina incide... incide semel quid quid incidendum est(607), smaniosi di applicare senza pietà in larga scala i colpi di pugno inglesi, il palo turco, il bastone tedesco, e l'inquisizione spagnuola. Essi convertendo le disgrazie di Palermo in imprudenze, le imprudenze in torti, i torti in errori, gli errori in delitti, misero alla gogna ed al disprezzo delle nazioni il proprio paese (608), quel paese che aveano gittato nel fango, seducendolo prima, infamandolo di poi... quei paese che quantunque non fosse l’ammirazione dell'Europa, pure l'Europa ancora rispetta o per lo meno compiange.—E furono creduti da non pochi; giacché in causa rea, dicea Giuvenale (609), baldanza sfacciata tien luogo di ragione, e sembra a molti fiducia di vero

Nam cum magna malac superest audacia caussae

Creditur a multis fiducia.

Si giunse a proclamare a squarciagola essere dovere far la spia... e la facevano apertamente tanti e poi tanti che potea dirsi come ai tempi del governo dei Medici: vi sono più spie che lastre, anzi si dicea ben chiaro

... i delatori in queste triste mura

Tanti son più che i cittadini ornai (610)!

Per tal modo divenne Palermo la città più nojosa, la più insopportabile della penisola tutta; ove i delatori non si stancavano di gridare: morte... e morte a tutti. Mentre poco tempo prima i fanatici della libertà, gliippocriti per mestiere scimiottando faceano le moine perché la pena di morte fosse abolita... dicendo come Parini: morte a nessuno... neppure a voi che siete fazioso. — Anzi frementi d'ira, di rabbia e di dispetto diceano al popolo come avea detto quel mostro di Marat all’orda rivoluzionaria di Parigi: il te faut coupér deux cent soixante dix mille tètes!..—Perloché non soddisfatti dei tribunali militari, avrebbero voluto nelle mani loro quella forma d’editti ch’Einnecio chiama subitanei, e che i prefetti augustali e i presidi accordavano, condannando o abbandonando al furore della plebe per soddisfare ai clamori delle fazioni. E poiché non si piace allo spirito di parte altrimente che per l'esagerazione (611), il mezzo di primeggiare fu il dimostrarsi più pazzo degli altri. — Ciascuno intanto prostravasi innanzi del potere e se gli dichiarava devoto servitore. — Piovvero gl’indirizzi dei municipii, più commoventi di quei che scrissero i decurionati quando restò incolume re Ferdinando dall'assassinio di Milano. Imperocché qualunque governo conserva la sua autorità e il suo prestigio quando le sue operazioni sono coronate dal successo... solo quando è battuto le sue sventure divengono delitti ed è schernito; e in qualunque paese (diceva il conte Lavallette (612)) si grida sempre viva il re quando questi giunge bene scortato. Cadorna ignorava che la dolcezza e la compassione fossero compatibili coi doveri del soldato; — ignorava che l’agnello sia stato distintivo di uno dei più cospicui reggimenti d’Inghilterra (613). Ei credeva, come il credeva Bonaparte (614), che i soldati fossero soltanto ammazzatori di gente, vendicativi e ladri, senza pietà, cupidi non d’altro che di bottinare e di disbranare ogni voglia disonesta... feccia in somma e rifiuto delle patrie loro. Non usò quindi affatto dell’autorità sua per temperare le vendette che la fazione dei consortieri volle esercitate. Cercò; secondo è natura della maggior parte degli uomini, di augumentare il suo potere ed abusarne; sconoscendo che spesso spesso sono i rimorsi di coscienza che traggono gli uomini ad impazzare con brutte vendette, le quali perché il paese le subiva, giudicava che beh le meritasse. Pari in ciò a quel dottor Malouin, il quale veggendo un infermo docile a prendere le medicine che gli prescriveva diceagli con sussiego: voi siete degno d'essere ammalato!( )E si che veramente i cittadini di Palermo poteano dire con Tacito.(615)in quella congiuntura: dedimus profecto grande patientiae documentum! Cadorna avrebbe dovuto mandare prontamente ai tribunali coloro che aveano commesso scandali e saccheggi, e cancellare i delitti meno gravi con una saggia, sollecita amnistia. Egli avrebbe dovuto dire al ministero non già quello che in aria di trionfo aveva detto Metternich all'imperatore di Russia quando compresse la rivoluzione d'Italia del 1820 «voilà ce que c'est qu'une révolution qu’on prend à temps»... ma invece quello che avea detto a Carlo IX, il visconte d'Orte governatore di Bajona: «io ho trovato prodi soldati, buoni cittadini, e nessuno che volesse fare il boja.» Ma questo abbiamo veduto che non fece, anzi

.... ebbe ci quasi

La città nostra all'ultimo ridotta (616));

stimando meglio darsi in mano ad agenti subalterni che protessero i colpevoli e sacrificarono i meno delinquenti. E volle far crederò con il mal vezzo oramai troppo insulsamente ripetuto che la Sicilia fosse laCaledonia dell’Italia, e i Siciliani popoli barbari, cannibali, selvaggi, ingovernabili; dimenticando la massima imperitura dello storico di tutti i tempi (617) che il coraggio e la ferocia dei sudditi spiacciono sempre a qualsivoglia signoria. Così comportandosi raccolse odii maggiori, suscitò maggiore malcontento, ne raffermò, affatto il potere del governo. Giacché è la giustizia il solo mezzo di guadagnare la pubblica opinione; rimossa la giustizia i regni non sono che grandi ladronecci (618), e i ragionamenti della paura non sono che sofismi. — La giustizia ispira la stima e rende tranquilla l'autorità, e si reputa venerando unicamente un governo che s’arresta innanzi ai tribunali. Però i capi delle fazioni sono bravi a soffiare nel fuoco delle guerre civili, ma sono inetti a temperare la vittoria. Ed il motivo è conosciuto pur troppo... ad eccitare discordie e tumulti valgono assai tutti i più tristi; ma la tranquillità... la pace... oh queste hanno d’uopo di virtù (619),—e di virtù profonda! — La vendetta ch e pei volgari un bene più dolce della vita non è che miserando piacere d’anima inferma

Semper et infirmi est animi exiguique voluptas

Ullio (620).


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CAPO XXI

Il colera

Primo pensiero di Cadorna era stato scassinare conventi e monasteri, cacciarne brutalmente monache e frati, — proibire agli uomini vestir tonache e cocolle, pena l’esilio ovver la prigionia,—impossessarsi delle loro case, — avventarsi su la loro roba, in esecuzione (dicea) della logge che aveva per base e per motivo la massima socialista di Proudhon (621): la proprieté est le vòl. E la folla dei curiosi corse a visitare le case monastiche svaligiate, come fanno i viaggiatori che traversano a Granata le sale abbandonate dell’Alhambra!

Intanto molti giornali della penisola (meno quello al quale in Firenze cooperavano taluni siciliani (622)) e molt’allri della Francia (623)mostraronsi indegnati del modo stravolto com’eransi raccontati dal governo i falli di Palermo, e dichiararono strani i provvedimenti elio s’erano emessi... Ma la consorteria rimase soddisfatta, e a sedare le turbolenze si raggiunse la cifra di otto milioni (624): — si davvero la consorteria gioiva dell’avvilimento di Palermo, ne s’avvedeva che è impossibile condurre i popoli coll'oppressione a libertà, come dimostrava il barone di Holtzendorff (625).—L’oppressione è supplizio fatale per chi ama lealmente la patria, e che la vede a poco a poco decadere e sconnettersi sul pendio fatale che la conduce a ruina:— ne era permesso di lagnarsi ad alcuno, ove non avesse voluto essere graziato della forca. I gemiti degli oppressi erano agli occhi d’insensati oppressori mormorio insolente, di cui s’offendeva l’orgoglio dominante... solo il silenzio delle tombe soddisfaceva gl’idropici di dominio, i quali pretendevano che pur la memoria si perdesse insieme colla favella; — quasiché l’obbliare fosse in nostra balia come il tacere.

Non chiuderò intanto questo racconto senza che esprimessi un pensiero su questa rivoltura, la quale appena finita ha lasciato ricordi pur troppo dolorosi.—Convengo che in essa ha dovuto parlarsi della nullità degli uomini... degli spaventi... degli odii... della persecuzione... dei pregiudizii...delle cospirazioni...delle misure mal prese... del coraggio e del manco di coraggio...—Ma quali ne furono le cause radicali? I governativi non videro che la contro-rivoluzione, il ritorno dei Borboni, le vendette degli emigrati (626); — i rompicolli l’attribuirono al mal governo, a Pinna, ai clericali, tuttavia il movimento di settembre pare non tenga affatto alla politica propriamente detta; esso sembra derivato dalla rivolta sociale che agisce senza posa, e che presume impossessarsi di tutto l’universo.—Mentre Napoleone ha fantasticato la distruzione dei piccoli stati e la divisione dell’Europa in cinque imperi (627), la democrazia ha minato audacemente le profonde basi del vecchio edificio sociale camminando verso un mondo ideale.—Due soli spaventi ne contrastano la corsa...lo spavento della legittimità, la quale vuol che ’l passato sia l'unico porto di salute — lo spavento del regno popolare che assicura che la violenza sia il solo mezzo di successo.

Per tanto a non pochi flagelli si aggiunse fiera pestilenza. — Più non dubitossi della comparsa fra noi di quel viaggiatore misterioso come la morte, lento come l'eternità, implacabile come il destino, terribile come la mano di Dio (628). Questo fuoco della collera celeste, secondoché appellarono la peste d’Atene (629)Ippocrate e Tucidide, questo contagio infernale, traversante le montagne e i mari a guisa d’una di quelle pagode terribili adorate su la riva del Gange, venne a mettere il colmo alla desolazione di Palermo; cui il colera pare dia tregua non pace, come la febbre gialla a Nuova York, la peste al Cairo, il tifo a Londra, la malaria a Roma. —Questa volta fu importato dalle truppe provegnenti da Napoli e sbarcate al molo di Palermo dal 18 al 22 settembre (630), ne potea coglierci in punto peggiore (631).

Dopo avere serbato la più irreprensibile condotta nei giorni di settembre io mera volontariamente restituito al mio carcere-spedale nello stesso giorno in cui era finita la rivolta; dicendo come aveva detto Seyés quand’usci dal suo nascondiglio dopo l’epoca del terrore: «siamo vissuti e non abbiamo fatto poco!» Seppesi frattanto che il fisco Interdonato fosse ritornato a corsa da Messina; egli stimando complicate le forme degli ordinarii tribunali e i loro supplizii troppo lenti aveva passato ai militari il processo di Badia per riattaccarlo coi fatti di settembre. Illegalità contraria al buon senso, non essendo giammai, insegna Dupin (632), delle commessioni militari la conoscenza dei complotti contro dello stato. Interdonato portava sul dorso il peso del pubblico dispetto perché potea dire come Attila; «l'erba non cresce più laddove è passato il mio cavallo.» Egli in uggia al ministro Borgatti s’attendeva perlomeno che fosse traslocato... ora pei fatti di settembre ingraziossi, avendo saputo cogliere la palla al balzo e rialzossi trionfante. Corsero allora informazioni segrete sul mio conto, e tuttoché nuove calunnie si fossero inventate, pur mi si davano a conforto le dottrine del dottor Pangloss... tutto per il meglio... non ogni disgrazia essere sciagura, e che il mio meglio era stato d’essermi trovato chiuso allo spedale. — I più sciocchi. I più nulli, gl’imbecilli s’elevavano a pubblici censori; dicendo ed oprando asinerie, tante da poter dire che non la sbagliava il buon Caligola (633)quando voleva far console il proprio cavallo.

Curvato io dunque sotto la bufera attendeva che questa finalmente passasse.—Ma le disgrazie non arrivano sole; esse camminano insieme come le Furie, e alle calamità passate una nuova se n'aggiunse improvvisa che mi trafisse amaramente. —Era la vigilia di s. Teresa, e all'improvviso vandalicamente si sfrattavano le monache carmelitane scalzo del monastero in cui viveva la mia figlia, — monache il cui tratto caratteristico è la penitenza (634),—una vita povera ed aspra, segregata dal mondo per mezzo di grate che stranamente minacciano, (diceva Bossuet (635)) quanti vi si accostano, e sottratte agli sguardi altrui da un velo che tutte le avvolge. Verso l'ora appunto che quelle pavide creature doveano desinare

Le mura che solcano esser badia

Fatte sono spelonche (636)...

Ed io il quale ho dovuto vedere gli uomini e gli oggetti nella mia vita sotto quasi tutte le apparenze, ora a traverso il prisma della fortuna, or a traverso il velo della disgrazia, ora al chiarore della religione e della sana filosofia... era ora costretto stare inchiodato e quasi impietrito in una cella a meditare le scene affliggenti di quel giorno. — Dove correre a rilevare la figliuola e trasportarla al chiostro dell'Assunta l'afflitta madre, la quale oramai per le incessanti commozioni ricevute era caduta in tale squisitezza di sensi da non trovare sopportabile nulla; non già per la incomodità reale delle cose, ma per la eccessiva debolezza della quale erasi resa sofferente... Un lieve rumor chela svegliasse... uno sternuto che la distraesse, una mosca che ronzasse... un cane che guaisse... lo scroscio d una chiave... il cigolare d'una porta... l’acutezza d’un odore... bastavano a farla tormentare.—Croce! croce pesante per lei che pur rassegnata la soffriva, ma croce delle più eccellenti, secondo Sales (637), il quale acquisto inimitabile dolcezza fra l’assedio ed i dolori; perché le più eccellenti croci, ei diceva, sono quelle che troviamo in casa, riuscendo queste stesse le più importune.

Quello sgombro s'operava quando il colera desolava furibondo la città e le campagne (638). Di sorteché molte sacre vergini che avevano passato in monastero la vita dalla età dell innocenza a quella della virtù, con l'istinto dell’avvenire che accorda Dio talvolta alle anime pure, dicevano al Signore (639)«meglio è morire anziché vedere i mali dei nostri e dei santi,» e se ne volavano al cielo. Alcune se ne fuggivano e stimavansi beate; perché sta scritto «che utile sia pei popoli la fuga dei santi (640).» Tant’altre imperterrite stavano a fronte dei loro persecutori; essendosi osservalo per l avanti, come si osserverà per l'avvenire che: «stabunt justi in magna constantia adversus eos qui se angustiaverunt»—Addio adunque monasteri e conventi — chiostri abbandonati — altari derelitti di una fede che si pretende estinguere con ogni violenza; ma che sarà incrollabile a dispetto dell'inferno. — Voi gloria, decoro, ornamento del paese, ora attraete sguardi di commiserazione e di dolore;— ne il vostro splendore è stato ecclissato con le arme straniere — no — ma col braccio ferino ecolla rabbia cainica de' vostri fratelli!.. Ah si v'intendo. — Voi pacifici abitatori di essi, collocali sull'orlo delle tombe lodale i tiranni che non conturbarono i vostri diritti; e che comprendevano abbastanza essere il celibato religioso nell’interesse di una buona popolazione; e quindi le vostre case offrire una famiglia imperitura a un gran numero di persone d'ambo i Beasi, destinati a rimanere celibi per tutta la vita.— Sviluppavasi intanto alla Concezione il colera (641); ed era bizzarro come tutti non parlassero d'altro che di rimedii sicuri ad ogni passo, sapendo le ragioni tutte della malattia; ma chi l’aveva addosso potea far conto di tenersela cara. Bisognava ricorrere al si quaeris, dicea una volta Gozzi (642), chi non volea crepare di rabbia e perdere ogni speranza di miglioramento. Ed io il quale non vedeva che l'angelo riponesse la spada, come sulla vetta della Mole Adriana lo vide in tempo della peste di Roma san Gregorio Magno, ripeteva col CAPO chino le parole semiserie di Chateaubriand (643): «je ne désespère pas, Dieu aidant, de mourir àl’hôpital.» ne concepiva alcuna speranza; essendoché il processo continuava nel mistero, ed il colera imperversava.—Eppure i molti che scongiuravano nel principio con sicurezza il colera, bevendo, ridendo, giocando, facendo all'amore, mormoravano perché la sera del 14 non s’era aperto il teatro. Imperocché in fondo gliimpreviggenti nel mondo sono i più beati: finché loro ride la fortuna essi non s'immaginano di poter essere infelici. —Per altro la moda non vuol più che le pestilenze facciano chiudere le botteghe, -trasportare le reliquie Mere in processione, — correre nelle chiese a penitenza. — Nel nostro secolo di progresso, d'incredulità e di giornali, il colera passeggia alla luce del giorno, accompagnato dal suo bollettino e dalle precauzioni per mettersi al sicuro: esso in Francia si deride chiamandosi Nicolas Morbus, e da noi don Gola o don Nicola.

In si luttuosi momenti che cosa deliberava il municipio di Palermo?.. In quei terribili momenti alla unanimità deliberava (644)vergognosamente implorarsi dal ministero la continuazione delle misure di rigore contro del proprio paese!! — Deliberazione con giusta asprezza annunziata da varii giornali del vicino continente (645); e quattro dei consiglieri (646)s’incaricarono di recarsi a Firenze portatori e sostegno di deliberazione si crudele. Nel qual mentre ridicoli fogliettisti venduti si dolevano perché i tribunali militari non imitavano l'attività di Robespierre, convenendo (diceano) con l'esimio sindaco che la pena di morte fosse il rimedio anzi lo specifico per guarire i mali del paese; e in seconda linea la deportazione. E questa si suggeriva da un Biagio Garanti alle isole Nicobare nei mari dell’india come atta a depurare non che la Sicilia, ma l’Italia tutta dai tristi elementi(647). Per tal modo ingagliardi la persecuzione contro i pacifici ed i più onesti cittadini che furono in massa chiamati borbonici — reazionarii — clericali.—E siffattamente ne snaturarono la qualifica che questi nomi divennero sinonimi di amici dell’ordine e delle leggi. Così appunto raccontava (648)Pietro Lehardes del Morbihan che forse in Francia accadeva nel 1792 pei nomi di realista e di controrivoluzionario... come in certi tempi a Napoli, scrivea Marco Monnier (649), dotto valse lo stesso che attendibile e sospetto. Ora quando c’è influenza di malattia in un paese, osservava un elegante scrittore (650), vi sono di quelli ai quali pare che il tirare il flato, l’aprire gli occhi, e fare ogni altro più semplice atto, la tiri loro nelle vene; e di tempo in tempo si mettono la mano al polso per sentire se batte più spesso, o si provano se respirano liberamente, e guardansi le ugna se imbiancano o illividiscono, e per ogni menomo calore o freddo delle carni arguiscono di essere agonizzanti e cominciano a parlare con una vocina che indica la fine di loro vita. Questi paurosi, che amano le dolcezze del suolo natale, ma che lo abbandonano sempre nei dolori, con egoismo vigliacco, se ne fuggirono a precipizio altrove in cerca dipassatempie di lietezze, abbenché in nissun punto d’Europa fermandosi poterono dire col poeta:

Hic tandem stetimus nobis ubi defuit orbis.

Questa emigrazione numerosa della classe più agiata accrebbe lo spavento, aumentò la miseria, rese deserta la troppo squallida città nostra, ove potea dirsi con certezza che i patrioti son pochi, ma pochi assai e tanti appena quant’erano le porte di Tebe, o quante sono le bocche del Nilo.

Me lungi d'emigrare trattassi di far ricondurre alle prigioni ove i rinchiusi erano circa quattromila (651). — Un secondo mandato di cattura m'avevano amorosamente spedito i militari, perché i popolani aveano mostrato rispetto e usato riguardi al mio piccolo bagaglio quand’io m'era allontanato dall’ospedale; inventando che avessi chiesto al Comitato rivoluzionario la mia liberazione!...

Stanco di tanti soprusi decisi affrontare direttamente la burbanza del fisco Interdonato. —L'impetuosità è difetto dei caratteri grandi, diceva Ségur (652); però il mio carattere piccolo tollera per lungo tempo senza prestarsi all’alleanza dell'orgoglio colla bassezza. —Ma quando una volta ho risoluto di più non tollerare, cadesse il mondo, vo in faccia intrepido a qualsiasi pericolo; e m’è conforto potere allegare ad esempio un venerando modello (653).

Io divisava dover cominciare con dirgli le parole stesse dette da Napoleone III allorché era principe Luigi Bonaparte ai rifuggili polacchi (654); cioè che quando si vede oggidì che quanti hanno un'anima nobile sono cacciati dalla terra natale o perseguitati dal poter e, vo altero di essere tra le file degli oppressi e dei proscritti.— Pensava dovergli soggiungere che fosse infamia perseguitarmi per immaginarli delitti, — che fosse ignominia tenermi prigione senza potermi condannare, — che fosse ingiustizia tirannica, solenne, stimarmi reo perché non credo alla felicità del mio paese, e perché attendo che la verità avesse a dissipare le tenebre che offuscano gli occhi degl’illusi.—E ricordar gli valeva a proposito che Solone una volta fu stimato pano dagli Ateniesi perché accusò Pisistrato di tirannia;—ed ebbe a dir loro che ì tempo avrebbe fatto conoscere l’indole della sua pazzia.

Voleva insomma e soggiungere o dirgli... ma non poteva dirgli più nulla! Egli in quella stesso giorno, colpito di colera nel suo ufficio crasi già presentato al tribunale di Dio (655); allora proprio che nuovi sintomi di reazione credessi avessero a ingenerare prossimo perturbazioni l’indomani (656). Fuvvi chi esclamò:

... è poco

Una vittima sola a dolor tanto,

perché a nulla giova il venir meno un tiranno quando la tirannia non si distrugge. Io non solo non mi congratulai della sua morte, ma se fosse dipeso da me ch’egli vivesse e vivesse felice la vita di Matusalem, l’avrebbe senza meno assolutamente vissuta. I giornali del governo ne compiansero la perdita (657), assicurando che questa difficilmente poteva ripararsi, avendo, diceano, creato una grande lacuna nel partita governativo... partito benigno che altamente bandiva (658)che in Sicilia le dimostrazioni di semplice forza non impongono, ma che le sole fucilazioni persuadono appena. Anche il procurator generale successore tessé l’elogio dell'estinto e promise di battere le tracce di lui. Poss’ia veramente assicurare che spento Interdonato la persecuzione rallentò di molto, e mi si promise giustizia col tempo; giacché il tempo è l’elemento indispensabile di tutto.

Era però appunto del tempo ch’io temeva; conciossiaché ne' tribunali il tempo è massimo veleno: col tempo la ragione si stanca, la prepotenza s’incoraggia, la giustizia non s’ottiene. E trovo che dicea molto bene Eugenio Sue (659)quando sentenziava: «evitate d’essere arrestato; perché la giustizia si mostra d’un attaccamento esagerato verso coloro che ha una volta ghermito». Ciò che la sapienza italiana aveva ab-antico avvertito con quel notissimo proverbio: «Né a torto ne a ragione non ti far mettere in prigione.»


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CAPO XXII

Nuovi incidenti

Perdurando fra noi la repressione ed il colera, si compivano nel resto d’Italia grandi avvenimenti.—Negli stati pontificii cominciava losgombro dei Francesi;—Napoleone che da una parte intendea Conservare il titolo di fils ainé de l’Eglise, titolo adottato sempre dai monarchi di Francia sin dalla Conversione di Clodoveo, dall'altra ritirava da Roma la bandiera francese che per diciottenni era sventolata in Roma a difesa del papato. *— Inoltre spediva nel Veneto in suo nome Leboeuff per farsene consegna, firmata già (660)e ratificata (661)la pace di Vienna. Dopo di che entravano nel Veneto le truppe italiane(662)col generale Revel, e vi si effettuiva il plebiscito (663), del quale promulga vasi il risultamento preveduto (664), che fu presentato a re Vittorio Emanuele (665). — Ei quindi di seguito fece ilsuo solenne ingresso in Venezia (666),—città cotanto sorprendente, che secondo ha scritto Montesquieu! «on peut avoir vu toutes les villes du monde et être surpris en arrivant à Venise....» Peccato cheil sole vi apparve tristamente ammantato di nebbia e che la giornata fu piovosa!.. Un cielo grigio ed acquoso ai Veneziani sembra una peste; — epperò molti ripeterono la limosa satira romana F. F. F. F. F. frigore, fame, ferro, fit, festum. Pur tuttavia le feste furono splendide, e fremevano e urlavano tutti di gioja narra il Rinnovamento (667), passando il re tra il fremilo d'una popolazione repubblicana, ove i morti urlavano più ancora dei dei vivi. In verità l'affaccendamento della moltitudine per condursi alle cerimonie ed alle feste stimasi pubblica allegrezza, e non lo è. Si assiste per ordinario al corteggio dei monarchicome s’assiste ad uno spettacolo clamoroso. Celebre è infatti il detto d’Enrico a quel signore che gli ebbe indicato con gioja come il popolo Si rallegrasse di lui: «c’est un peuple! e se il mio più grande nemico fosse là dove io sono ed esso il vedrebbe passare, il lui en feroit autant qu'à moi et crie-croit encore plus-haut.» Molto più ne’ tempi nostri, in cui dimandava Thiers (668), avendo visto nelle varie contrade elevarsi tanti nuovi governi, «s'il y en a un seul qui à sa naissance n'ait pas rencontré d'universelles acclamations.»—E le teste si rassomigliano tutte: — son esse grandi illusioni senza interesse... tempo, danari, fatiche perdute; senza che ciò impedisse di ricominciarsi e di accorrervi in folla e con premura. Fra coloro che accompagnavano il re segnavasi con ammirazione Tecchio, il già presidente detta Camera. Emigrando costui dal Veneto sera cresciuta la barba, ma vi rientrava colla barba rasa:—egli alludeva a quell'inglese Scott, il quale alla decapitazione di Cario I lasciò crescersi la barba, Che tenessi alla restaurazione del secondo Carlo. — Si lamentarono pertanto i giornali officiosi (669)che più incredibile dello integramento d’Italia nella Venezia fosse stata la generale noncuranza con che il fatto stupendo s’accoglieva nelle provincie meridionali, le quali sono invasate, diceano, di quel politico scetticismo che si racchiude nella nota sentenza dello starsi meglio quando si stava peggio. E si faceano voti perché i Veneziani non avessero avuto a ripetere l’orribile bestemmia.

Moreno in quel mentre aveva cangialo d'ufficio (670), e le notizie incalzanti dì nuovi moti probabili, e io infuriare del colera, e la esasperazione della Francia per la vicina caduta dello impero messicano, e ’l ritiro intero dei Francesi da Roma, e l'allocuzione severa del papa, e i dubbii di disbarchi che focevano munire con precipitanza le coste... tutto... tutto allontanava ogn’idea di blandimenti, ne vedevasi per me raggio di Speranza, il governo messo sul duro demoliva a furia le viste(671) dei monasteri, metteva in arresto (672)il comitato soscrittore dell'Appello al popolo dei 21 settembre, accoppiandovi l’arcivescovo di Morreale monsignor d’Acquisto, la signora Malvica e la baronessa Zarbo(673),—impediva qualunque tocco di campana che chiamasse i fedeli alla preghiera; — proibiva di nuovo e più severamente agli ex-claustrali di vestire l'abito fratesco, e n’era lodato dalla stampa (674)come di frutto di civiltà recataci in punta delle bajonette. Financo ridendosi delle contumacie e dei regolamenti militari Cadorna percorse senza scopo città e comuni, e pretese dettare leggi ai prefetti delle altre provincia di Sicilia circa a monaci e frati... abuso certamente di mandato, perché egli non era che un commessario straordinario nella sola città e provincia di Palermo. Cadorna al postutto aveva in mente l’eterna chimera dei dittatori e dei salvatori, i quali suppongono che possano colla violenza procurare sicurezza durevole e adesione, creando il silenzio attorno di loro: — e s'ingannano sempre.

Dolente quindi delle sciagure generali, delle quali era hon solo persuaso ma testimone, ne testimonio solo ma vittima, — attristato per la perdita di tanti a me ben cari, — annojato d'un panico perenne che faceva accorrere di nuovo a salvamento allo spedale molte timide famiglie,—slava impensierito e cruciato nel silenzio e nel ritiro. Tutto ad un tratto un bel giorno, quand'io era

Mezzo tra ‘l sonno e l’esser desto (675),

l’infermiere schiudemi la porta e mi presenta due militari venuti a farmi un interrogatorio giuridico presso a poco conforme a quello che avevami fatto l'istruttore, con delle interpellanze relative ai fatti di settembre, aggiungendomisi con tuono grave d'importanza ch'io avessi chiesto la mia liberazione al rivoluzionario comitato... Quasi avessi commesso il delitto dell’ambizioso Cambacères che fu primo a salutar Napoleone del nome d'imperatore, e primo a riconoscere gli atti del provvisorio governo; mentre io non era ne nell'un caso ne nell’altro. Tuttavia non ottenne Cadorna di farmi riportare alle prigioni. Forse ne fu causa l’essersi restituite le carte del processo-mostro agli ordinarli magistrati, perché insediato il novello prefetto Budini (676), fu sciolto lo stato d'assedio con intenso dolore delta stampa (677), la quale mostrassi afflitta (678)della partenza di Cadorna (679), cui i giornali di Firenze (680) chiamavano soldato feroce, ed uomo ignaro di ciò che si chiama governo, e paragonavanlo nientemeno che a Schneidoer che una volta s’era intitolato il Marat del Reno. Un giornale officioso (681)giunse a tale da volere quasi quasi la forca in permanenza: se no, diceva, avrebbe messo l'appigionasi e sarebbe partito pel Messico. Ove in fin dei conti poteva star meglio; dappoiché tutti i viaggiatori esaltano la bellezza e la magnificenza di siffatta città, tuttoché fabbricala in una squallida pianura circondata da malsane paludi, dove appunto sorgeva l’antica Tenochtitlon a ponente della laguna di Texcuco.—Chi sa? forse col suo valido appoggio avrebbe preservato Massimiliano dalla sua catastrofe sanguinosa! In somma si vedeva ad evidenza che la stampa locale era spaventata ed obbediva agl'istinti della paura e del raccapriccio, non già soltanto nel primo periodo, come ingenuamente confessava il Precursore(682), ma in tutti i periodi, e sempre.

A queste gravi molestie un’altra se n’aggiunse ridicola e meschina, essendo venuto a interpellarmi indi a poco (683)un altro giudice istruttore (684)incaricato d’un processo camerale, perché le monache del monastero delle Vergini, delle quali era io protettore, avevano ricusato di consegnare una stupenda cufica conca da me altra volta illustrata (685), assicurando in tutti i modi ch’esse avevanla venduta —e talun ardente patriota volea che l’avessero ad ogni costo a consegnare. — Controversia che non riguardavano per nulla, menoché per commuovermi a compassione, osservando il modo frivolo come si trattava.

Rimasto adunque com’inchiodato allo spedale non potei assistere al battesimo della prima bimba di mio figlio. Battesimo al quale sarei sfate lieto di trovarmi, non provando affetto quel dispetto che eccitavano a Chateaubriand le nascite e le nozze; sicché egli ebbe a dire che «après le malheur de native je rien connais pus de plus grand que celai de donner le jour à un homme.» — Toccommi invece quel giorno assistere allo strazio d’un infelice mutilato, che giusto a fianco della mia misera stanza ebbe a soffrire il martirio dell’amputazione d’una gamba, e indi la morte accompagnata da uno scoppio infrenabile d’ululati protratti dei suoi numerosi figliuoli. Per distrarmi alquanto dall’oppressione assai cocente, ed agli eterni perché del dolore, ai quali non v’ha risposta su questa terra (686),—scesi nello spianato, e procurai di divagarmi alquanto richiamandomi alla mente lo sferzo di addobbi, la sontuosità dei doni che appunto in qual loco, dove allora mi trovava, si presentarono a re Carlo III quando onorò di sua presenza quel sito ii 22 giugno 1735. Fu scambievole omaggio che le monache prestarono al sovrano, e che ilsovrano ricambiò alle fatidiche predizioni di sua vittoria vaticinata sin dal 1713 da suor Chiara Antonia Romano (687).—Mi dipingeva in mente e pareami proprio di vederlo quel carro famoso (688)(cheil re poi regalò alla regina di Spagna madre sua) di lamine d’oro e di argento tempestato di perle, di coralli e di molte pietre preziose, tirato da due aquile di singola bellezza ch’erano guidate dalla fama la quale con una mano imboccava la tromba e coll'altra levava alto uno stendardo in cui leggevasi vaticinata est anno 1213. Molte nicchie nel vacuo dei contorni del carro conteneano medaglie d'avorio di delicato lavoro rappresentanti personaggi reali. E pel Pel mezzo sur una elegante scalinata musici con ogni sorta di strumenti erano rappresentali a finissimo smallo. Il fine del carro era coverto d’una corona reale sotto la quale attorniata d'angeli era in mezzo alle nubi il simulacro dell’immacolata, ai cui piedi il monarca genuflesso e col manto reale in allo di ricevere dalle mani della ss. Vergine la corona, tutta adorna di preziosissime perle. Nel basso poi a suor Chiara Antonia porgeva s. Rosalia un ramo d'ulivo col motto Executo vaticinio — pax.

Mentr'era assorto in queste storiche reminiscenze mi si recava una dispensa della Revue critique del dotto Cherbuliez(689), in cui un giudizio molto lusinghiero rinvenni intorno alle Reminiscenzedei miei tempi. Esso mi soddisfece per considerazioni che non istuzzicano la vanità o l'egoismo, ma confortano il sentimento e la coscienza... veracità... imparzialità... moderazione rispetto alla religione e alla sana filosofia. Ciò, ripeto, mi riuscì gradito, perché come diceva Agostino(690), noi cattolici «non de captando, gloria, sed de invenienda veritate tractamus» — già ne avrei pure accettata di buon grado una critica severa; perché il silenzio è il maggior fiasco per un'opera qualunque. — Alla nostra miseria, per quella radice d'amor proprio che non mai totalmente inaridisce nelle creature in carne ed ossa come siam noi, riesce dolce la lode, qualunque fosse il labbro che la profferisse, o la penna che la scrivesse;—e quand'essa proviene da uomini superiori a dirittura, assolutamente consola. Noi allora se non giusta la crediamo sincera, professandoci grati a coloro che a nostro pro si fossero ingannati!


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CAPO XXIII

L’amnistia

Schiudevasi l'anno nuovo com’erasi chiuso l'antico, cioè co) dissesto morale e colla politica confusione... Ove più l'usata ilarità?., ove le grida giulive dei nostri cari padri, che ai bei tempi dei buoni cd amabili costumi intonavano festosi: natale!... natale!... CAPO d’anno!... CAPO d’anno!... con quella dilettevole serenità ch’era ispirata da una confidenza sicura? Quelle erano un tempo solennità religiose e di famiglia, in cui le popolazioni amano l’aria di rallegrarsi e ricrearsi come giorni di pubblico e d’individuale esaltamento. —Ora si vogliono bandiere sventolanti, etnia arrabbiale per celebrare Anniversarii di disordini e di furori popolari che rendono le nazioni selvagge, ridicole e meschine. Oppure usi di ricche e fredde regioni che non possono abbarbicare nelle nostre povere e calde contrade, quali sono le corse con cavalli a jockeys inglesi, introdotte fra noi dal cav. Giuseppe Guccia, a somigliansa del conte di Lauraguais che fu primo a farle vedere ai Parigini nella pianura dei Sablons.

Per me il primo giorno di gennaro è stato sempre una specie di giorno d’esame di coscienza, nel quale soglio riandare le fasi della mia vita fortunosa, che mi dà l'immagine di un mare deserto, ove s'avverte appena l’impercettibile solco di un battello che scompare. — Ebbene, diceva allora a me stesso: questa volta mi tocca meditare che ’l primo gennaro dell’anno di grazia 1867, in paese libero io mi trovo dispoticamente carcerato da otto mesi senza poter essere ne assoluto ne manco Condannato. — É carcerato in una stanza di spedale, occupato a scrivere queste memorie nojose, dopo che aveva ornai per sette anni sofferto quanto si può d’aspro e d’indegno, che ne dovrebbe ardere di scorno il governo italiano, come altri ne arderebbe di sdegno... ciò che non lascerò di ripetere le mille volte; giacché come madama dì di Staël je parlerai, j'écrirai tant qu'il me restera un souffle de vie (691). E spero non potrò ricevere rimprovero per questo; dappoiché si in defensienem mei aliquìd scripsero, dirò come s. Girolamo (692)a Rufino, in te culpa est, quia me provocasti, non in me, quia respondere compulsus sum. Infin dei conti sia qualunque il giudizio che su di me si porti lo subirò di buon grado, giacché nec optimorwn speramus laudem, diceva Pio II (693), nec pessimorum timemus improperiwn. Meco stesso rifletteva, che prima della giustizia punitrice evvi indispensabilmente la giustizia prevenitrice; ma è necessario rischiarare e stimolare l'esercizio di essa nel consorzio civile colla preveggenza e insieme colla equità — ne s’imprigiona senza tempo per misuro preventiva, ne un giudicabile vivo si seppellisce come morto. —L'esperto Lucas(694)tediata che l’imprigionamento preventive non potrebbe eccedere i tre mesi che in caso di rara eccezione. Pure io, il quale ne contava otto; non era al certo il detenuto più antico del processo mostro, pel quale taluni stavano chiusi anzi serrati da più anni!.. Ciò ch'era noto lippis et tonsoribus, e reso di ragion pubblica dalla stampa periodica, la quale osservava (695), che riflettendo a ciò che il potere giudiziario ha fatto nell'orditura di questo processo, ogni timore derivante dall'azione della legge Crispi svaniva. Imperocchè la Giunta non poteva condannare che ad un anno di domicilio coatto, e gl'istruttori tenevano da un anno e sei mesi (696) in carcere i giudicabili, ed erano ancora alle indagini prime. Dimanieraché ben diceano: v’ha in Italia ministero di giustizia che getti uno sguardo su la Sicilia?.. E dové credersi che non ve ne fosse; dappoiché quando io dettava queste pagine eravamo a gennaro, perciò erano scorsi altri sei mesi dacché la stampa aveva denunziato quei soprusi, senza che lo stato giuridico del processo avesse fatto un solo passo. — Vergogne tremende, incancellabili in eterno... eppure vergogne comuni, non eccezionali in tutto il regno; giacché si gridava da ogni dove ch’eranvi detenuti politici fino da tre anni (697)senza poter estete ne condannati ne prosciolti... Ah non era vero che la mia patria stesse setto governo liberale:

...essa

in reo silenzio attonita vilmente

E nel servaggio libera si crede (698).

potea ripetersi con Alfieri... essa era avvinta d’aspre ritorte per mano di gente cui la libertà serve di pretesto a esercitare l’assoluta tirannia; io un’epoca nella quale la invasione delle idee essendo succeduta alla invasione dei barbari, qualunque obbrobrio è diventato onorevole, qualunque enormità sublime, e ogni vizio ha trovato appassionati ammiratori. — Stato libero sarebbe quello ove si gode

...incessante, universal, secura

Libertà vera, che ogni buon fa pari (699),

in cui sono sacre le leggi, incorrotti i magistrati e sottoposti ad esse. Libertà che dicesi si trovi in Inghilterra, ov’essa data da quando sul finire del secolo XIII fu conquistata la Magna carta nei campi di battaglia di Runniméde dal popolo coalizzato contro Giovanni senza-terra, e che fu poi diffinitivamente stabilita dalla rivoluzione del 1688. —Ma ivi le libere forme sono infiltrate nelle tradizioni, e fuse nelle abitudini e nei costumi. Sia però ciò che vuoisi di queste cose grandi e generali, io sono forzato di ritornare sui miei falli; perché quantunque in rapporto alla scala dei pubblici avvenimenti le calamità duna vita privata non dovrebbero occupare posto, pure è la mia vita finalmente che scrive. E allorquando si ha malto ed a lungo sofferto non si sovviene che di sé; conciossiaché la sventura personale è una compagna fredda ma esigiate, che l’assedia di continuo. E per altro si può permettere ai volgari il parlar di se stessi, — se no, nissuno porterebbe di loro.

Seppesi adunque che incaricato della requisitoria fosse stato lo svelto diligente procurator generale sostituto Giuseppe Lombardo trapanese, il quale l'avrebbe tantosto presentata; mentre si sapeva che il ministero, cui s’era dato conto di tutti gl'imputati, avea mandato favorevoli dispacci: certo è che ilgiorno 31 me l'ebbi intimata. La requisitoria dichiarava che ilpubblico ministero accusatore non aveva materia d'accusarmi e proponeva quindi che fossi interamente prosciolto. Giunte a questo le cose, i giudici avrebbero dovuto essere solleciti a decidere tantosto. Però sono mai sempre vani i pronostici di tutti i futuristi... noi non siamo che ciò che ci fanno le imprevedute circostanze. — La sentenza non dovevasi emettere... e proprio in sua vece si emetteva decreto d'amnistia; di quell’amnistia che nel trattato di pace del 3 ottobre si era convenuto all’art. 23 (700). Amnistia che certe nullità politiche (701)avevano desiato per la impossibilità di condannare alla morte e alle galere trenta e più migliaia d'individui, ossia per la materiale impossibilità d'incatenare la moltitudine tutta quanta!!—Amnistia coercitiva, incondizionata, d'ordine pubblico solenne, che partoriva di diritto ogni suo effetto... Amnistia disperante in somma, perché tolse ai giudici forzosamente l'esame del reato, agl'imputati il diritto di difesa, ai denunziami il marchio d'impostura, a tutti il libero arbitrio

...di cui ne il re, ne il cielo

Arbitri d'ogni cosa arbitri sono (702).

