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«Il Governo ci regala il vento dell’Africa» dalla illusione garibaldina a Lu Setti-e-menzu (Zenone di Elea - Dic. 2021)

STORIA DI SETTE GIORNI

OSSIA CENNI STORICI DEGLI AVVENIMENTI SEGUITI A PALERMO

Nel settembre 1866

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Seconda Edizione

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PALERMO

OFFICIO TIP. ANTONINO DI CRISTINA

1867

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

§I

Dopo le relazioni delle autorità, che più o meno hanno parlato delle cause, che produssero le sette fatali giornate, noi non osiamo toccare questo argomento si difficile e sì delicato. Solo ci restringeremo nel modesto carattere di franchi e veritieri narratori, credendo avere il coraggio di annunziare la verità, quand’ancora ci costasse un sagrificio.

Noi non divideremo il vezzo sì antico che comune, di non trovare delle lodi che per chi vince, e dei biasimi per chi perde. Senza amore, nè spirito di parti, colla. mano sul cuore, cominceremo la nostra narrazione, minuta, dettagliata, non per fare una storia, ma per apprestare dei documenti alla storia.

Da circa due mesi si parlava a Palermo di un movimento indefinito, indeterminato. Alcune squadre formate allora di soli briganti si aggiravano per le campagne, derubando quasi ogni giorno le vetture corriere, e minacciando di entrare in città a giorno ed ora fissa. Si rideva di queste minacce, e per una contraddizione troppo comune allo spirito umano, si rideva e si domandava al governo qualche provvedimento energico onde stabilire la Pubblica Sicurezza.

Finalmente le Autorità prendevano delle misure. Ma esse erano di si poca importanza, e con tale lentezza, che avevano l’aria piuttosto di misure, per calmare le apprensioni, che di mezzi efficaci per arrestare il movimento.

Le bande intanto con aiuti e sussidi misteriosi si andavano ingrossando con molti renitenti di leva, disertori c malviventi d’ogni genere, i quali sempre e con impazienza aspettano il quarto d’ora del povero.

Il 12 ed il 13 settembre le voci di allarme andavano sempre più aumentando. Il Comandante della Guardia Nazionale il Generale Camozzi, che venne sconosciuto nel paese, e che dovea acquistarsi tanto titolo alla pubblica gratitudine, insisteva presso il Prefetto signor Torelli, ed il Questore signor Pinna, per riunire la Guardia Nazionale, che indifferente e lenta in tempi normali, si era mostrata attiva ed animosa nei pubblici disordini: ma essi si negarono!

Il giorno 15 settembre si annunziò finalmente come certo che l’indomani si sarebbe fatto il tentativo tante volte differito, probabilmente per isconcertare l’attenzione del Governo. Il basso popolo, che ha l’istinto delle agitazioni rivoluzionarie, assediava i forni e le botteghe di commestibili per far le sue provvisioni. Allora molti degli increduli cominciarono a sospettare che qualche cosa di vero si agitasse. Nonpertanto riposavano tranquilli, non temendo menomamente che il Governo non fosse preparato a respingere l’aggressione.

Vana lusinga! Le autorità nonostante i numerosi avvertimenti, che avevano avuto nella giornata, nonostante il fatto pur troppo conosciuto, che numerose squadre si aggiravano quasi alle porte della città, disprezzavano le dicerie, e mettevano in ridicolo coloro che così facilmente si allarmavano. Era convincimento o vanità nel persistere nel loro errore, sperando che uno di quegli incidenti che spesso salvano le difficili posizioni venisse in loro soccorso?

Due o tre volte il bravo Generale Camozzi, ispirato dal sentimento del dovere, si presentò al Prefetto domandando che una volta si battesse la generale per riunire la Guardia Nazionale, tanto più che molti fra gli uffiziali insistevano sulla necessità di questa utile misura. Ma il Prefetto se non altro aveva il merito della immutabilità; egli rispose che le notizie avute dalla Questura erano tutt’altro che allarmanti.

Però i fatti che potevano più di lui, gli diedero una mentita. Verso la mezzanotte si cominciarono a sentire dei colpi di fucile alla direzione di Boccadifalco e dei Porrazzi. Il Generale Camozzi la cui vigilanza non si stancava nè per difficoltà, nè per contraddizioni, e che andava ispezionando i posti di guardia, fu invitato anche questa volta da alcuni cittadini di chiamare la Guardia Nazionale sotto le armi.