Essa mi si partecipava la sera del 9 di febbraro, ed obbligava al pronto sgombramene (703)che eseguivasi all'istante, essendovi stato compreso mio malgrado, e nullostante il desiderio espresso dalle nullità politiche (704)le quali non per giustizia, ma per partigiana idrofobia, riputavano necessario, salutare, morale, che dall’amnistia s’escludessero recisamente coloro, i quali erano colpiti prima di settembre da mandato di cattura.

Quando dopo lunga traversata con un piede si tocca la terra, e con l’altra si respinge la barca che ci ha condotti a riva, si risente vivissimo contento; pari sollievo mi parve di provare quando messo un piede fuori la soglia del civico spedale, spinsi l’altro a montare su la mia vettura. — Chiuso per tanti mesi, non fra le meste delizie della solitudine, ma tra le atroci smanie dell’isolamento, aveva ripetuto giornalmente la preghiera speciale dei marinai inglesi ricordata da madama Stael nella sua Corinna(705): «Signore, fateci grazia di ritrovare nei nostri focolari, al ritorno, la domestica felicità.» Era vissuto sin’allora ne più ne meno di come si vive sopra un bastimento, ove non trovi porta donde scappare alle tempeste — non nascondiglio dove vivere in occulto. Ivi se mai ti consola la speranza di dormire, le grida, i muggiti, il fracasso, le ondate ti svegliano ad ogni istante, ti conturbano, ti commuovono le viscere sino al fondo. Fu grande l’emozione che provai nell’abbracciare a primo slancio la tenera mia figlia, allegra, spiritosa, ben fatta, tutta vita e tutta fuoco, che per la pietà era un angiolo, essendo educata alla carità che intenerisce; e che bersagliata ed espulsa a forza dal suo monastero prediletto soffriva il sacrificio come una vera e indicibile voluttà... grande l’emozione allorché giunsi sotto del mio tetto. Giacché il cuore mi si gonfiò assai e copiose mi sgorgarono le lagrime; essendo il cuore quello che in noi la fa da padrone... Stato terribile che durò pochi minuti ma che parvemi quanto una notte. E poiché in tutti i paesi, sentimenti di simpatia circondano gl’imputati di politici delitti perseguitati ingiustamente (706), cosi il domani m’ebbi una dimostrazione solenne di visite, di biglietti e di saluti.


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CAPO XXIV

Un vitupero

Che meditasse Ricasoli, quali accordi sperasse non sì palesavano punto. — Tutto in una volta volendo mettere in atto la famosa formola di Cavour di libera chiesa in libero stato, formola che il dotto Laboulage dichiarava nuova, nuovissima in Europa, delle cose improvvise e delle strane presentò nel parlamento alla tornata del 17 di gennaro col suo ampolloso progetto religioso-finanziero intitolato: libertà della chiesa e liquidazione dell'asse ecclesiastico, preceduto da una relazione ch’è CAPO -lavoro d’idee insussistenti ed accozzaglia di principii stravolti presentata con grande sicumera, in un milione di parole. L'immenso caos della rappresentanza italiana però attaccollo d'ogni lato e mandollo fra le ciarpe, memore forse chi sa come dei due versi riferiti da Stobeo

sx an tis cipńn poll taima tńseta:

mixfa d'eipan mhllon an ń xrńsiux (707).

Eil gabinetto contentossi di sacrificare i due membri soscrittori del progetto, Borgatti e Scialoja: ma non vedendosi ritirati i ministri per intero, loro fu mossa guerra aperta per iscalzarli interamente. ne aprì la breccia con virulenta interpellanza Cairoti in proposito dei meetings di Venezia e delle proibizioni severe emesse dal potere esecutivo; sicché il gabinetto fu vinto anzi rovesciato, — ne riuscigli il ripiego già preso. Poche vittorie però sullo spinto di parte girano confesse dovrebbero a profitto della ragione; e spesso la caduta d'un errore non è che il trionfo di un altro. Il ministero indispettito non volendo soffrire in pace l'onta e la disfatta sciolse la camera in febbraio, chiamando la nazione a mandare nuovi deputati. Ciò non fu senza conseguenze, perché la lotta divenne accanita fra destri e fra sinistri, in cui entrarono a sghembo oppositori d'altre fazioni.

Ricominciò adunque la lotta elettorale allorché appunto incalzavano le notizie di guerra: si dava credito ad una lega anglo-russa prussiana, ad una lega austro-franco-italiana. Si almanaccava che la Prussia avrebbe assalito la Francia mentre che la Russia si sarebbe rivolta all'Oriente; perché in ogni secolo di lotte e di combattimenti ciascuno volge istintivamente lo sguardo sempre all'Oriente,—mollo più dacché Napoleone I ruggendo come un leone gridò Constantinople!.. Constantinople!.. c’est l'empire du monde!—Gli occhi di Napoleone III intanto stavano impuntati all'Alemagna... Il suo sguardo si allungava del pari sulle imponenti montagne che formano il vasto golfo di Sebastopoli (708), le cui roccia crivellate di caverne servirono una volta di ritirala ai Turchi ch'esercitarono il brigantaggio sul mar Nero; — e più tardi ai Greci proscritti ed ai Cristiani perseguitali. ne già queste coste della Tauride, dagli antichi consacrate ad Ercole e Diana, richiamavano al suo pensiero i favolosi ellenici ricordi, o le memorie dei re del Bosforo e di Mitridate; ma gli richiamavano le gigantesche imprese da lui compitevi nel 1854. — E non perdea di vista Roma ed il papato, che era per esso una pungente trafittura.

Suo zio, — quell'uomo di tutti i secoli, che lasciò scritto nel suo testamento: «Je meurs dans la religion apostolique et romaine dans le sein de la quelle je suis ne il y a plus de cinquante ans,» — aveva proclamato la caduta della sovranità temporale del pontefice, issando il suo stendardo, e abbassando la bandiera colle chiavi.

Sicché Pio VII, rivolgendosi al cardinal Pacca, non aveva potuto frenarsi d'esclamare: consunmatum est, quando 11 fragore del cannone di castel s. Angelo ne festeggiòlo avvenimento: diguisachè a Giov. Wendel Wurtz era parso di riconoscere in Napoleone l'Apollione dell'Apocalisse, il precursore dell’anti-Cristo(709).— Ora Napoleone III, nipote di quel despota subitanee, aveva invece riabbassato la bandiere sua e rialzato quella di s. Pietro; confessante con la esecuzione della convenzione di settembre la necessità del poteretemporale. Egli sgombrava dalla città eterna, donde nel giugno del 1862 Garibaldi aveva proposto di dover cacciare i Francesi a colpi di pugnale... Garibaldi, che compromesso a Genova nel 1831 s'era astiato in Francia pria di passare in qualità di ufficiale di marina al servizio della flotta del bey di Tunisi.

L'Italia in quei trambasciamenti rimaneva impensierita, ignara e trepidante dei comandi del suo sire. Onde le tornavano inviso—ed era ben tardi — le parole fatidiche di Marco Foscari: che in fatto d'alleanze i più deboli sono i primi ad essere ingojati o dal partito che oppugnano o da quello col quale si collegano. — Abbandonava la montuosa Capraja—(isola che i Greci chiamarono Egilare Aigelos, i Latini Capraria o Caprasia(710), e che forse sarebbe ignorata se Dante non l'avesse resa immortale coi suoi versi dell'episodio del conte Ugolino (711)), in quelle incertezze Giuseppe Garibaldi che per universale tolleranza nell’onomastico suo riceveva annualmente dai municipii gli onori esclusivi dei sovrani; giacché in mezzo a governo monarchico-costituzionale esponevasi con torce al pubblico sotto regio baldacchino il suo ritratto in abito di sans-culotte. E ricompariva nel Veneto, ove diceva (712)che sarebbe stato ben lieto poter dare un bacio al suo amico Ricasoli; cd ove arrabbiato dell'allocuzione di Pio IX del 22 febbraro spingeva gli elettori con. empie frasi ridicolosamente puerili, a proclamare deputali quei tali che avrebbero scagliato la loro pietra contro Cristo, e il suo rappresentante. Ad ogni sproloquio gli sentivi da quella turba che sopravveniva ad ogni ora come onda sopravviene ad onda, che si fosse sdamato osa un ululo selvaggio... che uomo!... che uomo!... spazialmente dalle signore, che vestile come in giorno di feste, ebbre di gioia, quasi prese da follia, agitavano i loro fazzoletti e gridavano a più non posso. Diceva Giuvenale(713)La femina tal è timida e tarda

Ne' rischi onesti, alle sue sconce imprese

Tutta è forza e coraggio.

Nissuno forse più di lui è stato, acclamato e spregiato al tempo stesso; essendosene fatto con entusiasmo superstizioso e ributtante un mito assoluto, — un semideo (714). Anzi vi fu tempo in cui gli uomini e le donne impazzirono per lui, come impazzirono in Parigi per Alessandro. I imperatore quando enti-ovvi a CAPO dell’annata federale. Difficilmente i posteri sapranno comprendere come l’eccesso dello entusiasmo fosse stato tale che siesi stimata profonatrice ogni moderazione, e intelligenza limitata, incapace di comprendere e di sentire il genio dell'eroe dei due mondi.

Fra noi cresceva il malcontento, lo allarme, il brigantaggio, il susurro sedizioso, che non finiva mai; perloché si tornava a ripetere dalla fazione predominante che questo paese fosse ingovernabile del tutto. — Non si vogliono persuadere giammai quelli che debbon governare che soltanto un. popolo ben. nutrito e ben vestito è gaio e facile ad esser governato, come lasciò detto il meditabondo imperatore Aureliano.

Aperti i collegi elettorali, in questo di Palermo ed in qualche altro comune suscitossi di nuovo l’idea d'avermi a deputato; ma io risoluto a non intendermi con alcuno, deciso di vivere lungi dalla vita politica feci ogni opera per essere dimenticato. Era questa la condotta universalmente accreditata; dappoiché, come dicea la stampa indipendente (715), i buoni non si sentono di muoversi; i savii fiutano l'aria e si ritirano... solo gl'interessati vengono innanzi, e promettendo mari e monti brigano per aversi un posto in quella sala. Ognuno però, com e pessima usanza fra noi, non si contentava di vantare i proprii candidali, ma dileggiava quelli d'altrui. L'esagerazione mostravasi dapertutto: si scrisse tanto per rischiarare che non si vedeva più nulla.—La mia condotta avrebbe dovuto infrenare la penna e la lingua dei parteggiami indomiti, attaccati ansiosamente ai miei passi giusto ora che sono al finire di mia corsa; eppure non si stancavano d'avverearmi.—Parrà incredibile che macchinazione seppe ordirsi e come rivelossi in quei momenti che governo, moderati ed ultra-rivoltosi non fossero che unica ed indivisa fazione. E che solo pei gonzi in Italia si combinassero gli screzi i di partili liberali, si facesse credere d'esservi conservatori e progressisti, destri e sinistri e che so io. — Individualità ambiziose che agognano al potere oh ce n' è parecchie ed anco troppo; quanto a politica però formano lutti un nucleo compatto, e travagliano insieme con armi differenti, come i diversi corpi di un'armata.—Un bel mattino il Precursore(716)organo degli uomini sul fare di quel Luigi de la Vicomterie de Saint-Simon, che fu dei più arrabbiati che mai sorgessero nel bollore della rivoluzione di Francia (717),—e organo uso a dar del borbonico in senso svilente a chi non s'inchinava innanzi ai Timoleoni del novello stampo, con insolenza da monello presentò al pubblico la copia d’un decreto che re Francesco II diceva avesse fatto in mio pro nel 1865 promovendomi da commendatore a cavaliere gran croce di quell'ordine di Francesco I, che fu istituito il 28 settembre 1829. Premise al decreto talune parolette per avvertire gli elettori che non volevano contentarsi della mia negativa (718)a stare cauti onde non dare i voti ad un mio pari. Ben conveniva che mi fossi chiarito di che si trattasse, onde mi diressi difilato a quel Procurator generale sostituto che aveva spiccato la sua requisitoria per la mia liberazione. E me gl’introdussi fra serio e fra giocoso colle parole di madama Guizot (719): c’est un homme, dicendogli, perdu dans le monde qu'un homme dont on a tout dit... Ma egli comprendendone il senso in vista mi rispose sul serio, facendomi accorto che il decreto che pubblicava il Precursore trovavasi in processo;—che esso dicessi rinvenuto nelle carte involate in Roma, la domenica 26 di agosto, dai mandatarii del Comitato rivoluzionato romano travestili da gendarmi (720); e che il ministro per gli affari stranieri avevalo inviato per tenersene ragione; ma che i magistrati non aveangli dato, come di regola, la menoma importanza. Forse (altri diceano senza provarlo) che l’avesse recato da Firenze quello ex giudice istruttore che allorché trattossi di ricondurmi alle carceri centrali aveva aspreggiato i suoi colleghi dicendo loro ch’egli aveva avuto il coraggio d’arrestarmi, e che essi mancavano di quello di farmi tornare alle prigioni.— Rimasi proprio di stucco a tale racconto; poi mi copersi il viso con ambo le mani vedendo in che vituperevole stato si vivesse, e in che miserande condizioni noi versassimo... Un ministero si serve d’arme si vili e si nefande, ne seppellisce nell’obblio le turpitudini sozze che commette! — Egli fa oprare un’infamia e se ne dichiara fabbro legalmente: — egli rende pubblico il trovato di sua frode, ed ha la disinvoltura di darne copia per intero onde rendere a tutti manifesto che fosse stato interamente suo tutto l'ordito. —E che tempi sono questi? son tempi di ferro, o di piombo?... no:—sono quei tempi dei quali ebbe a dir Giuvenale (721)... quorum sceleri non inventi ipsa

Nomen, et a nullo posuit natura metallo.

Non è che mi maravigliassi del decreto vero o supposto.—Giammai il re nel corso di sua prosperità, come né anco suo padre, fecemi nulla di simile, e forse l’amministrativo mio costante zelo me l’avrebbe allora fatto meritare; ma quest’atto, se fosse stato vero mi pagava di tutti i miei servigi antichi—però in momento inopportuno, senz'alcun movente, e solo per far compiangere le illusioni di questo misero mondo!

Già non si calmarono per questo i timori ch'io potessi risultare deputato; e mentre dicessi (722)che l’esperienza confortava a credere che in ballottaggio con me sarebbe prevalso chiunque, dall'altro lato s’annunziava con dolore (723)che si facessero strada talune candidature alla sordina e senza scroscio di carta; e che io sarei stato poderosamente appoggiato a palazzo reale. Incalzarono quindi l’indomani i venduti scribacchiasti dicendo (724)non essere mestieri dire tutti i perché che fanno una legge agli elettori che vogliono il bene del paese respingere me e Friscia, — votare per Galati. Soprattutto l’officioso Corriere stava in continuo allarme, e avrebbe voluto che tutto il mondo si fosse collegato con lui per liberarlo dalla mia presenza.—Egli era come quel personaggio della favola, il quale voleva che non solo gli uomini ma gli Dei financo s'armassero per immolare una pulce che lo punzecchiava. Tuttavia la scelta dei deputati di Palermo (725)non fu scevra di significato: si ebbero dietro lotta disperata(726)quattro regionisti o federalisti, ciò che torna lo stesso (727), per la più parte clericali. Sicché quasi per dispetto il municipio credè giusto di ripigliare la guerra iconoclasta, demolendo e cancellando quanto più immagini sacre si trovavano introdotte nelle vie ad utile del popolo; pel quale, diceva san Gregorio Magno (728), la pittura è ciò che la scrittura. — Guerra cui i nostri uomini governativi avevano tanto a cuore che l'aveano chiamato sin da tanto tempo guerra del principato contro la superstizione (729). —Né furono bensì eccettuate talune pel momento; fra queste s’ebbe cura a preferenza mantenere il s. Giuseppe di stucco da pochi anni incastrato nelle mura della via dei Benfratelli; perché immagine ritratta sopra Garibaldi e Menotti suo figliuolo,—s. Giuseppe vestito alla garibaldesca, compreso il mezzo fazzoletto, ch'eccita al riso lo stesso dio dei riso, il vecchio Nomo; — come l’eccita appunto il s. Giuseppe che p; Labat domenicano rapporta aver veduto in Cadice, abbigliato alla spagnuola, spada al fianco,— cappello a tre punte sotto il braccio, — capelli incipriati, — e occhiali inforcati sul naso!


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CAPO XXV

Nuova camera e nuovo ministero

Il ministero aveva trionfato;—il ministero aveva sciolto la camera ove, diceasi, prevalesse il disordine e la confusione,—l'aveva a furia Ricomposta. Ora poteva contare sopra una maggioranza degli uomini di quella professione ch'era stata soppressa nel 1700 dai rivoluzionarii francesi come pericolosa (730), e di cui in Inghilterra è vietato l'esercizio ai deputati. Cosi poteva sperare tregua se non accordo di cui avrebbe potuto profittare; se no, presto o tardi si sarebbe arrivali allo scoglio del colpo di stato o all’abisso della rivoluzione, cioè dell’anarchia. Intanto U ministero impensatamente dimettessi tutto, in aprile del 1M7 senza indicarne i motivi; e le dimissioni venivano accettate dopo d’essersi poco prima emesso un decreto dissennato, col quale costituivasi il presidente dei ministri superiore dei ministri che riduceva ad impiegati subalterni. — Per più giorni non fu possibile di ricomporsi il ministero, finché venne la sua volta aRattazzi... Ma la stampa francese caricò costui di vituperi. «Les affaires se gâtent (scriveva infatti Forcade (731)) quand il arrive au pouvoir. Si nous étions ses compatriotes, peut-être irions-nous jusqu'à soupçonnera de jettatura.» Rattazziper più giorni afferì portafogli a destri ed a sinistri, e trovando rifiuti dapertutto accomodossi alla meglio con uomini in gran parte collocati dietro delle quinte (732): ciò che mostrava governo precario, governo cui non sarebbe riuscito possibile il governare (733). — Ciò, già s'intende, non avrebbe obbligalo ad altro che a cambiare nomi; dappoiché ai tempi nostri tutto il gran segreto di stato consiste in questo tale fittizio cangiamento. E sia che non piacesse il conte Harat, si sostituirebbe il conte Fenice, poi il marchese d'Anna, Balthymore, Cadgilester, capitano, colonnello, conte di Cagliostro: in somma sotto diversi titoli lo stesso Giuseppe Balsamo d'imperitura rinomanza. Rivocato a prima giunta l'insipiente decreto di Ricasoli fu presentato il programma con che si promisero mari e monti, mentendo solennemente secondo la regola scoverta dall’avv. Salvagnoli che colla verità non si governa (734). Il che prova, diceva Ségur (735), che si ha paura degli uomini ma non si teme Dio. Si espose che fossero precipue occupazioni del momento la guerra e le finanze. Quanto alle finanze mai non s'era presentata una dimostrazione più brillante; nissun balzello nuovo pel momento; — un solo antico ed abolito da imporsi per appresso. Senza far attenzione alle parole della sapienza divina che qui rapiunt non sua, semper in egestate sunt (736), si dimostrò essere sì facile il colmare l'enorme voto facendo prontissimo uso dei beni della Chiesa, che sarebbe sparita come per incanto la carta-moneta, e finita la durala del corso forzoso dei biglietti di banca. Dimodoché s'ebbe applausi Ferrara e lodi non poche; ne fuvvi alcuno che facesse mal viso alla ripristinazione del macina per l’anno seguente. Conciossiaché il terreno era a sufficienza preparato con le lettere scrittene tempo prima, e colle dottrine sviluppate dalla Opinione(737). Ivi s’era dello doversi cancellare nell’interesse della finanza la maggior parte dei balzelli, supplendo un'imposta feconda, la quale era avversata soltanto da mal riflettuta, ippocrita e falsa filantropia, la quale non si serviva di ragioni, ma si giuocava di parole simpatiche alle moltitudini ignoranti. £ in dir questo, bene si apponeva; perché anco il povero ha l'obbligo di pagare l'imposta. Ciò che fra gli altri dimostrarono una volta apertamente non che quel genio finanzierò che fu Cambon, ma quel prototipo dei democratici che fu Robespierre (738). Riesce facile per ordinario a coloro che imparacchiano una dottrina leggiera che non penetra nell’intelletto buttare quattro frasi altisonanti contro l’imposta che pesa sul povero in un discorso sul bilancio', ma un uomo politico nel povero vede il cittadino. £ quando nulla si trascura per rendere costui atto a godere della pienezza dei vantaggi sociali, bisogna saperlo fare contribuire al sostegno dello stato. ne a far ciò v’ha migliore mezzo che le contribuzioni indirette, vero cloroformio, sotto la cui azione provocata da mani esperte qualunque taglio non suscita dolori tormentosi. — Il dazio, di cui non dovrebbe mai più parlarsi fra popoli civili, è la capitazione ossia testatico che i Greci augusti praticarono talora fra tanti insoffribili aggravii (739).

A proposito del macino mi sovviene alla mente un provvedimento antico, di cui i moderni non hanno valutato l'importanza, e l hanno quindi messo in disuso. Mi permetto una brevissima digressione.

L’uso di macinare il frumento e le biade e l'uso appunto delle macchine opportune, come si sa, si attribuisce agli Egiziani. I Greci vollero alla custodia di esse una divinità tutelare, benefica, che chiamarono Eunosto, Euyootos, che significa appunto benevolo, amico(740). Ateneo (741)chiamollo Nostos, altri Promilio, Prωmilios come attesta Giulio Polluce (742). Però non prima dei tempi di Augusto inventaronsi i mulini ad acqua descritti da Vitruvio (743)e poi da Palladio (744). Or ad evitare le frodi nel ricevere il grano e dare la farina Claudio Giulio prefetto di Roma verso la fine del secolo terzo dell'era volgare ordinò che nel Gianicolo fossero collocate pubbliche stadere costruite a bella posta; e con esse pesavasi il grano prima d'andare al mulino, e cogli stessi pesi si riscontrava la farina. Intanto una legge disponeva che gli avventori non dovessero pagare ai mugnai che tre nummi solamente per ciascuno stajo; severamente proibendosi trattenere farina in cambio di denaro sotto pena di essere vergognosamente frustati (745). — Legge provvida — e qui chiudo la digressione — ma legge passata in disuso in questi tempi nei quali poi con tanta affettazione si vuol far credere che si sposassero gl'interessi del popolo.

Quanto allo spauracchio della guerra questo era universale; — ma gli uomini serii non vi prestavano credenza. —Nonostante la quistione suscitata pel Lussemburgo, nullostante che la capitale della Francia non sarà mai al coverto finché non possederà la sinistra riva del Reno; — nullostante che essendo la Francia senza integrità di frontiere, una battaglia perduta in Mons o a Goblentz condurrebbe in pochi giorni la cavalleria nemica sotto le mura di Parigi... pure in atto Napoleone non voleva la guerra, ne la Prussia sarebbe stata si ardita e si stolta d'assaltare la Francia. Era l’oscillazione del momento che turbava le deboli ed ardenti fantasie, e che non faceva mancare le sinistre voci.

In lai momenti appunto io m’occupava presso I magistrali di cancellarsi l’imputazione scritta a mio carico nei registri penali. ne sostenni vigorosamente la istanza, ne sgomentommi la procura generale per aver conchiuso con la inapplicabilità dell'art. 434 del codice di P. P.—Supponeva erroneamente il fisco, che non essendo compresa l'amnistia nei casi specialmente segnali pei quali non è luogo a procedimento penale, l'imputazione non poteva cancellarsi: —ciò ch’era un assurdo. Imperocché l'amnistia essendo obbligatoria, ed estinguendo ogni azione penale, sarebbe strano che il reato si riputasse vigente: la corte infatti fece giustizia, e la procura generale acquetassi al giudicato.—Pronunziata l'ordinanza si svegliarono nuovamente i consorti, si proposero degli arresti indiziando non che quelli che con le parole, ma che anco colle fogge del vestire e col silenzio, s’era possibile, avessero mostrato di disgradire il presente.—Gli arresti furono perpetrati in una notte; e quanto a me mi si fece giungere un dilicato consiglio d’imprendere qualche viaggetto:—a che risposi con ispontanca fierezza negativamente, tuttoché non avessi potuto chiudermi in casa e scrivere sulla porta, come aveva scritto il calunniato barone di Géramb (ai tempi di Giorgio III, quando gli venne imposto d’abbandonar l’Inghilterra) sulla sua, dopo averla sbarrata: la casa d’ogni inglese è la sua fortezza.—L'uomo modesto può essere fiero nelle sue avversità: è il superbo che perde il suo orgoglio nella sventura, perché il superbo sente in sé la forza di salire, ma gli viene meno quella di discendere.

Fu compreso fra gli arrestati il mio intelligente tipografo ed antico amico Pietro Pensante, di cui poteva dirsi senza pericolo d’errare:

Integro troppo o cittadino egli era:

Questo è il delitto suo (746).

Ebbe a stupire costui quando gli fu detto che ì governo sapeva di sicuro ch’egli e i tanti arrestati, ch’ei non conosceva, cospirassero meco! Se necessità m’avesse spinto, avrei senza meno adito le autorità convenienti, onde persuaderli una volta per sempre a dimettere ogni pensiero di provvedere al mio alloggio, ma di provvedere finalmente alla mia quiete. — Allora no, perché

Fors’io non so, fin dove alle non lievi

Ragioni unir non bassi preghi io possa (747);

essendo mai sempre disposto a non inchinar la mia fronte, a non macchiare il mio onore, a non profferire mai cosa indegna di fede e studiata, pronto invece, come dicea s. Paolino (748), penitus nihil dicere, quam falsi aliquid proferre; e a dire sempre in ogni caso come Filosseno disse ai soldati di Dionisio che volevalo indurre a mentire: «riconducetemi alle latomie.» Se poi davvero il bisogno m’avesse spinto, mi sarei presentato senza cercare alcun asilo; perché

in mio favor non voglio

Armi nessuno, asilnessuno io cerco (749)...

Certe volte davvero vi vorrebbe fuoco per inchiostro; dimanieraché in alcuni momenti rileggendo qualche pagina dei miei ricordi mi sembra che fossi troppo moderato, anzi freddo onninamente. Sebbene quando sono in piena calma parmene talvolta pungente il dettato, e vorrei renderlo più tollerabile al lettore. Non c’è dubbio che l’uomo non deve addolorarsi più del giusto, e

punto

La man, gridar come trafitto il seno (750).

Ma in questo caso a mo’ d'esempio non so frenarmi troppo, e debbo dire con forza che fu ben ridicolo tanto continuato arbitrio d’arresti senza mandato o con finto mandato.—Dopo tante declamazioni puerili contro il sistema depresso, continuare ora senza profitto com’unico mezzo di salute in tempi, i quali si vogliono a forza chiamare liberali, un arbitrario assoluto terrorismo è un flagello di maravigliose incoerenze, le quali ci condurranno alla barbarie de' Goti!

Pur è cosi che sempre succede. Nei primi momenti ogni cangiamento pei popoli è sorgente di speranze — è l’intervallo tra due malattie. Si gioisce della cessazione dei mali dei quali fassi gridio, lusingandosi con la immaginazione che più non se n'avranno in avvenire.—Nella ebbrezza di un successo tutto figurasi facile, e si suppone che si possa agevolmente soddisfare a tutte le esigenze, a tutti gli umori, a tutti gl'interessi. Credono quei che rovesciano un governo che da quel giorno null'altro debbano fare che sostituirsi ai governanti caduti: — questo appunto è il loro errore cardinale. Imperocché f ordinamento della vittoria, il distrigarsi dal caos forma nel domani la difficoltà più grave, e la più insolubile talvolta.—Era per questa ragione che il massimo capitano dei moderni tempi, guerriero per natura, conquistatore per istinto (751), insegnò che il miglior generale non è già quello che vince la battaglia, ma è quello che sa trarre miglior partito dalla vittoria (752).


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CAPO XXVI

Il palazzo Farnese

Pria di conchiudere quest'altro volume, ch’è continuazione delle Reminiscenze dei miei tempi, dopo avere fatto cenno più volte di reazione e borbonismo, non parmi che possa riuscire inutile uno sguardo retrospettivo alla corte delle Due Sicilie, esule in quella Roma che ormai da gran tempo è l'asilo caritatevole degli emigrati d’ogni luogo, e ch’è l’antica capitale della repubblica cristiana, la seconda patria del mondo, la terra in cui (diceva l'eloquente Falloux nella tribuna dell'assemblea legislativa il 7 agosto 1849) ciascuno dopo la sua trova checché si può desiderare di meglio per l’intelletto e per il cuore, per la fede e per gli affetti; dove da diciotto secoli tutto l’universo è venuto a portare la sua pietra ed insieme il suo ossequio. Ivi una bella, giovane regina (753)sta confinata nel suo palazzo Farnese, mole maestosa e prepotente di un michelangelesco tanto perfetto in mattoni, quanto lo è in marmo il Mosè(754), alla quale appartiene tutto ciò che nel museo di Napoli porta il nome di farnesio(755). Non avendo essa potuto perdere tanta potenza senza dispetto, ne ricordarsi di tanti oltraggi senza risentimento, è vissuta oppressa dallo spleen, tristezza fisica — vera malattia. ne ha ricevuto conforto, ne ha nudrito speranze, perché uno spettro importuno mettendole innanzi le due tremende parole — l’impossibile—l’irreparabile—le ha per tanti anni richiesto:

Che fai, che pensi? che pur dietro guardi

Nel tempo che tornar non potè ormai,

Anima sconsolata?

Vi alberga pure un re giovane anch’esso (756), mesto del pari; perché, diceva la imperatrice Teodora a Giustiniano suo marito, l’esilio è un insopportabile affronto per chi è stato assiso sul trono.

Cominciando a regnare egli ebbe il difetto di diffidar di se stesso: ciò che in un privato è da stimarsi virtù. Per questo appunto, ignaro come era della logica delle passioni, proclamò che avrebbe procurato seguire le orme di suo padre,—per questo scelse a guida e sostegno un ministro presidente educato alla scuola di Talleyrand. — Scelta che riuscigli infelice; perché il prescelto fu tal uomo, cui le donne avevano dato qualche cosa della lor seduzione insieme e della loro debolezza. A lui, come era accaduto al generale Marmont, speculazioni, intraprese, politica, tutto, tranne la guerra, non gli erano bene riuscite. Furono questi due grandissimi errori, due errori tremendi. — Errore il primo, perché nulla è più nobile che difendere l’onore di un padre — ma, dicea Plinio (757): «vides quem sequi, cujus debeas implere vestigia.» — Quando un uomo monta a CAPO dello stato ha l'obbligo del silenzio su taluni atti non approvati dall’universale; ne fu politica — ne fu prudenza non promettere nulla. Non già che avesse dovuto essere largo in promettere; perché ciò è proprio degli uomini pieni di paura (758), ma né anco fu ponderato avvedimento non esporre francamente ciò che proponevasi di fare; e sino a qual punto dovevasi sperare. — Errore il secondo, perché

... in trono

Cieca fidanza è inescusabil fallo (759).

Siffatti errori gli furono fatali; giacché spesso i delitti sono puniti all’altro mondo, ma gli errori... oh gli errori lo sono costantemente quaggiù! — Racconta la storia che Teodosio imperatore, spaventato dei pericoli che minacciavano la debolezza del giovane Onorio suo figliuolo, raccomandollo a Stilicone dicendogli: «io muojo senza inquietudine; Onorio può regnare tanto che sarà sostenuto dal vostro coraggio e guidato dalla vostra prudenza». E quel generale, tuttoché vandalo, giustificò appieno la scelta dell’imperatore, e Onorio fu salvo. Ferdinando stimò meglio raccomandare suo figlio a taluni uomini dalla civiltà raffinati, che s’affrettarono a balzarlo dal trono. Essi gli fecero modellare un proclama su quello fatto da Nicola I, il quale aveva promesso di camminare sulle orme del suo predecessore, anzi soggiunto: «possa il nostro regno essere una continuazione «del suo, e faccia Dio che noi potessimo soddisfare tutti i voti che colui formava per la prosperità della Russia»... Ma Nicola era un autocrate ed un guerriero, — l’armata dipendeva istintivamente dai suoi cenni, — e l’Europa non era ancora minata dalle fondamenta: in somma i tempi, i luoghi e le condizioni erano ahi quanto diversi.

Francesco ricco di pure intenzioni, di gusti saggi, di sentimenti virtuosi, d’ingegno facile e versatile era giovane assai, e gli abusi erano antichissimi. Egli altiero della divisa della sua casa, ch'è bontà e valore(760), e giudicato realmente per gentiluomo compito e per animo forte e galante nella pugna e nelle avversità (761), credeva allora che bastasse volere il bene per farlo, — meritare l’amore del popolo per ottenerlo, — adempiere ai suoi doveri per fare i sudditi felici. — A somiglianza d’Enrico IV, il cui solo nome fa il suo elogio (762), perché divide con Tito e Marco Aurelio la gloria d’essere proposto per modello a tutti i sovrani del mondo (763), riteneva dovere ottenere per suo migliore titolo d’onore quello di primo galantuomo del regno... Povero monarca! — Non conosceva il mondo, dal quale era vissuto inopportunamente lontano: quindi ignorava che quando appunto gli uomini più credono di far bene, allora ne vengono biasimati. —Ei trovossi attorniato di traditori, d'imbecilli e di un gran numero di gente che va e viene e si gira ad ogni vento come banderuola

Mutando parte dalla state al verno;

feccia la più spregevole, diceva Giusti (764), la quale scoli dal letamajo dei birboni, bugiarda con chi si trova in potere, fallace con chi spera pervenirvi... razza sempre proscritta fra noi, ma sempre conservata; di cui a mo’ d’esempio potrebbe citarsene taluno, se non vivessimo in un tempo, ha detto poco fa Silvestro De-Sacy (765), où il ne faut nommer personne si l'on ne veut pas nommer tout le monde.

Ei si propose al par di Gordiano volere saper tutto, onde non essere ingannato su di nulla: ma d'animo ingenuo non seppe ne supporre ne preveder le tradigioni; dappoiché non conosceva gli uomini a fondo, ciò ch’è lo studio d'una intera vita, ne vi si giunge appieno; conciossiaché governare gli uomini, cela se péut, mais les comprendre Dicu seul le fait (766). — Sventuratamente in certi tempi è dannosa per gli stati l’eccessiva bontà dei reggitori; perché non basta essere integro e modesto, ei fa d’uopo d’essere insieme destro, e prudente a prevenire l'opre dei malvagi: «avec de l’adresse, avvertiva l’accorta mad. de Staèl (767), on se tire de tout; l’habilité est la reine du monde. — «Scongiuro Vostra Maestà, (aveva detto Turgot a Luigi XVI), di tenersi in guardia contro la debolezza, precipua causa della miseria dei popoli e della disgrazia dei re. La debolezza, o Sire, condusse al patibolo Carlo primo.» — Luigi se ne convinse tanto quanto ebbe a rispondergli: «sì, non vi siamo che Turgot ed io che amiamo il popolo»... Non pertanto Luigi fu debole, dappoiché tutti i re, diceva Tacito(768)in proposito di Tolomeo, sono facili a concepire paura; — e la testa di Luigi fu troncata sul palco. Per ordinario i principi deboli sono abbandonati; anzi ha osservato Voltaire che spesso spesso le grandi rivoluzioni si compiono sotto i principi più buoni, i quali ne sono ad un tempo e la vittima e la espiazione. — Se forse Francesco avesse con mano ferma tenuto le redini dello stato, — se egli non avesse tentennato, come hanno asserito i suoi ministri(769), —s’egli non avesse fatte concessioni strappate unicamente dalla violenza, e che non sono mai mezzi di salute, perché chi comincia a discendere è prossimo a cadere «on est près de tomber quanti on commence à descendre»(770), non sarebbe precipitalo in un momento; ne avrebbe condisceso al consiglio di chiudersi in Gaeta (771), ove gli era, e gli fu impossibile sostenersi e salvarsi (772).

Re Francesco adunque travolto nell'infortunio vi languiva isolato.— La porpora, che aveagli comunicato anni fa la potenza, ora servivagli di manto a ricoprire la sventura, conservando solo il titolo di Maestà che gli era si connaturale, ma di cui aveva troppo presto conosciuto la vanità desolante. Anzi taluni dei cortigiani emigrati gli davano il nome di padrone, come son usi i sudditi delle monarchie assolute. Fuori dai rivoluzionarii riceveva affronti, cordoglio, trambasciamenti ed affanno; in casa ritrovava favoriti, intriganti, ambiziosi, e una turba che Tacito (773)qualifica per razza la più funesta, adulatori frammisti con uomini fidi, intelligenti e probi. I primi, a liberarsi dai quali a quando a quando si ritira nella campagna di Albano (luogo ove si mostra ancora ciò che si crede essere la tomba degli Orazii e dei Curiazii), riputavano potere ristabilire la legittimità affettando un colore alla cravatta, un fiore alla bottoniera, facendo proteste, pubblicando proclami di giornali, spacciando novelle, protezione e sarcasmi nella penombra o nell’ombra; dimentichi dell’insegnamento di Plinio, che val meglio passar la vita a non fare nulla che a fare delle nullità. Mancanti di quella forza che rialza i troni, e inabili a seguire sino allo scopo una risoluzione intrapresa, hanno abbajato alla tempesta sul ponte della nave come i cani olandesi. E si son vantati profeti ingannandosi su tutto, non vedendo avanti, porcile non guardano che indietro; mentre ben diceva Terenzio:

Istuc est sapere, non quod ante pedes modo est

Videre, scd illa quae futura sunt, prospicere;

—speranzosi sempre di un sovrano assolutamente assoluto, com’erasi detto in Ispagna alla ristaurazione di Ferdinando VII, ed eccitando intanto dispetti volgari atti a trasnaturare in domestici contrasti le inquietudini gravi d’uno scettro perduto. Guardimi il cielo ch’io volessi far da pedagogo alla sventura... ma avendo molto e lungamente sofferto per essersi boriato che fossi stato in Sicilia araldo della legittimità, non mi disdice un giudizio franco. — Al mio sguardo qualunque rivoluzione non è oggetto d’ammirazione, non argomento di gloria; dessa è infamia, immoralità, vitupero,... di lei è

...sì orribile l’aspetto

Che paria contro lei chi di lei parla,

Che per farla aborrir basta ritrarla (774).

Ora le ristorazioni, come qualificolle Fox, non sono che le più nefaste delle rivoluzioni; ed è perciò che secondo il concetto di Ségur (775), sono poi i governi più difficili. Per me, che non adulo alcuno e dico sempre ciò che penso, il primo degl’interessi proclamo con Thiers (776)essere sempre l’interesse del paese... già per paese intendo la mia patria, non essendo cosmopolita, ne amando di farmi una patria slargata, giacché in tale caso non troverei più patria allatto. Tutti i miei voti quindi sono per la Sicilia «quelsque soient les pouvoirs à qui son imprévoyant caprice la fasse obéir» come ha soggiunto il suddetto Thiers parlando della Francia; conciossiaché, diceva Tolomeo, l’amor della patria è fondalo nella radice della carità, là ove il bene comune al proprio, e non il proprio al comune è anteposto. —Se ho rispettato e rispetto là caduta dinastia non è pel principio ch'essa promani da Dio. giacché il principio cattolico è soltanto che omnis potestas a Deo; però, come ha dimostrato Godard (777), è grave equivoco quello in cui è incorso l’aquila di Meaux, il sommo Bossuel, proclamando nella sua Politica sacra che Dio faccia i re e che stabilisca le case regnanti. Io rispetto la caduta dinastia, e la rispetto primamente per la sua sventura, convinto che un re rovesciato dal trono si debbe compiangere dalle anime sensibili, le quali hanno in orrore qualsiasi rovescio; riserbando al tempo l'esame delle cause della sua caduta, e alla posterità il giudicarlo... Posterità che non solo scrutina i re decaduti, ma che non santifica l’esito delle cose dando sempre torto ai vinti, e ai vincitori ragione; e che fa innanzi a sé smontare dai loro cocchi trionfali conquistatori e tiranni, e inappellabilmente dichiara feroce Nerone, crudele Silla, turpe Eliogabalo, ippocrita Tiberio e via via.—La rispetto del pari per quei titoli che ne rendono veneranda la memoria nella storia, la quale è stoltezza supporre che si cancelli, perché si cancellano i segni sensibili del passato, o perché le s’impreca con rabbia partigiana da uomini per lo più nulli, che la insultano nel suo infortunio dopo averla adulata vilmente nella sua grandezza, nella quale forse mostrassi lor generosa quando tutto poteva. La rispetto infine perché le sono riconoscente, e sperimento il puro e dolce sentimento di gratitudine, avendo sotto di essa servito lo stato con onore e senza che avessi mai taciuto o sconfessato ch'essa avesse avuto alcuni torti reali verso la Sicilia, come ha ultimamente riconosciuto financo il suo difensore Carlo Garnier (778)... gratitudine che ha detto Guizot (779)«ne se mesure pas à la puissance et à la prospérité des personnes qui y ont droit;» nulla, propriamente nulla sperando in alcun tempo da loro; né anco di sognare come Trémoille, potermi valere del credito per essere utile ad antichi compagni di sventura.

È perciò che senza alcuna titubanza io potrei dire al monarca, ch’è assiso sopra il trono novello (780), ciò che disse Manuele generale dell’imperatore Michele Rhangabè a Leone l’armeno, il quale afferrò lo scettro di costui: «in atto, o Sire, che voi siete sul soglio riguarderete ste la fedeltà per un delitto o pure per un dovere?» Come del pari potrei rammentare a Napoleone III la modesta domanda fattagli da Chateaubriand il 18 maggio 1832 con quelle nobili parole: «principe, ogni uomo che tiene alla pubblica stima doit rester fidèle à ses serments? Senza venire all’eroismo della famosa protesta dell'illustre presidente Frémyot, il quale proclamava che: la grande ricchezza di un politico e di un guerriero è la gloria di diventar povero per serbare la fede giurata al suo Dio, giurata al suo re (781)».—Anco gli antichi, scrisse Cicerone (782), non riconobbero vincolo più forte, violare il quale, dicea Virgilio (783), riputarono cosa sacrilega per gli stessi Numi.

Che poi re Francesco smaniasse di ritornare nei suoi stati è stata cosa pur troppo naturale, avendo egli al cuore una di quelle ferite che nelle anime nobili non si chiudono mai; sebbene varii diplomatici di gran nome hanno assicurato che ei ci possedesse quell'arte che puossi dire sovrana in tutte le cose, e che forma (dicea Bougaud (784)), il segreto di ogni buona riuscita: l’arte di sapere aspettare; persuaso forse che tutta l’umana saggezza (come facea dire Dumas (785)dal suo conte di Monte-Cristo a Massimiliano Morrei) non sia riposta che in queste due parole: aspettare e sperare. E molti pure hanno sperato anzi ambito il governo di lui, proclamando che i principi buoni formati nella lor giovinezza alla scuola della sventura divengono per ordinario sul trono il modello dei re, nulla essendovi di più nobile che il dolore nell'uomo nei nostri tempi moderni, in mezzo al nostro stato sociale oppressivo, nel quale può ben dirsi che qui n'aurait pas souffert, n'aurait jamais senti ni pensé (786).

Essi lo hanno spacciato attivo come Cesare, prudente come Fabio, casto come Scipione, sommesso alle leggi come Epaminonda; e si son lusingati, dacché videro cadere al 1848 sotto i suoi eccessi la rivolta, e ritornata la Sicilia ai suoi antichi monarchi per l'intervento di quelle potenze che ne avevano provocata la cacciata. Pur tuttavia avvedutisi che nissun fondamento puossi concepire nella forza propria ne nella diplomazia, altra speranza ora non mostrano di nudrire che la forza delle cose, la dissoluzione sociale, e quindi la speranza indicata nel 1795 da Caterina II, al proscritto re di Francia cioè la speranza di moti popolari... movimenti che non potendo essere opera di rette e probe intelligenze, non potrebbero essere che lavoro stupido di cospiratori e d’anarchisli...: è questo che ingigantendosi nelle ardenti fantasie, ha eccitato panici timori e perenne ansia spaventosa; — come accadde in Francia, durante il primo impero, quando Napoleone I, tuttoché all’apice della sua potenza, divenne inquieto per la causa della vecchia monarchia, e temé dei Borboni, atterrito di quelle enfatiche parole del visconte de Chateaubriand (787)«il n'y aura ni repos, ni bonheur, ni félicité, ni stabilité dans nos lois, nos opinions, nos fortunes, que quand la maison de Bourbon sera rétablie sur le trône.»


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CAPO XXVII

La Commessione d’inchiesta

A metter suggello al malcontento, a colmare la tazza del dispetto universale fra noi non poteva farsi peggio che mandare in Palermo una Commessione parlamentare d’inchiesta. — Siffatta determinazione s’era presa dopo gl’infausti avvenimenti di settembre durante il ministero Ricasoli. Caduto quel gabinetto, lo stesso Ricasoli ne richiese l’esecuzione; e la Commessione, avendone alcuni altri declinato l’onore (788), fu composta da Sella, Tamajo, Fabbrizi, Rorà, Tenoni, Bortolucci, e preseduta da Pisanelli.

Essa (789)fra le altre cose recavasi in Palermo a studiare se le monache ritornando nei proprii monasteri (790)avessero potuto mettere a repentaglio il regno, e a rilevare i motivi pei quali vi fossero in Palermo ottantamila malcontenti attivi, e tutto il resto della popolazione malcontenta passiva (791). Allora un diluvio di stampe, una serie di progetti, un cicaleccio ridicolo di giornali venduti, assordarono cielo e terra in modo da non trovarsi più costrutto. — Tutti compunti esponevano i nostri mali, tutti proponevano rimedii svariati, davan consigli, emettevano assolutissimi giudizi! La Commessione si divertiva, girava per diporto, interpellava, ed accordava udienze alla Trinacria dove aveva preso alloggio, onorata da un picchetto di soldati che ne custodiva lo ingresso. Essa chiamò molti cittadini, tra’ quali alcuni sinceri, non pochi prostituii; e fu segnalato con dolore(792)che alcuni magistrali, cui taceva CAPO un presidente, presentaronsi dicendole con vigliacca abbiettezza, che la magistratura andava a mettersi a disposizione della Commessione, non dubitando di proporre misure eccezionali di rigore.

Io in quel mentre sin dal 9 maggio slava in villa lontano dai rumori, dallo ciarle e da ogni impiccio; ne mi passava per mente che questa Commessione avesse potuto aver premura d’abboccarsi meco. Fatto sta che un primo ed un secondo invito mi fece essa pervenire, segnandomi una conferenza pel giorno ventisei. Fu primo Sella a darmi conoscenza di lui, ed io colsi l'occasione di ringraziarlo di quelle cortesie usatemi, delle quali il lettore non istenterà di ricordarsi (793).—-Parvemi mi guardassero tutti come fossi calalo dalla luna, come fossi abitante d una terra sconosciuta... Forse conoscendomi su racconti menzogneri credeanmi un mostro a sette leste, non un essere comune di figura umana. Fattomi sedere a lui vicino, mi diresse il presidente garbatamente la parola dicendomi, che la Commessione mi dava l'incomodo interrogarmi sui moli di settembre, sulle loro cause e sul loro, sviluppo. — A tale domanda risposi seccamente ch’io in quel tempo slava carceralo allo spedale. — Affettando l’aria di sorpreso... Ella carcerata!—interrompendomi mi disse il presidente? — ed io a lui: «comprendo che la nuova della carcerazione d’un ignoto doveva ignorarsi in Firenze dagli uomini di stato; pure non comprendo come elleno arrivate in Palermo e avendo risoluto di chiamarmi, non fossero state appieno intarmale sul conto mio dai miei simpatici benefattori». Ed egli a me: «e perché mai fu tenuta carcerata?.., Dissero, risposi, per non so quale attentato di un tal Badia che non conosco,—È uscita poi per l’amnistia?—Senza meno! ingiustamente carcerato e ingiustamente amnistiato, dopo che con sua requisitoria il Procurator generale dichiarò di non avere di che accusarmi. Altra giustizia non potè ottenere la mia insistenza che la cancellazione dall’accusa dai registri penali; perché mi doleva assai la crocifiggente accusa, mentre suppongo, come diceva D’Azeglio (794), che non dovessi avere viso da cospiratore, nessuno avendomi mai proposto di mettermi negli altrui pasticci.—Ella insomma, ripigliò Mannelli, che concetto formossi di quei moti?... li ha creduto moti politici?—moti ribelli?—partiti presi?... che so io? — Quanto a concetto, risposi freddamente, li stimai figli d'un malcontento disperato...—Anch’ella dunque crede al malcontento? Perdinci! sarei troppo stupido ove noi credessi, vedendo le signorie vostre qui sedute perché inviate a bella posta dalla Camera parlamentare, onde indagare le cause del nostro eccessivo malcontento. — Maei dica allora quali crede che fossero le cause del malcontento in questi luoghi, e come ripararvi. Davvero, soggiunsi lemme lemme, non sono l’uomo adatto a dare di ciò le nozioni più precise. Isolato dal mondo politico, per non dire dal consorzio civile, non mi occupo che delle domestichefaccende e della mia istruzione; ciò che agevolmente si comprende da coloro che come me hanno molto sofferto, e che ben sanno quanto sia dolce quella mezza solitudine in cui penetrano solo poche persone atte ad intendere il dolore, e nell'anima delle quali i nostri gemiti trovano un'eco. A non mostrarmi però scortese alla dimanda dirò che per mio parere i lagni procedano da cagioni svariate. A dir corto: le gravezze, i soprusi, la coscrizione, il manco d’affari e di lavoro, il difetto d'industria e di commercio, l’istantaneo mutamento delle abitudini del paese, la ruina degl'impiegati e dei forensi, le vessazioni, gli arbitrii, il manco di sicurezza, la persecuzione religiosa, l'abolizione dei claustrali, la retroattività d'alcune leggi, la carta moneta, il caro dei viveri, ecco una serie di cause potentemente affliggenti, eccitate a furia e con una rapidità maggiore della serie crescente della caduta dei gravi. E qui cominciai analiticamente a sviluppare la portata di ciascuno degl'individui motivi e del complesso loro. ne lasciai di far osservare che se tutto ciò si volesse riputare necessario sacrificio, mancherebbe in contrapposto l’elenco dei vantaggi, cui tanti sacrificii dovrebbero fare riscontro...— Oh quanto alla coscrizione, la mi perdoni, interruppemi con calore il presidente, erano i Borboni che astutamente non la vollero mai. — Chiedo scusa, senz’alterarmi ripresi... i Borboni la volevano ad ogni costo; ed ho io pubblicata l'originale corrispondenza di Ferdinando I e del ministro Tornasi col ministro Averna (795), perché la coscrizione immancabilmente si effettuisse.—Perché dunque non ebbe più luogo? Perché appunto per essa s’ebbe l'ultima spinta, allora, il malcontento — e scoppiò tremenda la rivolta del 1820. Conciossiaché i Siciliani appunto come gl'Inglesi hanno un’antipatia profonda per la coscrizione, ossia per quelle grandi riunioni di uomini che passano la loro vita a non far nulla, ad apprendere l’arte di scannare i loro simili; — e di cui non sapranno persuadersi mai nullostante s'accumulassero montagne di sofismi a volerceli convincere in contrario... Si vorrebbero, dunque osservò a questo punto con compassione spregiarne il presidente, delle eccezioni scandalose per questa parte del regno?... Senza meno, o signore, ripigliai con tuono sempre moderato. Ciascun paese si paragona con se stesso; e appunto per questo tutti richiedono misure eccezionali, straordinarie provvidenze, sospensione di regole comuni. ne voi avete fatto mal viso alle eccezioni... ma le leggi eccezionali si riducono forse alla fucilazione ed alla forca?—lo dica il Vandalo e lo Scita, ma non può dirlo chi conosce la giustizia.—Si danno pure le eccezioni benigne... e son queste per appunto quelle che reclama questa misera terra. Già m’avveggo che tai leggi chiedendo, domando cosa che non puossi concedere a me che son uomo en dehors des choses du temps, secondo la frase di Adolfo Thiers (796). — Però tenete in mente, o signori, se non volete che la bilancia trabocchi, il detto di Napoleone I a Lafitte a proposito del popolo francese: frenatelo con una mano di ferro, ma questa mano sia coperta d’un guanto di velluto. E ricordatevi che Alessandro il Macedone conquistando le provincie dell'Asia ebbe l’accorgimento di lasciare i popoli contenti di essere stati soggiogati da lui, come ha scritto Quinto Curzio: «ut eos quoque, quos, bello subegissem, vicarine meae non poeniteret. Sono questi i precetti dell’esperienza... abbenché l'esperienza, dicea Franklin, tiene a perla una grande scuola, ma non vi si profitta molto! Però i governanti non dovrebbero mai dimenticare che il vero fine della politica sia di rendere «la vita comoda e i popoli felici» (797). — Mentre prendea respiro per continuare il lungo mio discorso... eppure, marchese, prese a dire Sella con bocca risolente, credesi che il malcontento abbia origine dal soffio di borbonici perturbatori, i quali diretti da un comitato destro istigano la gente contro del governo... ella che ne dice, e che ne pensa di siffatto comitato?... Accigliato e con tuono misurato e severo, dopo aver fatto rimanere tutti pendenti dal mio labbro:—non credeva, dissi, non credeva affatto che la Commessione d’inchiesta dalla quale avrei dovuto attendermi piuttosto tutt'altre dimande, avesse chiamato me indiziato antesignano dei borbonici (e ne compitai con pausa le sillabe) sul campo sdrucciolevole della politica.— E in profferire ciò m'era bisognato, dirò cosi, pigliare il mio cuore con due mani, e come per le redini, secondo l’espressione di s. Francesco di Sales, affinché non facesse alcun movimento disordinato e intempestivo; mormorando fra’ denti le parole di s. Paolo multa mihi licent, sed non omnia expediunt. — Ma poiché io porlo alto il viso, proseguii, io faccia a chicchessia, senza timore che qualche sguardo potesse farlo arrossire, non rifuggo di scendere sull'arena, e dichiaro stolto ed infame questo gridar continuo al borbonismo... ippocrisia oramai scaduta di pregio,.e smascherata financo presso dei volgari.—Pur cari cotesti nuovi apostoli del patriottismo!

Essi si tormentano del rammarichio popolare, e non sapendo, ne potendo, ne volendo sradicarne il mal seme, gridano che ì borbonismo sia il movente degli urli disperali della gran massa d'infelici, e di ciascuno che loro sia inviso si contentano d’affermare che dice, che macchina, che trama... Vedesi una turba d'impiegati affamati, i quali divelti capricciosamente dalle loro occupazioni non ricevono più la mercede, che secondo la teoria di Seneca (798)è pagamento di lavoro non compenso di merito?

Condannati costoro senza delitto, non avendo più pane per isfamare le famiglie non servendo loro la vita che a contemplare la morte strepitano da ogni lato, non essendo possibile, come diceva Giuvenale, sperare virtù eroica da quei che gemono fra le domestiche angustie (799)... eh! sono i borbonici, si scrive, che ne suscitano il malcontento... Un’orda di cenciose contadine a cui si strappano i giovani poderosi, sostegno e speranze delle miserelle, assorda il cielo e la terra d'imprecazioni e di lamenti?... uh! sono i borbonici che soffiano nei loro tugurii affumicati...—I ministri del culto sono messi alla gogna, le sacre vergini sono strappate dai chiostri e ammiserite?..

Gli uni e le altre si dolgono amaramente di tanti soprusi... ah! sono i borbonici che ne disturbano le menti e ne seducono il cuore, e li rendono arcigni e dispettosi. — Di tante leggi di finanza poi che la stampa infischiandosi del fisco (800)ha bandito che pajono scritte in istile turco, e che si vogliono turchescamente eseguite, sono forse i borbonici che ne travisano il senso, ne malignano la portata? —...Ellaadunque, ripigliò Sella credendo frenare il mio slancio, suppone che il malcontento sia figlio dell’economico conquasso? — Per l'appunto, cavaliere... del conquasso economico-politico-religioso-sociale che ha naturalmente sviati dal lavoro gli operai, dallo studio la gioventù, dalle occupazioni necessarie i capi di famiglia.

Conquasso che questa misera terra non immaginava di dover provare; avendo sempre da lontano sentito il fragore delle procelle che hanno perl’addietro commosso dalle fondamenta l'Europa.—Parvemi che uno stenografo segnasse le fugaci parole, che in me rimasero indelebilmente scolpite.— Accomiatato con bel garbo, Sella mi strinse la mano nell’accompagnarmi alla porta, ma son sicuro che nissuno dei sette ritenne vestigio di quel colloquio improvvisato. Molto più perché tutt'assieme partirono come fuggitivi, senza né anco aspettare la festa per lo statuto, la quale per la loro venuta s’era preparata più solenne da un municipio smanioso di sparnazzare in scialacqui il denaro pubblico, estorto a furia d'innumerevoli e dissennati balzelli.


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CAPO XXVIII

Dissesto morale

Per isfogarc il loro profondo cordoglio molti avevano narrato alla commessione d'inchiesta la immensità dei mali di cui si era amaramente tribolali. Anco si erano ingombrale le vie di scritti luttuosi che riepilogavano l'estreme nostre miserie e i guai generali,... ma tante vaghe parole, tante frasi solenni, tante grida desolanti erano lamenti perduti. Perché se veramente si fosso voluto provvedere, unico mezzo, unico rimedio si poteva proclamare: spingersi innanzi, non già colla democrazia (801), ma coll’assolutismo. —Espediente tremendo, espediente fatale; ma espediente che alla fine adotterassi come unico mezzo di salute, quando l’eccesso delle disgrazie e dei pericoli obbligherà a concorrere tutti gl’interessi i più opposti, alla salute comune, e la più imperiosa delle leggi, la necessità, farà nascere da questo caos un altro ordine di cose durevole sulla terra. Ordine che sventuratamente non potrà essere che l’organizzazione gerarchica del più brutale dispotismo (802)! — Questo dopo aver valicato sopra un oceano di sangue e sparso di cadaveri la terra come il campo di Ezechiello, sarà salutalo come era festosa di riparazione e di risorgimento; dappoiché l'ingiustizia e la violenza scalzano sempre quel partito che le adopera, e fortificano quello che resiste.

So bene che Romagnosi diceva: «guai all’uomo se in ogni occasione ei dovesse agire per una deduzione ragionata». Però se suol mancare all’uomo quest’esercizio di logica perfetta, questa logica l’hanno certamente i fatti, — e la logica dei fatti è oramai risaputo che fosse inesorabile; quantunque alle volte anco la più miserabile influenza svolga e determini i grandi avvenimenti in un senso contrario alla verisimiglianza delle cose. Cerio è che l'attualità d’Italia si presenta scoraggiante, e l’avvenire di essa si prevede tempestoso. — Non mai rifalla è stata come ora

Nave senza nocchiero in gran tempesta (803).

Né con maggiore verità potrebbe essa ripetere ciò che le s’imboccava al 1617 (804):

Io son l’afflitta Italia, anzi pur fui,

Che piango la mia gloria in terra scesa

E dolermi vorrei, ne so di cui.

Quanto all’avvenire oh «je ne sonde pas son avenir, ba detto l'illustre Guizot(805)... «je le crois chargé de ténèbres et d'orages dans les ténèbres». Egli ha soggiunto: «je crains que l'Italie n'ait entrepris une œuvre au-dessus de sa force naturelle et durable(806)

Quando e per quei mezzi giungerassi a quest’epoca di rassetto gli uomini attualmente desolati nol veggono affatto. Perciò i loro lamenti sono come i lamenti disperali dell’inferno; non lusingandosi alcuno che possa vedere la fine della presente eccentricità sociale. Al che non v’è rimedio veruno; essendo questa la consueta sorte della umanità. Conciossiaché gli errori più grossolani spargono con rapidità il loro velo sulla terra, ma fa d'uopo di secoli alla verità per dissipare queste tenebre(807); non dipendendo da alcuno, ma dal tempo frenare il torrente delle idee. ne è lecito spacciare menzogne ed inganni come secreti della Provvidenza; imperocché Iddio non ha bisogno di mezzi cosi indegni... «Num quid, dicea Giobbe (808), num quid Deus indiget vostro mendacio, ut pro eo loquamini dolos?»

Che se qualche ingenuo saper volesse estesamente perché mai tanto rammarichio s’innalzava ad assordare l'aria inutilmente, eccoci a riepilogare la lunga serie degli incommensurabili mali, che a parer nostro rendeano l'attualità cosi profondamente ributtante, da innalzarsi dapertutto il grido fremente, spontaneo, spaventoso del salvisi chi può.

A far argomentare di slancio il conquasso sociale basterebbe la semplice considerazione del basamento sul quale è impiantata quest'epoca di mine e d'anarchia.—Il basamento è un'immoralità vergognosa elevata e costituita a sistema, — basamento fracido, putrido, corrotto; e perciò stesso fragile e sempre prossimo a crollare. Nissuno può mettere in forse che base d’uno stato dovrebb’essere la virtù, cioè la moralità in un modo serio concepita. Ora la moralità dei tempi nostri è il furto, l’espoliazione, la rapina, la seduzione, la corruzione, il tradimento, l'inganno, l'impostura, l’intrigo, la pugnalazione, l'estorsione, l'arbitrio, la vessazione. Sono questi gli elementi coi quali s’è cementata la nostra fusione, s'è data origine e sviluppo al nostro regno, commettendo quello che Thiers (809)chiamò enorme errore...

Da cosi perversa radice è venuto il velenoso frutto della demoralizzazione universale. Per essa s’è promulgata la incredulità religiosa che Beker formolando i disegni rivoluzionarii chiama la necessità di non credere a nulla. Ogni cosa, novelle, poemi, romanzi, considerazioni, disputazioni, come contro il più detestabile dei pregiudizi, e contro la più insensata e più stolida frenesia declamano, e si adirano e si sdegnano contro chi teme, e crede, e placa, e rispetta la Divinità(810). — Stato anormale d’una nazione, cui è impossibile sussistere senza essere legata da una dottrina religiosa comune che sia di norma alle coscienze. Giacché ne insegna la storia, scriveva il dotto Garzoni (811), che senza religione non istette e durò, ne mai potè stare o durare popolo alcuno. — Non dirò dei liberissimi Romani; perché ciascuno conosce lo ammonimento dato da Mecenate ad Augusto (812): «Deos quoque ipse semper, et ubique cole, ut moribus putride receptum est, ad eumdemque cultum alios compelle.»... Lo stesso apostata Giuliano imperatore, persecutore delta fede,— propagatore della libertà di coscienza comandava: «religionem persuaderi, doti cerique quemque... oportere(813). — Anco gli Ebrei che vivono vita nomade, senza re, senza regno, sono legati da un codice religioso ch’è il Thalmud — opera di fanatismo e d’ignoranza, ma opera che li costituisce sociali (814). — Lo stesso filosofo Pirrone, che indicava il dubbio sospensivo quale stato fermo e permanente, e che in siffatta condizione inquietafacea consistere il perfetto riposo dell’intelletto e della volontà (dagli scettici appellato sommo bene) nulla affermava, però nulla escludeva. — Che se Cassiodoro fece dire da Teodorico ad alcuni Ebrei «religionem imperare non possumus, quia nemo cogitur ut credat invitus», non era ciò un rinnegare la credenza, ne un abolire la religione dello stato: fu questo un provvedimento politico dì tolleranza e null’altro. La deficienza religiosa ha ingenerato fra noi una specie di materialismo ateo, il quale fa balordamente riguardare per iscopo di questa nostra labile esistenza la mollezza della vita, il soddisfacimento di tutti gli appetiti. Mentre che Dio, diceva lo stesso Ovidio, non creò prono l’uomo come gli altri animali, ma l’alzò col grave aspetto al cielo onde mirasse le cose immortali:

Pronaque cum spectent animalia celera terram,

Os homini sublime dedit, coelumque videre

Jussil; et erectos ad sidera tollere vultus.

Checché bestialeggino in contrario i Vogt, i Spietz, i Bùcbner, i Darwin, gli Huxley, i Lyel, i Molescott, i De Filippi che dalla scimmia vorrebbero trarre la derivazione primitiva dell'uomo, di cui basta osservare il foro occipitale, l’arco zigomatico, le creste craniali, il muscolo crotafito, la sutura sagittale, l’osteo-miologico per convincersi confesso formi un essere totalmente distinto e differente dai bruti. È perciò che ne è avvenuto il rifiuto d’ogni freno, l’avversione ad ogni divieto e a ogni vincolo, la resistenza a qualunque potere, l'insubordinazione a qualsivoglia autorità, che facea dire a Proudhon che il migliore governo fosse la negazione del governo — l’anarchia; la mania dell’oro come rappresentante dei piaceri, e infin dei conti il rassegnamento a qualunque tirannia: dappoiché «rien ne se résigne plus aisément que l'athéisme à la tyrannie»(815)... E questo stato svilente, e questo pervenire di grado in grado ad ogni genere di provocamenti al vizio, si ha avuto l'audacia di appellare incivilimento! — Il commercio, l’agricoltura, le arti, il lavoro, l’onesto guadagno sono per tal modo riputati mezzi troppo lenti d’arricchire, ne adatti ad occorrere ai desiderii smodati, alle invidie profonde, alle impazienze ardenti e non limitate più alla ristretta cerchia del proprio stato sociale. Onde che molti quasi a rinvenir con sicurezza i tesori della California s'affaccendarono financo a speculare coll'aggiotaggio, giuocando di milioni tra la banca e la borsa; perché

... al gioco

Or non si va con sole borse, interi

Portansi i scrigni (816);

e sdrucciolando nella falsa via, ignari delle tracce profonde impresse dalle catastrofi del 1692, 1720, 1825, 1845, che leggonsi negli annali dello Stockjobbing (agiotaggio) in Inghilterra, s’innabissarono nel fallimento e si covrirono di disonore.

Si è gettato, gli è vero, polvere agli occhi con opere filantropiche di pubblica beneficenza; ma tutti conoscono il fine contorto di tante illusorie fantasmagorie. — Infatti le tenerezze melate, a mo’ d’esempio, per gli asili infantili è risaputo che traggono origine non dai volersi ajutare le classi inferiori, ma, com’ ha rivelato il rivoluzionario Montanelli (817), dal volere ottenere d’accomunarsi col popolo, e rendere suoi educatori gli uomini in religione indifferenti. — Se si sono estesi gliistituti dei trovatelli, ciò è fatto per dare miglior agio alla corruttela dei costumi, non già per avere sollecita cura degli infelici procreati, i quali con un raffinamento crudele sono destinali a quattro o cinque per nudrice... metodo che estingue ogni sentimento d’affetto materno, e fa rimanere indifferenti alla loro mortalità che si valuta dell’80 per 0/0 (818). — Se si ha scrupolosa cura delle prostitute è forse commiserazione per tante sventurate? — No, è interesse calcolato d’estendere a dismisura una sozza classe di contribuenti, distruggitrice del principio della creazione delle famiglie, la quale apprestando pieno sfogo alla libidine brutale rallenta la premura degli onesti connubii, snerva sin dalla puerizia la gioventù riottosa, scompiglia il decoro domestico e cittadino, offende sfacciatamente il pudore naturale, toglie l’incanto alla ingenuità e all’innocenza, e mette in trionfo quel vizio che attirò la maledizione di Cam, le stragi dei Sichimiti, lo schiantamento della tribù di Beniamino, i flagelli di David e di Salamone, il fuoco delle Pentapoli, il sommergimento del genere umano. All’incremento del mal costume poi hanno cooperato potentemente i teatri divenuti scuola perversa di contumelia peggio assai che non lo furono all'epoca degli istrioni.— Mentre in tutti i paesi civili e in tutti i secoli culti scopo del teatro si è bandito dover essere correggere i costumi, onde rendere migliore il consorzio civile, oggi fra noi savrebbe dovuto implorare di sopprimerli, come Ovidio a’ suoi tempi ne pregava Augusto:

... ludi quoque semina praebent

Nequitiae: tolli theatra jube.

Lascivie, veleni, abominazioni, disordini d'ogni maniera — ecco i temi universalmente favoriti degli spettacoli odierni, contro i quali chi protesta si è chiamato spegnitojo, retrogrado, oscurantista.—Più chei teatri i libri osceni e le impudiche figure sparse a ribocco dapertutto incalzano al precipizio dei costumi, e perciò alla rovina nazionale. ne meriterebbero gli autori essere puniti come i vagabondi, secondoché si contentava Montaigne, ma d'essere trattati come gli avvelenatori: e le opere loro nefande dovrebbero brugiarsi in massa come si bugiarono nella piazza di Grève le avvelenatrici famose La Vigoureaux, la Voisin, ed altre scellerate di tal fatta. — Con qual coraggio può aversi la sfrontatezza di crederci in progresso, di vantarci civili, mentre pare interdetta del tutto resistenza virtuosa? — Ah che sarebbe d'uopo un'altra volta per noi un diluvio universale o a lavarci delle nostre brutture o a sommergerci colle nostre vergogne!

Gli effetti funesti dello sconvolgimento morale chiaramente si mostrano nelle statistiche penali. Da esse ritraesi che le prigioni sono stivate d’imputati che son giunti a 75 mila (819), costando di spesa 17 milioni (820);—che i luoghi di pena hanno racchiuso fin quindici mila condannati; — ch’è stato mostruoso l’aumento annuale dei delitti anco di quelli che una volta contavansi fra’ rari; e che non bastando le carceri se ne fabbricano tant'altre con premura, come ai tempi di Roma depravala, quando trovava ragione d’esclamare Giuvenale (821):

Felici i nostri arcavoli, felice

Il secolo dei re, quando bastava

Ai delitti di Roma un carcer solo!

Né tanta immoralità soverchiante è mai sperabile che possa riformarsi in un periodo breve. Conciossiaché diceva uno scrittore provetto (822): come il respirare continuo un’aria malsana e corrotta guasta la sanità meglio temperata, cosi l’intendere ogni giorno principii e massime erronee vizia a lungo andare anche i più sani intelletti. 11 miglioramento morale, la resipiscenza è frutto di generazioni, lavorio di perseveranza; i dissesti materiali trovano forse a raggiustarsi in un tempo più o meno discreto; ma ì danni morali, il pervertimento dello intelletto e del cuore sono mali che non si curano prestamente. Al distrarre è corto il travaglio, al riedificare fa mestieri dì tempo, d’intelligenza e di costanza, di virtù in somma che sieno grandi come le nostre sventure, in mezzo all indebolire del coraggio, allo abbassare di caratteri e allo scomparire dei grandi costumi!


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CAPO XXIX

Conquasso finanziero

Non meno affliggente del morale dissesto è l’economico conquasso. — Pria di tutto è al colmo la rovina finanziera. E quel ch'è peggio, il governo stesso ha esaltato e magnificato lo stato infelice a che trovasi ridotta la finanza. Anco gli onorevoli (823)in pubblica seduta (824)non hanno avuto difficoltà di dichiarare che a manca la fiducia, circola (sordamente la parola di fallimento, e quasi quasi si direbbe che «l’Italia rassomiglia ad una di quelle fabbriche, le quali per essere state innalzate troppo in fretta minacciano ruina.» — Ciò ch’è stato detto contro ogni regola di civil sapienza; imperciocché per vivere, ha saviamente scritto l'assennato Boiteau (825), un governo qualunque ha bisogno di far credere ch'egli possa vivere; e fa d’uopo pria di tutto ispirare questa confidenza a coloro che hanno interesse a conservare il credito dello stato.

Io non sono di coloro che credono vero ciò che diceva l'impetuoso Mirabeau, che allorché si sanno le quattro regole dell'aritmetica si sia un’aquila in finanze. Ma sono di coloro che credono alsì, che le finanze d’uno stato sembrano più difficili a conoscersi ed a studiarsi di quello ch'esse il fossero realmente. E trovo inconcepibile che mentre le finanze interessano tutte le parti della vita individuale e della vita pubblica (826); —mentre la più sicura difesa e il migliore di tutti gli eserciti stanno a dirittura nella buona finanza (827), ognuno si contenta che l'esame se ne riservi alla meditazione di pochi e non di tutti.—La maggioranza degli uomini si atterrisce delle cifre, perché (diceva il più grande naturalista che il mondo abbia veduto nascere dopo Aristotele (828)), le cifre stancano quando alcuna idea non vi si riattacca. I più si spaventano del lavoro positivo, e ignorano financo il componimento dello stato, e sconoscono i particolari pratici, indispensabili a ragionarne con fondamento e con possesso. Ordinariamente lungi dal sistemare si contende, lungi dallo assodare l'edificio finanziero se ne discute a riprese qualche punto, a seconda che consigliano l'interesse privato o quello della fazione, o il ghiribizzo, la vanità, l’impostura. Si è fatta, già s'intende, precisione assoluta degli uomini pratici, i quali avrebbero potuto dar lume meglio d’ogni libro; giacché coi loro discorsi avrebbero potuto far conoscere mille regole di tutto che non è possibile spiegarsi per iscritto. Non si sono posti per ordinario al timone che dottrinarii di professione a cominciare dal tanto celebrato (sallo Iddio perché, io non lo so) quondam conte Camillo sino al senatore Scialoja, celebre pel celeberrimo trattato di commercio da lui conchiuso con la Francia; anzi sino al prof. Ferrara, del quale nissun altro ha dato di sé spettacolo più umiliante... Fama e sapore d’uomini, dei quali nissun uomo di buon senso può sentire invidia per nulla;—come nissun uomo di buon senso invidierebbe la celebrità di Tyco-Brahé, non volendo al certo niuno per tutta la scienza di lui, un falso naso di cera o pur di argento com’esso l’aveva. Cosi non si è fatto che navigare fra due scogli: lo spogliamento e la bancarotta.—Si sono dissipati tesori nelle avventure d’una politica che non dipende da noi; e propagato il gusto delle spese di lusso, degli spettacoli, dei piaceri corruttori, dei talenti frivoli, delle ambizioni oziose, dei conviti, dei divertimenti nelle città principali, ove oramai accorrono quelle popolazioni dei campi, di cui l'agricoltura deplora amaramente la partenza. In somma hanno operato come quei medici a sistema, che non si danno per vinti, tuttoché si trovino delusi.—Pare impossibile, e intanto è ufficiale, che il governo in sei anni, dal 1861 al 1866, avesse speso cinque miliardi 491 milioni 358 mila 996 lire e 86 centesimi (829)! E poiché un deficit enorme schiaccia lo stato, tutti fanno progetti per estinguerlo, tutti propongono mezzi incoerenti per far sopperire il bilancio... Financo si sono messe in campo le più strane retrograde dottrine che tendono a far rivivere l'imposta progressiva;—imposta iniqua, la quale pretende che ogni uomo si arricchisse, ma che lo stato disponesse della ricchezza accumulata: — imposta che incontra nel suo cammino la libertà di cui è la negazione, — l'industria e il commercio di cui è la rovina, — il buon senso di cui rovescia i dati elementari(830). — Imposta che fu uno degli errori badiali di Giovan Bat. lista Say, propagatore in Francia della dottrina di Adamo Smith che fu il fondatore in economia della scuola inglese, basata sullo studio dei fatti, in opposto a quella che tennesi sulle astrazioni con Turgot, Condorcet e Saint-Simon. Scuola dal cui seno uscirono i dissidenti Sismondi, Rossi, Droz, Blanqui, Bastiat, Chevalier, Garnier, che ripudiando le dottrine inglesi fecero sorgere la dottrinaria scuota francese.—Giudizioso progetto in tanta farragine di sconnessioni potea stimarsi quello di Antonio Monghini (831), ma forse perché giudizioso non meritò considerazione.Ilsolo debito pubblico basterebbe ad atterrire chiunque; abbisognando un novello Atlante per sorreggere sulle sue spalle peso sì enorme. Non par vero, ed è un fatto incontrastato, che la quota del suo capitale nominale riferibile a ciascun siciliano, ch’era sotto la passata signoria L. 47,81 (832), oggi raggiunge l'enorme cifra di L. 240!... e voglia Dio che non s'accrescesse più oltre. — Peso di cui non c’è modo di liberarci, non essendo più il tempo deicolpi di stato si frequenti sotto la repubblica romana; coi quali in un giorno si cancellavano tutti i debiti. Non essendo manco probabile sotto un governo monarchico costituito che si facesse ciò che fece il Direttorio rivoluzionario di Francia, che cancellò senza stento una parte non piccola del debito pubblico. —Tutte le lucubrazioni degli onorevoli e delle eccellenze al più si sono ridotte a procurare apparenti economie. —Vero è che le riduzioni cosi dette di dettaglio sieno importanti, ma è necessità di qualche uomo che senza impazienze sapesse produrre ed eseguire con fermezza un piano in grande di tutti i miglioramenti, di tutte le innovazioni che la necessità reclama per la formazione e per la distribuzione degli s podi enti dello stato. Spedienti che non s’attingono con un diluvio d'imposte capricciose, nuovo in gran parte, e per la novità stessa peggio vessatorie anzi angari eh e; insoffribili in ispecie a noi Siciliani avvezzi a sopportare di mal genio in media una volta per imposto erariali e provinciali l’annua discreta gravezza di L. 18,25 (833), ora per le sole tasse erariali elevata bruscamente ad annue L. 42,04. — Essi s’attingono con la espertezza; imperocché le finanze a propriamente discorrerne non sono una scienza, ma un oggetto (scriveva Courcelle-Seneuil (834)) essentiellement pratique et d'application.

Quest'uomo forse suscilerassi quando il merito condurrà al credito e la giustizia rimpiazzerà l’arbitrio; quando in somma si sarà rientrali nella regione in cui non vi saranno passioni a soddisfare,. ma interessi a regolare. In atto però mentre siamo, alforlo della voragine che minaccia di inghiottirci, i dominatori del giorno dormono saporitamente i loro sonni, come dormono spensierate le popolazioni che abitano lo falde vulcaniche del Vesuvio e dell'Etna. ne alcuno pensa affatto alla riforma radicale di un bilancio che sorpassa gl’introiti duo deficit di 597 milioni all’anno (835), avendo proposto il ministro Scialoja d'un miliardo e cinquantun milioni di lire il bilancio del 1867 (836).

Molti credono che a cagion della rivolta, dei tumulti, della guerra, siasi creato un tanto dissesto finanziero: —no, esso è surto per la immoralità e la balordaggine insieme collegate. L'immoralità spudorata ha prodotto il contrabbando, il furto, l'appropriazione, la frode; — l’imbecillità hacreato la cattiva amministrazione, la quale ha tatto perdere irreparabilmente gran parte degl'introiti, e ne ha fatto dissipare in inconsiderate spese altra gran parte; non essendosi attinto pel loro vero rette l'incasso dei balzelli e delle imposte, ed essendosi sciupato per mal talento più del necessario (837). Amministrazione forsennata derivante da una ragion composta di cattivi amministratovi, di cattive leggi, di regolamenti cattivi, di cattivissima contabilità dello stato. Basta per tutta prova del caos e dell'assurdo finanzierò, che non sia stato possibile al nostro parlamento in sett'anni che passare di provvisorii in provvisorii; protraendo questo imperdonabile sistema per la intera serie degli anni che ormai sussiste il regno italiano; operando perciò a tentoni, facendo sperimenti, improvvisando tasse, votando leggi alla rinfusa.—E ciò senza che alcuno — proprio nissuno ne dei ministri, ne dei deputati, ne dei senatori, ne dei giornalisti avesse saputo render conto alla opinione del paese, dello effettivo stato di situazione del tesoro. —Senza che alcuno avesse saputo con chiarezza comprendere e con pari lucidezza manifestare la posizione delle cose di finanza. Tutti hanno ripetute cifre come altri loro le ha presentate... ripetendole se pur si voglia piangendo...

Ma col pianger non s’opra (838).

E s’oprasse pure, e sieno qualsivogliano i rimedii novelli, e si ritrovi anco con una bacchetta magica il ripiego specifico di creare o rinvenire tesori, questi saranno assorbiti dalle casse dell’erario, le quali si ritroveranno sempre vote come le botti celebri delle Danaidi. ne si pon mente al perché non s’empissero mai. E pur è manifesto che ciò succede non per mancanza di mezzi, ma per imbecillità di reggimento; non per fatalità di destino, ma per decreto della Provvidenza ossia per punizione della giustizia divina, la quale ha stabilito che i secoli più bramosi di materiali godimenti sieno pure i più fervidi in catastrofi, i più abbondanti in lagrime (839). — Posizione infelice di questo secolo d'indifferenza, di mollezza, d’irreligione universale, nel quale le consorterie si sono cambiate in nazioni, le pretensioni in virtù, le vanità in entusiasmo (840), che opprime a dismisura, — che non appresta ombra di speranza, e che ammiserendo tutti non arricchisco lo stato; anzi lo strascina ad un final travolgimento... Scopo forse premeditato delle sette, le quali mirando a diroccare ogni ordine, non fanno fondamento in altro che in quella maniera di tempestar la vita che vien lodata da Proudhon come la miglior forma di governo l’anarchia cosmopolita! Ciò a cui per altro accennò la comparsa del nuovo organo dell’opposizione radicale La riforma; — titolo improntato da quel giornale messo fuori nell’ultima epoca di Luigi Filippo La reforme; e che esordi allora annunciando ai suoi amici che «ses ressources étaient épuisées, et que la république était ajournée à la mort du roi Louis Philippe», morte che non s'ebbe la pazienza d'aspettare!