La narrazione non può sfuggire la noiosa ripetizione dei fatti. Il Generale Camozzi ritornò questa volta non dal Prefetto, ma dal Questore, vecchio ed usato strumento di polizia, di cui la fama era superiore al merito. Il Questore nel suo inqualificabile acciecamento rispose che era inutile far battere la generale, poiché i colpi di fucile che, grazie al suo udito, non negava, indicavano un semplice scontro dei malandrini colle pattuglie di truppa, di carabinieri e di questura che egli aveva inviato contro di loro, e che se ne sarebbero sbarazzati.

Ma la squadre non furono sbarazzate. Esse disperdevano ai Porrazzi tutto ciò, che si presentava sul loro cammino, e si avanzavano verso la città. Il Prefetto che dormiva placidi sonni, venne svegliato dal Camozzi e dal Sindaco Marchese Rudini, i quali con quella efficacia, che ispirava la circostanza, insistevano perchè si ordinasse che fosse chiamata la Guardia Nazionale.

Tutto fu inutile! L’insurrezione non prevista, non frenata, pigliava il suo slancio.

§II. Domenica 16 settembre

Tutto ciò che era successo, doveva servire d’incoraggiamento alle squadre. Esse si affrettarono a presentarsi alle porte di Palermo, e non trovandole guardate s’introdussero nella città. Se mancavano loro dei capi, non mancava una bandiera, la bandiera repubblicana, oramai divenuta il pretesto dei partiti anarchici. Fu allora che si cominciò a sentire il tamburo della Guardia Nazionale, che batteva la generale per ordine del Camozzi, il quale agiva malgrado le Autorità credendosi giustificato dal bisogno. Disgraziatamente era troppo tardi. Nelle agitazioni popolari non si contano le ore, ma gli atomi. La sera tutti i militi sarebbero accorsi volenterosi per la difesa del paese, ma in quel momento era impossibile, perchè dovendo agire individualmente ne erano impediti dalla presenza delle squadre. La storia non deve nascondere il coraggio di alcuni, che nonostante il pericolo vollero scongiurarlo. Una quarantina ad un bel circa si riunirono alla Piazza Pretoria, altri rinforzarono le Finanze, pochi andarono ai quartieri, molti non poterono raggiungere il loro scopo perchè disarmati, o obbligati dalle squadre a ritirarsi.

Coloro che si erano riuniti alla piazza Pretoria, animati dal numero e dal sentimento del bene pubblico, seppero respingere gl’insorti, che voleano snidarveli con lo scopo di stabilire un centro d’azione nel mezzo della città. Ma se gl’insorti furono respinti, ritornarono all’assalto ausiliati da quella parte del popolo, che inosservata in altro tempo, sembra uscire dalle viscere della terra all’odore d’una nuova rivolta per rientrarvi appena finita.

Contemporaneamente erano assaliti i posti di Questura, i quali, trovandosi ne’ centri più popolosi della città, non poterono sostenere una lunga resistenza. Le guardie cadute in mano del popolo ebbero non solo lasciata la vita, ma pure la libertà. Anche in gente rotta nei delitti esiste l’istinto della giustizia. Al 1848 i birri sotto un Governo dispotico erano inesorabilmente scannati, al 1866 sotto un Governo libero erano perdonati e restituiti alle loro famiglie.

I posti di Questura furono saccheggiati e le armi, che vi si trovarono, furono distribuite ai nuovi arrivati. L’insurrezione si faceva più ardita: essa contava già nei piccioli successi, nell’abbondanza delle armi, e nei nuovi aiuti.

Il Municipio che senza interruzione era stato molestato, si era sempre difeso appoggiato dalla influenza morale, che dovea esercitare la presenza del Sindaco Marchesi no Budini, del Generale Camozzi, dell’ispettore dei Dazi Comunali Cav. Di Maria, di alcuni Assessori, dell’ispettore della Guardia Nazionale signor Cappello, del Senatore Duca della Verdura, dell’Amministratore dei Dazi Comunali signor Perricone e di molti altri cittadini, i quali tutti, comprendevano che finche il Municipio si fosse mantenuto, lo spirito di Autorità non sarebbe mancato.