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CAPO XXX

Caos economico

Il dissesto non si è potuto limitare alla moralità e alle finanze; esso ha invaso interamente il corpo sociale. Dimanieraché la istruzione pubblica, i pubblici lavori, la sicurezza pubblica, ogni cosa si risente enormemente dello scadimento desolante in cui sono venule le belle contrade italiane, — invidiate altra volta, oggi derise.

Causa non ultima di pubblica sciagura è stata ed è senza meno la coscrizione esorbitante e tenace, la quale ha stornato dall'agricoltura innumerevoli braccia, per formare una formidabile coorte di parassiti forzati, i quali hanno divorato le immense ricchezze emunte al popolo scarno e ammiserito. Coorte che tornando mano a mano dai quartieri non ritorna spontanea alla vanga ed all’aratro, ma ricerca avidamente mezzi pronti, spediti, lucrosi,onde passar bene la vita senza molta fatica.

Non è a dire poi della istruzione pubblica, in cui dissennatamente si è fatto piombare un nembo di professori e d’aderenti, che come corvi affamati si sono avventali su cadavere putrefatto. Senza che altro spuntassero che opere miserande, e senza che si raccogliesse numero di volonterosi discenti, si sono profusi e si profondono enormi stipendi costituiti a capriccio, che formerebbero un insieme risibile, se non istrappasse le lagrime. In Palermo a mo’ d’esempio settantadue professori han dato lezione ad ottantacinque scolari percependo seicento mila lire (841)! — Insomma spariti gli studi speciali, ora sono in voga le superficialità e gli elementi generali. Epperò n’è derivata una istruzione enciclopedica che rende la gioventù presuntuosa, incredula, insubordinata, leggiera, che ignorando tutto, ignora financo che ignorasse ogni cosa. Nulla ostante le sfrenate menzogne degli adulatori di partito, che vorrebbero farci credere il contrario; perché la divina provvidenza ha tanta cura della verità che non ha permesso mai che gli scritti degli adulatori avessero lunga durata, et a fait que les livres des historiens véritables ont triomphé des siècles(842). — Il solo lusso grandeggia in ogni classe; e mentre democraticamente si disprezza, aristocraticamente si esercita, e vuoisi esercitare fino dalle classi più abbiette del consorzio sociale, la cui superbiosa vanità oramai tocca il ridicolo. Oggi gli artigiani sdegnano il titolo di maestri, gli artisti pretendono essere chiamati professori e fino i facchini tramutati in trasportatori si riuniscono in ufficine lussuose.— Intanto tutti esaltano i Bruti ed i Catoni, e credono seguirne le pedate; senza por mente che i Bruti ed i Catoni non fecero uso di calze, di camice o d'altra biancheria: essi non conobbero ne vetri, ne camini, ne carte, ne carrozze, ne pubblici alberghi, ne oriuoli. Dormivano su le foglie secche, mangiavano in vasi di legno o di terra, un lachezzo era il pane di segale, e non aveano altre case che capanne: — il lusso romano è coevo dell’epoca della più abbietta servitù—esso ha data dai tempi dell'impero. Fu allora che si vollero letti d'avorio e d’argento cesellato—coltrici di fina piuma—coperte di porpora—vasellamenti di metalli preziosi ornati di gemme. Fu allora che s’apprestarono cinghiali interi nelle mense ripieni di grù e di pavoni,—che si costruirono vivai d’ostriche e di murene — e che s’imbandirono pranzi che arrivarono a costare l’enorme cifra di cinquantamila dramme:—epoca di decadenza e di ruina...!

Quanto poi ai pubblici lavori noi non siamo certamente di coloro che ne vogliono a ribocco, e che ove non si potesse far altro farebbero ricominciare la costruzione delle piramidi come quelle di Egitto. Questa smania fatale, questo cancro del tempo presente è funesta necessità dello spirito socialistico cui la umanità è avviata. Ma in questa stessa frenesia non emuliamo alcerto anzi non sappiamo imitare nella nostra sterile ammirazione le tele, i marmi, gli edificii che resero in tempi più propizii ammiranda e celebrata la penisola nostra. — Una fatalità perniciosa fa profondere tesori per opere che rimangono in progetto, o che rimangono a mezzo, o che non corrispondono al fine, o che svelano immoralità colossali, che sarebbero incredibili se non fossero vere disavventuratamente.—Non parlo di noi poveri isolani, la cui terra fu chiamata all’inizio del rivolgimento terra di eroi, terra delle iniziative e delle barricate—e ora terra dei selvaggi e dei ribaldi, non governabile altrimenti che col boja e col capestro. Qui non v’ha che poche canne di banchina e pochi chilometri di illusoria strada ferrata... ma non un porto, non una strada, non un ponte, a meno che in carta e nel passivo dei bilanci.

Forma coronamento del dissesto generale l'insicurezza, — la instabilità,— lo storpiamento di tutte le pubbliche officine... Si crea e si abolisce;... si modifica... si riforma... si annulla;— ne si sa dare ragione del perché si fosse creato o del perché siasi distrutto. E in tal mezzo si gettano sul lastrico impiegati a migliaja, o si balzano come balle da un sito all'altro le tante leghe lontane, senza che si abbia riguardo a famiglie, ad età, a speciali circostanze, con un cinismo dispettoso cui non puossi che o sobbarcare colla rassegnazione o riluttare con la violenza.—Massima è la confusione generata da cosiffatto continuo lavorio di mutamenti, che facilita la corruzione e agevola l’enormezza dei furti e delle appropriazioni; — grande la vertigine prodotta da un arsenale di leggi, cui certo non si può assegnare un'origine celeste come a quelle dalla ninfa Egeria: dettate a Numa, o soltanto un'origine immaginaria come a quelle dell’Utopia di Tomaso Moro. Che maraviglia dunque se il commercio è distrutto,— se l’agiatezza è scomparsa, — se il brio è sparito,—se le città nostre sono ridotte poliandri(843)d'uomini semoventi, — se i municipii sono malandati e discordi, — se il malcontento è universale, —se la disperazione è al colmo,—se la ricchezza è svanita, e lungi di possedersi monete preziose, luridi insignificanti cenci sieno divenuti i rappresentanti delle nostre fortune, la espressione dei nostri valori, l’emblema della nostra opulenza?... Puossi con migliore fondamento applicare ai nostri uomini di stato il sarcasmo dagli Inglesi lanciato già al ministro Pitt «che avea trovata l'Inghilterra di oro e l'avea fatto di carta(844)!» Alle quali enormezze si sono congiunte per soprassello perquisizioni senza dritto, arresti senza causa, processi senza giudizio, carcerazioni senza termine, torture, sevizie, stati d’assedio, legge Pica e legge Crispi più feroci della legge del caso(845), le quali hanno prodotto un conquasso che non v’è mente d’uomo che possa raggiustare. E che spinge ad insaziabile vendetta, ove il dito dell’Onnipotente non sarà per deviare il corso del torbido torrente, e imponendo la calma dissiperà la tempesta. Altri legami sociali non vi sono che la paura ed il terrore; legami troppo deboli, diceva Tacito (846), perché se tu giungi appena a romperli che già t’odia chi cessa di temerli..— Anco tutti gli uomini, non importa in qual senso ed in quale misura, che presero parte alla rivolta del 1860, tutti oramai sono come annotati fra’ vinti. — Nissuno presagiva l’abisso nel quale siamo piombati; ché se presagito l’avesse, avrebbe alcerto per lo spavento indietreggiato; dappoiché

Checchéil tristo s’infinga, ogni mal fatto

E cruccia al malfattor (847).

Egli è che sempre si comincia dalle teorie, indi l'immaginazione presenta facile l’eseguimento:, messa mano all’opera si progredisce d’errori infalli, finché estirpando ogni sensibilità si finisce, scriveva il conte Lavallette (848), col decorare del nome di ragion di stato i più nefandi delitti. Vi sono certi tempi in cui la bestialità è una potenza—ha scritto il visconte di Chateaubriand nel Conservateur; e sono i tempi de' rivolgimenti politici, tempi tre volte bestiali, in cui trionfano colora

Che superbia condusse a bestial vita;

e nei quali si stampano le più sperticate asinerie, e i popoli diventano mandre di pecore, pecore matte. Almeno Simone Bolivar dipingendo la condizione miseranda della Colombia potè assicurare (e assicurollo vergognando) che «la indipendenza era il solo bene che si fosse acquistato a spese d’ogni altra cosa (849).» Ma noi né anco potremo dire altrettanto, perché rovinati in tutto, né anco acquistammo la desiderata indipendenza. Dimanieraché addolorato ebbe ebbe non è gran tempo ad esclamare uno dei liberaloni larghi in cintura (come lo chiamerebbe Carlo Botta) l’italianissimo Giorgio Pallavicino (850), che «il popolo italiano non è un popolo che si rigenera sorgendo a vita novella, ma un popolo putrefatto che scende nel sepolcro.»

Ricordo in proposito, che quando Giorgio conte di Macartney fu ambasciadore in Cina nel 1792, Enea Anderson scrisse nella relazione dell’ambasciata cui era addetto come segretario queste severe parole; «ecco in breve la storia nostra... entrammo in Pechino come mendicanti, vi dimoramma come prigionieri, ne uscimmo come ladri,» — Or se per un caso funesto uscissero dall’Italia gli uomini che ne occuparono le belle contrade, chi ne riassumesse la storia che cosa cambierebbe della relazione di Anderson facendola sua?—ei non muterebbe forse che una sola parola... la qualifica ove Anderson aveva scritto prigionieri!


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CAPO XXXI

Il centenario di S. Pietro

Lascio di compiere il miserando quadro delle nostre sciagure, che con tinte sbiadate appena ho disegnato; e volgo l'occhio allo spettacolo imponente che ha in questo periodo segnato nella storia in tre punti diversi tre scene sorprendenti, le quali si collegano fra loro in maravigliosa maniera:—un assassinio tremendo—una mostra portentosa — un trionfo colossale, che hanno in un tempo agitalo e commosso l’universo intero. E hanno dimostrato a tutti gli uomini attoniti e sbalorditi la scellerataggine delle rivolture, la futilità della politica mondana, l'onnipotenza divina del Cristianesimo.

L'America creduta il modello delle nazioni, il prototipo della libertà... l’America ha allibito il mondo per quel che ha oprato, onde abolir la schiavitù. — Pare impossibile che per questo principio giusto, per questo concetto umano, lungi dall’adibire mezzi civili, siasi scisso in due campi il Mondo nuovo; imprendendo una lunga guerra fratricida, nella quale si sono battuti i cittadini della stessa terra come sanguinarie pantere, come tigri affamate ne hanno altro attinto sino ad ora che di rendere violentemente schiavi i liberi, perchè questi rendessero liberi gli schiavi (851)!

Ingannato dalle apparenze, e supponendo clic gli stati del Sud si sarebbero ben consolidali, ne avvertendo che

Sempre il miglior non è il parer primiero (852),

tentò Napoleone III impiantare nel Messico un impero europeo da collegarsi con quelli: — stabilimento d’impero di cui gli Stati-Uniti temerono fin dal 1822 (853); e che sarebbe riuscito di utile immenso agl’interessi europei, e avrebbe fatto eccellere l’influenza francese. Avvolpinò quindi colle sue assicurazioni e coi suoi ajuti d'arme e di denaro lo sventurato principe tedesco Massimiliano, giovane di spiriti svegliati, di cuor generoso, amatore delle grandi cose, ma privo di quella esperienza necessaria a valutare le difficoltà dell’impresa che gli si proponeva. Costui adunque abbandonando la sua modesta dimora di Miramar avviossi al trono, e fu lieto di essere a tanta distanza salutato imperatore il 12 giugno del 1864 in mezzo al tripudio delle Odalische e delle Messicane danzanti col sigaro in bocca. Ma le vicende dei combattimenti avendo rialzalo le forze degli Stati Uniti, furono costrette le truppe francesi ad abbandonare l'impresa e partirsi, dopo più anni d’occupazione e la spesa di novecento milioni, per evitare d’esserne cacciali colla punta delle bajonette: — ciò che molti dissero viltà, taluni stimarono prudenza. Consigliatasi a Massimiliano l'abdicazione ed il ritorno, la moglie corse delirante a Roma ed a Parigi in cerca di soccorsi; e non ottenendo che consigli, commiserazione e rimproveri, divenne demente. Il marito ostinatosi alla lotta, diventò il soggetto d'uno dei drammi più dolorosi di questo secolo fecondo in infortunii reali (854), e che stupi come un prodigio di nequizia

in questa

Istessa etade a tanti mostri avvezza

avrebbe detto Giuvenale (855). — Vinto, tradito, imprigionato, dopo sommario giudizio ei cadde traforato dalle palle (856), come il suo predecessore Iturbide. — Spettacolo abominevole e vigliacco, che fece orrore veder giustificato dalle penne rivoltose, come era stato giustificato vergognosamente in Cristina di Svezia da Leibnitz l’assassinio del Monaldeschi. Questo truce disprezzo con che l’America ferma nella dottrina di Monroe, l’Amerique aux Americains, volle trattar gli Europei, fu guanto di disfida che il nuovo Continente buttò in faccia al Continente vecchio, confermato con audacia aperta dalla dichiarazione di Escobedo, in cui costui indi all’assassinio consumato disse sperare, che prima che la sua carriera militare si chiudesse, avrebbe speranza vedere spargere il sangue d’ogni forestiere che risedesse nel paese suo. Guanto che senza titubanza e salva la politica degli stati rispettivi avrebbe dovuto raccogliersi immantinente; mettendosi in arme, ad umiliare l’orgoglio di quei cannibali, flotta poderosa. Non già come quella speditavi altra volta da Ferdinando VII, che guidata dal generale Barrados fu dispersa nella spiaggia di Tampico dai generali messicani S. Anna e Terau; ma come quella che ad abbattere l’albagia turchesca rese celebre in altri tempi la gigantesca battaglia di Lepanto. Sopra ogn'altro la Francia ne avrebbe avuto il dovere; perchè fu alla Francia che gli Stati-Uniti risposero: «noi non riconosceremo giammai Massimiliano; per noi egli è uno straniero, non v'è per noi di legittimo al Messico che il governo repubblicano col presidente Juarez».—E forse la Francia sola sarebbe bastata, perchè dalle armale francesi è da sperare sempre prodigii di valore. Infatti nel 1838 un piccolo navilio condotto dall’ammiraglio Baudin e dal principe di Joinville smantellò in poche ore il castello di san Giovanni d’Ulna e s'impadronì di Vera-Cruz.—Gl’Inglesi che ne avversarono il concetto saranno forse i primi a pentirsene, perchè essi non terranno a lungo il Canada, — vecchia colonia francese che forma dal 1759 uno de' possedimenti più ricchi della brittannica potenza.

Napoleone credè meglio che vendicare l’onore nazionale distrarrele fantasie europee attirando nella sua reggia i rappresentanti della forza, col pretesto di far loro ammirare in un sol sito raccolti i prodigi dell’industria mondiale; e così stringere la mano a tutti quei reggitori di popoli che speravano o temevano di lui. Ma costoro non volendo con esso dividere ne gli allori della pace, ne i trionfi della guerra, gli apparvero innanzi come fuggitivi che non lasciarono tracce durevoli della loro presenza, se si eccettua lo czare che non dimenticherà mai l'assassinamento a suo danno tentato. Dimanierachè tanta agitazione, tanto mareggio sparve come nebbia al sole, come colpo di scena, come spettacolo teatrale. ne poteva diversamente avvenire; giacché è un bel leggere nelle gazzette, diceva una volta l’illustre Foderé (857), che tutto è prospero, sentire la pomposa descrizione del lusso delle capitali e della esposizione dei prodotti delle arti e delle industrie. É massima vecchia fare esprimere il contento dei popoli col riflesso delle grida di gioja che partono dalla bocca dei felici del centro! Ma con ciò ad altro non si mira che a distrarre dalla realità dei mali che s'accavallano gli uni su gli altri a pro d’alcuni individui, i quali con isfacciataggine ne raccolgono i colpevoli fruiti.

In cotanto tramestio universale ciò che scoteva radicalmente le libbre di tutti, ciò che metteva in pensiero gli uomini degni colore, era il trionfo del papato verso cui, scriveva sin dal 1843 Amand Saintes (858), l'intera Europa cammina a gran passi; facendosi beffe dei ridicoli consigli con cui sin dal 1672 il celeberrimo Milton (859) ne avrebbe voluto arrestato il progresso. — Trionfo ricavato colla festa di s. Pietro, col centenario del vicario di quel Cristo ch'è il figliuolo di Dio, figliuolo vero e non figliuolo adottivo, come spacciò una volta l’eretico Nestorio. Ben poteva sciamarsi con s. Paolino (860):

O multis divina modis sapientia dives
Semper ab infirmis confundens fortia mundi!

Un vecchio inerme che aveva accettato la missione di papa riformatore, ma che respinse quella di papa rivoluzionario — Pio IX ha risposto coll’incrollabile non possumus alla rinuncia del potere temporale, la quale avrebbe fatto sacrificare all*unità italiana la costituzione e la storia della cattolica chiesa. Potere temporale che Napoleone I riconobbe come l'opera fatta dai secoli e falla bene, come la istituzione più vantaggiosa che immaginare si possa, allor quando nelle sventure ebbe ricattato quel senno che nella prosperità avea perduto (861); condannando in somma quello strano decreto da lui fatto il 17 maggio 1809 dal campo imperiale di Vienna, con cui si erano riuniti gli stati del papa allo impero francese.— Pio IX chiamò a raccolta i pastori della Chiesa — ne per altro motivo se non che per attingere arcana forza e virtù salutare col prostrarsi dimessi sulla tomba di colui che per diciotto secoli è stato riconosciuto e venerato dopo Cristo come il primo CAPO visibile della società cristiana. Primato di cui se n’ha l’indizio scritto nel secolo primo (862) — si trova bea espresso nei pochissimi scrittori del secolo secondo (863) — si manifesta apertissimo nel terzo — nel quarto si dimostra in diversi concilii, particolarmente in quello di Sardica (864) — nel quinto finalmente riconfermato dal concilio ecumenico di Efeso (865), e in quello di Calcedonia (866) verso la metà del secolo, ai tempi cioè di s. Leone magno ottenne universale, incontrastata, dogmatica ricognizione e pieno sviluppo; per come costituito avevalo in modo esplicito il Verbo-umanato. E i vescovi concordi e compatti non altro desiderio espressero se non che la voce del sommo gerarca riconducesse nel buon sentiero gli erranti. — Sicché stupefatti i dissidenti riferivano sorpresi tanta grandezza del papato... e dei rivoltosi italiani molti tentennarono e da Roma ritornarono commossi e piangenti. Imperocché, come osservava Luigi Stefano, un italiano ha bel fare, egli non può sposare i pregiudizii del protestantesimo; e se si avventa stoltamente al papa, è perchè l infernale Machiavelli ha fallo credere che la disunione e la debolezza d’Italia promanino da quel sacro invulnerabile potere; e l’ha fatto credere perfino ad alcuni che torcono il collo, che frequentano le chiese, e che sacramentano di essere cattolici quanto s. Pietro.

La sorpresa s'accrebbe colle parole del papa (867).— Maravigliarono tutti quand'egli lungi dal far cessare il culto in Italia, dal chiudere le porle dei templi, dal mettere le chiese in interdetto, dall'ordinare ai sacerdoti di non amministrar più i sacramenti, manifestò che quello imponente concorso serviva per comprimere l'audacia degli empii, per dimostrare quale vita viva s'avesse la chiesa, e quanto male applaudissero gli oppugnatori al proprio imbecille baccano. — Le quali parole furono accolte con grida entusiastiche dalla cristianità accorsa da tutti i punti del globo ad inneggiare nei suoi 860 idiomi quanti sono gl’idiomi che parlansi su tutta la terra, anzi forse in tutti i cinquemila dialetti, il padre dei fedeli; — cui non parole soltanto, ma doni immensi recarono e larghe oblazioni.

Stupefatti i radicali si guardarono arcignamente in viso e si morsero le labbra per tanto miracolo di unione e di fede, che reputarono preludio fatale, folgore scoppiala a ciel sereno. Onde statuirono di fare ogn’opera per ischiantare l'albero annoso e per sommergere la navicella combattuta. Perchè il sistema degl'interessi rivoluzionarti è incompatibile colla religione; e i radicali non vi si riconcilieranno giammai (868)... Nani miserandi!—essi ignorano (sentenziava De Chateaubriand (869)) che la ingiustizia non regna che un momento, e che solo la saggezza conta dogli avoli e lascia una posterità!


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CAPO XXXII

Tentativo di Roma

Era in villa, ho raccontato più sopra, quando la Commessione d'inchiesta mi volle interpellare;—ed ivi, conoscendo pur troppo la qualità dei tempi, avea stimato saggezza il non far nulla, il vivere perfettamente ritirato e campestre, ammaestrato di quello (racconta Tacito (870)) che avesse fatto Agricola all'epoca di Nerone «gnarus sub Nerone temporwn, quibus inertia pro sapientia fuit. — Pregando il cielo a darmi in corpo sano mente più sana, ch’ira non senta ne sfrenato desire (871), commiserava l’umanità sventurata spinta al precipizio da idrofobi, da energumeni, i quali predicando che ogni ritegno è una catena da spezzare, ogni vincolo un giogo da scuotere, perseguitano la religione cattolica, la sola, diceva Napoleone I (872), che mette l'ordine dappertutto e che fortifica il potere maravigliosamente; imponendo a ciascuno il debito suo. — Infatti vizialo, distrutto o sconosciuto il principio morale, — messa da banda la redenzione e la croce, non v'è più paco in questa terra; perchè l'uomo, tuttoché fornito d'intelletto, diventa peggiore dei bruti più feroci; dappoiché se la ragione sola bastasse, la ignoranza, la corruzione, le passioni sarebbero un nulla.

Ora tuttoché una vita regolare e anche un po’ troppo monotona fait passar lcs temps, osservava mad. de Staél (873), sans qu'on s'en aperςoive, pure la distrazione è necessaria com’essa stessa soggiunge (874): «c’est une misérable condition de la nature humaine que cette necessità de se distraire! Prima quindi d'abbandonare gli ozii della campagna trovai piacevole distrazione ed istruttiva far visitare dalla mia diletta famigliuola il maestoso monastero di s. Martino delle scale, ove un istinto potente in gioventù m'avea chiamato sempre con ardenza e fatto trattenere con diletto.—Nel riammirarne la sontuosità e l’eleganza, nel rivederne i cospicui marmi e le tele preziose, nel deliziarmi fra le maraviglie ivi raccolte e fra la immensa copia dei libri e manuscritti singolari (875), mi fece tanta pena vederlo ridotto in quel misero stato d'abbandono che non potei tenermi dal piangere. Pareami veder dovunque in quelle soglie stampate le venerande vestigia di tanti monaci filoponi che ne avevano onorato una volta la dimora, e le cui opere sono patrimonio della nostra intellettuale grandezza. —Al vivo, al vivo mi parea vedermi fra lai Ire da presso l’ombra desolala di quel portento di patria eruditone che fu Giovanni Evangelista Di Blasi, ristoratore e promotore delle nostre lettere, il cui nome sarà sempre con plauso ripetuto, finché la storia non sarà distrutta, finché le nostre memorie non saranno travolte nell’obblio, finché si parlerà di quegli splendidi fatti di cui esse son piene. E quasi meccanicamente, pria d'abbandonare quello incantevole luogo, di cui rividi ogni menoma parte, m’avviai all'antica monastica sepoltura, che trovai trascurata, anzi scomposta. Chiesto chi fossero i racchiusi in quelle poche casse ivi senz'ordine allogate, mi s’indicò come in una delle più sdrucite e scoperchiate stessero i resti mortali dell’accurato e diligente Di Blasi, che alto e grande della persona vi pareva a forza conficcato!... — Sorpreso di tanta ingratitudine proruppi in parole di sdegno, sciamai con Giuvenale (876)

... è seco! Guasto

Di quel del ferro assai peggior...

ed esternai smisuratamente sensi di dispetto contro i passali ed i presenti reggitori di quel sontuoso edificio, al cui decoro aveva dedicato Di Blasi tutto se stesso. — Mentre la vanità (non l’amor patrio) diceva fra me stesso ha procurato di riunire le salme di tanti illustri, confusi insieme con molti vigliacchi, e con diversi criminosi che han dovuto solo ai delitti

Orti, ville, palagi e gemme e mense

E lavorati argenti (877);

—mentre con gusto ridicolo vi si sono stemperate inconcludenti frasi, e prosaiche poesie da scrittoruzzi vanitosi, imitatori di quel Roberti che fu troppo poeta quando scrisse in prosa, ma che non fu tal poeta da fare buoni versi, il cadavere di quel Di Blasi che fu l’ornamento di Palermo, che giovò tanto alla cultura tutta della Sicilia, con patria vergogna giace insepolto, inonorato, fra le ragnatele e la tignuola! Eppure egli fu tal uomo che il sommo Scinà con tutto il rigor di sua critica ha dichiarato che ancora non è stato supplito!— «Piacesse a Dio, ha egli infatti esclamato (878), piacesse a Dio che anche in questi tempi a mantenere l’onore della nostra letteratura presso gli stranieri abbondassero tra noi dei Di Blasi!»

Ritornato in città una oppressione generale estendevasi su tutti i cittadini, perchè un’altra volta il colera, dopo d’avere infierito in Caltanissetta, dopo d'essersi propagato in questo ed in quel luogo si diffondeva per la nostra capitale, e colmandola del solito spavento, ingombratala del solito squallore, facendovi innumerevoli vittime. E fra queste quel tal Pietro Oliveri che si faceva dir degli Acquaviva, il quale già libero dopo avere espiato la pena del carcere, ricominciava a spargere il puzzo dei suoi scritti funesti, tendenti ad infamare questo e quell'altro, con un miserando libello che intitolava Roma e la reazione (879), del quale non mise in luce che solo sedici pagine, che seppellirle lasciasi all’obblio. Esso dovea servir di seguito e di corona ad un antecedente scrittaccio intitolato I misteri di Roma, che fu detto (880) avesse egli scritto nel 1865 per cura e a spese del duca di Popoli.

Né Sicilia sola stava allora sotto la sferza della pestilenza fonda, ma Italia quasi intera e gran parte d'Europa, in cui oltre alle tribolazioni del colera le genti che ormai più non s’affidavano a calma passeggera, a fallace sereno, paventavano le discordie franco-prussiane eccitate dalla quistione del Lussemburgo. E più che queste temeano i moti insurrezionali, che serpeggiarsi vedevano d’ogni banda nella penisola, collo scopo perverso di rovesciare l’ordine di Roma per farvi man bassa, e rimpiantarvi a reggimento popolare la sede del governo rivoluzionario. Ciò che ogn’italiano di buon senso — e più — di buona fede riputerà funestissima sciagura, «se il ragionare a sproposito non sia uno di quei titoli, scrivea Gioberti (881), per cui l’Italia odierna va innanzi a tutte l’altre nazioni.»

Garibaldi, il quale, come fu detto del cardinal di Richelieu (882), famam magnam ex-magnis conatibus, non bonam ex bonis consiliis habere studuit; ideo in infamiam incidit,Garibaldi intesosi con Rattazzi affrettossi di compiere il desiderato conquisto, avendo in pronto quanto abbisognava per ottenerlo. Ei proferiva di nuovo con enfasi le solite parole magiche, ch’erano l'esca, l'allettamento ingannevolecol quale seducesi il volgo;—volgo che, scrivea Tacilo (883) enumerando i tempi di Vitellio, non prendendosi pensiero di nulla e insciente del falso e del vero, educato alla scuola delle solite adulazioni applaudisce sempre con grida e con parole.

Prologo della guerra, o meglio dell'invasione guerresca dei rimanenti stati della Chiesa, stimossi dover essere la proclamazione della pace, perchè ogni rivoluzione cantava Ariosto:

Comincia volpe, ed indi a forze aperte

Esce lion, poiché ha il popolo sedotto

Con licenze, con doni e con offerte.

Garibaldi avocolato di boria pei titoli fastosi che gli si erano in tanti anni profusi, appellandolo divino (884), taumaturgo (885), arcangelo di guerra (886), angelo di divina giustizia (887), simbolo vivente del volo dell’intera nazione italiana (888), rappresentante naturale della nostra democrazia (889), Cristo dell'epoca nostra (890), Salvatore e Dio (891), anzi divinità della terra (892), recossi a Ginevra che a quei di rubolava come il mare. Com’ei comparve nel Congresso della pace lutti rizzarono gli orecchi, e fecesi ad un tratto un silenzio universale, come quando sopra un'uccellaja (mi servo delle parole dell’elegantissimo Gozzi (893)) passa nibbio o altro uccello di rapina, che tutti gli uccelletti di richiamo, i quali prima cantavano, tacciono subito ad un punto. Ma appena proruppe in insulti grossolani contro la cattolica dottrina, i ministri del culto ed il papa, lungi dal provocare applausi n'ebbe onte, vitupero e villanie: le popolazioni d’ogni setta insorgendo contro di lui lo costrinsero a fuggirsene precipitosamente di notte. — Se però mancogli l’effetto non ismesse il disegno concertato e conchiuso cogli uomini ch'erano al potere. Ed ecco sparso il trambusto, eccitata la rivolta, intromessi gli assalitori, propagata la congiura, spinta innanzi l'impresa, ingaggiata la zuffa, assicurata in cuor la riuscita. Sacramentavano i mestatori che non desisterebbero affatto dal progettato sterminio di Roma, e sacramentavano non già per la divinità e per gli altari come hanno giurato tutti i popoli civili (894); ma giuravano per Satana coll'innalzare da disperati le mani a modo dei pagani (895). Pertanto gli ostacoli questa volta furono insuperabili—le speranze fallaci…

Stolte chi tenta coll’immobil fato

Cozzar della gran Rema, onde ne porta

Rotte le tempia e il fianco insanguinato (896)!

I soldati del papa risoluti a non indietreggiare, diretti da guerrieri filomaci destri e valorosi, si batterono risolutamente. Le popolazioni romane non adescate dalle lusinghe rifuggirono dalla rivolta, anzi si opposero alla stessa, memori forse fra l'altro degl'immensi danni cagionati a Roma nel 1849 dalla repubblica di Giuseppe Mazzini (897). Per compimento di cose il sire di Francia spinto energicamente dal popolo francese, il quale, ha detto con finezza di spirito Gervinus (898), non sa affatto ciò che vuole, ma sa molto bene quello che non vuole — (ed esso non vuole la distruzione del papato)—mandò in tempo valevoli soccorsi a coadjuvare i soldati del papa, che scarsi in numero tuttoché sovrabbondanti d'energia e di disciplina, passando di vittoria in vittoria pure abbisognavano di pronti rinforzi. — Rinforzi che la Spagna, cattolica sempre dalla capanna al trono (899), ardeva di scagliare a difesa del padre dei fedeli—e che dové condiscendere che fossero apprestati da altri. Sicché sbaragliate le masse rivoltose, messo in fuga precipitosa Garibaldi che abbandonò nel forte del pericolo i suoi, che aveano lui per Dio e per vangelo i suoi strani pistolotti; distrutti gli audaci al piglio sinistro, al guardo truculento di cui aveva fatto stormo e che non vollero cedere o ritirarsi, n’ebbe smacco, seicento morti, gran numero di feriti e 1600 cattivi;—ed egli eroe dei due mondi dové sobbarcarsi all’onta d’apparir carcerato e di figurar da prigioniero, car il n'est si beau jour qui n’amène sa nuit, leggesi nell’epitaffio di Orbesan (900)!—Nelqual mentre ordinato dalla Francia lo sgombro delle truppe italiane da quei punti dello stato pontificio che avevano occupalo, i soldati del papa che non aveano avuto altre perdite che 32 morti e 139 feriti, fra le acclamazioni e gli applausi, rientrarono festosi il 5 di novembre nella città dei sette colli, al grido incessante di viva Pio IX papa-re.

Indegnato il pontefice degli sleali procedimenti aveva rifiutato ricisamente una concordia qualunque, tuttoché supplicato di cedere alla tempesta. Imperocché, secondo Cicerone (901) «hoc primum videndum est cum omnibus ne pax esse possit, an sii aliquod bellum inexpiabile, in quo pactio pacis lex sit servitutis.—E con severe parole credè momento convenientemente opportuno di sopprimere in Sicilia il privilegio dell'apostolica legazia (902). —Determinazione che fu magnificata dalia stampa cattolica (903), la quale tacque però che la spinta alla soppressione era più che altro provenuta dallo sconnesso codice ecclesiastico siculo di A. Gallo, dai poetici Studi sulla legazia apostolica di Sicilia dell'abate Crisafulli, e dalle condannevolissime aberrazioni del canonico Rinaldi.

Il governo italiano però insistendo nel dispetto e ricalcitrando si rise delle censure, dichiarò vigente il diritto, colpevoli i dubitanti, punibili i rassegnati, e ne volle con pompa esercitate le apparenze dal generale Medici, cui delegò all'uopo, confermando il giudice Rinaldi. E a maggior onta fece intervento officioso in Palermo nelle solenni esequie di Raffaele Di Benedetto, uno di quei ch'erano rimasti vittima del rivoltoso tentativo, il quale avea prodotto la vittoria di Mentana, che era stata pagina di guerresca gloria pel tenente colonnello De Charette, sopra ogn’altro.

Per tal modo il governo italiano attirossi dileggiamento e vergogna, essendo stato proclamato sleale ed imbecille da’ suoi più sfegatati partigiani. — «Era impossibile, arrivarono a scrivere i moderati, i governativi nella Nuova antologia di Firenze (904), commettere più errori di quelli che si sono commessi da noi. Noi abbiamo mandato bande e non dovevamo; queste, contro ogni aspettazione, sono state vinte in luogo di vincere; le popolazioni pontificie hanno corrisposto poco o non a tempo; nell’interno del regno l'eccitazione è stata scarsa; misere le soscrizioni di denaro; non numerose né scelte quelle dei volontarii; il governo impotente, incerto, i partili discordi, il tesoro esaurito. C’era egli modo di mostrare meglio di così una nazione disadatta a raggiungere una meta in cui anela d'arrivare?» —Alle quali solenni confessioni è superfluo qualunque comento, è inutile qualunque aggiunta. — I perdenti hanno allegato il loro vitupero; anzi esagerandolo hanno soggiunto poco di poi (905) «noi abbiamo causato quella che il Guicciardini chiama nelle cose degli stati somma infamia, la imprudenza accompagnata dal danno.» —E i rompicolli alla loro volta fra la disperazione e la minaccia apostrofarono che «di vergogna in vergogna siamo venuti a questo abisso che si chiama prepotenza straniera e viltà governativa (906); imponendo intanto come protesta a molte città italiane di prendere il lutto, profetando con boria che indi a poco avrebbero celebrato le feste del trionfo, ed. ottenuto la vendetta.—Ahi povera Italia di dolore ostello, meritavi tu tante sventure funestamente famose?.. Ah! si, diceva Oswald a Corinna (907), ah si «io sono severo per le nazioni; esse credo sempre che meritano la loro sorte qualunque si fosse». — Se l’Italia meritasse la sua cel dirà la storia imparziale, ch'è scrutatrice severa del vero e inesorabile nelle sue sentenze.


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CAPO XXXIII

Giammai

I moli sconsigliali per prendere d'assalto il territorio romano, se fossero riusciti colla vittoria dei Garibaldeschi, avrebbero fatto inorridire l’Europa:—cosi ha dichiarato al mondo il generale Lamarmora (908). Essi avrebbero ridotto senza meno il papa tronco vivente senza braccia e senza gambe come Baldovino I (909), e Roma sarebbe stata desolata non che da multe, da taglie, da confische, alla maniera del famigerato assassino Robin-Hood che spogliava i ricchi per dare ai bisognosi; ma da vero saccheggio classico all’antica, saccheggio simile se non peggiore di quello del 1527 descritto da Giacomo Bonaparte e tradotto dal fratello di Napoleone III, Luigi Bonaparte primo figlio della duchessa di Saint Leu, il quale perì indi all’insurrezione delle Romagne per le quali parteggiava.—(Conciossiaché dopo avere perduto i loro troni, i membri della famiglia Bonaparte naturalmente si videro ricondotti alla origine loro rivoltosa (910)). Dopo di che si sarebbe inneggiato al fatto compiuto, — teoria antica presso i masnadieri, i corsari ed i Beduini; ora al servizio della moderna civiltà. Fu perciò che lai moti attirarono altra volta in Italia l’intervento straniero, incondizionato e solenne; a dippiù la manifestazione esplicita della Francia e del suo governo imperiale che Roma non si sarebbe ceduta jamais; —

Roma

Fu stabilita per lo loco santo

U' siede il successor del maggior Piero (911);

e perciò Roma non sarebbe per essere mai capitale d'Italia, ma capitale del mondo, centro del Cristianesimo, città del Papa.—Questo jamais del secondo impero decise per la seconda volta la sorte dell'Europa e della religione; che la prima volta era stato deciso nei famosi campi di Lipsia il i 8 ottobre 1813 in quella battaglia campale perduta da Napoleone I, a malgrado dei suoi sforzi.—I Francesi, aveva ben detto una volta il conte Lavallelte (912), che hanno lo spirito si pronto non sanno comprendere la realtà delle cose se non dopo passata la prima impressione, ne rientrano sul buon sentiero che dopo molte stravaganze. — Cosi avvenne in questa congiuntura, in cui furono considerevoli le manifestazioni, ossia le ritrattazioni alla, tribuna del ministro Moustier, e del ministro Rohuer, come aspre ed incisive quelle da Thiers pronunziate alla tribuna il 4 di dicembre, ove quest’illustre statista spingendo con fuoco il suo attacco contro del governo italiano e a favore di Roma papale, ossia del papa-re, si slanciòfinanco a pronosticare la caduta dell’unità italiana. ne dubitò d'assicurare che la Sicilia era staccata dal governo—Napoli pronta ad insorgere, e che Milano fremesse — e Torino si mostrasse decisa a rompere quel legame che aveva dapprima a forza e furia tessuto... Parole razzenti che eccitarono l'allarme presso il governo italiano, il quale abbacinalo credè — o volle anco far credere per far paura ai sinistri, e al Cesare di Francia, che fosse gigante la reazione, imminente la sommossa, strapotenti i clericali (i quali mentre erano vittime della rivoluzione furono chiamati ribelli e cospiratori), e oltremodo in credito la fazione dei legittimisti, ne più trattabile colla sola amarezza del ridicolo insegnala da Filippo Francis sin dal 1818 nelle sue Questioni storiche. Perciò ricominciossi vigorosa la repressione; e i promotori dell'abolizione della pena capitale bruteggiando si misero a gridar morte contro di loro, morte, tormenti o per lo meno esilio e prigionia in massa; ripetendo fra un diluvio di spropositi e un immenso cumulo di asinerie, l’infame detto che aveva pronunziato il volpino Talleyrand quando arrestato dal primo Bonaparte l’infelice duca d'Enghien fu fatto orrendamente assassinare, che «si la justice (la giustizia!) oblige de punir rigoureusement, la politique exige de punir sans exception. L'ira si fe’ maggiore a causa di un opuscolo del marchese Pietro Ulloa (913), uomo che ormai è risaputo (914) che fosse la espressione del programma costituzionale di re FrancescoII. Il quale opuscolo che consiglia la divisione degli stati, che in generale, diceva madama de Staël (915), è molto favorevole à la liberté et au bonheur, serpeggiava lodato a cielo da tutti i giornali d’opinioni avverse all'attuale stato di cose, come era successo con un suo scritto precedente (916). E serpeggiava di nascosto in quello stato di miseria generale nel quale il popolo era non che mal vestito, male alloggiato e mal nutrito, perchè

...un abituro angusto

È caro, è cara una mendica cena

Caro il vestir, cari gli arredi... (917),

ma proprio proprio affamato come lo descrisse in altri tempi Lucilio: — nec plebs pane potitur! — In esso scritto si careggiava l’autonomia, parola elettrica pei Siciliani, alla quale financo gli ultra-liberali stranieri (918) aveano fatto plauso, assicurando che alla Sicilia avrebbe dovuto accordarsi la représentation séparée qui ètait un ancien droit; — alla Sicilia ch’è memore sempre che ai suoi re esclusivamente spettava consacrarsi col sacro crisma al paro dei re di Gerusalemme, di Francia e d'Inghilterra (919); alla Sicilia che rimprovererà senza posa all'Inghilterra il suo sleale abbandono colle stesse parole dette al 1821 da sir James Mackintogh cioè: «she could not abandon these same engagement without perfidy and dishonour» (920).