Dai balconi del Municipio si rispondeva al fuoco delle bande, quand’ecco giungere una forte pattuglia di Guardia Nazionale dalle Finanze comandata dal signor Stagno. Questo inaspettato soccorso accrebbe il coraggio dei difensori. Si pensò fare una passeggiata nella città con tutti i militi disponibili, perchè l’esempio animasse gli altri ad accorrere in difesa del paese. Il Sindaco ed il Generale Camozzi, che non si risparmiavano, e di cui si accresceva il coraggio in ragione dei pericoli, fecero parte di questo ardito tentativo. Si è detto che il Sindaco precedesse il movimento armato di fucile: voce pienamente smentita. Quest’uomo che in sì giovanile età ha saputo mostrare i talenti d’un uomo di stato, conosceva pur troppo che la sua missione non doveva essere che conciliativa. Le bande occupavano già tutti i quartieri. S’impegnarono in diversi punti de' combattimenti.

Lotta per lotta la schiera della Guardia Nazionale, giustificata da una inaspettata provocazione, rispondeva animosamente al fuoco. Fu in uno di questi fatali scontri, che si versò il primo sangue cittadino. Quattro degl’insorti caddero prigionieri, altrettanti morti. I loro cadaveri restarono esposti agli sguardi biechi della plebe, e non mancarono degli oratori, che eccitassero il sentimento della vendetta, sì facile nei popoli insulari.

§ III. Continuazione del giorno 16

La speranza era ferma come il coraggio in questo nucleo di benemeriti cittadini. Essi, ritornati al Municipio rinnovarono più tardi la passeggiata in due pattuglie, in una delle quali erano il Sindaco ed il Prefetto, che anch’egli armato di fucile diede prove di coraggio, quantunque si potesse dire che quello non sarebbe stato il posto che gli convenisse. Questa pattuglia era rafforzata da un pelottone di granatieri.

Dopo qualche piccolo e passeggiero successo la pattuglia avanzatasi nella via dell’Orologio per riuscire sulla strada Macqueda, fu ricevuta con iscariche fitte e micidiali, sì che era divenuto arduo il passaggio. In questa difficile posizione è da ammirarsi lo slancio del Sindaco, il quale fattosi avanti al grido di viva l’Italia, sboccò seguito dai militi e dai granatieri sulla Strada Macqueda. Quivi fu impossibile sostenersi. Le squadre occupando il Monastero delle Stimmate, che era stato convertito in fortezza, e dove dicesi essere state ricoverate sin dalla sera precedente, facevano un fuoco vivissimo sicure di colpire e di non essere colpite. Fortunatamente non ebbe a lamentarsi alcuna perdita, se si eccettui un milite della Guardia Nazionale lievemente ferito.

I loro sforzi non potevano non essere ammirati. Al ritorno al Municipio, conservando sempre il massimo ordine, furono festeggiati con grandi applausi dai balconi, che in un batter d’occhio vennero ornati dalle bandiere tricolori, questo simbolo d’ordine e di libertà.

Lo scopo della sortita era anche questa volta fallito. Veduta la cattiva piega delle cose, le Autorità riunite a consiglio decisero che il Corpo Municipale nella sua rappresentanza legale si ritirasse al Palazzo Reale, lasciando a difesa del locale, con dei poteri il Generale Camozzi coadiuvato dall’Amministratore dei Dazi Comunali Cavaliere Di Maria. Difficile incarico, perchè la forza di cui egli poteva disporre si limitava ad una compagnia di Granatieri, un drappello di Guardie Doganali, un altro di Bersaglieri Municipali, e pochi militi di Guardia Nazionale e Pontonieri.

I fatti succeduti al Municipio non debbono farci trascurare altri non meno interessanti, che seguivano altrove. Un distaccamento di Carabinieri comandato dal bravo luogotenente Lamponi, dopo aver percorso in mezzo ad un fuoco micidiale la strada Vittorio Emmanuele, portatore di un dispaccio importante ai Quattro Venti, si riunì ai Quattro Cantoni di Campagna colla forza, che occupava quel luogo sotto il comando dell’ispettore di Sicurezza Pubblica signor Fassio.

Il signor Fassio era già da qualche ora in quella posizione, d’onde aveva diretto quarantasette Granatieri verso i Petrazzi, e circa altri cinquanta sotto il luogotenente Lenzi a Porta Sant’Antonino, luoghi in cui si sentiva già un vivo fuoco di moschetteria. Il Luogotenente Lenzi, dopo aver passato a corsa la terribile posizione delle Stimmate, superando tutte le difficoltà, giunse a Sant’Antonino, dove obbligò le squadre a ritirarsi.