Sorgeva impertanto fra quei tempi burrascosi in Firenze un giornale di letteratura orientale,—giornale che più d’ogn’altro periodico letterario avrebbe avuto bisogno di tempi pacifici, e che non potendo mettere radici profonde ben presto s’estinse. Esso sorgeva sotto il titolo di Rivista orientale per cura del professore Angelo De Gubernatis; ed io che non ho perduto del tutto l'amore agli studii arabici ne percorsi varie dispense. E nel fascetto 7° m’imbattei in una memoria del professore Michele Amari, nella quale ragionando costui a dilungo di certe arabe impalpabili monetine d'argento, le diceva ignorate da tutti gli orientalisti, importanti e degne di studio e di meditazione per la loro picciolezza; aggiungendo con troppa precipitanza che ognun vedea che appartenessero al 3° e al 4° califfo fatimida. — Non seppi persuadermi come Amari che aveva percorso il mio catalogo, lodatolo e trovatolo accurato e citato più volte, e che diceva occuparsi della stampa del terzo volume della sua Storia dei Musulmani di Sicilia, nel quale promettea di discorrere delle monete, avesse potuto dar come nuovo ciò ch’era vecchissimo, e attribuire ad un’ epoca ciòch’era di un'altra. M'indussi quindi a dirigerne un mio reclamo allo stesso. De Gubernatis, nel quale gli manifestai che trovava necessario perl’onor della Sicilia in fatto di studi orientali, per l'onor della biblioteca comunale di Palermo ch’era fornita di quelle monetine, ricordare ch'esse erano state da me pubblicato sin dal 1845, e che appartenevano non al 3°, non al 4°, ma sicuramente al sesto califfo fatimida.

La mia lettera vide la luce nella dispensa nona della stessa Rivista col consenso espresso di Amari, che non potè ricusarsi d'accogliere e l’una e l’altra avvertenza.

Ricordo questo aneddoto perchè inizio di quella polemica che in seguito ingrossossi fra me e lo Amari, avversatore sistematico delle cose mie. — Basti il già dotto per ora intorno a questa digression che mi riguarda: — il resto appresso.

Gli avvenimenti succeduti,—la condotta non giustificabile del ministero Rattazzi, il quale potea dirsi con Giuvenale (921) che avesse

Ingeniumvelox, audacia perdita, sermo

Promptus

produssero immediata la sua caduta, e obbligarono alla rielezione della Camera; ed eccoci ingolfali in un mare tempestoso.— I cattolici prima spinti all’urna, poi ne furono risospinti (922), e tra' moderati che sgovernavano, i democratici che cospiravano, i cattolici che sostenevano, fu miracolo che lo stato sussistesse e si mantenesse in piedi. — Spacciavansi inoltre come prossimi i tumulti più tremendi — come imminente la guerra più complicata. Più che delle altre provincie si avea spavento delle provincie meridionali ove si dubitava d’un’istantanea levata di scudi, epperò si progettava di metterle sotto governo militare, o per lo meno sotto un energico braccio civile. Infine si conchiuse mandando prefetto a-Napoli il marchese Rudini, che vi fu accolto con dispetto (923), ed in Palermo il cav. Guicciardi, il quale come se fosse stato Vercingetorice corpore, armis spirituque terribilis, nomine etiam quasi ad terrorem composito (924), appena qui giunto doveva spargervi il terrore, spaventando se non con fatti, con parole, i supposti avversarli politici che erano in odio perenne ai consortieri, sul cui drappello sta perennemente scritto: qui nous attaque attaque le gouverment (925).

Amarezze private e familiari aveano turbato in quei mesi ed altamente turbavano il mio spirito per lo stato morboso del mio ultimo figliuolo, che sempre crescendo mi facea quinc'innanzi palpitare in modo terribile ed angoscioso. Egli è vero che non solo bisogna gradire che Dio ci flagelli, ma ancora che ci flagelli dove a lui piace secondo la massima del gran Francesco di Sales. Però è vero del pari che mentre la nostra religione santissima a vece di soffocare i legittimi affetti li purifica e ne raddoppia l’energia, riesce difficile nei momenti tempestosi conoscere il proprio dovere. La mia debolezza non sapeva rassegnarsi e rimanere in calma come i pesci in mezzo ai flutti e alle tempeste; molto meno la madre, perchè ell’era madre, «e se v'ha sulla terra alcun che d’ineffabile, dicea l’egregio Bougaud (926), queste il grido del dolore materno!»—Eppure spregevoli cagnotti denunziavano fino i miei sospiri, mettevano in iscrutinio gli stessi acerbi miei dolori, mi sorvegliavano come al sommo pericoloso e sospetto, e mi denunziavano a casaccio, immaginando, inventando, sparlando, perseguitando in somma me che viveva ritirato e tranquillo, non occupato d'altro che della famiglia, non vago d'altro che degl’innocenti miei studi.


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CAPO XXXIV

Il prefetto Guicciardi

L'anno 1868 erasi mostralo guerresco sin dal suo cominciamento. «Invano (dissero gli economisti francesi (927)) il linguaggio ufficiale dei ministri e dello stesso imperatore cerca di rassicurare gli spiriti; on ne veutrien croire — on vit au jour le jour.» Anzi si presagiva un terribile e non lontano avvenire, giacché aujourd’hui (928) nous avons, pour ainsi dire, une confiance à court délai qui ne va guère au-delà d’une saison. Napoleone deciso a sostenere il potere temporale del papa, aveva negato Roma all'Italia con un riciso jamasie... Già aveva negato per sua ambizione di dominio, per suo interesse di comando; conci ossiachè tremava in quel momento, se avesse oprato all'inverso, di perdere il potere. —Ed egli il potere conservava ad ogni costo sotto un nome qualunque. Appunto come suo zio, il quale nelle sue finali sventure dubitando che ristabilir si volesse la sovranità popolare, eh bien, aveva sciamato: eh bien dans ce cas, je me fais peuple; car je prétends être toujours là où réside la souvraineté. L’Italia rivoltosa era decisa a non ismettere affatto l'idea di Roma capitale a costo di perdere per sempre l'amicizia della Francia, gettandosi in braccio alla Prussia; e sia pure per riversarsi su quella. Gli animi si sollevavano a diverse speranze, e tutti gli opposti partiti speravano nella guerra, mentre lutti rifuggivan dalla guerra! — Era già la Francia che potea darne però il segnale, nissun'altra potenza essendo capace di cotanto ardimento, e s'intravedeva il cammino politico che quella faceva. Riformare a furia l'armamento dell'esercito, accrescerne spaventosamente la forza numerica e strategica, mettere latte le fortezze In istato di guerra, circondarsi d’alleanze, circoscrivere la tenzone, — l'Italia alleata o distrutta, neutrale non mai: ecco tutto lo studio del Giove della Senna, dell’imperante di quei Francesi…

Vicinas quibus est studium devincere terras,

Depressumque larem spoliis hinc inde coactis

Sustentare (929).

Ma le alleanze riuscivano difficili, perchè l'Inghilterra, i cui «uomini d’affari agiscono molto, parlano poco e scrivono ancor meno (930)» nella sua condotta procede collo escludere ciò che fa la Francia, tendendo incessantemente a vicenda a respingersi e ad escludersi (931); —la Russia guarda all’oriente e non s'impiccia d’altro;—l'Austria la cui casa trae origine dal valoroso Ridolfo d’Asburgo (932) innalzalo al trono dei Cesari romano-germanici, conquassata, indebolita teme e tentenna. Tutto ciò presentava ostacoli d’ogni maniera, e teneva in ansia le genti e in agitazione il governo nostro, il quale temeva una rottura, un’insurrezione, o per lo meno un tumulto sanguinoso. Giammai tante cause d’inquietudine avevano agitato l’Europa come ora, ne giammai v’è stato alcuno com’ ora che non voglia credere se non ai fatti ed alle soluzioni. — Appunto in febbraro quando siffatti timori erano al colmo, arrivava in Palermo prefetto novello Guicciardi, e appena arrivato mi si mandava il giorno 11 dal questore un gentilissimo biglietto perchè mi fossi condotto l'indomani ad un abboccamento col prefetto.

Stando alle apparenze era il prefetto Guicciardi un uomo di forme civili e mansuete, — non proclive agli abusi ed all’agire manesco, tentennone alquanto in adottare energiche misure, e più disposto a imporre con una specie di tuono autorevole che ad operare ghermendo alla birresca.

Era la prima volta che i governanti locali mi onoravano d'un abboccamento— e fui ricevuto senza dilazione e trattato con ogni gentilezza di maniere. Però il colloquio, quantunque d'ambo le parli in forme pacate arcipacate, fu molto lungo e interessante. Io sapea, gli dissi, cosa importi in fatto la risponsabilità ministeriale, che stimasi in diritto unica guarentigia delle libere forme! E assai prima che Perièrl’avesse magnificamente rivelato sapeva del pari (933) quanto il resto degli impiegali si sieno resi più indipendenti dei ministri; perchè so che esistono al mondo due specie di libertà: lune qui est un mot, l'autre qui est une chose (934). Ma so ben pure d’essere tal uomo da non soffrire aggravio impunemente contro delle leggi; — e ove frustraneo mi riuscisse ogn’altro mezzo legale, la mia penna saprebbesi far rendere giustizia se non altro dalla giustizia universale, dall'opinione pubblica in senso vero e non mentito. Parlarmi quindi di soprusi, d'esercizio di forza e di potere, d'arbitrio necessario per ridicoli fantastici sospetti, è parlarmi di cose che a dirmisi in faccia ho diritto a chiamarle vergogne. Riepilogandogli le infamie in nov’anni sofferte — manifestandogli la putrida fonte d’onde esse erano e continuavano a provenire, lo resi convinto che fra gli orrori e le balordaggini commesse in tant'anni, persecuzioni siffatte dimostravano aperto in che misero stato si vivesse; sicché dovrebbe velarsi non la statua della libertà, ma quella della legge. Rispingendo con dignità i suoi vaghi avvertimenti gli dimostrai chiaro che non solo nulla trovavasi politicamente di riprovevole nella mia condotta, sottoposta ad una perenne rigorosa sorveglianza, ma che non aveva che immutarvi, pronto, in ogni tempo quando ne fossi invitato legalmente a presentarmi alle autorità convenienti alle quali non dovrò certamente rendere conto dei miei pensieri. Dappoiché il pensiero non va soggetto a rimprovero penale (935) e solo può condannarlo

la giustizia di lassù, che fruga

Severa e in un pietosa in suo diritto

Ogni labe dell’alma ed ogni ruga (936).

Il mio discorso fu troppo penetrante, m’ebbi dolcezza di parole, e lampi deboli di minacce. Manifestommi il prefetto ch’esso era stato un cospiratore contro dei Tedeschi, (per l'impero dei quali in Italia non v’ebbe in principio del secolo decimoquarto maggiore zelatore di Dante (937)), e il governo dei Tedeschi, mi diceva, sotto di cui era vissuto, sarebbe stato nel suo diritto ove ne l'avesse punito. Manifestazione d’uomo veramente dabbene, che mentre avvertiva di non cospirare me che abborro le cospirazioni d'ogni sorta, spontaneamente mi partecipava ch’ei fosse stato un cospiratore fortunato! Fatto sta che ci dividemmo in santa pace, e so da buona fonte ch'ei si fosse altamente doluto con coloro che l’aveano spinto all'asineria di quel colloquio inconcludente, che mentre rendeva pubblico lo agire arbitrario d'un governo a forme costituzionali, svelava l'imbecillità» la ridicolaggine, l'ignoranza, il mal talento degli agenti primarii che sono destinali a reggere questa misera terra.—Ma che vuol farsi? — i più forti hanno stabilito che non si ragionasse affatto; dappoiché, diceva Eduardo La Boulaye (938), «se si ragionasse, coloro che avrebbero ragione sarebbero i più forti, et alors les plus fort n'auraient pas raison. — In ogni modo il paese ed io particolarmente non ho ragione di dolermi della condotta di Guicciardi. Cert'è che la sua aggiustatezza, o meglio la sua pacatezza, la sua, dirò cosi, ritrosia a commettere quegli abusi ch’erano stati pur troppo consueti, lo rese se non inviso, inopportuno a coloro che con altre idee avevanlo spedito. Ei fu dimesso dal suo posto per supplirvisi un governo militare, riunendosi nelle mani del generale Medici il potere civile della provincia di Palermo e ’l poter militare dell'isola tutta quanta; ed egli insediossi fra noi il 28 giugno 1868, fra le ovazioni e i mirallegro del Corriere siciliano, di cui non segui però le ire e i malumori; dappoiché, mostrossi giudizioso e prudente, e messa da banda ogni aperta persecuzione capricciosa procurò di rendersi accessibile a tutti, invitando financo a fargli corteggio e compagnia gli uomini di qualunque colore, senza aizzarne i partili, anzi spegnendone i puntigli e gli appicchi. Ciò che sarà segnalo dalla storia, la quale ha il diritto de juger avec une entière liberté les personnes et les choses(939).

Non posso in questo periodo lasciar di ricordare come le mie leggende (940), come le mie reminiscenze (941) avessero avuto buona accoglienza nella Spagna, espressa secondo il carattere della nazione con più franchezza e con maggiore espansione di quel che fece la Francia (942). —A dir vero è cosi sconosciuta in Ispagna la nostra cultura, vi sono cosi ignorate le opere dei nostri, che mi parve avvenimento raro l'accoglienza simpatica spiegatavi in modo non che gentile, ma cavalleresco, dirò meglio — veramente spagnuolo. Io ne fui lieto, non perchè la vanità se ne risentisse — null’affatto! ma perchè vi penetrava e s'accoglieva la verità su le cose nostre, mascherate e travisate da tante penne vendute e di partito. Mentre siffatti giudizii si pronunziavano, Michele Amari professore pubblicava la prima parte del terzo volume delle sua Storia dei Musulmani di Sicilia, nella quale a parte di tanti strafalcioni, ne disse delle marchiane intorno al monetaggio della prima epoca normanna, volendo elevarsi a correggitor dei medaglisti che vi hanno lavorato più di lui che n’è neofito del tutto. Ei punsemi con modi inurbani, com'avea sempre fatto, ed io aveva lasciatogli fare per amore di pace.—Questa volta per decoro del paese me ne risentii, e pubblicai tosto una lettera in cui veramente lo strinsi fra l'uscio e il muro. Siffatta lettera (943) non meritava che si fosse renduta popolare, e perchè n'era autore io, che ben conosco la mia nullità, e perchè il soggetto non era un soggetto popolare. Però in Sicilia ei s’era reso cosi uggioso ai nostri patrioti, che fu applaudito il modo severo con che m’era indotto a trattarlo; e anco varii giornali che annunziarono in Italia la comparsa di quest'opuscoletto tutti l’annunziarono con parole di encomio (944). — ne me ne curai più oltre aggravato da sciagure nascenti in quel torno per l'accresciutasi malattia del mio figliuolo, che obbligommi a diloggiare, in cerca di siti più ariosi, finché gli sarebbe stato opportuno il viaggio alla dolce Partenope, come chiamolla Virgilio (945), nata proprio fra gli ozii beati come indicolla Ovidio (946), e pell’istantanea morte di mia suocera diffinitivamente colpita allora allora dall’apoplessia (947).

Messe pertanto da banda cosi fatte minuzie personali, e ripigliando il filo degli avvenimenti non posso lasciar d'avvertire nell'interno nostro sovrattutto l'accrescersi dello sfracellamento finanzierò, le nuove imposte immoderate e impopolari, lo sperpero dei beni del clero dissipati presso a poco nell'identico modo che erasi fatto in Ispagna, secondo il racconto che fenne al 1840 Federico Bastia! (948).E tuttociò alla vigilia di una guerra che oramai aspettata da gran tempo si rendeva inevitabile e vicina, foriera non d una battaglia decisiva, ma d'un cataclisma filosofico-religioso-politico e civile, per le tendenze dell'attuale secolo stravolto. Il quale dopo d’avere ridotto tanti re senza corona, tanti principi senza principato, tanti vescovi senza gregge, tanti cittadini senza patria, tanti sfortunati senza soccorso, tanta gioventù senza speranza;—a dir breve una generazione intera nel dolore,—intende strascinare agli abissi non che l’Europa sola, ma l’umanità tutta intera... Ciò che sarà l’ultimo sforzo d’Anteo soffocato da Ercole!


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CAPO XXXV

Il presente

Lo storico è un viaggiatore diligente, il quale dopo di avere percorso sterili piani, sorpassato alpestri montagne, traversato mari burrascosi si ferma in un sito tranquillo, dal quale possa comodamente riandare i suoi viaggi e meditare su quello che ha veduto. Epperò io storico, abbenchè miserando, sopravvissuto a tanti e tant’altri, anzi a me stesso, (non calcolando per vita gli ultimi anni passati in uno stato di torpore, che m’hanno trasportato dalla maturità alla vecchiaja) ora che regna silenzio — silenzio cupo e pesante come quello che precede le catastrofi della natura, riandar voglio il cammino percorso. Già sventuratamente m'avveggo di non avere altro narrato che tristi geremiadi!., violenze, atrocità e massacri frammisti ad imbecillità ed ignoranza, donde non si è ritratto per risultamento che violazioni solenni della giustizia e della morale, le quali hanno impresso tracce profonde e durevoli delle perturbazioni cagionate da loro, nell’infelice tempo nostro, nel quale «tutto è vero, toltane la verità, tutto è virtuoso, toltane la virtù, tutto è onorevole, tolto l’onore» (949). Dimanierachè dopo di avere errato nelle nostre follie non ci rimane dei nostri furori e delle nostre chimere, che miserie, delitti e catene!... immensità in somma di guai, che secondo il detto del conte Leopardi (950) fa detestabile e insopportabile la vita a dii non è scellerato.

Chiudo quindi col cuore pieno di amarezza questo volume di Ricordi; volgendo gli occhi intorno e fissandoli innanzi, con un’ansia crudele che mi fa prevedere prossimo un incendio tremendo, che attende per divampare lo scoppio di qualsiasi impercettibile favilla.— E mentre non v’è che la guerra ormai come crisi decisiva pei destini dell'Europa, pure oggi vivesi come jeri in un’atmosfera di timori spaventosi ed incerti. Imperciocché non evvi alcuno che possa prevedere le conseguenze della lotta, ed indagare le probabilità del futuro: non essendosi accorto a tempo dei suoi errori alcun governo, nissun governo ora può prevenirne in tempo con sicurezza i risultamenti estremi.

Nondimeno fra tante calamità l’animo si rinvigorisce riflettendo che siamo venuti al colmo dei nostri mali; giacché, come dice Gozzi (951), «quando la ruota di fortuna è giunta a segno tale ch’essa non possa dar la volta allo ingiù, di necessità avviene che il corso suo si muti alla fine».

Non dimentico intanto che a fiera censura si espone chi scrive con franchezza, come ho fatto io, la storia del suo tempo; perchè chi scrive quella degli andati tempi disgusta a pochi, non interessando gran fatto ai leggitori se si tributino lodi ai Romani piuttosto che ai Cartaginesi. Però scrivendo dei recenti tempi, ancoraché si accennasse a personaggi scomparsi, la posterità loro è vivente, e sono pure viventi i loro partigiani, i quali, scriveva Tacito, ob similitudinem morum aliena malefacta sibi objectari putant.

Ma debbe per questa paura frenarsi una penna sincera? Debbo essa spaventarsi dal raglio degli asini, come racconta Erodoto essere avvenuto una volta a una grande armata di Sciti? — Vero è che gli uomini e i monumenti sia meglio osservarli ad una certa distanza; e convengo alsi che i fatti da me narrati essendo troppo recenti, per essere ascoltati con calma richiederebbero circostanze tranquille e tempi un po’ lontani: a molta vicinanza la critica più leggiera sembra imprudente, la lode più ingenua riesce sospetta. —Pur tuttavia la storia d’avant’ieri, osservava Guizot, è sempre la meno conosciuta e forse forse la più dimenticata dal pubblico d'oggi; ond’è ch’ei vorrebbe che gli autori e gli spettatori parlassero del proprio loro tempo. Anzi il chiarissimo Lessing non vorrebbe che s'accordasse nome di storico ad altri che a colui che avesse scritto la storia del suo tempo, stimandola pietra di paragone d’uno scrittore imparziale.

Incoraggiato dalle massime di personaggi sì preclari, presento alla benevoglienza di qualsisia onesto il libro mio, e affrontando i fulmini dei moderni inquisitori, dichiaro viltà e non prudenza cedere il campo ai tristi senza battagliare, o pure soffrendo passivamente la lotta. — É consiglio di timorosi attendere che si estinguano i fuochi del fanatismo per opporre con successo le forze della ragione. Queste forze sono necessarie appunto per combattere i fuochi del fanatismo; non dovendo entrarsi in battaglia quando il nemico ha già deposto le armi. — Che diverrebbe la navicella del mondo, scrivea l’egregio ab. Bougaud (952), se tutti i buoni si ritirassero?

Infin dei conti la narrazione è già fatta, e «a sessantanni, assicura madama Guizot (953), si può dir tutto, anche la verità a chi non la ricerca». Ora non mi rimane che riepilogare le cause del presente, e scrutare per quant'è possibile l’avvenire.—Nel far ciò profitterò del senno di riputati sapienti, non essendo permesso a chiunque, secondo riflette Wolovski (954), avere una confidenza robusta nella propria opinione da sdegnare il concorso di pensatori più provetti e meglio accreditati.

Io ritengo che la causa motrice di tutto l’attuale tramestio non debba ascriversi ad altro che alla propagazione rapida e universale di quella società politico-religiosa, che informata in religione del naturalismo-razionalistico (955) professa in politica la democrazia (956), e vuol che s'aborra qualunque monarca, perchè vorrebbe ch'ei fosse perfetto come Dio, ciò ch’è riputata iniqua pretensione dallo stesso non sospetto autore Stefano Junio (957). Essa vantandosi d’essere «il distillato di tutte le scienze» (958) diretto al miglioramento dell'uomo e al perfezionamento della umanità (959), è essenzialmente nemica del cattolicismo (960), essenzialmente nemica d’ogni rivelazione (961), protestante in somma del protestantesimo di Bayle, cioè protestante contro tutte le religioni (962), fingendo onorar Dio in ispirito, sull’altare della verità (963). — E mentre la Chiesa cattolica educa e forma uomini credenti, essa si vanta di formare uomini ragionevoli e liberi (964), i quali mettendo da canto l’autorità, sostituiscono il numero alla ragione, la forza al dritto, l’interesse al dovere; insegnando con una sfacciatezza da forche che la proprietà è un inciampo, l'industria un privilegio, il capitale una usurpazione, il freno delle leggi tirannia, beatitudine il comunismo, — il comunismo di Rotman e degli Anabattisti che fecero comuni le donne, i beni ed i figliuoli!—Stato terribile che non si vorrebbe affatto dagli uomini onesti, ne manco dagl’illusi di buona fede, i quali per mancanza di senno, per difetto di giudizio ingozzano i principi! e s’arretrano poi in faccia alle perverse conseguenze. Perchè appunto «gran pena del nostro tempo, ben ha detto Cesare Cantù(965), è la confusione delle parole e delle cose, mediante la quale il potere prevalente trae fin persone oneste ad applaudire al male credendolo bene».


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CAPO XXXVI

Il razionalismo

Cos’è pertanto questo razionalismo, questa grande eresia del giorno, di cui si mena uno straordinario scalpore, questo sistema che l'illustre Ventura (966) ebbe a dire «logicamente assurdo, grossolanamente ottuso, storicamente falso?» — Eccone sommariamente la storia e lo sviluppo, per far conoscere su quale fondamento, su quali cardini reggere si vorrebbe la società moderna, e a quale punto di progresso ci si vuole condurre.

Due scuole diverse, o a dir meglio due sistemi hanno collegato le loro forze per combattere il principio soprannaturale del cattolicismo, il quale pretendeva quell'indomito Alfieri (967) che fosse incompatibile colla politica libertà: il razionalismo e la incredulità, ambo collegati nello scopo e di distrarre ogni credenza e di cancellare ogni vestigio di qualunque più moderata monarchia. Fino a che questi sistemi non saranno sottomessi—chè estinti noi saranno giammai — riuscirà impossibile moralizzare le genti; ne sarà durevole alcun ordinato governo. Imperocché più si progredisce, più si trova vero che ogni quistione sociale non si riduce che a quistion religiosa; conciossiaché in fondo d’ogni legge, avvertiva sapientemente C. Cantù (968), «sta la coscienza, e la soluzione definitiva d'ogni controversia politica traesi da un principio morale».

L'incredulità procura con agevolezza nome di pensatori ad una turba d'inetti e di scostumati, i quali ridendosi di tutto, e assimilandosi di per se stessi ai bruti professano la massima allegra del edamus et bibamus, profondendo encomii vani all'onestà cui fanno morire di freddo e di stenti (969).

I razionalisti invece vogliono far credere che sieno membri della società cristiana, i quali scotendo il giogo della fede proclamano di fare in materia religiosa impiego saggio e costante dell'umana ragione:— Cristiani in somma che hanno vergogna seguire i fatti, e sottomettersi ai detti di Gesù Cristo (970). — Di questo sistema, tuttoché creazione alemanna del secolo passato, ne debbe essere accagionato per primo, a detta di Van der Linde (971), di Nurrisson (972), di Van Vloten (973), di Uberweg (974), e di tant’altri, il discepolo di Des Cartes, il filosofo d’Amsterdam, quel severo Spinoza che fu satiricamente descritto da Voltaire con questi versi:

... petit Juif, au long nez au teint blême,

Pauvre, mais satisfait, pensif et retiré

Esprit subtil et creux, moins tu que célébré.

Il razionalismo, già s'intende, è protetto dal protestantesimo a causa che questo si poggia sul libero esame illimitato. Esso ha per iscopo diretto rispingere il soprannaturale, epperò distrurre il fondamentodel cattolicismo, ch'è la religione della fede (dicea Napoleone I (975) perchè desso è l’opera di Dio). Ciò che emerge chiaro dallo scritto di J. Gottlieb Fichte Critique de toutes les révélations, il quale uscito senza nome fu dapprima attribuito al filosofo di Koenigsberg, al rinomato Emanuele Kant. Esso mostra fin dove possa giungere l’aberrazione e la follia delle menti al tempo nostro... tempo che porta impresso il carattere speciale di contraddizione e di stranezza, e che conferma semprepiù ciò che ripeterono Buhle (976) e Ventura (977) seguendo Cicerone (978): che non si può immaginare nulla di assurdo che non sia stato sostenuto da qualche filosofo. Suppongono questi creduti illuminati, che la coscienza di sé stesso fosse un fatto primitivo, universale ed assoluto, un fatto che non manca in alcun uomo e che porta sempre con sé la sua certezza. — E quindi pretendono che alla sola ragione si appartenga decidere ciò che convenga credere o non credere, ciò che convenga fare o pur non fare. — Pretensione assurda, eppure antica quant’è antica la superbia dell'uomo, che sotto varie forme si è sviluppata e continuerà a svilupparsi finché questa terra sopporterà la nostra razza. — Pretensione ch’è figlia dell'impotenza e della disperazione d'ogni verità e che compendiandosi in queste parole: credete tutto ciò che volete, e vivete come credete, forma la base dell'ecletismo moderno, della scuola dei liberi pensatori, dello indifferentismo religioso d’oggidì.

Aveva Leibnitz tentato di conciliare la ragione e la fede; — Kant si spinse più innanzi e pensò di far derivare ogni cosa dalla esperienza, proponendo la religione della ragione. La formola prima di Des Cartes cogito ergo existo era protestante, ma il sentimento che la sviluppò fu tutto cattolico (979). Kant passò oltre: io esisto, io penso (ei disse), io dunque non posso conoscere altro che la mia esistenza ed il mio pensiero. — Ebbero rinomo fra i proseliti suoi Enrico Jacobi (980) ultimo rappresentante della filosofia dell’intendimento, Fichte, Schelling, Hegel (981), Krug col suo sintetismo trascendentale, Fries colla sua logica antropologica. — Fichte soprattutto tra costoro elevossi a creatore e guida della filosofia moderna, rinunziando ad ogni dogmatismo. Indicò costui nel suo Discours a la nation allemande (982) il cammino che avrebbe fatto rinascere il popolo alla vita, migliorando in Prussia la educazione morale degli uomini, i quali esortava a consacrare la loro attività agl’interessi della patria e della umanità;—indicando come ultimo scopo dell’Alemagna la repubblica (983).

Avendo architettato sin dal cominciamento della sua filosofico-politica carriera una costruzione storica del cristianesimo, (sull'essenza del quale ha detto Blasche (984) i cattolici possono rimproverare con ragione noi protestanti di non essere mai d’accordo) Schelling contemporaneo di Fichte e successore di lui nella cattedra di filosofia a Jena (985) presentò, con poche variazioni, come nuova teoria l’antico panteismo, già introdotto in Germania dall'italiano Bruno; ebbe egli insomma l'ardimento di spingere le conseguenze del sistema di Kant sino allo scopo, completandone il pensiero. — Indi Hegel, scolaro di Schelling, tuttoché più vecchio di lui fece dimenticare il suo maestro; proponendo una religione positiva, che nello stesso tempo fosse una filosofia, e con immensi sofismi trasnaturò tutte le idee cristiane, che finse di volere restaurare. I suoi primi travagli sono del 1801; e la sua prima opera di grido fu la Phènoménologie de l’esprit (1807) in cui gittò le basi del suo sistema futuro. Ei si propose supplire alla insufficienza di Schelling che aveva stabilito il panteismo, ma che non l'aveva dimostrato.

Tutti questi arditi novatori tedeschi fecero seguaci in abbondanza. E fra costoro eccelse l’allievo d’Hègel, il terribile Strauss, acuto oltremodo, il quale facendo del nuovo Testamento quello che Valke aveva fatto dell'antico, cioè il ludibrio d’ogni capriccio, il tema d una erudita miscredenza, s'occupò d’impicciolirne i fatti o di farli sparire interamente col disegno preconcetto di salvare soltanto l’idea nascosta sotto questi fatti. — Per tal modo l’empia opera di lui La vie de Jésus, scritta con molto talento, secondo ha detto il professore di Berlino Augusto Néander, ma senza profondità, divenne la spada, come ha dimostrato Montz-Carrière (986), colla quale impugnare la divinità di G. C. e la verità storica della tradizione cristiana. — Quest'opera mercé una dialettica possente, una critica ingegnosa, e quel ch’è peggio mescolata con un'arte incomparabile, che somigliano la semplicità «dette l’ultima pennellata al sistema» (987), servi di rinforzo o dirò meglio di rannodamento a quella frazione dei discepoli di Hègel che non hanno voluto applicata la filosofia del maestro a tutte le forme di governo; ma che l’hanno associata al movimento democratico dell'epoca presente.

È deplorabile che la plejade della scuola hegeliana, di cui Strauss, Feuerbach e Bauer sono le stelle più raggianti (988), spinti dallo spirito protervo del secolo a romperla apertamente colle credenze cristiane avesse recato tanti danni a quella religione che ha preseduto alla nascita loro; e che il vogliano o no è il centro al quale tutto fa CAPO , il pernio intorno al quale s'aggira tutto il governo dell’universo (989); — ma la cui vita però sarà una perpetua lotta aizzata da quei superbi insipienti che pretendono trasformare in iscienza la fede, la quale non può essere mai cangiata in visione se non quando entrerassi negli eterni tabernacoli della celeste Gerusalemme.

Queste perverse dottrine non si sono circoscritte alla Germania: esse magnificate da Reinhold colle sue Lettres sur la philosophie de Kant inserite nel Mercurio tedesco, tuttoché contraddette da Feder, da Eberhard, da Schwal e da altri, appena importate in Francia divennero comuni per quel dominio di moda che rende la Francia in tutto arbitra del mondo. Cousin per due interi anni immergendosi nei sotterranei, com’ egli chiamolli, della psicologia kantiana si trasfuse nel filosofo di Konigsberg, com’ erasi trasfuso in Reid ed in Royer-Collard. Assumendone l'opinione ed il linguaggio, e. spose per prima volta in Francia il razionalismo, che vennegli presto a noja appena ebbe esplorato il disegno dell'eccletismo di Hégel, l'arido e vuoto idealismo di Fichte. Perciò verso il cadere dell'anno 1817 corse in Germania ove non si parlava allora che della filosofia della natura e di Fcd. Gugl. Gius, di Schelling (990). Conferì con costui, conferì con Hègel, e tornossene in Francia banditore entusiasta delle dottrine novelle e diffuse i semi panteistici che accompagnano quelle dottrine. — Conciossiaché il panteismo è la conchiusione generale e universale della filosofia alemanna moderna; tuttoché ogni adepto ne respinga l'accusa come infamante e non ne accetti la denominazione (991). —Dottrine che travolgendo le menti all'indifferentismo le precipitano in ultimo all’incredulità... Scuola comoda, accessibile a tutti, rapidamente progressiva, in cui la frivolezza pretende di essere l'interprete della natura, avventandosi contro ogni principio morale e civile; scuola perversa di cui era stato antesignano istintivo nei moderni tempi l’instancabile e pertinace Voltaire. Costui scrivendo per gl’indotti, per le donne, pei principi, pei negozianti, e impiegando i suoi talenti a fare una specie di bon-ton dell’empietà (992), bandi la propaganda avverso il Cristianesimo; bestialeggiando ch’esso fosse la più ridicola e la più sanguinaria delle religioni, e la cagione precipua delle umane sventure!

Per tal modo si sono chiamati i turbolenti a strappare dal mondo lo stendardo cattolico e a calpestare Roma papale. Ciò ch’è origine funesta dell’attuale universale dissesto, del disturbo morale dell'intero mondo: nel tempo del quale morale marasmo si fa ogni sforzo per abbattere i veri credenti coll'audacia della critica, colla vivezza dei sarcasmi. Cosi il razionalismo sostenuto nella opinione da tutti i nemici secreti o dichiarati del cattolicismo, ha ingigantito dapertutto la libertà religiosa, e di conseguenza la incredulità s’è propagala; cioè s’è propagata la pazzia, dappoiché il y a de la folie à révoquer en doute l'existence de Dieu (993) ch’è un fatto fuori dubbio, e al di sopra d’ogni specie di ragionamento. — Talmentechè ornai il combattimento è impegnato, ne potrà cessare se non colla distruzione d'uno dei due accaniti combattenti (994).

Ciò nullostante si vede manifesto che il razionalismo non ha fatto altro che rotolare la pietra di Sisifo; essendo arrivata l'ora in cui gli spiriti cominciano ad atterrirsi di quel lavorio così stollo. — Lavorio in cui ora si avvolge l'Italia, avvezza ad accogliere i pessimi sistemi quando hanno fatto il loro tempo e sono altrove scartati; ed ove è avvenuta ora una nuova invasione d'idee forestiere, e vecchi errori vi sono rientrali sotto nome novello (995). — E poiché per conforto dell’umanità le arti infernali dei malvagi non sempre ottengono lo scopo loro, cercasi ormai il porto di salvezza, l'ancora di speranza; ma questa non trovasi, che nella cattolica teologia... teologia puramente storica, perchè non in altro poggiata che sul fatto che ha insegnato diciotto secoli fa, ciò che ’l cattolicismo insegna oggi come allora, Gesù Cristo vero Dio, per come l’ha riconosciuto lo stesso condannevole e condannato Rousseau (996), il quale ebbe a dire, che se la vita e la morte di Socrate sono di un saggio, la vita e la morte di Cristo sono di un Dio. — Il principio cattolico non è principio razionale; a chiunque altro che presenta un principio religioso diverso dal cattolico può dirglisi sempre: io non credo un iota di quel che tu m'annunzii con tanto calore e con una convinzione che mi fa pietà. — Insomma la verità, diceva bellamente Napoleone I, si cerca e si trova nel Golgota soltanto! —


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CONCLUSIONE

Pretendere che la ragione e la rivelazione fossero i due poli della verità religiosa; — pretendere che una verità accettata dalla fede e un'altra accettata dalla ragione non si possano contraddire giammai, è pretendere che la. religione debba crearsi dagli uomini non impiantarsi da Dio:—è creare una teologia fantastica, anzi un complesso di dottrine, che distruggendosi a vicenda, menano a ricusare ogni credenza, a non prestare fede a principio veruno, a rendere le genti incredule e svincolale da ogni freno. Epperò a ridurre i popoli anarchici riottosi, pretendenti d’essere sciolti d'ogni vincolo nel pensiero e nella coscienza, e quindi nella parola e nella mano. Loro desiderio diventa rovesciare qualunque potere, —loro scopo l’acquisto individuale d'ogni bene, trovando adatto qualunque mezzo che conduca al trionfo di una demagogia assoluta.—Stato che si vagheggia come l’apice del progresso sociale, ma che è in realtà lo stato non che dei popoli nomadi, ma dei popoli selvaggi. Al quale quanto più ci avvicineremmo tanto più saremmo spinti a indietreggiare, atterriti dal caos tremendo nel quale la società fracassandosi si smantellerebbe. Stolti! — vogliono stabilire l'uguaglianza e la fraternità, e rigettano il cristianesimo, che può solo offrire loro una base solida e durevole.—Stolti! v’ha dispotismo più insopportabile di quello di questa ragione speculativa, che condanna l immensa maggioranza degli uomini ad una eterna incapacità? — Facciasi però ciò che si voglia «non cambiansi punto i disegni della Provvidenza all'ora della trasformazione dei popoli (997)!..» Già tutti riconoscono l'anormalità dell’attuale convivenza; — già gli scrittori più arditi (998) sono obbligati a confessare che viviamo «dans un temps d'immense dispersion et de confusion extrême, de travail obscur et indéfini, de fermentation vague»...

Già si ripete non potersi trarre più innanzi resistenza. La gioventù stessa vissuta in un’atmosfera contaminata/ che ne ha falsala la direzione collo spregio degli studi forti e costumati, è stanca di coloro che esaltandola l’hanno strascinato alle novità alle avventure, alla vita rischiosa e romanzesca... Si pronostica, si prevede, si scongiura un cataclismo universale, e una guerra gigantesca (dappoiché lcs bruits de guerre persistent, malgré toutes les dènégation (999) che disperdendo la depravazione e la licenza riconducesse le nazioni a miglior vita; giacche le bestie e le bestialità, mi ricordo d'aver letto non so su quale libro, chiamano finalmente i domatori. Forse allora rimpiantato — checché ne pensino alcuni barbassori che spulano sentenze con una serietà che eccita il ridicolo—il principio di autorità religiosa e civile, si chiuderanno a spranga le porte del tempio di Giano; e prospereranno le nobili discipline, e si faranno miti e puri i costumi, e rifioriranno le arti, alle quali il protestantesimo è stato funesto forse più che l’islamismo (1000), e sarà provveduto a tutto con la giustizia; perché con l’ingiustizia l’ingiustizia non si ripara. E tempo verrà in cui si disseppelliranno dall’obblio e si insegneranno di nuovo quelle massime che in atto sono scartate come viete, sono rispinte come insipienti, sono perseguitale come rovinose. — Ognuno allora ricorderà con fremito l'epoca sbrigliata che abbiamo vissuto!

I protocolli impertanto non prendono d'assalto i gabinetti come i soldati prendono d’assalto le città o le fortezze; ne la politica per la quale «non v’ha ne menzogna ne verità, ma tutto è convenzione come nelle commedie» (1001), corre si presto come corre la gloria alla testa delle armate (1002). Quindi non bisogna importunar la Provvidenza perchè ci manifesti quando sia per arrivare il giorno fortunato della soluzione dei presenti nodi. — Allorché il popolo ebreo giacque oppresso dalla tirannide di Faraone, Mosè non si permise giammai di chiedere al Signore come e quando doveva sperarsene la liberazione: fu Dio stesso quando i tempi divennero maturi che manifestò a Mosè l’esterminio di Faraone. E costui fu sepolto nelle acque del mare, e ì popolo rinacque a novella vita, e traversando il deserto giunse, all’epoca da Dio destinata, nella terra promessa. Nello stesso modo lorquando Dio vuol salvare un secolo, e la sua Chiesa abbisogna d’essere glorificata e vendicata, egli «manda un soffio divino, diceva Bougaud (1003), e la faccia della terra si rinnovella». — Anco viventi Calvino e l’inverecondo e crudele marito di diciannove mogli, Arrigo Vili, il mondo echeggiava di grida di dolore, e si diceva prossima e irrimediabile la rovina della Chiesa; eppure la Chiesa fu trionfante, fu salva e con essa il trono di s. Pietro, il quale confessò lo stesso Garibaldi nel 1847 (1004) che riposa su basi che non potranno mai essere rovesciate ne cosse da potenza umana.—È proprio degli spiriti deboli, diceva sennatamente Dumas (1005), vedere tutte le cose a traverso un velo nero. — Stringiamoci forte con Cristo e colla Chiesa, ha scritto il celeberrimo Dante (1006):

Avete il vecchio e il nuovo testamento,

E il pastor della Chiesa che vi guida:

Questo vi basti a vostro salvamento.