Rinforzato l’ispettore Fassio dal Lamponi con quaranta carabinieri, attaccò presso S. Francesco di Paola una forte banda, che si avanzava contro di loro. Le piccole fazioni non danno meno importanza alle prove di valore. S’impegnò un terribile combattimento. La villa Filippina, che in tutti gli sconvolgimenti popolari è stata riguardata come un punto strategico, fu presa e ripresa per ben tre volte. Male bande s’ingrossavano sempre più, ed il Fassio ed il Lamponi, che ebbero la gloria di quell’attacco, dovettero ripiegare, ritirandosi alle Grandi Prigioni, lasciando cinque morti e dieci feriti.

Anche i bravi ragazzi dell’istituto Garibaldi, in cui sono fresche ancora le tradizioni del Volturno, non mancarono di meritarsi una lode. Essi proteggerono con vivo fuoco dalle finestre la ritirata dei loro vecchi confratelli.

In città come in campagna la lotta era accanita. La compagnia di Granatieri, che era stata lasciata al Municipio, comandata dal bravo capitano Bruni, occupò i Quattro Cantoni, sostenendo sopra di sé il peso di un attacco combinato di molte squadre, che dalle bocche di tutti i vicoli facevano un fuoco incrociato. Uffiziale distinto per coraggio, per nascita e per talenti, l’aspettava una morte eroica, di cui non parliamo in questa pagina, volendo conservare tutto il rigore della cronologia nella narrazione dei fatti. .

Quanto sarebbe stato desiderabile che i generali avessero mostrato tanto coraggio e tanta attività quanto i loro subalterni! Il generale Carderina, comandante il dipartimento ed il generale Righini, comandante la divisione, non avevano ancora preso alcun provvedimento in faccia alla gravità della posizione. Si afferma che non avevano nè anco pensato a provvedere di viveri e di munizioni il posto delle Finanze, dove pochi soldati custodivano i denari dei particolari ed i tesori dello Stato. Come rispondevano essi alle premure del Sindaco che invocava il loro soccorso? Essi rispondevano che si provvederebbe l’indomani quando arriverebbero le truppe che si aspettavano da Messina. L’ignavia assume spesso il linguaggio della prudenza.

La notte il fuoco cessò. Questa notte fu delle più triste. Popolo e truppa impegnati in una lotta senza nome, si preparavano a nuovi e sanguinosi attacchi.

§ IV. Lunedì 17 settembre

Durante la notte e la mattina seguente numerose squadre arrivavano in città dai paesi, che la circondano. Era qualche cosa d’una irruzione araba. Esse erano animate da tutti i bassi interessi capaci a muovere il minuto popolo: saccheggiare le ricche case, liberare i loro parenti chiusi nelle Grandi Prigioni, 'affrancarsi dall'obbligo della leva: ecco qual era il loro programma. Soffiavano in questo incendio monaci e preti, che vedevano in una conflagrazione, ritardare per lo meno lo scioglimento dei corpi religiosi.

I capi di questo movimento insurrezionale, almeno quelli, che comparvero, erano tutti compromessi nel famoso tentativo di Badia, avvenuto nel 1865, e di cui la energia delle autorità impedì lo scoppio. Costoro si associarono nel loro Comitato (che noi chiamiamo Comitato di Azione) un Rosario Miceli macellaio, celebre reazionario, ed ora capo di una squadra, formata nella città, ove sin da questo giorno il movimento cominciò a generalizzarsi nel basso popolo.

Squadre formidabili si formarono in poco tempo. Le rivoluzioni, che si sono succedute in Sicilia, costatano un fatto tutto particolare al paese. Bastano pochi istanti perchè il popolo trovi delle armi e dei capi. Si perquisirono tutte le case, si domandarono armi e munizioni, minacciando di saccheggio coloro, che si rifiutassero a consegnarle. Si cominciarono a costruire dapertutto barricate, ed il popolo, che proverbialmente ha ottenuto il soprannome di popolo delle barricate, non venne meno alle sue tradizioni.