Non è nell’empirismo di Bacone che fe’ risorgere Epicuro; nel dubbio metodico di Des Cartes, che fece rivivere Platone; nel metodo di dimostrazione di Leibnitz, che fe' tornare Zenone; nel sensualismo di Locke, nello scetticismo di Hume, nell’idealismo di Berkeley, nella visione in Dio di Malebranche, nella ragion pura di Kant, nell’assoluto di Schelling, nel senso comune di La Mennais, — ma esclusivamente nel cristianesimo è il principio della moderna civiltà, la causa dei progressi compiti dopo diciannove secoli, il germe dei progressi futuri. Apriamo quindi spesso e meditiamo molto l'evangelo: esso è il codice sincero dell’umanità, e solo in esso, diceva A. Ott (1007), trovasi la legge e la misura di ciò che può essere buono ed utile per l'umanità nell’avvenire. — Nulla v'ha che non sia alterato e modificato in questa terra (1008), i linguaggi, i governi, le arti, la coltivazione, la faccia del campo, le fattezze dell’uomo... ma la parola di Dio, oh questa, questa sola, è invariabile ed eterna.—Sono più sicura, esclamava l’egregia baronessa di Chantal, della verità di tutti gli articoli della fede, che di avere due occhi in CAPO . — Confortiamoci adunque coraggiosamente a vicenda, oprando in modo che tornino in beneficio altrui i nostri studi; ciò ch'è primo e nobile ufficio di ogni cattolico scrittore, perché

Beato è chi da sua dottrina cerca

Dolce di cariti ricoglier frutto,

Ch'altri a pietà verace informi e allevi (1009).

E lasciamo ai filosofi del tempo, atei aperti o panteisti (cioè atei velati), il menar vanto delle loro sordide desolanti dottrine; giacché ogni filosofo di tal razza, freddando le anime e moltiplicando i pregiudizii, non è già un sapiente, ma è un animale di gloria, come qualificollo s. Girolamo (1010),—ossia uno schiavo venale degli applausi del volgo. —


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NOTE

(1) SEGUR. Oeuvres, t. III. pag. 45.

(2) V. AMAND SAINTES, Histoire critique du rationalisme en Allemagne depuis son origine jusqu’à nos jours, 2' edit. Paris 1843, ch. VIII, pag. 242.

(3) Panegirico del B. Fourier.

(4) Palam sunt arguendi qui palam nocent,—s. GREGOR. X., C. XII, ep. 5.

(5) De aug. scient. lib. V.

(6) È stato detto a proposito di Michelet che «le charme de ses ouvrages consiste à mètre l’auteur à tous les faits qu’il raconte» — Demogeot, Histoire de la littérature française depuis ses origines jusqu’ à nos jours. 6(e) edit. Paris 1864, ch. XLVII, pag. 638.

(7) S. Bonaventura.

(8) GIORGIO VIANI numismatico morto a Pisa nel 1816 pochi istanti prima di morire usci di letto, raccolse varie carte che aveva dei suoi amici e le rimandò ad essi scrivendovi sopra queste commoventi parole: «Giorgio Viani saluta, restituisce e muore.»

(9) SVETONIO.

(10) BIANCHETTI, Degli uomini di lettere libri quattro, Milano 18(5. lib. av, pag. 425.

(11) v. DE CHATEAUBRIAND, Memoires d'outre-tombe, vol. VI, pag. 339, e vol. VIII, pag. 1.

(12) Cecy est un litre de bonne foy. — MONTAIGNE.

(13) Non lo moveat auctoritas scribentis, sivo parvae sive magnae litteraturae fuerit, sed amor puras veritatis te trahat ad legendum. — KEMPIS, De imitatione Christi, lib. I, cap. V, pag. 11.

(14) Pour moi, la terre fùt-elle un globe explosible, je n’ hésiterais pas a y mettre le feu s’il s’agissait de délivrer mon pays. — De Chateaubriand,moires d’outre-tombe, vol. VI, pag. 67.

(15) Essai sur le caractère, les mœurs, et r esprit des femmes dans les différens siècles. Paris 1772, pag. 127.

(16) Manifestae veritatis impropcrium periculosum. — Tacito.

(17) Airentti, Ricerche storico-critiche intorno alla tolleranza religiosa degli antichi Romani. Genova 1814, cap. xiv, pag. 278.

(18) Warrey, L'India inglese nel 1813. Conchiusionc. — v. Il mondo contemporaneo, vol. XIV, pag. 470.

(19) ALFIERI.

(20) I miei ricordi, t. I, pag. 97.

(21) HORAT. lib. IV, od. IX.

(22) K. HILLEBAND, La Prusse contemporaine et ses institutions, Paris 1867, ch. VIII, pag. 223.

(23) DE STAEL, Corinne ou l’Italie, vol. 3, liv. XV, ch. II.

(24) Ei maritossi la sera del 10 febbraio 1866 con Giovanna Musso erede del già morto suo padre barone Giovanni, da Ribera.

(25) Epist. lib. 1, epist. 1.

(26) MONTALEMBERT, I monaci d'occidente, t. in, lib. IV, pag. 87.

(27) Demogeot, Histoire de la littérature française depuis ses origines jusqu'à nos jours, 6(e) édit. Paris 1864, ch. XXIII, p. 281.

(28) D'Azeglio, I miei ricordi, t.1, pag. 234.

(29) Il mondo contemporaneo, vol. VIII, pag. 237.

(30) Mad. de Stael, Corinne ou l'Italie, liv. XI, ch. IV.

(31) Sin dall’ottobre del 1865 dalle prigioni di Palermo con lettera segnata di bollo officiale.

(32) Questa fu ordita in secreto nel marzo 1866 nelle stesse prigioni da spie e magistrali.

(33) Alfieri, Virginia.

(34) Alfieri, Timoleone.

(35) Segur, Oeuvres t. I, pag. 483,

(36) Orazio, Od. VI, lib. III.

(37) Così Racine appella Tacito.

(38) Cujus tum odio etiam bonae leges peribant. Tacito, Hist., lib. I, n. LXXVII.

(39) D'Azeglio, I miei ricordi, vol. 2, c. XXVIII, pag. 280.

(40) Filangieri, La scienza della legislazione, lib. III, p. II, cap. XIV.

(41) Filippo IV.

(42) Montaigne sentendo vicina Fora di sua morte Dece dir la messa nella sua stanza, e nell’atto della elevazione essendo sorto come poteva meglio sopra il suo letto, a mani giunte, spirò in quell'atto divoto e pio nel 1592.

(43) Alfieri, Filippo.

(44) Il n’y a point d'àge legal pour le malheur. — De Chateaubriand, Memoires d'outre-tombe. vol. III, pag. 259.

(45) PAOLO MINI, Difesa della città di Firenze et dei fiorentini contro le calunnie et maledicenzie dei maligni. Lione 1577, pag. 6.

(46) Circa il 1862.

(47) Il 19 Novembre 1703.

(48) Tiberio era così dedito al vino, che veniva motteggiato col nome di Biberio.

(49) Alfieri, Bruto.

(50)Liberos cuique ac propinquos suos natura carissimos esse voluit. — Tacito, Cn. Julìi Agricolae vita. § 31.

(51) Napoleon, Précis dea guerrea de Cesar, Paris 1836, pag. 53.

(52) ALFIERI, Maria Stuarda.

(53) Biografia universale, Firenze vol. 2, pag. 427

(54) Histoire des révolutions célébrés qui ont changé la face des empires. Lyon 1796, t. I, pag. 235.

(55) Dell'arte e degli artisti contemporanei, v. Il Mondo contemporaneo, vol. VI, pag. 150

(56) Guerrazzi, Beatrice Cenci, vol. I, cap. XI.

(57) Alfieri, Saul.

(58) Alfieri, Bruto 2°

(59) Swinja.

(60) Sterre.

(61) v. Mortillaro, Reminiscenze dei miei tempi, cap. III, pag. 30 e 31.

(62) Mémoires d’outre-tombe, t. X, pag. 149.

(63) Lecitilo.

(64) CH. Lucas, De la reforme des prisons, t. II, tit. I, ch. II, pag. 98.

(65) Tomaso Campanella.

(66) La Speranza, Firenze 15 maggio 1866 n. 241.

(67) La Posta elettorale, il cui articolo fu riprodotto a Firenze dal giornale La Speranza, 26 maggio 1866, n. 249.

(68) DANTE.

(69) Tasso.

(70) Anche Thiers s'ebbe il soprannome di Mirabeau-mouche, (v. L. Mazzini, Biografia di Thiers, nel Mondo Contemporaneo v. III, pag. 66). Ma Onorato Gabriele Riquetti conte di Mirabeau era stato l’oratore più grande di quella età che vide sorgere i Vergniaux, i Guadet, i Bernave: — Lacuson non fu che un flagello, una vergogna, una pubblica sventura.

(71) Mortillaro, Reminiscenze dei miei tempi, cap. XXXV, pag. 282 e seg.

(72) Pubblicata nel 1719.

(73) Ciò fu confermalo in modo ufficiale da L. in mia casa presente il dott. R. la sera del giovedì 21 febbraro 1867.

(74) Tacito, Histor, lib. in. §. 65.

(75) BIANCHETTI, Degli uomini di lettere libri quattro, lib. III, pag. 297.

(76) Lorenzo Laviola.

(77) La scienza della legislazione, lib. III, P. I, cap. V.

(78) Alfieri, Rosmunda.

(79) Alfieri, Agide.

(80) Il denunziaste era un certo P. O. che figgendo da Palermo s’era condotto a Roma per evitare il carcere. Ivi avea composto due opuscoli in controsenso: Episodii della rivoluzione siciliana — Rivelazioni segrete sulla vita politica di Giuseppe La Farina e suoi seguaci, Losanna 1865 contro la rivoluzione e i rivoltosi. E / misteri di Roma, contro il Papa e Francesco II.

(81) V. POLIGNAC, Etudes, note 7.

(82) Il Conte Marcantonio Nicolò de la Motte Valois servendo da spia la polizia segreta fu inventore d’una congiura famosa detta del Bord de l'eau

(83) CHATEAUBRIAND, Lettre à M. de la Ferronais. Paris 16 juin 1824.

(84) Dante.

(85)Alfieri, Agide.

(86)Alfieri, La congiura dei Pazzi.

(87)Dante.

(88) De CHATEAUBRIAND, Mémoires d'outre-tombe, t. V, pag. 247.

(89) SEGUR, Oeuvres, t. XVIII, ch. I, pag. 39.

(90) CANCELLIERI, Polizie del carcere tulliano detto poi Mamertino, cap. I, pag. 4.

(91) Idem loc. cit.

(92) ERASMO, Adagior, chil. II, cent. II, cap. 96.

(93) POTTER, Archaelog. graec., lib. I, c. 23.

(94) PROCOVIO, De bello pero., lib. I.

(95) GOKUYA, Inferno v. Il mondo contemporaneo, vol. X, pag. 466.

(96) Nel Precursore, giornale infrenabile di Palermo, un tal Perrone-Paladfai disse fatto a questo Camaiti le allusioni nella Beatrice Cenci nota I, del cap. X, e nota n, del cap. XI. — Guerrazzi ne lo giustificò colla seguente lettera ch’io lessi in originale, e che promisi pubblicare in questi miei Ricordi.

Caro Camaiti

Io serbo memoria la Dio grazia precisa, di tutti i particolari dell’agitata mia vita. Però rammento benissimo che tu, il Giannini e il Bertozzi foste i miei custodi a Volterra; tu e Bertozzi faceste il vostro dovere con discretezza e convenienza, di niente ho da dolermi di voi, e mi piace attestarlo. Giannini razza di sbirro si offerse di far pervenire una lettera mediante Gasparini di Firenze al ministro Hamilton, ed io accettai; ma nella lettera al Gasparini inserii altra lettera da consegnarsi al ministro dove non aveva scritto nulla, perché se fosse stata consegnata fedelmente non avrebbero mancato d’avvisarmi, e allora sicuro ne avrei scritto una seconda con qualche cosa. Giannini razza di sbirro, prese da me qualche scudo, e andò diffilato a portarla al direttore Leonori Cecina, che apertala rimase con un palmo di naso. Ho avuto luogo poi di rivedere il Giannini, e gli ho tirato gli orecchi dicendogli: furfantano! o che credevi che le oche dovessero or menare a bere i paperi? Tu non vali il pregio che io ti dia una pedata nel culo, non ti farò male, ma dove compaio io, tu vattene. Tutto questo per farti conoscere che io ricordo bene le cose; quanto a te ripeto, non ho niente a dolermi; studiando il tuo carattere conobbi che tu sei pauroso, poltrone piò d’un coniglio, attaccato come ogni altro impiegalo alla sua pagnotta, ed anche di recente ebbi informazione da un tal Berardi, che per infamia dell’infame Peruzzi fu trasportato costà, sotto la incolpazione di un delitto immaginario, che mi conferma in questo mio giudizio. Dunque porta questa mia lettera al signor Perroni-Paladini, e sono persuaso le porrà piena fede. In quanto a te continua a fare il tuo dovere usando con tutti ia convenienza che usasti con me, massone coi detenuti politici, che oggi prigioni domani possono diventarti padroni. Sta sano e addio.

(97) Coste Petitti, Esame della polemica insorta sulla riforma delle carceri ecc. pag. 27.

(98) Lib. VII.

(99) Dittan. II. 30.

(100) Alfieri, La congiura dei Pazzi.

(101) Proverbio toscano.

(102) Alfieri, Merope.

(103) Metastasio.

(104) Metastasio.

(105) Proverbio.

(106) E. Sue, Le juif errant, n. XI, pag. 100.

(107) DANTE, Purgatorio, c. VI.

(108) Antigone.

(109) Lib. IV, dei Tristi.

(110) ALFIERI, Agide.

(111) Rien de triste comma un reste de jeunesse, rien d’incommode comme un demi-vieillesse.

Mad. Guizot — Conseils de morale ou essais sur l’homme, les mœurs, les carotières etc. Paris 1828, t. II, n. XXIV, pag. 63.

(112) Nunquam miseros aut calamitates dixero, qui felicitate ingenii, honestisque laboribus et assiduis vigiliis id consecuti sunt, id vitae suae praesidium compararint, quod neque fortunae temeritas, neque ulla inimicorum injuria labefactaret.— Valeriano, De litteratorum infelicitate libri duo, Venetiis 1620, pag. 108, lib. II. — Quest’opera fu continuata in Olanda nel secolo appresso da Cornelio Tollio.

(113) v. Unità Cattolica, 2 febbraro 1867, ii. 28.

(114) Gualterio scrisse in quattro volumetti Degli ultimi rivolgimenti italiani, Firenze Le Mounier 1853, e n'ebbe aspra ma non intera censura dal cav. M. Cartelli biografo di Cesare Cantù.

(115) Histor, lib. II, n. X.

(116) Alfieri.

(117) Massimo D’Azeglio, I miei ricordi, Firenze 1867, vol. I, cap. V, pag. 38.

(118) Alfieri, Merope.

(119) Alfieri, Polinice.

(120) PRATI, Il calunniatore.

(121) PRATI, Il delatore.

(122) DANTE.

(123) Alfieri, Saul.

(124) Dante.

(125) PRATI, Perdonate.

(126) PRATI, Perdonate.

(127) Serm. de 12 Steli.

(128)Montalambert, I monaci d'occidente, vol. I, Introduzione cap. I, pag. 3.

(129) Montalambert, loc. cit., cap. I, pag. 2.

(130) D.

(131) JULIES, Leçons sur les prisons, etc. trad. de l’allemand. Paris 4834. Lec. 7, pag. 437.

(132) Filangieri, La scienza della legislazione, lib. I, cap. XVIII.

(133) The reformation of men can never become a mechanical process.

(134) Montalembert, loc. cit. vol. I, Introduzione cap. IX, pag. 244.

(135) Massimo d'Azeglio, loc. cit. vol. II, CAPO XXX, pag. 336.

(136) Alfieri.

(137) Beatrice Cenci, XXX.

(138) SVETONIO.

(139) Soliloquii ecc. tradotti dal conte Francesco Perlusati.

(140) Le mie prigioni, CAPO LXVI.

(141) Alfieri, Antigone.

(142) Le juif errant, n. XL, pag. 42.

(143) L. TETTONI F. SALADINI, Teatro araldico, Lodi 1841 nella prefazione.

(144) La famiglia Ballo, cui apparteneva mia madre, mena vanto di un Manilio Rallo, poeta latino del secolo XV e XVI, che fu caro a Leone X, e ’l Panormita lo ascrisse alla Pontaniana di Napoli.

(145) Dante.

(146) ALFIERI.

(147) E. SUE, loc. cit. II. XXXI, pag. 212.

(148) Nell’epigramma che fa a Paolo nel IV libro.

(149) Mémoires d'outre-tombe, t. XI, pag. 82.

(150) PETRARCA.

(151) P. ALMEIDA, Trésor de patience caché dans les plaies de Jesus-Chrisl, trad. du portugais. Clermont-Ferrand 1838, station I, medit. V, pag. 16.

(152) PORCACCHJ, Funerali antichi di diversi popoli et nationi. Venetia MDLXXIII pag. 71.

(153) PORCACCHI, loc. cit., pag. 72.

(154) In S. Maria di Gesù colla seguente epigrafe:

SUIS

SUORUMQUE CINERIBUS

VINCENTIUS MORTILLARO

ADHUC VIVENS

ANN, MDCCCLXVI.

(155) Fra INNOCENTIO CYBO GHISI, Magnificenze dell'essequie antiche et moderne. Vinezia 1601. Dialogo I, pag. 7

(156) FRANCESCO RIFFA, Ode v. Malvina, anno II, Napoli 1838, pag. 153.

(157) Antico è l'uso della campana pei morti. Olim si quis e vila excessisset aera campanaeve pulsabantur, ut pervetus Theocriti scholiastes annotat – quod id sonus credebatur esse xazarus xai arelastixós tan miasmaton hoc est avertere spectra et daemonum ludibria V. HIERONIMI MAGII ANGLACENSIS, De tintinnabulis liber postumus. FRANCISCUS SWEERTIVS, notis illustrabat. Amstelodami 1664. Nota al CAPO X, pag. 135.

(158) MURET, Cerimonie funebri di tutte le nazioni del mondo trattato. Venezia 1722. CAPO VIII.

(159) MURET, loc. cit., CAPO III..

(160) Il giorno 14 maggio 1866 erano 2019.

(161) Le migliori opere a consultare sulle malattie che manifestar si possono nelle carceri sono le seguenti:

1. JOHN PRINGLE'S, Observations on the nature and cure of jail fevers, London 1750.

2. Mich. ALBERTI, Dissertatio de morbis carceratorum, Haine 1754.

3. JO. CHRIST. POHL. Programma de cura morborum in hominibus carcere inclusis Observatorum. Lipsiae 1772.

4. JOHN MASOY GOOD’S, Dissertation in the diseases of prisons and poor houses, London 1783, traduite en allemand par le comte Ch. de Harrach. Viennae 1798.

5. SEB. CERA, De febri nosocomica cui accedit de febre carceraria et rurali epidemica tractatus. Ticino 1792.

6. JOHN JEYSIAN'S, Account of the jail ferer or typhus carcerum as it has appeared at Carlisle 1781 London.

7. ROB. ROBERTSOY'S, Observations on the jail, hospital or ship ferer. London 1783.

8. H. W. F. SOELLING, Commentatio medica de febre carcerum. Marburg 1780.

9. G. CARMICHAEL SWETU, Description of the jail distemper as it appeared a mongol the spanish prisoners at Winchester. London 1795.

10. P. C. COLOMBAT, Manuel d'hygiène et de médecine pratique des prisons, précédé de la descriplion de celle de Chaumont. Chaumont 1824.

(162) HOWARD’S, State of the prisons, (firts edition) pag. 3.

(163) Ecclesiast. cap. XXX, V. 16.

(164) Lib. III, tit. XI, art. 819.

(165) Furon essi il giudice Costanzo e i chiar. prof. Maggiorami e Sanfilippo, venuti a visitarmi la domenica 13 di maggio.

(166) Sella governò il pubblico tesoro per prima volta dal 3 marzo agli 8 dicembre 1862.

(167) Nemo agit de tribunatu gratias, sed conqueritur quod non sii ad praeturam usque perductus, nec ista grata est si desit consolatus.

(168) Del machiavellismo letterario.

(169) Dell'ipocrisia dei letterati.

(170) Dell’arte di mercar la fama.

(171) ALFIERI, Virginia.

(172) No derelinquas amicum antiquum. Eccles.

(173) Le tartufo, ad. I, se. I.

(174) V. Saint Beuve, Tableau de la poésie française au sixième siècle, t. I, pag. 339.

(175) V. Oeuvres de maître François Rabelais publiées sous le titre de faits et dite du gèant Gargantua et de son fil Pantagruel. Amsterdam 1723.—Rabelais morì nel 1553.

(176) Francesco Ruffa, Ode v. Mattina, pag. 153.

(177) v. Klen Baudek, nella Galerie des sarans et des hommes d’état 1816 3° cahier.

(178) v. GIOV. DOMENICO GIULIO, Le veglie di S. Agostino vescovo d'Ippona, Notte XIII.

(179) CONTE PETITTI di Rovereto, Esame della polemica insorta sulla riforma delle carceri, considerata nelle ultime produzioni delle opposte. scuole. e riflessi relativi. Milano 1842, pag. 27

(180) Essais sur les honneurs et sur les monumens accordés aux illustres searans, pendant la suite des siècles par M. Titon De Tillet. Paris 1734.

(181)Sulla servitù d'Italia, Discorso 2.°

(182) v. Morichini. — Roma IMO ospusc. in 8°

(183) che gefenkuss carcer in latin ist erfanden altein zoo behalten und nit suo peinigen — SEBASTIAN BARST, Richerticher chayspiegel — specchio di procedura giudiziaria.

(184) Confutazione dei principii esposti nel trattato dei delitti e delle pene, 1767.

(185) v. Cancellieri, Notizie del carcere tuttiano. Roma 1788 cap. I, p. I e II.

(186) Cours d'histoire del 1828 pag. 12.

(187) Gl'Inglesi hanno financo le prediche speciali pei carcerati. V. WELL. Faulkner cappellano del carcere di Worcester ha pubblicalo riuniti i passi della Bibbia che possano servire di tema per omelie ai detenuti,

(188) Petitti, loc. cit., pag. 8.

(189) A 11 maggio 1839.

(190) Marchese Carlo Tossiciasi, Sul dritto di punire applicalo carne mezzo di repressione e di correzione, e considerato in alcuni suoi rapporti colf economia morale e politica. Firenze IMI, pag. 48.

(191) v. Ch. Lucas, De la reforme des prisonse. Paris 1838 p. p. ch. I, pag. 23 e 24, nota (3)

(192) v. MOREAU CHRISTOPHE, Mémoire sur la mortalité et la folie dans te regime pénitentiaire, sta negli Annales d’hygiène publique. Paris 1839, t. XXII, pag. 5 e seg.

(193) The philosophy of domestic economy, or exemplified in the mode of warming, ventilating, washing, drying and cooking. Notingham 1819.

(194) Observations on ventilation, and on the dependence of health on the purit of the air which we respire, being the substance of lectures, delivered on this subject, at the request of the Dublin society in their theatre in 1818. Londres 1822..

(195) Die Heitzung mit erwarmter Luft (Del riscaldamento per mezzo della calefazione dell'aria). Vienne 1826, 3. edit.

(196) Abhondlung über öffentliche Armenund krankenseflege u. $. W. (Dissertazione sul reggimento degli stabilimenti destinati ai poveri ed agli ammalati). Münich 1813...

(197) ARISTOTILE, De republica, lib V.

(198) De republicu, lib. VIII, De legibus, Dial.

(199) Multam malitiam docuit otiositas.

(200) v. VILLERMÉ, Diction. des scienc, medie., tom. XIV, pag. 230.

(201) S. BENEDETTO, Reg. CAPO 48.

(202) Ipse fundator placidac quietis Versi di ALFANO, monaco di Montecassino e arcivescovo di Salerno citato da Guuntar, De litterar. stud. apud Italos, pag. 48.

(203) Galerie morale et politique, t. I, Oeuvres, t. xxvii, pag. 15.

(204) L. aut damnum 8 § solent ff de poenis.

(205) v. Levitico, cap. XXIV, v. 12. — Numeri, cap. XV, V. 34.

(206) Lib. VI, Etymolog., c. ult.

(207) Ad I. II, Cod. de exactoribus lib. X.

(208) Lib. iv, de lingua latina.

(209) ORATIO in Catilinam.

(210) De carcere et antiquo ejus usu ad haec usque tempora deducto tractatus, Patavii 1113, cap. I, pag. 2.

(211) Traité du droit penal, t. III, pag. 169.

(212) In omnibus respice finem.

(213) N. H. JULIVE, Leçons sur lei prisons, etc. traduit de l'allemand. Paris 1831, t. I, pag. XV.

(214) LUCAS, loc. cit., sect. III, ch. XVII, pag. 359.

(215) Études sur le sisteme pénitentiaire irlandais etc. revue par FR. De Hotezendolff, Berlin 1865, pag. 14.

(216) DUMAS, Borboni di Napoli, vol. VII. Napoli 1863, pag. 230.

(217) v. DANIELE STERN, Dante et Goethe dialogues. Paris 1866, vol. III-8°.

(218) OVIDIO In Octaviani Caesaris invidiam consolatur.

(219) Raccolta di proverbi toscani. Firenze 1833, pag, 8.

(220) Ei mi disse chiamarsi Vertua, emigrato vegeto al servizio della polizia.

(221) Fra l’altro sono magnifici i patii di marmo, i quali sommamente sorpresero re Vittorio Amedeo, sicché ne voile eseguiti due a sue spese, per regalarli a Tortino.

(222) La ricchezza delle seppelliti di questo monastero eccedeva ogni credenza. Esso fra le altre preziose cose avea un baldacchino che fu prescelto come il più ricco, onde servisse all'entrata solenne di re Carla III.

(223) Oltre alla volta che è di Olivio Sozzi, il quadro dell'immacolata in fondo del cappellone è di Pietre Rovelli, e si è scritto che rivaleggi con quello del celebro cav. Lanfranchi dipinto pel tempio dei cappuccini di Roma.

(224) Per decreto reale del 6 marzo 1864.

(225) De vitis Siculorum Sonctorum, pag. 38.

(226) De majestate panormitana, lib. II, f. 146.

(227) Vita della Venerabile suor Benedetta Diggio abbadessa perpetua e fondatrice del monistero dell'Immacolata Concezione della città di Palermo. Palermo 1742.

(228) Per ordine dei card, arcivescovo Doria, appena morta, la Riggio fu Alita. seppellire in ma sepoltura nuova collaterale alla comune. E quando l'antica chiesa divenne coro, e i cadaveri delle monache si trasferirono in una novella sepoltura, a mettere separato il cadavere della Riggio fu questo situato vicino all'altare del coro, nella parte destra, ed in quel moro in cui si facea fine ai sedili delle monache, v. Michele Scavo; loc. cit., cap. XIX, pag. 103.

(229) L'epigrafe era cosi concepita: — Rev. ac Ven. M. Abbatissae Benedictae Riggio hujus Immac. Concept. Monasterii Institutricis, quae obiit X II, kalen. martii MDCXII, hoc sepulcrum ossa tenet, animam coelum habet.

(230) Del 16 maggio 1866, n. 62.

(231) v. art. 101; Codice penate del regno d’Italja del 20 novembre 1850, colle modifiche del decreto dei 16 novembre 1885.

(232) DE Sact, nel Bullettn de bibliophile et du bibliothecaire publiè par Leon Techener, aoùt 1866, pag. 389.

(233) Carinne ou l’Italie, liv. XIV, ch. III.

(234) Silvio Pellico. Le mie prigioni. CAPO LXXXIV.

(235) Alfieri, Sofonisba.

(236) Essai sur l'histoire générale, t. VIII, ch. 135.

(237) Fregier, Des classes dangereuses de la population dans les grandes tilles et des moyens de les rendre meilleures. Paris 1840. t. I. p. III, tit. I. ch. I, pag. 356.

(238) Circa le novità dispendiose ed inutili introdotte nello spedale civico di Palermo vedi La posta elettorale giornale di Palermo n. 40 e 42.

(239) Melius est ut scandalum oriatur, quam ut veritas relinquatur.— s. GREGORIO, Homil. 7, in Ezechiel.

(240) FODERE’, Essai historique et morale sur la pauvreté des nations, la population, la mendicité, les hopitaux, et les enfrons trouvé. Paris 1823, ch. XIX,par. 161.

(241) ARMAND HUSSOY, Etudes sur les hopitaux. Paris 1862, pag. 32.

(242) Ragguaglio di un triennio di clinica-medica nella regia università di Palermo. Palermo 1866 in 8.º

(243) Des hospitaux et des hospices, des conditions que doivent présenter ces établissements au point de vu de l'hygiène et des intérêts des populations. Paris 1866, un vol. in 8.º

(244) Quest’uomo celebre nato in Catalogna nel 1486 studiò tutte le scienze, abbracciò tutti gli stati, percorse tutte le regioni; armigero, teologo, giurisperito, medico, pubblicò nel 1509 un trattato Sull’eccellenza delle donne sugli uomini.

(245) DE CHATEAUBRIAND, Mémoires d'outre-tombe, t. V, pag. 385.

(246) Beatrice Cenci, cap. VIII.

(247) Every woman is at heart a rake.

(248) Discours de réception à l’Académie française.

(249) Dica di Maddaloni, Dei cinque regni d’Italia libri cinque. Lugano 1868 vol. I, lib. III, pag. 318.

(250) Brephotrophium.

(251) Orphanotrophium.

(252) Gerontochomium.

(253) Ptochotrophium.

(254) Nosocomium.

(255) Sotto nome di s. Maria Egiziaca fondaronsi siffatti monasteri nelle grandi città al XVII e XIII secolo.

(256) v. La sua vita scritta da s. Girolamo. Ep. XXX. ad Oceanum.

(257) MONTALEMBERT, I monaci d'Occidente, vol. II, lib. III, pag. 178.

(258) MONGIARDINI, Saggio tagli spedali, § I, pag. 3.

(259) DE CHATEAUBRIAND, Memoires d'outre-tombe. t. XI, pag. 407.

(260) DE CHATEAUBRIAND, Le génie du christianisme, t. II, pag. 324. Lettrcs a. V. DE FONTANES, edit. di Didot. Paris 1852.

(261) p. Secondo Franco, Disposto popolari atte obiezioni più comuni contro la religione. Roma 1864, IV ediz. CAPO XIV, pag. 109.

(262) PINDEMONTE.

(263) Nel IV volume della sua grand'opera della storia e dei monumenti germanici, Dos Leben Stein’s (la vita di Stein).

(264) v. Geschichte des Kriegs von 1813 und 1814, (Storia della guerra del 1813 e 1814).

(265) A 14 febbraro 1813.

(266) La famiglia regnante di Prussia è della casa degli Hohenzollern, il cui primo autore evidentemente conosciuto fu Tassillon che viveva nell’anno 800.

(267) v. Kluber Akten des Wienner congresses (Atti del congresso di Vienna); opera riputata classica, com'è stimata meschina quella di Dupradt Du congrés de Vienne.

(268) Westphalen.

(269) Nel 1657.

(270) Nel 1701.

(271) Della Marca di Brandeburgo nel 1408 s' cra reso padrone Federico. Fr.

(272) Dal 1756 al 1762.

(273) Lowositz o Lobosycze borgo della Boemia, circondario di Leitmeritz su l'Elba – 1 Ottobre 1756.

(274) 3 Novembre 1760.

(275) Danzig.

(276) Julich.

(277) Coln.

(278) Trier.

(279) Pommern, nel 1814.

(280) Nel 1819.

(281) Carlsbad o Karlsbad città di Boemia nel circondario di Elnbogen prende nome da Carlo IV re di Boemia, che venne a guarirvisi di tre ferite ricevute a Crécy, combattendo a fianco di suo padre Giovanni. Carlsbad è il ritrovo ordinario dei sovrani. Vi si contano otto fontane, la più celebre delle quali è lo Sprudel, dci cui visitatori si pubblica una lista giornaliera; essendo celebri queste acque minerali, che sono ottime pel fegato quanto pessime pei denti.

(282) Antwerp città munita del Bolgia.

(283) Città di Viriemberga Stuttgard.

(284) Nel 1834 avendolo comprato por 80 mila scudi all'anno da potere del Duca di Sassonia-Coburgo-Gotha,

(285) Hohenzollern. Nel 1849.

(286) Oldenburg. Nel 1833.

(287) Brandenburg.

(288) Die Warthe o Wartha.

(289) Essa possiede alcune frazioni della Lorena francese.

(290) Essa possiede il cantone di Neuchatel nella Confederazione svizzera,

(291) A. BALBI, Abrégé de géographie. Bruxelles 1840, 3.° edit. pag. 626.

(292).A. Balbi, loc. cit., ne segna al 1840 la popolazione per più che 12 milioni, ma oggi sorpassa i sedici milioni.

(293) Dall'anno 800 al 1800.

(294) A 6 agosto 1806.

(295) Città di Ungheria, Presburg.— del 20 Luglio 1806 tra la Francia e la Russia.

(296) 1807.

(297) 1809.

(298) L’Unità Cattolica, 1 luglio 1866, n. 152.

(299) Cours d’histoire moderne, 12 leçon, pag. 23.

(300) v. Senebier, Catalogne raisonné des manuscrits conservés dans la Bibliothèque de la ville et république de Genève, p. 219. 288. 289.

(301) v. A. Balbi, loc. cit., pag. 616.

(302) Schleswig-Holstein.

(303) Lauenburg.

(304) v. J. B. G. Gauffi, La question et la polémique dano-allemandes à propos des duchés de Slesvig et de Holstein dès les premiers temps jusqu’en juin 1866. Genève I vol. in-8.

(305) Lerminier, Introduction génerale à l’histoire du droit, ch. IV.

(306) Die gewalt ghet vor das recht.

(307) HILLEBRAND, La Prusse contemporaine et ses institutios, pag. 33.

(308) A 22 febbraro.

(309) A 14 agosto

(310) Salzburg.

(311) RICHER, Les vies des hommes illustres comparés les uns avec les autres, t. I, pag. 60.

(312) GAGJE, nella France del 31 luglio 1868.

(313) Lauenburg,

(314) Italum regina. Sannazzaro.

(315) CHIABRERA.

(316) Lord BYRON, Child-Harold’s pilgrinage, 4. 2.

(317) Un decreto del gran consiglio di Venezia dato il 3 aprile 1600 è così concepito: «Enrico di Borbone IV re di Francia e di Navarra con li figliuoli e e discendenti suoi sia annoverato tra i nobili di questo nostro maggior consiglio.»

(318) A 29 agosto.

(319) In settembre.

(320) Nel 1801.

(321) Specialmente i Vogelberg.

(322) Camillo conte di Cavour era figlio di un commerciante della contea di Nizza.

(323) CHATEAUBRIAND, Mémoires d'outre-tombe, t. IX, pag. 185.

(324) La guerre et la crise européenne, nella Revue des deux-mondes, t. 63. — 1 giugno 1866.

(325) v. TACITO, Histor., lib. III, § 81.

(326) FORCADE, Cronique de la quinzaine, nella Revue des deux-mondes, loc. cit., pag. 799.

(327) SEGUR, Oeuvres, vol. II, Mémoir. pag. 70.

(328) Nella tornata degli 8 maggio 1866.

(329) v. Mistress Abell, Rimembranze di s. Elena, vedi il Mondo contemporaneo vol. IX, pag. 424.8

(330) Francia 903, 617

Russia 1, 200, 000

Austria 651, 612

Prussia 630, 000

Confederazione Germanica 407, 361

Italia 424, 193

Spagna 271, 900

Da riportare 4, 508 683

Riporto 4, 508, 683

Portogallo 64, 000

Olanda 92,000

Svezia e Norvegia 139, 000

Danimarca 41,940

Inghilterra 365, 000

Più volontari! 230, 000

Turchia 341, 580

Egitto, Moldovalachia, Montenegro e Serbia 152, 000

Belgio 198, 291

Svizzera 80, 650

Stati Romani 12,000

Totale. 6,225,114

(331) Discours pronomi au club anglois de Saint-Petersbourg le 22 dicembre 1863.

(332) Courcelle.-Seneuil ii, Les erreurs de la guerre, v. Journal des économistes. Fevr. 1867, pag. 186.

(333) CANTU’, Storia degli Italiani, lib. II, cap. VI, II. 8.

(334) LEMIERRE.

(335) SEGUR, Hist. du Bas-empìre, t. III, ch. I, Oeuvres t. XVIII, pag. 5.

(336) De jure regni apud Scotos.

(337) De rege et regis institutione.

(338) G. G. GERVINUS, Histoire du dix-neuvième siècle depuis les traités de Vienne, t. VIII, pag. 219.

(339) Gl'Inglesi pretesero che il prenome di Napoleone I fosse Nicola, donde per derisione lo chiamarono Nic.

(340) A 20 ottobre 1808.

(341) Appunto per questo i verseggiatori italiani nel momento d’eccessiva adulazione poi Bonaparte dileggiarono aspramente l’Inghilterra, e presagendole l'ultimo sterminio resero popolare il seguente sonetto:

Luce ti neghi il cielo, erba la terra,

Malvagia! — che dall’alga e dallo scoglio

Pel sentier dei ladron giungesti al soglio,

E con l’arme di Giuda esci alla guerra.

Fucina di delitti in cui si serra

Tutto d'Europa il danno ed il cordoglio,

Tempo verrà che abbasserai l'orgoglio

Se pur stanco alfin Dio non ti sotterra.

La man che tempra delle Gallio il fato

Scomporrà le tue trecce e fia che chiuda

Questo di sangue umano empio mercato.

Pace avrà il mondo, e tu ubriaca e cruda

Del mar tiranna, all’amo abbandonato

Farai ritorno pescatrice ignuda.

(342) v. Il Mondo contemporaneo, vol. VII, 1843. Ode a Napoleone.

(343) KUMINOFF, loc. cit.

(344) England user her friends as a huts-man his pack far the thinks, volien the likes, site can whistle them bock. — Goldsmith (L’Inghilterra tratta i suoi amici come il bracchiere i; suoi cani da caccia; perché essa crede di non avere che a dare un fischio, per richiamarli).

(345) Si Dieu dans ses impénétrables conseils avait rejeté la race de saint Louis, si les mœurs de notre patrie ne lui rendaient pas l'état républicain possible, il n'y a pas de nom qui aille mieux à la gloire de la France que le votre. — DE CHATEAUBRIAND, Lettre à M. le prince Louis Napoléon. Genève octobre 1832.

(346) Canning che si gloriava d'essere stato l'allievo di Pitt.

(347) Martinez de Rosa e il conte De Chateaubriand.

(348) Oeuvres, t. VII, pag. 9.

(349) SEGUR, Oeuvres, t. VII, pag. 210.

(350) Dal 1860 al 1866.

(351) Precisamente 2,761,314, 639. 56. v. Unità Cattolica del 11 agosto 1866. n. 189.

(352) Di essi fan parte l’alienazione di rendita del Gran-libro di Sicilia nel 1860 1861 1862 in L. 36,430,297. 47; e il prestito nazionale in Sicilia per decreto dittatoriale del 27 agosto 1860 di L. 8,779,697. 77.

(353) Nel 1709.

(354) Il 30 aprile.

(355) Il 1 maggio.

(356) v. La gazzetta di Milano.

(357) Raffaele Busacca, La finanza italiana e i nuovi provvedimenti finanzieri, Nuova Antologia. Firenze, vol. III, pag. 631.

(358) La scienza della legislazione, lib. II, cap. VI.

(359) v. MURATORI, Antiquit. Italie, t. II, dissert. XIX

(360) Nel 658.

(361) Nec interest, quali utare sermone: res enim non verba quaeruntur. Lactart, Diritt. Istit., lib. XIII, cap. XIII.

(362) A 1 maggio.

(363) Wolowski, nella sua opera Les finances de la Russie, p. 143, chiama moneta di carta i biglietti di banca che si pagano a vista; chiama carta moneta i suddetti biglietti quando il loro corso è forzoso e senz'obbligo di pagamento.

(364) La guerre et la crise européenne – sta nella Revue de deux -mondes vol. 73, pag. 773. 1 giugno 1866.

(365) Les finances de la Russie, Paris 1864, pag. 139.

(366) Wolowski, loc. cit., pag. 148.

(367) Journal asiatique, vol. I, p. 264.

(368) CHATEAUBRIAND, Mémoires d'outre-tombe, t. IX, pag. 405.

(369) v. Pascal Duprat, Annuario di economia sociale e di statistica pel regno d’Italia, 1864.