Si è detto che il motto d’ordine era la Repubblica. Fra le grida di repubblica vi fu anche il grido di viva Mazzini. Ma questo nome era pronunziato dalle squadre o da qualcuno, che illuso si mescolò nelle infime masse? Di ora in ora, di momento in momento si succedevano nuove voci, sì che non ripetendo più nè repubblica nè Mazzini, né Italia, si cominciò a sentire il grido di viva Santa Rosalia, motto d’ordine delle rivoluzioni del venti, del trentuno e del quarantotto.

Appena fu giorno il fuoco ricominciò terribile in tutti i punti. Si attaccarono le Finanze, i Quattro Cantoni ed il Palazzo di Città con fuoco sostenutissimo. Occupare il Monastero della Martorana, l’Università, il campanile di S. Giuseppe, tutti punti circostanti al Municipio, e di là far un fuoco micidiale, fu l’opera di un momento. Il piccolo presidio sostenne tutto il giorno questo attacco con coraggio, nonostante la totale mancanza di viveri e la scarsezza delle munizioni. Quella frazione della compagnia dei Granatieri, che noi abbiamo lasciata ai Quattro Cantoni, soffriva più di tutti gli effetti di questo fuoco vivissimo.Non pertanto si sosteneva nella sua difficile posizione, principalmente per opera del bravo capitano Bruni, che sapeva conciliare gli obblighi di capo e di soldato, tenendo in una mano la sciabola, e nell’altra il fucile.

I soldati del quartiere di Sant’Antonino, che il giorno prima avevano occupato la via Lincoln, furono attaccati dagl’insorti in numero assai superiore, e dopo una debole resistenza furono obbligati ripiegare dalla parte della Marina. Là occuparono la casa di Sanità, dove profittando dèlia posizione del luogo, si sostennero fino a tardi e per ultimo si ritirarono sopra piccole barche al Castello, trasportando tutti i loro bagagli.

Intanto sin dalla mattina era arrivato l’aiuto che i Generali aspettavano da Messina. Esso non era che un battaglione, la cui forza per lo stato, in cui si trovava il paese, non poteva per nulla cambiare l’aspetto delle cose.

Sbarcato a Porta Felice, ignaro di tutto ciò ch’era succeduto, a tamburo battente attraversò il Corso Vittorio Emmanuele per condursi al Palazzo Reale. Per un momento gli uffiziali, che lo guidavano dovettero illudersi. Essi furono accolti dai balconi, tutti imbandierati con grandi applausi e battimani.

Giunsero in questo modo al Palazzo senza trovare molta resistenza, ma dal Palazzo ritornando per la stessa via coi treni delle munizioni e dei viveri, destinati ai presidi del Municipio e delle Finanze, furono ricevuti con iscariche micidiali da tutti i lati. Fosse sorpresa o poca disciplina, i soldati, per lo più recluti, non resistendo al fuoco, dovettero ritirarsi. Nè poi poterono più tentare lo stesso movimento, avendo le bande preso posto in tutti gli sbocchi dei vicoli, nel Monastero del Salvatore, ed in altre case di particolari, che occuparono colla forza.

§ V. Continuazione del giorno 17

Il punto fuori Porta Macqueda era divenuto importante pei fatti che si compivano. Il bravo Lamponi, l’istancabile Fassio ed il capitano Vigna tentarono un’uscita dalle Grandi Prigioni con circa 160 uomini tra Granatieri, Carabinieri e Guardie di Questura. Arrivati alla Villa Filippina, nel piano di S. Francesco di Paola, s’incontrarono con molti delle bande, ma nonostante le cariche ripetute alla baionetta, dovettero ripiegare avendo trovato una solida resistenza. Delusi nelle loro speranze rientrarono nelle Grandi Prigioni, dove diedero prove di coraggio rinforzando la debole guarnigione che si trovava in pericolo. Perocché le squadre, divenute ora padrone della strada che da Porta Macqueda conduce ai Quattro Venti, si avanzavano con quella imprudenza e quell’ardire, comuni alle masse disordinate, sin sotto i bastioni.