(370) Segur, Oeuvres, vol. XXIX, pag. 106.

(371) Con decreto del 1 maggio 1866.

(372) Nella tornata del 18 aprile 1866.

(373) Le cours forcé etc. pag. 391.

(374) Le faux-monnayage fiduciaire, sta nel Journal des économistes, janvier 1867, pag. 84 85.

(375) Horn, La liberté des banques, n. XXII, pag. 63.

(376) Economy of capital.

(377) Cenni sui principii dell'economia sociale. Messina 1837. Appendice.

(378) p. Franco, Risposte popolari alle obiezioni più comuni contro la religione, 4.a ediz. Roma 1863, CAPO XIX, pag. 471.

(379) C'est notre temps lui-même qui est paradoxal, SILVESTRE DE SACY, Rapport sur la marche et les progrès de la littérature en France. Sta nel Bullettin du Bibliophile ct du bibliothécaire, février 1868, pag. 68.

(380) Réponse à la lettre de M. Michel Chevalier, nel Journal des économistes, mars 1867, pag. 389.

(381) SEGUR, Oeuvres, t. XVI. Hist. du bus empire, t. I, ch. XVII, pag. 431.

(382) Grizor, Mémoires pour servir à l'histoire de nos temps, I. VIII, ch. XLVII.

(383) v. Journal des économistes, août 1866, pag. 312. on.

(384) v. Nuova Antologia di scienze lettere e arti. Firenze 1866, pag. 751.

(385) Decreto del 28 luglio 1866.

(386) Essai historique et morale sur la pauvreté des nations, la population, la mendicité, les hopitaux, et les enfans trouvé, pag. 117.

(387) MONTALEMBERT, I monaci d'occidente, vol. I, cap. VIII, pag, 227.

(388) Memoria dell'avvocato Francesco Vestura, barone di Raulica, intorno cui corpi ecclesiastici e loro beni diretta al supremo Parlamento di Sicilia. Palermo 1814.

(389) Riforma del clero e del monachismo di Sicilia del prete Andrea Pusateri. Palermo 1815.

(390) Fece il maggior grido a quei tempi soprattutto la seguente memoria Osservazioni sulla memoria dell'avvocato Francesco Ventura barone di Raulica intorno ai corpi ecclesiastici e loro beni di F. LUIGI ANTONIO FARO carmelitano riformato. Catania 1815.

(391) v. L'Unità Cattolica degli 8 maggio 1866, n. 108.

(392) Quid prodest, Pontice, longo

Sanguine conseri pictosque ostendere vultus

Majorum?

GIOVENALE, Sat. VII.

(393) v. Il cenno nella Gazzetta d'Italia

(394) Del 17 maggio 1866.

(395) Art. 3.

(396) v. L'Unità Cattolica del 29 maggio 1866, n. 125.

(397) ALFIERI. La congiura dei pazzi.

(398) v. SEGUR, Oeuvres, t. XV, ch. XXVI, pag. 308....

(399) WISEMAN, Su la connessione delle scienze colla religione rivelata, ragionamento XI, vol. II, ediz. di Milano 1836, pag. 266...

(400) Confessio nominis, non examinatio criminis. TERTULLIANO, Apolog. c, II.

(401) Lib. I, ad Nat. cap. ix, pag. 150.

(402) v. PORTALIS, Discorso al corpo legislativo, il 5 aprile 1802.

(403) DANTE, Purgatorio, VI, 117.

(404) Vae regno ubi boni timidi, mali confidentes sunt. Vae regno ubi pacifici spernuntur, seditiosi foventur.

(405) Law is a betlomdep pit.

(406) The Works. 1808, vol. XVIII. pag. 183 a 338. lunga processura, che non aveva per iscopo se non protrarre quanto l'assedio di Troja la mia ingiusta e violenta prigionia. —Meno male che in fondo io non restava vinto dalla Aera procella, fornito di animo bastante a tolleranza; nulla ostante i nuovi soprusi, e le nuove misure di rigore, delle quali mi riserbo favellare indi a che avrò fatto sommario racconto delle cose della guerra, di cui parmi tempo che dessi il breve cenno che promisi.

(407) A 18 novembre.

(408)A 11 giugno 1865.

(409) Federico-Guglielmo I re di Prussia nato il 22 marzo 1797 successe a suo fratello Guglielmo IV il 2 gennaro 1861.

(410) Conosco di persona l'illustre generale Moltke holsteinese. Ricordo d'aver avuto l'onore di una sua lunga visita nel 1842, procuratami dall'amabile e bella prussiana madama Kabrun nata Nicolovius, con cui od io e la famiglia mia fummo in amichevoli relazioni, quand’essa venne a Palermo con madamigella Kendell. — Il barone de Noltke era allora maggiore, ed aiutante di campo di S. A. il principe Enrico di Prussia fratello di Guglielmo. Conservo ancora un biglietto, nel quale di suo pugno v'è segnato ch’egli era all’Hotel de France in piazza Marina, ove alloggiava insieme col conte de Monts e il conte de Münster; ivi stesso ove l'anno precedente aveva albergato Bismark. Il nostro ragionate s era versato tutto sul movimento alemanno, sul cammino intellettuale della Prussia, che le schiudeva quello materiale dell’unita tedesca... Chi sa se il barone de Moltke dopoché ha condotto l’armata prussiana quasi alle porte di Vienna si ricorda più di quel fatidico discorso? Sotto la sua direzione si è stampata la storia di questa campagna, od è pregevole l'opera che ha per titolo:—Histoire de la campagne de 1866 rédigée par la section historique du corps royal d’état-major sous la direction de S. E. le général de MOLTES (traduite de l’allemand par M. FURCY, capitaine au 90° de ligne — seule traduction autorisée).

(411) Il 19 giugno.

(412) Oeuvres, t. 18, pag. 41.

(413) Il Moniteur annunziolla il giorno 19.

(414) MAZZINI, Scritti, vol. II. Milano 1861. pag. 117, 118, 119.

(415) MAZZINI, Scritti, vol. II. Milano 1862, pag. 334.

(416) Esso si componea di Ricasoli, Pettinengo, De Pretis, Scialoja, Jacini, Berti, Cordova, Borgalli. Visconti-Venosta.

(417) La guerra in Italia nel 1866 — l'esercito la flotta, e i volontarii italiani—studio militare con atlante. Milano aprile 1867, capii. I, pag. 59.

(418) Mémoires pour servir à l'histoire de mon temps, t. VIII, 2.(e )édit. Paris 1867, pag. 318. cap. XLVI.

(419) W. Rustow, Der Krieg von in Deutschland und Italien politisch militärisch beschrieben. Zurich 1866. pag. 136, dice che gli Austriaci erano 57, 000 con 272 pezzi, e gl'Italiani 90,000 con 192 pezzi. — L. A. CASATI, V. Nuova Antologia di scienze lettere e arti, Firenze 1866, vol III, pag. 771 e 772 dice che gli Austriaci e gl'Italiani ebbero 95,000 combattenti per ciascuno.

(420) Siècle de Louis XIV, pag. 135 édit. Beuchot.

(421) Sacramento del diavolo, bestemmia tedesca.

(422) v. La guerra d'Italia ecc., loc. cit., cap. IV, p. 159 e seg.

(423) Histor., lib, III, § 77.

(424) CESARE MALPICA, I. Malviną, pag. 29

(425) Iniquissima haec bellorum conditio est: prospera omnes sibi vindicant, adversa uni imputantur — TACITO, Cn. Julii Agricolae Vita $ 27.

(426) v. GERVINUS, Histoire du dix-neuvième siècle depuis les traités de Vienne traduit de l'allemand par J. F. Minsten. Paris 1864, t. I, pag. 15.

(427) Il faut une guerre pour caractériser un règne.SEGUR, Oeuvres, t. II, pag. 377.

(428) NAPOLEONE III. Histoire de César, liv. IV, ch. X.

(429) Epistolae XV. III.

(430) Il 26.

(431) La guerra— giornale di Palermo dal 26 giugno 1864, n. 21.

(432) La guerra d'Italia ecc. loc. cit., cap. V, gag. 214.

(433) ALFIERI.

(434) Utque campos, in quibus pugnatane est adiri, abhorrentes quosdam cadaverum labem detestabili voce confirmare ausus est: optime olere occisum hominem. — SVETONIO.

(435) Bedriac era ove si trova torre Azzolini.

(436) Vantaggi dell’alleanza italo-prussiana, pag. 32.

(437) M.*** L’Angleterre étudée sur le self-govemment. Paris 1864, pag. 188,

(438) EGINH, in Carol. Magn., c. 16.

(439) La guerra d'Italia ecc. loc. cit., cap. V, pag. 287.

(440) Scritti ecc. ordinati da N. Tommaseo, vol. I, pag. 207.

(441) Sten, Oeuvres, t. III, pag. 591.

(442) Betussi, Perdonati, Capacio, Pinta, Domenichi, Tomassini, Scardeoni, Della Chiesa, Van Denbus, Martino, Le Moine, Brantome, Harion de Corte ed altri molti.

(443) Ei compose un'opera in latino, sulle donne illustri.

(444) SENECA, De clement., lib. I, c. IX.

(445) A 3 luglio.

(446) v. Il Precursore del 3 luglio 1866, n. 157.

(447) Le cours forcé en Italie, v. Journal des économistes del 1866, pag. 387.

(448) La flotta italiana componeasi di 36 navi con 712 cannoni e 12079 uomini.

(449) La flotta austriaca componeasi di 27 navi con 535 cannoni e 8026 uomini.

(450) La guerra in Italia ccc. loc. cit., cap VI, pag. 318

(451) Il 3 luglio 1866.

(452) Quod ad me allinet, jam pridem mihi decretum est: neque exercitus, ne que ducis terga tuta esse. — TACITO, Cn. Julii Agricolae vita. § 33.

(453) RAVVITTI, Delle recenti avventure d’Italia, vol. II, cap. XIX, pag. 115.

(454) v. Art. 3 pubblicato dal Monitore prussiano del 18 luglio 1866.

(455) La rie de J. Cesar, liv. IV, ch. X, pag. 511 e 516.

(456) Eranvi circa 100 pezzi e 2500 soldati.

(457) Nel 1807.

(458) Nel 1810:

(459) A 13 marzo 1811.

(460) A 19 luglio.

(461) La guerra in Italia ecc. loc. cit., cap. VI, pag. 382.

(462) Costruita in America al 1860 della forza di 800 cavalli con 36 cannoni comandata da un Faa di Bruno.

(463) EURIPIDE.

(464) Costruita nel cantiere di Tolone al 1860 comandata da un Cappellini.

(465) L'imperatore di Austria per telegrafo gli communicava la promozione a vice-ammiraglio.

(466) v. Atti ufficiali, II. 33, pag. 123.

(467) Credunt plerique, militaribus ingeniis subtilitatem deesse, quia castrensis jurisdictio sceyra et obtusior ---- Tacito, Cn. Julii Agricolae vita, § 9.

(468) SĘGUR, Oeuvres, 1. XVIII, ch. I, pag. 41,

(469) NAPOLEON III. Hist. de Jules César, vol. 1, liv. IV, ch. VI, pag. 426.

(470) Il 28 gennaro 1867 nel senato del regno elevato ad alta Corte di giustizia.

(471) A 15 aprile Persano fu dichiarato colpevole di disubbidienza, imperizia e negligenza; e condannato alla dimissione, alla perdita del grado d'ammiraglio e al risarcimento delle spese del processo. Poco mancò non fosse condannato per la codardia; perchè 60 furono i voti pel si, ma 71 pel no.

(472) v. l'articolo del Pays ristampato nell'Avvenire Cattolico di Firenze del 5 gennaro 1867.

(473)...quid inertia bello

Pectora, Ubertus ait duris praetenditis armis,

O Itali? Potius vobis sacra pocula cordi,

Saepius et stomacum nitidis laxare saginis,

Elatasque domos rutilo fulcire metallo.

MURATORI, Dissertazioni sopra le antichità italiane. Napoli 1752, t. I, dissertazione XVIII, pag. 247.

(474) Los descamisados.

(475) Il 14 febbraro 1813 al Corpo legislativo.

(476) Giuba primo di tal nome, re di Numidia succeduto a suo fratello Jemprale cinquant'anni prima dell'era cristiana chiusosi in Zama si fece dare la morte da uno dei suoi schiavi o dal suo compagno di infortunio Petrejo.

(477) v. VELLEJO PATERCOLO.

(478) A 24 luglio.

(479) E. SUE, Le juif errant, n. XXXIX, pag. 393.

(480) Journal des économistes, juin 1867, pag. 470,

(481) Il Conte di Monte-Cristo. CX.

(482) Nel 21 agosto.

(483) Il 23 luglio.

(484) Segnati il 26.

(485) v. GERVISUS, Histoire du dix-neuvième siècle depuis les traités de Vienne traduit de l'allemand par J. F. Myssey, t. II, pag. 13.

(486) Nel 1711. —Il Pruth come si sa è l'antico Jeraso fiume della Dacia.

(487) v. La Nazione del 5 settembre 1866.

(488) v. Il Nuovo Diritto dell'8 settembre 1866.

(489) v. Gazzetta del popolo. Firenze 1 settembre 1866.




(490) SEGUR, Oeuvres, t. VI préface, pag. 1.

(491) La Gazzella di Firenze del 31 luglio 1866.

(492) SEGUR, Oeuvres, t. VII, pag. 235.

(493) Dante.

(494) CHATEAUBRIAND, Memoires d'outre-tombe, t. VII, pag. 47.

(495) Remarques sur les affaircs du moment.

(496) La pasta del popolo, n. 3.

(497) Cesare Malpica, Romanza la Vedova.

(498) A 12 giugno 1866.

(499) Questo illustre professore direttore della clinica oftalmica e quel desso di cui ho fatto cenno nelle mie Leggende Storiche, legg. XIV, nota XIII. Ei tocco d'apoplessia il 12 giugno 1866, finiva di vivere addì 18.

(500) D'Azeglio, I miei ricordi, vol. ii. pag. 73.

(501) Il giorno 18 giugno 1860.

(502) SEGUR Oeuvres, l. XVII, ch. II, pag. 115.

(503) Conseils de monde ou essais sur l'homme les moeurs, les caractères ec, Paris 1828, t. I. pag. 87, n. XVIII.

(504) ALFIERI.

(505) Huiusmodi-tormentum Neapoli in arce ab Hispanis invoctum, quo in Inquisitione criminis laesae majestatis, solum utuntur. — v. HIERONYMI Magu anglarensi De equuleo liber postumus cum notis Goth. Tungermanni, Amstelodami 1664, pag. 36.

(506) Certo Giuseppe Muzzini da Modena.

(507) Mémoires ou correspondance secrète. Bruxelles 1834, t. II, pag. 17.

(508) Scritti, vol. II, pag. 211

(509) v. De Timido, Biografia degl'Italiani illustri, vol. X, pag. 303.

(510) Il 18 agosto.

(511) v. L’Unità Cattolica del 14 agosto 1866, n. 189.

(512) Al 1799 la Corte del banco reale, considerando che il miglioramento della macchina a vapore valeva più della sua scoperta, ne dichiarò Watt vero inventore.

(513) Rapport sur le cholera-Morbus de Moscou, Moscou 1832, nella dedica ai principe di Golitzine.

(514) Des classes dangereuses de la population dans les grandes rilles et des moyens de les rendre meilleures, t. II, ch. VII, pag. 1.

(515) ALFIERI.

(516) Così da Cesarotti è appellato Giuvenale nella prefazione alle sue Satire, pag. 12.

(517) Ego vel Procbytain praepono Suburrae,

Nani quid tam miserum, tam selum vidimus etc.

GIOVENALE. Sat. II.

(518) Alfieri. La congiura dei Pazzi.

(519) Alfieri.

(520) Alfieri. Timoleone.

(521) Oeuvres, t. XIX, ch. III, pag. 125,

(522) L'Unità Cattolica del 2 ottobre 1866, n. 229, pag. 1037.

(523) Histor. lib. I.

(524) La Commessione eletta dal consiglio provinciale componcasi dei seguenti: duca di Verdura - cav, Emerico Amari - Giuseppe Inzenga - cay. Di Michele avv. Gaetano Deltignoso - arv. Gaetano San Giorgio - bar. Nicola Turrisi.

(525) Relazione intorno alle condizioni della provincia di Palermo e proposte fatte al consiglio provinciale nella tornata del 3 settembre 1866, dal prefetto della provincia L. TORELLI, Palermo 1866....

(526) 1. I mezzi onde rafforzare la pubblica sicurezza.

2. Se convenisse, emettere polizzine di una lira.

3. Il lavoro dei municipii sulle acque potabili della provincia.

4. L 'erezione di una gran casa di lavoro in Palermo,

5. Ove mettere un ospizio per gli artigianelli.

6. Come ingrandire il manicomio di Palermo.

(527) v. Il Precursore del 15 settembre 1866, 11. 221.

(528) S. LUCA, cap. XXI.

(529) v. Il Precursore del 15 settembre 1866, 11. 221.

(530) v. Il Corriere siciliano del 7 settembre 1866, 11. 213).

(531) v. Il Corriere siciliano del 9 settembre 1866, n. 215.

(532) Settembrizzatori furono dotti coloro che commisero le stragi dei prigionieri di Parigi nelle giornale 2, 3 e 4 di settembre 1792.

(533) ALFIERI, Rosmunda.

(534) Epist. XLIV.

(535) Congrès de Vérone, guerre d'Espagne, négociations, colonies espagnoles, t. II, édit. 1838, pag. 383.

(536) Marco Sciarra CAPO banda del secolo XII.

(537) Altro famoso CAPO banda.

(538) D'Azeglio, I miei ricordi, vol. I, cap. IX.

(539) v. Lettera del padre Vincenzo Ruggiero da Caltanissetta lettor teologo dei pp. Domenicani ad un suo amico su l'occorso in Caltanissetta tra cinquemila Savoiardi e li cittadini di essa città a 9 di luglio 1718. Sta nella N. R. d'opuscoli d'autori siciliani t. V, pag. 301 e segu.

(540) Loc. cit., pag. 305.

(541) Così chiamavano i primitivi cristiani la settimana santa.

(542) v. Bessio, L’arte di godere sanità perfetta, CAPO III, pag. 97, ediz. di Milano, biblioteca scelta, n. 424.

(543) v. Plinio.

(544) Alfieri, Agamennone.

(545) Alfieri, La congiura dei Pazzi.

(546) Alfieri, Rosmunda.

(547)... mollissima corda

Humano generi dare se Natura fatetur,

Quae lacrymas dedit: haec nostri pars optima sensus,

GIUVENALE, Sat. XIII.

(548) ALFIERI, Bruto.

(549) Righini e Calderini.

(550) Fortem... animum, mortis terrorc carentem.

GIUVENALE, Sat. x.

(551) ALFIERI.

(552) v. Il Conciliatore di Napoli del 6 ottobre 1866 n. 183.

(553) Histor., lib. II.

(554) Histoire de Jules César. t. II, liv. m, ch. I. pag. 8.

(555) v. PLUTARCO - Catone XLVII.

(556) SEGUR, Oeuvres, t. XXII. Histoire de France t. I, ch., pag. 405.

(557) D 'AZEGLIO, I miei ricordi, t. I, pag. 21.

(558) Scritti, vol. 1, pag. 381, ediz. Le Mounier.

(559) Omnibus in terris, quae sunt a Gadibus usque

Auroram, et Gangem, pauci dignoscere possunt

Vera bona, atque illis multum diversa, remota

Erroris nebula. Quid enim ratione timemus

Aut cupimus? quid tam dextro pede concipis ut te

Conatus non poeniteat, votique peracti? - Sat. X.

(560) v. PEYRO., Appendice al Volgarizzamento delle storie di Tucidide intitolata Autonomia.

(561) Marchons enfans de la patrie

Le jour de gloire est arrivé

Déployons contre la tyrannie

L’étendard de la liberté.

Descendez peuples des montagnes

Attendrez-vous que ces scélérats

Viennent égorger jusque dans vos bras

Et vos enfans et vos compagnes?

Aux armes citoyens formez vos bataillons.

Pour la nation

Marchons... courage... allons

Sur le chemin de la gloire

En avant marchons

Contre le cannon

Contre le feu des bataillons

Courage-à la victoire.

(562) L'appello al popolo del 21 settembre era segnato colle seguenti firme: principe Antonio Pignatelli di Monteleone - barone Giovanni Riso – principino di Niscemi — principe di Rammacca — principe di Gidati —barene Sutera — principe di san Vincenzo—monsignor Gaetano Bellavia—dottor Onofrio Di Benedetto — Francesco Bonafede — il presidente principe di Linguaglossa.

(563) Cicerone, Epist. ad Quintum II.

(564) Un poco di luce sugli ultimi luttuosi avvenimenti nel circondario di Palermo. Palermo 1866, tipografia Mirto, pag. 10.

(565) Tommaso Mercadante, I fatti di Palermo nei 7 giorni di anarchia desunti da fonti ufficiali. Palermo tipografia Di Cristina 1866, pag. 26.

(566)... est vulgus sine rectore praeceps, pavidum, socors.—Tacito, Histór. lib. IV, § 37.

(567) Egli avea fondato nel 1846 in Roma il Contemporaneo insieme a Gazola, Potenziano, Torre.—v. Coppi, Annali d'Italia 1846-1847 n. IO, pag. 80,

(568) Carte segrete della polizia Austriaca, vol. III, pag. 348-350.

(569) v. Gazzetta di Roma 1818. n. 270.

(570) Coppi, loc. cit,, ann. 1860, n. 71,

(571) L’Italia nel 1867, Considerazioni politiche, pag. 14.

(572) De Chateaubriand, Memoires d’outre-tombe, t. vii, pag. 101.

(573) Del reggimento dei principi di Egidio Romano volgarizzamento trascritto nel 1288, pubblicato per cura di Francesco Corazzini. Firenze 1858, — Cenni Storico-critici, n. XXIII.

(574) Leopardi.

(575) Le sette giornate di Palermo. Palermo 1806, tipogr. Amenla, pag. 16,

(576) v. Il Precursore del 9 ottobre 1866, n. 229.

(577) Giuseppe Fazio Bua, Palermo—Governanti e Governali prima e dopo il tumulto di settembre—Pensieri. Palermo 1867, tipografia Carini.

(578) Palermo e il governo. Palermo tipografia Solli 1866, pag. 6.

(579) CESAROTTI, Satire di Giuvenale scelte, prefazione pag. 17.

(580) v. Alfieri, Sofonisba.

(581) Ab. Agostino Rotolo, Schiarimenti ed accuse — parole. Palermo 1866, pag. 28 a 48. — v. La Vespa di Firenze del 6 febbraro 1867, n. 281.— v. Le Monde del 26 gennaro 1867, n, 13, ecc. ecc.

(582) Purgatorio, cant, XIII.

(583) Il 24 settembre,

(584) Art. 5.

(585) Il 24 settembre.

(586) 24 settembre.

(587) 24 Settembre.

(588) 26 settembre.

(589) v. L'Amico del popolo del 25 settembre 1866. n. 221.

(590) v. Palermo e il Governo. Palermo tipografia vedova Sotti 1866.

(591) Ep. 22 ad Eustoch. do custod. virg.

(592) Collat. PaL Collat. XVIII, c. 4.

(593) v. Prvdehio, Hymn. X.

(594) v. L'Unità Cattolica, n. 210—La rivoluzione di Sicilia del 1836 e del 1866.

(595) Del 17 maggio 1806.

(596) Corréspdndence de l'empereur Napoléon I, t. XII.

(597) La relazione di costui si leggo nell’Italia di Napoli del 4 ottobre 1866, e fu attaccata con virulenza dal Corriere Siciliano degli 11 dicembre 1866, n. 287.

(598) v. Giornale di Sicilia 28 e 29 settembre 1866 — e Gazzetta Ufficiale del regno d’Italia degli 11 ottobre 1866, supplemento al n. 280.

(599) Alfieri, Bruto 2.

(600) v. Lu Paglietta de lo popolo Napolitano del 12 novembre 1866, n. 37.

(601) v. L'Unità Cattolica del 25 ottobre 1866, n. 249, pag. 1117.

(602) v. L'Amico del popolo del 28 settembre 1866, n. 221.

(603) v. L'Unità Cattolica del 1 maggio 1867, n. 103.

(604) v. Giornale di Sicilia del 29 settembre 1866, n. 211.

(605) v. Il Precursore del 2 ottobre 1860, n. 22,3.

(606) v. CIOTTI, I casi di Palermo 1866.

(607) LIPS.

(608) Fu perciò che anche un emigrato romano si permise di vomitare indegne scempiaggini con un libello intitolato II sollevamento della plebe di Palermo e del circondario nel settembre 1866 per Vincenzo Maggiorani di Roma.— Palermo stamperia militare 1866, ch'eccitò fin la rabbia d'uno dei giornali che avea svergognato il paese. Il Precursore del 28 gennaro 1867.

(609) Sat. XIII.

(610) ALFIERI, Bruto 2.

(611) SEGUR, Oeuvres, v. XXVII. pag. 348.

(612) Memorie e rimembranze. t. I, cap. XI, pag. 199.

(613) MISTRESS ABELL, Rimembranze di s. Elena, v. Il mondo contemporaneo, vol. VII, pag. 417.

(614) MISTRESS ABELL, loc. cit., pag. 123.

(615) Cn. Junii Agricolae vita, § 2.

(616) ALFIERI.

(617) Virtus porro ac ferocia subjectorum ingrata imperantibus — Tacito, Cn. Gnei Agricolae vita, § 31.

(618) s. AGOSTINO, De civitate Dei, lib. IV, cap. IV.

(619) Quippe in turbas et discordias pessimo cuique plurima vis: pax et quies bonis artibus indigent. – TACITO, Histor., lib. IV, § 1.

(620) GIUVENALE, Sat. XIII.

(621) Sist. des Cont.

(622) Nuova Antologia. Firenze, vol. III, settembre 1866, pag. 207.

(623) Finanze di Napoli—L'Unità Cattolica di Torino—Il Diritto di Firenze— Il Nuova Diritto di Firenze — La Presse di Parigi — La Corrispondenza generalo di Vienna ecc. ecc.

(624) v. L'Unità Cattolica del 17 gennaro 1867, n. 11.

(625) Mankana den Einzelnen Freiheil erziehen presso Van der Brugghen Éludes sur le système pénitentiaire irlandais. Introduction, pag. 25.

(626) v. Il Corriere siciliano del 18 ottobre 1866, n. 242.

(627) 1. Impero d’Occidente —la Francia.

2. — d'Oriente —la Russia.

3. — germanico —la Prussia.

4. — romano —l’Italia.

5. — d’Egitto e d’india— l'Inghilterra.

(628) E. Sie, Le Juif errant. Bruxelles 1845, 2 P. n. XVIII, pag. 72.

(629) Anno 431 av. G. C.

(630) v. Corrado Tossasi, Il cigolerà di Palermo nel 1866 relazione. Palermo tipografia Lima 1867, pag. 26.

(631) La mattina del 18 settembre entrava nel molo di Palermo il Tancredi trasportante da Napoli i quinti battaglioni del 19.° e 51.° reggimento di fanteria. Lo stesso giorno furono attaccali di cholera un capitano e tre soldati.

(632) presso De Chateaubriand, Memoires d'outre-tombe. t. IV. pag. 259.

(633) MELCHIORRE GIOJA, Opere minori. Lugano 1833, vol. II, la Scienza del povero diavolo, pag. 5.

(634) ab. BOUGAUD, Storia di G. Francesca Frèmyot baronessa di Chantal e dei primordii della Visitazione, vol. I, proemio, pag. 37.

(635)Discorso di vestizione della damigella di Bouillon.

(636) DANTE, Paradiso, c. XXII.

(637) Sacre reliquie, p. II, cap. VIII.

(638) TORRISI, loc. cit., nota 12, segna la massima cifra dei morti il giorno 20 ottobre.

(639) Melius est nos mori quam ridere mala gentis nostrae et sanctorum.— MACH. 1. 3. 59.

(640) Utilis populis fuga sanctorum.

(641) A 18 ottobre.

(642) Scritti, t. III, pag. 533.

(643) Memoires d’outre-tombe, t. I. pag. 29.

(644) A 12 ottobre 1868.

(645) v. Il vero messaggiero del mattino, del 24 ottobre 1866, n. 15.

(646) Senatore Francesco Di Giovanni—professore Stanislao Cannizzaro— cav. Ercole Lanza di Trabia — cav. Manfredi Lanza di Trabia.

(647) v. L'Amico del popolo del 18 novembre 1866, n. 267.

(648) A 19 maggio 1792.

(649) La Camorra — notizie storiche raccolte e documentate. Firenze 1862, pag. 94.

(650) GOZZI. Scritti, t. I. pag. 339.

(651) Era incredibile l'aumento dei carcerati in Malia appunto in quel tempo. — Secondo la statistica pubblicatane da Federico Bellazzi il 13 gennaro 1867 del primo foglio del giornale Cesare Beccaria i detenuti delle carceri italiane, meno le provincia venete e Mantova, erano nientemeno, che 70,333.

(652) Oeuvres, t. XVIII, ch. VII, pag. 31.

(653) Mores meos bene cognitas habes quia diu porto. Sed si semel deliberavero non portare, contra pericula laetus vado. —s. GREGORIO M. Episi. IV. 47 ad Sabinianum,

(654) Lettera del 11 agosto 1833, da Arenembery, v. L’Unità Cattolica del 28 novembre 1806.

(655) Il 25 ottobre 1866.

(656) Il Corriere siciliano del 27 ottobre 1866, n. 250.

(657) Il Corriere siciliano del 26 ottobre 1866, n. 249.

(658) v. Il Corriere siciliana del 27 ottobre 1866, n. 250.

(659) Le Juif errant, n. XIX, pag. 154.

(660) Il 3 ottobre 1866.

(661) Il 6 e il 12.

(662) Il 19.

(663) Il 21

(664) Il 27.

(665) Il 4 di novembre.

(666) A 7.

(667) v. Il Corriere siciliano del 14 novembre 1866, n. 261.

(668) Discours sur le Mexique, pag. 32.

(669) Il Corriere siciliano del 22 novembre 1866.

(670)A 28 ottobre da presidente della sezione di accuse era passato a procuratore generale sosl.:— rimpiazzollo Leggio, poi Mazza.

(671) A 5 novembre.

(672) A 7 novembre.

(673) I giornali il birillo, il Messagyiero del mollino 0 tant'allri gridarono in favor degli arrestati. Gli avvocati Puglia, Nobile, Tumminelli pubblicarono una lettera colla domanda d'incostituzionalità, di cui furono lodati bella Vespa di Firenze degli 8 dicembre 1866, n. 264, pel coraggio di dir la verità, ma rimproverati per averla detta soltanto ora.

(674) Il Precursore del 14 novembre 1866, n. 296. Il Corriere siciliano del I novembre 1866, n. 251.

(675) Tasso.

(676)A 30 novembre 1860.

(677) v. Il Precursore dei 4 dicembre.

(678) v. Il Corriere siciliano del 14 dicembre, n. 290.

(679) Avvenuta il 13 dicembre.

(680) La Vespa dei 21 novembre 1866. n. 259.

(681) Il Corriere siciliano.

(682) Del 12 novembre 1866, u. 256.

(683) A 16 dicembre.

(684) Francesco Donatuli.

(685) MORTILLARO, Opere, vol. III, pag. 232 e segu.

(686) BOUGAUD, Storia di 8. G. Francesca Fremyot, baronessa di Chantal, vol. I, CAPO IV, pag. 133.

(687) Descrizione dii ciò, che operarono le monache del veneratile Monastero dell'Immacolata concezione di questa città di federino ecc. in ossequio della S. R. M. di Carlo. III ecc. Palermo 1735.

(688) Lungo p. 4, allo 3, largo 3.

(689) Paris 1866, février. - Fu questo il 34.° ed ultimo anno di questo pregevolissimo giornale, che chiuse le sue pubblicazioni coll'anno 1866; perchè come scrisse il suo illustre compilatore (dec. 1866, pag. 388) in questo momento, «c'est aux médiocrités qu'appartient la rogue» epperò stimava «voiler sa face et garder le silence... tourner le dos à notre époque, pour se lancer dans les études rétrospectives.»

(690) Lib, III, Cent. Acad. cap. XIV

(691) Six lettres à la princesse Luise de Prusse, lett. yi. Sta presso Pektz Das Leben des ministers Freichern von Siten, Berlin 1849 -53, vol. VI, app. p. 23.

(692) Invett. contra Rufinum.

(693) De rebus a se gestis.

(694) Théorie de l'emprisonnement, t. III, 5, P., ch. II, pag. 14.

(695) v. La Posta elettorale del 26 giugno 1866, n. 68.

(696) Era giugno quando ciò scrivevano i giornali. — In gennaro del 1867 le cose erano allo stesso stato.

(697) v. Lettera di Concetta Ciolfi della Valle dei duchi di Ventignano — sta nella Unità Cattolica degli il gennaro 1867, n. 9, p. 35.

(698) Alfieri, Virginia.

(699) Alfieri, Timoleone.

(700) v. Raccolta ufficiale dello leggi e dei decreti, n. 3233.

(701) v. L'Amico del Popolo del 21 novembre 1866, n. 272.

(702) ALFIERI.

(703) v. Art. 809 del Codice Penale, lib. III, tit. XI.

(704) v. L’Amico del popolo, loc. cit.

(705) Liv. XI, ch. III.

(706) VANDER BRUGHEY, Etudes sur le système pénitentiaire irlandais, ch. II.

(707) Non, si quis multa dicet, admirabimur,

Sed pauca magis, et utilia si dixerit.

(708) I Greci lo chiamano Ctenus.

(709) Apollione dell’Apocalisse, ovvero i precursori dell'anticristo. Storia profetica... ovvero la rivoluzione francese predetta da s. Giov. Evangelista, seguita da una dissertazione sull'arrivo ed il regno futuro dell’anticristo, 1816 in-8.

(710) Quest’isola fu sempre una dipendenza della Corsica; e fu incorporata al primo impero. — Nel 1814 se la ripigliarono gl’inglesi. — Nel 1815 insieme a Genova fu cessa alla Savoja.

(711) Muovansi la Capraja e la Gorgona ecc.

(712) v. Il giornale Il Tempo del 27 febbraro 1867.

(713) Si ratio est et honesta timeat pavidoque gelantur

Pectore, nec tremulis possunt insistere plantis,

Fortem animum praestant rebus, quas turpiter audent.

Sat. VI

(714) v. La Civiltà cattolica, anno XIX, quad. 436, 16 maggio 1868. pag. 408.

(715) L'Unità Cattolica del 28 febbraro 1867, n. 50, pag. 221.

(716) Del 9 marzo 1867, n. 59.

(717) Costui fece tre opere tremendo;– I delitti dei re di Francia da Clodoveo fino a Luigi XVI, 1791. – I delitti dei papi, 1792. – La repubblica senza tasse, 1792.

(718) v. Il Corriere siciliano - l' Amico del popolo. ecc.

(719) Conseils de morale ou essais sur l'homme, les moeurs, les caractéres etc., Paris 1828, t. I, cap. XXII, pag. 299.

(720) v. Il Pungolo di Napoli del 2 settembre 1866, I. 242.

(721) Sat. XII.

(722) L'Amico del popolo del 28 febbraro 1867, n. 50.

(723) Il Corriere siciliano de! 5 marzo n. 56.

(724) Il Corriere siciliano del 7 marzo n. 57.

(725) Furon essi — marchese Roccaforte — principe Galati — Emerito Amari— barone d'Ondes Reggio.

(726) v. Il Corriere siciliano del 19 marzo 1867, n. 67.

(727) v. PETRUCCELLI DELLA GATTINA, I moribondi del palazzo Carignano, pag. 79.

(728) Epist. XI, 13.

(729) AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia. Firenze 1851, vol. I, cap. VIII, pag. 181.

(730) v. MOLLOT, Règles de la profession d'avocat, 2 edit. 1866, t. I, Introduction, p. 14.

(731) Nella Revue de Deux-mondes, Juin 1867, Chronique, pag. 103.

(732) Il Ministero fu così composto:—Rattizzi, Rcvel, Coppino, Pescetto, Ferrara, Tecchio, Giovanola, De Blasiis.

(733) v. La Civiltà Cattolica, serie VI, vol. X, quad. 409, 6 aprile 1867, pag. 47.

(734) v. Brofferio, I miei tempi, vol. XIV, pag. 95-115.

(735) Oeuvres, t. XXIX, pag. 308.

(736) PAOV. Cap. XI, v. 24.

(737) La tassa sul macino—Lettere del professore FRANCESCO FERRARA, v. L'Opinione di settembre 1865 numeri 256, 257, 258, 260. 262, 265.

(738) v. Moniteur du 20 Juin 1793.

(739) v. MURATORI. Dissertazioni sopra le antichità italiane. Dissert. xix, p. 168 e 169.

(740) v. ANTOY FRANCESCO GORI, Osservazioni sopra un'antica gemma anulare rappresentante Eunosto dio dei mulini. Sta nelle Memorie di varia erudizione della società Colombaria fiorentina. Livorno 1752, vol. II, pag. 205.

(741) Lib. xiv, cap. III.

(742) Ouom. lib. VII, cap. XXXVIII, n. 8.

(743) De architectura, lib. X, cap. X.

(744) Lib. I, cap. XLV.

(745) v. Tesoro Gruteriano, pag. mcxiv. 6. e mons. FABBRETTI, Inscript. Dom. cap, VII, num. 382. pag. 529.

(746) ALFIERI.

(747) ALFIERI.

(748) In Vita D. Ambrosii, t. I, Operum in princ.

(749) ALFIERI.

(750)... flagrantior aequo

Non debet dolor esse viri, nec vulnere major.

GIUVENALE, Sat. XIII.

(751) WISENAY, Rimembranze degli ultimi quattro papi e di Roma ai tempi loro, prima versione dall'inglese. Milano 1858, cap. IV, pag. 43.

(752) Ravvitti, Delle recenti avventure d'Italia, cap. XX, pag. 129.

(753) Maria Sofia Amalia nata a 4 ottobre 1841 duchessa di Baviera figlia di Massimiliano Giuseppe duca di Baviera.

(754) WISENAY, Rimembranze degli ultimi quattro papi e di Roma ai tempi loro, cap. I, pag. 6.

(755) Elisabetta Farnese unico ed ultimo rampollo della famiglia del ducato di Parma e di Piacenza figlia ed erede del duca Odoardo Farnese, era stata seconda moglie di Filippo V e madre di Carlo III Borbone.

(756) Francesco-Maria-Leopoldo nato il 16 gennaro 1836, figlio di Ferdinando II dal suo primo matrimonio con Maria Cristina figlia di Vittorio Emanuele I re di Sardegna. Ei successe a suo padre il 22 maggio 1859, e s’era maritato per procura a Monaco li 8 gennaro 1859.

(757) Ep. 13.

(758) Largus promissis et quae natura trepidantium est, immodiens — Tacito, Histor., lib. III, § 59.

(759) Alfieri.

(760) L’àme des Bourbon», t. i, Èpitre dédicatoire à la Nation. — Roberto di Francia barone di Bourbon sesto figlio di s. Luigi è lo stipite dei Borboni. L’epitaffio di costui fu scritto dal celebre Santeuil e comincia così:

Hic stirpi Borbonidum, hic primus de nomine princeps

Conditur ecc.

a Parigi nella chiesa dei Giacobini della via s. Giacomo.—Filippo V fu il primo principe della casa di Bourbon, che governò la Spagna; donde traggono origine i Borboni delle Due Sicilie.

(761) DUCA DI MADDALONI, Dei cinque regni d'Italia libri cinque. Lugano 1868, vol. i, lib. iv, pag. 193.

(762) L'ultimo della linea di Valois in Francia hi Enrico III. morto di coltello per inani di Giacomo Clemente il 2 agosto 1589 in età di 39 anni: colla di lui morte rimase estinta la linea dei Valois. Successe al trono di Francia Enrico IV Figlio di Antonio Borbone, l’undecimo dello stipite di s. Luigi e di Giovanna d’Albret figlia di Enrico re di Navarra, nato nel 1553.

(763) L'àme des Bourbons. Parigi 1783, t, II, pag. 1.

(764) Raccolta di proverbii toscani. Firenze 1853. Illustrazione XVIII, pag. 401,

(765) Rapport sur la marche et les progrès de la littérature en France, sta nel Bulletin du Bibliophile et du Bibliothécaire, février 1868, p. 68.

(766) de Stàel, Corintie ou l’Italie. Liv. X, ch. I.

(767) Loc. cit., liv. XII, ch. I.

(768) Sed Ptolemaeus, ut sunt ingenia regum, pronus ad formidinem.—Tacito, Histor., lib. IV, § 83.

(769) Il ministro di Sicilia cav. P. Cumbo, del quale come cronista io non potei approvare la scelta (v. Leggende storiche Siciliane dal ziti al xix secolo, legg. lv.) meco si dolse del mio giudizio, che stimò ingiusto per mancanza di conoscenza di fatti riserbati, e cosi mi scrisse con lettera dei 27 giugno 1804: r... lo mi proponea e mi propongo farlo palpare con documenti che quella sua elasticissima inopportunità fu smentita dal fatto; essendoché la catastrofe che si pretendea scongiurare era bella e buona scongiurata da quello stesso, ch’Ella suppose inadatto a tanto pondo, e che la dinastia, il paese, e, quel ch’è più, la completa autonomia della nostra Sicilia, oggetto costante di tinti voti e di ben tre precedenti rivoluzioni, sarebbero come per incanto emersi da quel nembo devastatore che minacciava di mettere, come da lì a poco mise tutto a soqquadro. Le avrei dimostrato che si era ancora a tempo, e si avea avuto il coraggio civile di gridare apostolicamente il vero, e di segnalarne l’eroico rimedio: che cotesto rimedio non era stato soltanto accolto da chi lo dovea essere, ma ben pure plaudito oltremonti ed oltremare, e (manco formolato; e che coloro che per viltà o per invidia rovesciarono dietro la cortina quello che a me parca l’opera del dito di Dio, proponendo nel sacrifizio di un capro emissario il rimedio della ritrattazione di un solenne impegno, ottennero si l’uccisione del capro, ma non la propiziazione del Giove tonante della Senna, avvezzo confò a non farsene imporro da chicchessia, massime che la trattativa era stata pressoché diretta e personale. Infatti a pochi giorni dal sacrifizio preteso espiatorio, Giove si pose da parto, il nembo scoppiò e il trono coi suoi fracidi presidii andò in fascio, e tra le sue rovine travolse quei miserabili che tradirono se stessi, il paese e la dinastia. Non mi meraviglia ch'ella abbia di quel tempo ignorato questo incidente che verrebbe dello più esattamente questa fase della storica rivoluzione del 1859 al 1860: imperciocché le cotesto un segreto sol noto a pochi, e i documenti sono in mio potere, e dessi ben vogliono a convertire qualunque scettico dall'amplissimo vero che Napoleone III fino a 28 gennaro 1860 non voleva ne l’unità ne l'unificazione d'Italia; che la permise e forse secondolla dopo il 15 marzo, lorché si avvide d’essere stato... mistificato

…………………………………………………………………………………...

Verrà tempo in cui sarà fatta la luce, e insiem con essa anche i più accaniti nemici mi renderanno giustizia, ed Ella stessa ritratterà la sua opinione intorno alla pretesa inopportunità: anzi spero si vedrà pure come l'onnipotenza della setta abbia pur messo lo mani in quella pasta; affrettando l'olocausto in discorso, come suprema salute delle sue trame, non appena fiutò, d’esser queste vicine a sfasciarsi con la conversione della Sicilia ad ispirazioni ed a bisogni più logici, e quella di Napoli a scopi più attuabili, più fecondi e più dignitosi.

(770) Guizot, Mémoires pour servir à l'histoire de mon temps, t. VII, Paris 1867, ch. XLVII, pag. 543.

(771) Gaeta è città del regno di Napoli, così nominata in onore di Gaeta nutrice di Enea, la quale mori in quel luogo ov'è situata Gaeta

Tu quoque littoribus nostris, Aeneja nutrix,

Aeternam moriens famam Cajeta dedisti.

VIRGILIO, Aeneid., lib. VII.

(772) L'impossibilità di sostenersi la piazza di Gaeta risulta chiara dalla seguente esposizione fattane dal generale Antonelli il 16 febbraro 1861, e che ignoriamo perche non venne pubblicata, «Nello assedio sostenuto dalla piazza di Gaeta (1860-1861) si è fatto la prima tolta uso delle artiglierie rigate di grosso calibro. Le batterie dello assediante sono stato tutte munite di queste formidabili artiglierie: le batterie della Piazza essendone affatto sprovvedute hanno operato la Difesa con le antiche artiglierie.

Se in generale nella guerra degli assedii la condizione dello assediante è sempre migliore di quella dello assediato, soprattutto quando la Piazza non debba far capitale di altri mezzi, se non di quelli soltanto che essa contiene, ne possa sperare in verun soccorso, vedesi di leggieri come incommensurabilmente vantaggiosa sia stata la condizione del corpo di esercito Sardo a fronte degli avanzi dello esercito delle Due Sicilie, i quali giudicarono sacro debito di onore il difendere la Piazza.

Investita Gaeta, stettero bene in guardia i difensori per osservare il cominciamento dei lavori d'approccio del nemico, e diressero i proprii fuochi su quella parte della campagna, ove tali lavori avrebbero dovuto intraprendersi. Nulla però scorgendo fino alla portata del cannone, furono messe fuori delle sortite di ricognizione, accompagnandole di uffiziali e sotto-uffizi ali, ai quali era notissimo il terreno che circonda Gaeta. Le truppe delle sortite si spinsero molto innanzi, ebbero naturalmente ad incontrarsi col grosso delle truppe nemiche, soggiacquero ad alquante perdile: ma non incontrarono niuna traccia di lavori di approccio.

L’aggressore frattanto coprendosi con la catena dei monti che circondano e dominano Gaeta alla distanza di metri 3500 o 400 (due miglia di 60 al grado) si stabili sull’opposto versante di quei monti, e senza esser molestato dal cannone della Piazza, cominciò e compì la costruzione delle sue prime batterie di pezzi rigali di grosso calibro. Smascherate subito queste batterie senza che i difensori potessero controbatterle con qualche successo, a causa della piccola portata dello loro artiglierie, la guarnigione di Gaeta e gli abitanti, le batterie della Piazza e gli edificii della città, i siti più bassi e quelli più elevali fino all’altissima torre Orlando, vennero bersagliati con tiri di grande precisione, e con projettili che oltre alla gran forza d’immersione, uniscono insieme i vantaggi del tiro rettilineo e del parabolico, dei projettili pieni e dei vuoti.

Si vide allora qual fosse il disegno del nemico. Forte della lunga portala e della somma precisione dei suoi cannoni, esso non sarebbesi esposto ai fuochi della Piazza, intraprendendo l'apertura della trincea; ed invece avrebbe distrutto i rampar! e la città, uccidendo uomini, donne, fanciulli, cosicché avrebbe ben presto trionfato di qualunque resistenza.

Non però vacillarono gli assediati nell’onorevole proposito di difendere la loro bandiera, e con vera, quanto giusta abnegazione si esposero rassegnati alle funeste e pur troppo certe conseguenze del non umano disegno dello assediante il quale sviluppando man mano i suoi lavori sopra la molto estesa linea di monti di sopra mentovali (quattro in cinque miglia) avviluppò la Piazza in una cerchia di formidabilissime batterie, merce le quali potè battere d’infilata, di sbieco, di fianco e di rovescio le diverse opere di fortificazione e l’infelicissima città. E protetto sempre dal fuoco eminentemente distruttore dei cannoni rigati, il nemico elevò batterie di mortai sul colle dei Cappuccini; se non che essendo queste più prossime alla Piazza, vennero con vigoria ed efficacia controbattute, e si che l'aggressione ebbe sul detto punto a sperimentare significanti perdite.

Nostro solo ed unico divisamento questo essendo stato di dare la idea generale che ha informato l'assedio dì Gaeta (1860-1861), lasciamo ad altri il racconto dei particolari della lotta che tanto sangue costò all’Italia. Non dimeno reputiamo necessario rispondere a coloro, che animali da amore o da odio domandano perché non operò la Piazza continue e vigorose sortite? — La risposta è ben semplice.

Distruggere tutti o parte dei lavori dello assediante, obbligarlo a ricostruirli o ristorarli con perdila significante e sempre importantissima di tempo, è generalmente parlando lo scopo delle sortite.

Fino al 1860 l’assediante cominciava i lavori di trincea dai sei in settecento metri dalla Piazzaforte, e mercé i rami di trincea veniva approssimandosi alla Piazza e sviluppava i proprii fuochi. E poiché a sì breve distanza da essa e sotto la portata dei suoi cannoni non dovea certamente l'esercito assediante esporre tutte le sue truppe, era chiaro come indispensabile che una parte di esse truppe assedianti soltanto fosse messa a guardia della trincea, e le altre tutte fossero mantenute fuori la portata del cannone della Piazza. Le sortite non avendo dunque a combattere in un dato tempo che forze poco considerevoli, potevasi comporle di distaccamenti non considerevoli di forza, e quel che più monta, le sortite non avendo a spingersi innanzi che per breve tratto, l’uscita e la ritirata di esse effettuavansi sotto la proiezione delle artiglierie della Piazza. Avveravasi nulla di tutto ciò nell’assedio di Gaeta 1860-1861? Una sortita della Piazza avrebbe dovuto spingersi innanzi ad una distanza assai considerevole, e per conseguente non contare menomamente sulla protezione della Piazza. Una sortita non avrebbe mai potuto avviluppare lavori dello assediante, praticati molto lontani dalla Piazza e su di estesissima linea; ed invece e sempre, sarebbe stata avviluppala e presa di fronte e di fianco dal cannone del nemico, non appena avrebbe mosso il piede fuori della cinta principale. Una sortita abbandonata interamente a se stessa, e con lo scopo di affrontare il nemico sul terreno, ore questo crasi giù militarmente stabilito, avrebbe dovuto essere afforzata delle corrispondenti artiglierie da campo, non mono che da una piccola mano di cavalieri, cose impossibili alla guarnigione di Gaeta, e di più essere così numerosa da imporre la necessità di trasandare tutti i lavori della Piazza, e sguernire con imperdonabile errore i rampaci. Egli è evidente che una sortita di gran lunga inferiore alle forze nemiche, non potendo molestare affatto i lavori dell'assediante, non potendo sloggiarlo dalle sue posizioni, ad altro non avrebbe miralo se non che al sacrificio certo e preveduto della vita di molti prodi ed allo scoramento della guarnigione.

Per tacere di molti fatti risguardanti l’attacco e la difesa di Gaeta (1860-1861), fatti di cui si cercherebbe invano riscontro nelle storie di tutti i paesi e di tutti i tempi, basterà accennare che ne da parte dei Piemontesi, ne da parte dei Napoletani fecesi il benché menomo fuoco di fucileria. La distanza dalla quale gli aggressori fulminavano morti e rovine sopra Gaeta era tale da rendere assolutamente inefficace il fuoco del moschetto, tuttoché assediati ed assedianti fossero stati dotati d’armi rigate, portatili dalla lunga passata.

L'uso delle artiglierie rigate nello attacco delle Piazze di guerra non addimostra soltanto come immediata conseguenza che la difesa abbia ad esser munita d'artiglierie della stessa natura, ma chiama gl’ingegneri militari della vecchia Europa a profondi e severi studii sull’arte della fortificazione, e sull’attacco e la difesa delle Piazze di guerra.

Quando le passioni saranno attutite, quando lo spirito di parte permetterà che si onori la fede ed il valore militare, la storia dirà che i soldati della guarnigione di Gaeta privi di qualunque speranza, lontani dalle proprie famiglie lasciate nella povertà, nudriti di scarso pane, decimati non pure dal fuoco nemico ma dal tifo e dalle febbri perniciose, non resero la Piazza se non quando divenne un mucchio di rovine, e due larghissime brecce erano state aperte nella cinta principale per effetto della esplosione di due riserve di munizioni da guerra. La storia dirà che le truppe italiane dello attacco non han voluto riconoscere i gradi meritati combattendo dalle truppe italiane della difesa, mettendo cosi molti soldati italiani nella posizione o di degradarsi o di mancar di pane. La storia dirà che i militari della guarnigione di Gaeta furono dichiarati prigionieri di guerra nel seno della propria patria, in pena d’averne sostenuto il decoro, ed essersi mostrati ligii dell'onor militare. Esempio tristissimo pel giovane esercito italiano.

Nota. Nulla abbiamo detto dello attacco per via di mare dalla squadra sarda, dappoiché quasi niun projettile delle sue artiglierie giunse mai fino ai parapetti della Piazza: ed è a notarsi che molte navi erano armate di pezzi rigali di grosso calibro.

Napoli 16 febbraio 1861

G. F. A.

Nota aggiunta posteriormente.

Paragonare l’ultima difesa fatta dalla piazza di Gaeta con quelle che ebbe a sostenere in passato, e soprattutto fare tal paragone nella durata della difesa, significa o ignorare i fatti sopra mentovati, o peggio ancora fingere ignorarli, per disconoscerne le immediate inevitabili conseguenze: in breve significa stabilir paragone fra cose assolutamente eterogenee.

Colui che dalla tribuna del senato francese nell’anno 1862 rammentò con amaro sarcasmo che nel 1806 Gaeta non dischiuse le sue porte all'assediante, se non dopo cinque mesi, volendo far onta all’eroica quanto sventurata guarnigione che con costanza e valore non comune patì privazioni e disagi durissimi, affrontò impavida una morte quasi certa, dalla investitura avvenuta il 4 novembre 1860 sino alla resa verificatasi il 13 febbraro 1861, colui, noi diciamo si mostrò digiuno delle più elementari cognizioni dell’arte e della scienza della guerra, se non si voglia ritenerlo animalo da spirito di parte e da mala fede.

N. B. Le acerbe parole pronunziate il 3 marzo del 1862 in presenza del Senato francese dal ministro Billaut si possono leggere nel supplemento al n. 16 del Giornale di Napoli intitolato Napoli e Torino ove lungamente se ne ragiona.

(773) Cn. Julii Agricolae Vita, § 41 Pessimum inimicorum genus, laudantes.

(774) METASTASIO.

(775) Oeuvres, t. XXXI, ch. II, pag. 321.

(776) Discours prononcés au corps législatif les 14 e 18 mars 1887 etc. Tours 1867, pag. 20.

(777) I principii dell'89 e la dottrina Cattolica, CAPO VI. pag. 92

(778) Le Royaume des Deux-Siciles — Memoire. Paris imprimerie de Victor Goupy 1866, in-8.° pag. 143.

(779) Memoires pour servir à l'histoire de mon temps, t, VIII, ch. XLVI, pag. 412.

(780) Vittorio Emanuele II nato il 14 marzo 1820, maritato il 12 aprile 1842 con Maria Adelaide arciduchessa d’Austria figlia di Ferdinando III granduca di Toscana, —fu successore di suo padre per l’abdicazione del 23 marzo 1849. — Fu vedovo a 20 gennaro 1835. — Prese il titolo di re d'Italia per la legge de' 17 marzo 1861.

(781) v. Memorie della madre Chaugy, p. I, cap. II.

(782) Nullum vinculum ad astringendam fidem majores nostri esse voluerunt, CICERONE, De officiis, lib. III. 31.

(783) Cociti stagna alla vides, Stigiamque paludem...

Dii, cujus jurare timent, et fallere numen.

VIRGILIO, Aeneid. lib.V.

(784) Storia di s. G. Francesca Frémyol baronessa di Chantal ecc. Torino 1864, vol, I, cap. V, pag. 159.

(785) Il Conte di Monte-Cristo, CXVIII.

(786) MAD. DE STAEL, loc. cit., liv. VIII, ch. II.

(787) Bonaparte et les Bourbons, pag. 203.

(788) Brignone, Casa retto, Guicciardi, Lamportico, Martinelli e Mordini.

(789) La Commessione partì da Firenze la sera del 14 maggio e verso il mezzogiorno del 16 giunse in Palermo.

(790) v. Atti ufficiali della Camera anno 1867. pag. 1316.

(791) v. L'unità Cattolica del 19 maggio 1867, n, 119.

(792) v. La Riparazione, giornale politico di Palermo, n. 68.

(793) v. Cap. V. pag. 10.

(794) I miei ricordi. cap. XVI. Pag. 200.

(795) v. MORTILLARO, Leggende storiche Siciliane dal XIII al XIV secolo, leggenda XXX, 2 ediz. pag. 227.

(796) Discours sur le Mexique, pag. 102.

(797) BOSSUET.

(798) His non rei pretium, sed operae solvitur quoti deservi uni, quoti a rebus suis avocati nobis vacant. Mercedem non meriti, sed occupationis suae ferunt.— Seneca, De Benef., lib. VI, cap. XV.

(799) Quorum virtutibus obstat

Res angusta domi.

(800) v. Il Precursore del 13 febbraro 1867, n. 38.

(801) Democrazia deriva da dhmos popolo e xratein governo. La demagogia è la compagna inseparabile della democrazia.

(802) Dispotismo dalla voce depoths significa un potere simile a quello che un padrone esercita sugli schiavi.

(803) Petrarca.

(804) Lancellotti, L'hoggidì o vero il mondo non peggiore ne più calamitoso del passato. Venetia 1623. Disinganno XIII, pag. 119.

(805) Memoires ponr servir à l’histoire. de mon temps. t. VIII. Paris 1867. ch. XLVI, pag. 405.

(806) Loc. cit.. pag. 410.

(807) SEGUR, Oeuvrcs, t. XXI, ch. I, pag. 31.

(808) Job. XIII, 7.

(809) Discours... pag. 90.

(810) MUCARA, Ragionamenti filogolìeo-morali..Napoli 1851. n. VI. pag. 119. 120.

(811) Della storia e delle condizioni d'Italia sotto il governo degl'imperatori romani, 2° ediz. Padova 1840, lib. v, cap. I, § I, pag. 576.

(812) DIONE, lib. LII, cap. XXXVIII.

(813) v. GOTTOFREDO, Orat. Julianus seu de arcani Jul. Imp. artibus ad proufligandara religionem Christi, col. 319.

(814) Chi volesse prendere esalta cognizione del Talmud potrebbe utilmenlo leggere le due moderne seguenti Opere:

Geschichte des Judenthurns und seiner Sekten (Storia del giudaismo e delle sue selle) par le Dr. I. M. Tost, 3 vol. Leipzig 1857-1859.

Geschichte des Juden von den æltesten Zeilen bis auf die Gegenwart (Storia dei Giudei dal più antico tempo sino addi nostri) par le Dr. GRAETZ, 2° ediz. 7 vol. 1863- 1866.

(815)CARLES DE Rémcsat, Revue des deux mondes, 1 août 1867, pag. 764.

(816)... neque enim loculis comitantibus itur

Ad casum tabulae, posita sed luditur urca

(817) Memorie sull'Italia, vol. I, pag. 38.

(818) v. Unità Cattolica del 27 settembre 1867, n. 223-, pag. 1051.

(819) v. FEDERICO BELLAZZI, Carceri e carcerali del regno d'Italia.

Quest'opuscolo contiene dei dati statistici sulla criminalità crescente, che sono degni della più alta considerazione. Segnandoli in cifre rotonde i soli detenuti nei bagni dal 1861 al 1866 sono nella seguente proporzione

1861 — 7700

1862 — 8200

1863 — 9300

1864 — 9800

1865 — 11800

1866 - 15000

In sei anni il doppio!

(820) Propriamente 17,383,125 costando (come assicurasi) un detenuto cent. 63 ½.

(821) Felices proaorum alaxos, felicia dicas

Secula, quae quondam sub regibus atque tribunibus

Viderunt uno contentam carcere Romam,

GIUVENALE, Sat..

(822) p. Franco, Risposte popolari alle obiezioni più comuni contro la religione. Roma 1064, prefazione, pag. 7.

(823) Castagnola.

(824) Tornata del 5 luglio 1867.

(825) Fortune publique et finances de la Franco. Paris 1866. t. II. par. II, ch. VII, pag. 198.

(826) BOTTEAU, loc. cit. t. I, pag. 1.

(827) Ferrara, nella Nuova Antologia di Firenze.

(828) D'HUMBOLT, Caurs de géographie phisique.

(829) v. Documenti officiali stampati negli Atti del Parlamento, n. 383, pagina 1501.

(830) M.** L’Angleterre etudes sur le self-gouvernement, pag. 235.

(831) Le finanze, il credito e la fortuna pubblica in Italia — pensieri e pio poste di ANTONIO MONGHINI. Firenze 1867.

(832) Ducati 11, 25.

(833) Ducati 4,29.

(834) Nel Journal des economistes, mars 1868, pag. 317.

(835) Precisamente 507,666,661.

(836) Facendo proporzione col bilancio di Sicilia ch’era di L. 43,320,000 ossia Ducati 10,240,000 bastevoli a provvedere ad ogni maniera di pubblico servizio per la sua autonomia, amministrazione. e per la contribuzione di sua parte dei pesi comuni, cioè dotazioni alla regal casa — ministri di stato, esercito (fissato ad 80 mila uomini prima del 1860)—marina militare che pria del 1860 era la più poderosa degli stati italiani contando venti legni da guerra in attività di servizio, dodici dei quali a vapore, oltre dei legni stanziati a custodia e servizio dei porti, e oltre a molte barche cannoniere. E ritenendo la popolazione di Sicilia 2,400,000 anime, e quella d’Italia 25,000,000 il bilancia ordinario italiano non dovrebbe eccedere la cifra di L. 453,333,335.

(837) Nelle sole dogane può calcolarsi la perdita annuale per contrabbando e per cattiva amministrazione alla cifra ben grave di quaranta milioni.—Eccone semplicissima la dimostrazione:

I prodotti delle dogane in Sicilia attingevano ogn’anno e talvolta superavano il 20 per % degli introiti totali del bilancio.—E qui si noti di passaggio, che in Inghilterra, — il paese banditore del libero-scambio, gl’introiti delle dogane figurano per un terzo degl’introiti totali del bilancio. — Or in Italia null'ostante l'eccessivo ribasso delle tariffe (nell’ideale sopo di rimuovere il contrabbanda e di accrescere la consumazione e quindi il commercio) in Italia gli introiti doganali rappresentano appena il 6 per %. E si osserva non di rado, che mentre crescano i dritti di tonnellaggio in taluni mesi, negli stessi mesi diminuiscono gl’introiti doganali.

Può ritenersi che in media le tariffe attuali sieno del 50 per % in meno delle tariffe che vigeano tra noi sino al 1860. È dunque evidente che se con le antiche tariffe s’avea in Sicilia un introito eguale al 20 per % ossia al quinto degl’interi prodotti del bilancio, colla tariffa novella avrebbero dovuto le dogane del regno segnare un introito a metà di quella che avevasi dalle dogane di Sicilia. E poiché era desso del 20 per % avrebbe ora dovuto essere del 10 per % dei prodotti tutti del bilancio. Eppure essi sono stati soltanto del 6 per %; quindi con un meno di un quattro per % che nella specie equivale alla imponente cifra di quaranta milioni all'anno; senza contare ne il decimo di guerra, ne l'aumento di consumazione per l’abbassamento della tariffa.

(838) ALFIERI.

(839) BOUGAU, Storia di S. G. Francesca Fremyot baronessa di Chantal Tarino 1864, vol. i. Proemio pag. 42.

(840) Mad. de Staèl, Corinne ou l’Ilalie, liv. XII, ch. I.

(841) v. Il Precursore del 17 aprile 1867, n. 92.

(842) v. Jugement sur la préface et diverses pièces que le Cardinal de Richelieu prétend de faire servir à l'histoire de son crédit MDCXXXV pag. 3.

(843) Gli ebrei antichi chiamavano poliandri i cimiterii ordinarii.

(844) So of Pitt and of England

Men may say without vapour,

That he found it of gold

And left it of paper

presso Wolowski La banque d'Angleterre et les banques d'Écosse. Paris 1867, Prem. Part. p. 12.

(845) Legge pubblicata nel Messico il 23 giugno 1833, colla quale però non altri che 51 furono condannati all'ostracismo.

(846) Metus et terror est, infirma vincula caritatis: quae ubi removeris, qui timere desierint, odisse incipient. – Tacito, Cn. Gnei Agricolae vita, § 32.

(847) Exemplo quodcunque malo committitur, ipsi

Displicet auctori. – GIUVENALE, Sat. XII.

(848) Memorie e rimembranze, cap. IX, p, 166.

(849) GENVINUS, Histoire du dix-neutième siècle depuis lcs truitès de Vienne etc. t. X, pag. 231.

(850) L'Italia nel 1867 considerazioni politiche. Firenze 1867.

(851) Uno spassionato sommario racconto di questa guerra si legge nei Ritratti messicani del Dr. SAVERIO CAVALLARI. Palermo 1866.—Chi volesse approfondire la storia del Messico sino al 1832 potrebbe consultare l’opera del diligente storico messicano LUCAS ALANA, Historia de Mejico desde los primieros movimientos, que prepararon su independencia en el ano de 1808 hasta la epoca presente, in cinque volumi. Messico 1852.

(852) ALFIERI.

(853) v. La lettera del 28 maggio 1822 diretta a Montmorency.

(854) THIERS, Discours prononcés au corps legislalif le 9 et 10 juillet 1866 sur le Mexique. Tours 1807, pag. 50.

(855) Grande et cospicuum nostro quoque tempore mostrum! — Satira IV.

(856) Il 19 giugno 1866.

(857) Essai historique et moral sur la pauvreté des nations, la population, la mendicité, les hopitaux et les enfans trouvés, a Paris 1825. Avant-propos pag. V.

(858) Histoire critique du rationalisme en Allemagne depuis son origine jusqu'à nos jours, 2° edit. préface, pag. XIII.

(859) Trattato della vera religione, dell'eresia, dello scisma, della tolleranza, e dei migliori mezzi per arrestare i progressi del cattolicismo.

(860) DE. FELIC., nat. v. V. 129 e 130.

(861) p. SECONDO FRANCO, Risposte popolari, ccc. CAPO XXXIII, pag. 274.

(862) s. CLEMENTE, epist. ad Corinth.

(863) s. GIUSTINO, Dialog. cum Tryphone.—s. IRENEO, contra hacrcses, Iib. III.

(864) Nel 344.

(865) Nel 431.

(866) Nel 451.

(867) v. Dispacci elettrici privati dell'Agenzia Stefani — Roma 26 giugno 1867.

(868) DE CHATEAUBRIAND, De la monarchie selon la charte, Ch. XLIV.

(869) DE CHATEAUBRIAND, Le vingt et un janvier 1845.

(870) Cn. Julii Agricolae Vita, § 6.

(871) Orandum est ut sit mens suna in corpore sano

Qui...

Nesciat irasci, cupiat nihil... GIUVENALE, Sat. X.

(872) BEAUTEKNE, Sentiments de Napoléon sur le Christianisme, ch. III, pag. 31,. ch. V, pag. 77.

(873) Corinne ou l'Italie, liv. XIV, ch. I.

(874) Loc. di,, liv. XVI, ch. VIII.

(875) La biblioteca di san Martino fu aperta nei 1768, e in quell'occasione Giov. Evangelista Di Blasi vi lesse un discorso sul problema allora in voga, cioè se le scienze o le arti avessero recato più danno che utile alla società.

(876) Nona aclas agitur, pejoraque secula ferri

Temporibus. - Sat. XIII.

(877) Criminibus debcnt horlos, praetoria, mensas

Argentum velus... GIUVENALE, Sat. I.

(878) SCINA, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, III, pag. 293.

(879) Roma e la reazione—memorie storico-politiche per Pietro OLIVIERI. Palermo Stamperia di Antonino Russitano 1867, in-8°.

(880) L. MIRA, Il palazzo farnese e l'emigrazione napolitano in Roma, Napoli 1865, CAPO XXVII, pag. 161.

(881) Del buono, CAPO lago 1848, pag. 95.

(882) Scriptorum Galline maledicentiae et adulationes impiae, MDCXXXV, pag. 7.

(883) Vulgus tamen, vacuum curis, et sine fulsi verique discrimine solitas adulationes edoctum, clamore et cocibus adstrepebat. Histor. I. 2.

(884) Unitario di Modena.

(885) Dr. Capretti a Correggio il 21 luglio 1860.

(886) Bollettino della rivoluzione 21 agosto 1860.

(887) Iscrizione a Palermo.

(888) Unità italiana del 10 settembre 1862.

(889) Federico Campanella il 0 mano 1862.

(890) Gazzetta di Milano.

(891) Diritto del 12 agosto 1860.

(892) Nino Bixio al teatro di Parma il 31 marzo 1862, v. Diritto del 3 aprile 1862, n. 93.

(893) Scritti vol. I, pag. 391.

(894) I Greci giuravano toccando l'altare:

Cereris tangens aramque, pedemque. — GIUVENALE, Sat. XIV.

È la formola era:.

Sciat Jupiler: sciat nunc Jupiter ipse.— HOMER, Iliad. Lib. VI e lib...

Il giuramento d'Enea si compi toccando l'altare:

Tango aras mediosque ignes, et numina testor. — VIRGILIO, Aeneid. lib. XII.

La formola presso i Latini ora:

Audiat haec Genitor, qui foedera fulmine sancit. VIRGILIO, Aeneid. lib. XII.

(895) Tollebant omnes dexteras suas in altum. — Tzeze.

(896) MONTI, La Basvilliana.

(897) Questi danni erano stati calcolati a scudi 333056 oltre a scudi 101760 fatti dagli assedianti. — v. Rapport de la commission mixte instituée à Rome ec. Paris 1850.

(898) Histoire du dix-neuvième siécle etc., t. XVIII, pag. 188.

(899) La Civiltà cattolica, Quad. 428, 18 gennaro 1868, pag. 174.

(900) Morto a Padova nel 1595.

(901) Filippica XIII, I.

(902) Fu pubblicata in Roma il 12 ottobre 1867, in seguito ad ordine pontificio del IO di esso mese la bolla di abolizione della legazia, che era stata sottoscritta il 28 gennaro 1864.

(903) v. La Sicilia e la Santa sede.— Malta MDCCCLXV.

(904) Anno 2, vol, VI, novembre 1867, pag. 627.

(905) Nuova Antologia di scienze lettere e arti. — Firenze vol. VI, dicembre 1867, pag. 829.

(906) Il Precursore di Palermo 1 novembre 1867, n. 187.

(907) Mad. de Staèl. Corinne ou l‘Italie, liv. IV, ch. II, pag. 121.

(908) Lettera politica nella Gazzetta di Firenze 29 30 31 gennaro 1868.

(909) v. SEGUR, Oeuvres, t. XIX, pag. 12.

(910) GERVINUS, Histoire du dix-neuvième siècle, t. XVII. ch. VIII, n. 4. pag. 244.

(911) DANTE.

(912) Memorie e rimembranze, vol. II, cap. XI, pag. 199.

(913) L’abdication, le partage et la fèdération de l’Italie—Italie 1868.

(914) CAV. MIRA, Il palazzo farnese e l'emigrazione napolitana in Roma. Memorie politiche, Napoli 1865. cap. VII, pag. 25.

(915) Corinne ou l’Italie liv. VII, che. II, pag. 274.

(916) L'union et non pas l'unité de l'Italie. Italie 1867.

(917) Magno hospitium miserabile, magno

Servorum ventres, et frugi coenula magno.

GIUVENALE, Sat. II.

(918) GERVINUS, Histoire de dix-neuvième siècle, tom. VII, pag. 294.

(919) Sunt tantum quatuor reges qui unguntur, scilicet Hierosolymitanus, Francorum, Anglorum, et Siculorum; alii autem non nisi ex privilegio vel consuetudine hoc jus habent. — GOFF. De sacra unctione, cap. I.

(920) v. FRANCO MACCAGNONE, Sicily and England-A sketch of events in Sicily in 1812 et 1818 illustrated by voucher and state.

(921) Sat. II.

(922) v. Unità Cattolica, gennaro 1868, n. 16, 19, 24.

(923) v. Il Popolo, giornale di Napoli 6 marzo 1868 n. 52.

(924) FLORO II, 21.

(925) LA BOULAYE, Le prince-caniche, 3.° ediz. Paris 1868, pag. 51.

(926) Storia di S. G. FRANCESCA FREYMOT ecc., vol. II, CAPO XIX, pag. 41.

(927) Journal des économistes. Janvier 1868, pag. 117.

(928) Revue de deux mondes—15 juin 1868 cronique 1009.

(929) Cosi quell'anonimo del sec. X, che scrisse il panegirico di Berengario I. v. MURATORI, Dissertazioni sopra le antichità italiane. Diss. XXIII.

(930) WOLOWSKI, La banque d’Angleterre et les banques d’Écosse. Paris 1867, Avant-propos pag. X.

(931) WISEMAN, Conferenze sulle dottrine e pratiche più importanti della Chiesa cattolica. Milano 1846, t. I, pag. 15.

(932) Asburg nella conica di Meurs in riva al Reno da Tacito dello Asciburgio, De moribus Gennanorum, § 3.

(933) Nella Revue des deux-mondes, t. 72, I dicembre 1867, pag. 766.

(934) LA BOULAYE, Le prince-caniche, ch. XXI, pag. 286, 3.(e) ediz. Paris 1868.

(935) Cogitationis poenam nomo patitur. Legge 18 Digest, de poenis.

(936) MONTI, Basvilliana, cap. I.

(937) PAPENCORDT, Cola di Rienzo e il tuo tempo. — Monografia su traduz. ital. Torino 1814, capit. II, pag. 49.

(938) Loc. cit, che. VII, pag. 89.

(939) v. DALLOZ, Jurisprud. 1867, pag. 109.

(940) La America, 28 luglio 1868, pag. 5.

(941) El museo universal, 2 maggio 1868, pag. 140.

(942) Journal des Savants, février 1868, pag. 13.

(943) Lettera del marchese Vincenzo Mortillaro al professore Michele Amari. Palermo, agosto 1808.

(944) Il vero Messaggiero di Napoli, 12 Agosto n. 221. La Vespa di Firenze 19 agosto 1868, n. 65. — Il Conciliatore di Napoli 21 agosto 1868,n. 231, e varii altri.

(945) Illo Virgilium me tempore dulcis alebat Partenopen.

(946) Et in otia natam. Partenopen.

(947) Era colpita il 10 agosto e il 13 spirava.

(948) Oeuvres complètes, t. I, pag. 34, 35, Paris 1835, Madrid 17 août 1810 a M. FELIX COUDROY.

(949) p. VENTURA, Opere, vol. III, Napoli 1856, Confer. I, pag. 1.

(950) Epistolario. —Firenze 1849, vol. II, n. 61, pag. 366.

(951) Scritti, vol. I, pag. 212.

(952) Storia di S. G. Francesca Frémyot baronessa di Chantal, vol. II, cap. XXX, pag. 378.

(953) Conseils de morale ou essais sur l’homme, les moeurs, Ics caractères etc. Paris 1828, t. II, n. I, pag. 1.

(954) Osservazioni alla lettera di M. Chevalier.—v. Journal des èconomistes, pag. 74.

(955) Rituel de l'apprenti mason— Avant propos.

(956) GRISAR, La franc maçonnerie soumise à la publicité— Doc. XXXII, B.

(957) Iniquus populus, qui in principe Deum, in lubrica isla natura divinitatem quaesierit — JUNIO, Vindiciae contra tyrannos. Edimburgo 1589. Quest. 3, pag. 191.

(958) HUTCINSON, The spirit of manonrywilk copious notes by Oliver. London 1843, pag. 59.

(959) Statuti generali della società dei liberi muratori. Napoli 1863, articoli 1, 14, 15.

(960) Die Gegenwart und Zukunft der Freimaurerci in Deutschland, Leipsich 1834, pag. 116.

(961) Die Freimaurer in ihrer vuhren Bedeutung, pag. 322.

(962) BOZE, Elogio del cardinale di Polignac.

(963) Freimaurer zeitung. 1861, n. 15.

(964) Duca Ernesto di Sassonia - Coburgo - Gotha, Opusc. Adhuc stat! St. Gallen 1863. pag. 1.

(965) Chiesa e stato rapsodie. Firenze 1867, XIX, pag. 82.

(966) Opere. Napoli 1858, vol. VI, cap. VI, pag. 177.

(967) Della tirannide, Opere, ediz. Basilea 1803, t. VII, pag. 69.

(968) Chiesa e stato rapsodie, Firenze 1867, XIX, pag. 81.

(969) Probitas laudatur et alget, GIUVENALE. Sat. I.

(970) Qui cum sint Cristiani, Christi tamen vel sequi facta, vel obsequi dictis opprobrio ducunt,—s. BERNARDO, Epist. ad Arrigo vescovo di Sens.

(971) Spinoza et son action en Hollande au XVII siècle.— Quest’opera contiene la bibliografia completa dello spinozismo sino al 1862.

(972) Spinoza et le naturalismo contemporain. Paris 1866.

(973) Baruch d'Espinoza zijn leven en schriften in verband met zynen en onzen tijd. Amsterdam Fred. Miiller 1862 con la prefazione in latino.

(974) Grundriss der Geschichle der Philosophie, dritter Thiel. Berlin 1866, Schizzo dotto e sostanziale della filosofia moderna.

(975) Cav. De Beauterne, Sentimenti di Napoleone I sopra il cristianesimo in S. Elena cap. v, pag. 77 a 81.

(976) Jeax-Gottlieb Buhle, Histoire de la philosophie moderne, depuis la renaissance des lettres jusqu’à Kant. — traduite de l’allemand par A. I. L. Jourdan.— Paris 1816, t. I.

(977) Opere, vol. III, Conf. I.

(978) Nihil tam absurdum dici potest, quod non dicatur ab aliquo philosophorum. Cicerone, De divin. 11, 58.

(979) OTT. Hegel et la philosofie allemande, Introduction ch. I, p. 7.

(980) Nato in Dusseldorf nel 1743.

(981) Nato in Stuttgard nel 1770, morto in Berlino il 14 novembre 1831.

(982) Nel 1808.

(983) GERVINUS, Histoire du dix-neuvième siècle, vol. iv, pag. 133.

(984) In der algem Kirchen Zeitung. 1830, n. 9G.

(985) Fichte, i cui numerosi scritti hanno tanto contribuito a sviluppare l'idealismo trascendentale di Kant nacque a Rommenau, villaggio tra Bischofswerdcn e Pulsnitz nell'alta Lussazia il 19 maggio 1762. Fu professore a Jena nel 1794. Perseguitato dall’elettor di Sassonia come banditore d'ateismo si dimise e ritirossi in Prussia, ove fu ricevuto a braccia aperte. Dopo il 1812 portò tutta la sua energia verso la politica, e ajutò coi discorsi e col braccio la sollevazione d’Alemagna contro Napoleone. Peri nel gennaro 1814 in Berlino vittima della febbre nervosa che desolò l'armata. — v. Nicolas, Notice sur Fichte, pag. 2 e seg. del volume intitolato be la destination du savant et de l'homme de lettres par I, ti. Fichte, traduit de l'allemand par M. Nicolas. Paris 1838.

(986) La religion dans sa notion. Weilburg 1841, pag. 175.

(987) WISEMAN, Rimembranze degli ultimi quattro papi e di Roma ai tempi loro, prima versione dall'inglese, Milano 1858, Pio VIII, cap. n, pag. 239.

(988) ARMAND SAINTES, Histoire critique du rationalisme en Allemagne depuis son orìgine jusqu'à nos jours, cap. XVIII, pag. 488.

(989) G. GAUME, Il primo secolo della Chiesa, Sez. I, pag. 6.

(990) Nato in Leonberg nel Wurtemberg il 27 gennaro 1773.

(991) A. Ott. Hegel et la philosophie allemande. Paris 1841. Introduction, ch. I, pag. 21.

(992) DE CHATEAUBRIAND, Le gènie du christianisme, t. II, pag. 288, edit. del 1852 di Didot.

(993) Jean-Gottlieb Buble, Histoire de la philosophie moderne, t. v, ch. XII, pag. 243.

(994) v. Fogli letterarii e critici di la Borsenhalle. Hamburg 1839. pag. 1028’ (Literar. ec. Krit. Bkiller).

(995) VINC DE GIOVANNI, Della filosofia moderna in Sicilia, libri duc. Palermo 1868, pag. 124.

(996) Emil., I. IV, t. III.

(997) DE CHATEAUBRIAND, Congrès de Verone, Guerre d'Espagne, Négociations, Colonies espagnoles. Leipzig et Paris 1838, t. I, pag. 5.

(998) Revue de deux-mondes, 15 juillet 1867, pag. 50.

(999) Journal des-économistes Août 1868 p. 314.

(1000) C. R., Un giorno a Londra. V. Mondo Contemporaneo, vol. II.

(1001) La Boulare, Le prince-caniche, ch. XIII, pag. 139.

(1002) De Chateaubriand, loc. cit., t. II, pag. 222.

(1003) Storia di S. M. Francesca Fremyot ec., t. I, cap. X, pag. 269.

(1004) Lettera di G. Garibaldi del 20 ottobre 1847 diretta da Montevideo a monsignor Bedini internunzio apostolico al Brasile.

(1005) Il conte di Monte Cristo, CXII.

(1006) Nel Paradiso.

(1007) Hegel et la philosophie allemande, ch. I, pag. 2.

(1008) WISEMAN, Su la connessione delle scienze colla religione rivelata, ragionamento X, P. P. pag. 161.

(1009) Lord BROOKE, Trattato dell'umana scienza.

(1010) S. GIROLAMO, ad Pammack: Gloriae animal et aurae popularis venale mancipium.

















Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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