Noi abbiamo detto che la contrada fuori Porta Macqueda era divenuta importante. Una compagnia di Granatieri, comandata dal bravo capitano Oldani, arrivava da Partinico dopo aver superato difficoltà incredibili lungo la via che aveva percorsa. Attaccata nelle vicinanze della chiesa di S. Francesco di Paola, si era battuta eroicamente sulla strada e sui giardini, ed impadronitasi di una casina che le squadre occupavano, vi si fortificò. Ma dovea fare con gente che non rinunziava a qualsiasi mezzo, fosse anche estremo, per conseguire uno scopo. Gl’insorti, fatti arditi dal numero, si avvicinarono alla casina e vi misero il fuoco, il quale alimentato dalle materie combustibili che vi si trovavano, si propagò in una vorticosa fiamma. I soldati non si avvidero del pericolo se non quando dense colonne di fumo si elevarono sino alle stanze superiori. Il pericolo negli uomini animosi raddoppia il coraggio. Il capitano con una parte dei suoi soldati, che non si negarono a seguirlo, fece una uscita alla baionetta, ma cadde vittima del suo eroismo. Gli altri sotto il comando del luogotenente Tosi ch’era stato ferito, giunsero decimati fin presso la piazza di S. Francesco di Paola, dove, perduto anche il sottotenente Franceschi, furono obbligati a rendersi. Quei pochi ch’erano restati nella casina incontrarono la stessa sorte.

Il nostro popolo non è insensibile alla generosità. Gli insorti non solo non molestavano i prigionieri, ma li abbracciavano come fratelli, e dividevano con loro quel pane, che erano sicuri sarebbe mancato l’indomani ad essi. La verità non deve coprirsi nè per interesse, nè per timore.

La speranza di fornire di viveri il Palazzo di Città e quello delle Finanze non era abbandonata. Il maggiore Fiastri, uno di quegli uomini, che più seppero attirarsi l’ammirazione, fu destinato alla testa del suo battaglione a tentare questa difficilissima impresa. Ma ciò ch’era possibile qualche tempo prima, era divenuto ora impossibile per le posizioni che avevano occupato gli insorti. Non appena egli si avanzò sulla via Vittorio Emmanuele cadde mortalmente ferito, e questo incidente fece rinunziare per sempre al tentativo. Uffiziale di un merito superiore, egli moriva col dolore d’essere stato ferito da un Italiano, se pure meriti un tal nome chi cerca di dividere l’Italia.

Questa disgrazia avea fatto pensare gravemente alla posizione. Si fece un piano di difesa al Palazzo Reale. Si costruirono delle barricate, si occuparono dei locali che sarebbero serviti di avamposti, come la Cattedrale, il Palazzo Arcivescovile, e si puntarono cannoni nei giardini del Palazzo, per tenere in rispetto da quel lato le squadre, il cui ardire si accresceva coi successi.

I difensori del Municipio si sostenevano sempre con coraggio, quantunque fossero privi di viveri da due giorni, e mancasse già l’acqua e la munizione. L’intrepido capitano Bruni cadeva morto, colpito alle tempia, fra le braccia dei suoi soldati, i quali nonostante la perdita del loro capo continuavano a difendersi con gagliardia. La notte che si avvicinava dovea rendere sempre più difficile la posizione dei Quattro Cantoni, e quindi i soldati che vi si sostenevano furono obbligati ritirarsi nel Palazzo del Municipio.

Coi successi si accrebbe negl’insorti l’ardire, e con l’ardire la licenza. È inutile parlare dei saccheggi che essi commisero. Le storie di tutti i movimenti popolari sono piene di questi fatti. Il più che ebbe a soffrire in questa orgia popolare fu il Sindaco, cioè colui che avea procurato al popolo lavoro e pane, e che avea saputo migliorare la sua condizione con un sistema di istruzione, che avea costato ben dei tesori al Municipio.

Essa è pur sempre l’ingrata plebs di Coriolano.

§ VI. Martedì 18 settembre

Noi troveremo il Generale Camozzi sempre infaticabile ed ispirato dal sentimento del proprio dovere. Convinto che sarebbe stato impossibile continuare la difesa al Palazzo di Città, egli seppe trovare un momento di tregua presso le 4 a. m. e di accordo col rappresentante del Municipio Cav. Di Maria, con tutti i cittadini ed il presidio, si ritirò al Palazzo Reale senza soffrire alcuna molestia.

Il presidio del Comando Militare di Piazza Bologni non fu ugualmente fortunato. Dopo qualche resistenza aveva dovuto arrendersi il giorno avanti. Allora le squadre padrone di una posizione, che nei loro movimenti sarebbe stata necessaria, invasero il Palazzo del Municipio, sede di tutti i passati sconvolgimenti, ora centro di opposizione. Nell'impeto del loro cieco furore bruciarono tutte le carte, che vi trovarono, perchè nella loro ignoranza suppongono che tutto ciò che è scritto, è sempre contro gl’interessi del popolo, e che è bene che si distrugga. Alla bandiera nazionale, che un momento prima sventolava alla cima del palazzo, vi si sostituì la bandiera repubblicana, che fortunatamente per l’Italia, non doveva durare che qualche giorno.

Il comitato pensò allora trasferire la sua sede al Palazzo di Città. Ma questo materiale trasferimento non giunse a modificare per nulla lo stato morale della insurrezione.

Gl’insorti abbandonati sempre a loro stessi, ricominciarono i loro attacchi alle Carceri, al Palazzo Reale ed al Castello.

Una squadra imponente di circa 250 uomini formata tutta di Morrealesi, e comandata dal famigerato Salvatore Miceli, faceva inutili sforzi per espugnare le Carceri. Questo capo, d’altronde uomo di cattiva fama, si distingueva pel suo coraggio, per la sua perseveranza, pei suoi antecedenti, e sopratutto per la sua elevata ed imponente figura, una delle qualità fisiche che più impongono al popolo. I suoi, a cui sapeva ispirare timore e rispetto, seguivano dapertutto, nei pericoli come nelle idee. La sua perseveranza si accresceva colle difficoltà. Più volte respinto, più volte ritornava all’assalto. In uno di questi assalti, in cui credeva farla finita, si accostò tanto presso i bastioni, che colpito da un ben indirizzato colpo di artiglieria, perdette le gam be, e, trasportato sulle braccia dei suoi, all’Ospedale civ ico, l’indomani spirò,solo addolorato di non aver potuto compire un’insurrezione che in gran parte si doveva a lui.

Al Palazzo Reale gl’ ins orti non facevano migliore prova. Due cannoni rivolti sul Corso Vittorio Emanuele, ora che le truppe si eran o ritirate dalla Piazza Vigliena o dei Quattro Cantoni, pulivano con un fuoco sempre nutrito la lunga e spaziosa strada. Contemporaneamente le truppe, che si era no fortificate nel Palazzo Arcivescovile, nel Campanile della Cattedrale, nel Monastero dei Sett’ Angeli, nel palazzo Carini e nell’infermeria dei Cappuccini, che in tutte le rivoluzioni erano serviti come luoghi strategici, secondavan o gli sforzi dei difensori del Palazzo Reale. Anche dalla parte di Porta Nuova i Carabinieri occupavano degli avamposti sino alla Piazza dell’indipendenza, e molte Guardie di Questura, delle Dogane, e dei Dazi Civici guardavano i giardini reali. Se a tutto questo si aggi unga che la via Biscottari, e le altre vie secondarie, che sboccano nella Strada di Castro, erano guardate dal Deposito del 69°, si conchiuderà che, nonostante l’abbandono e l’incertezza dei primi giorni, Palazzo Reale si trovava munito e difeso con tutti i mezzi della scienza militare.

Resta a parlare del Castello, uno dei tre propugnacoli, innanzi ai quali l’insurrezione si arrestò. Appena cominciato il giorno ricominciò l’attacco ma debole, lento, riducendosi a poche fucilate tirate dai vicoli ad esso adiacenti. Verso le 8 a. m. per una di quelle voci bugiarde, che ad arte o per caso si gettano nelle masse, credendosi che il presidio si sarebbe reso, gli assalitori, sventolando dei fazzoletti bianchiti avvicinarono sin sotto le cortine, e gl’intimarono di arrendersi. Il castello cessò per un momento il fuoco, per ragioni forse di umanità, e fu per questo che si sparse la voce, che elettricamente percorse tutte le vie della Città, che il Castello di fatto si rendeva, domandando dieci giorni di tempo. Ma la diffidenza domina le masse. Si credette in questa immaginaria transazione un agguato, ed il fuoco ricominciò poco dopo, ma sempre lento e debole.

§ VII. Continuazione del giorno 16

Gli avvisi che si erano telegrafati al Governo aveano prodotto il loro effetto. Durante la passeggiera tregua tra il castello ed i suoi assalitori, erano arrivati da Messina il Tancredi ed un altro vapore con un battaglione di Bersaglieri. Il loro arrivo non poteva essere più opportuno. Essi discesero immediatamente al Molo, e rinforzarono il piccolo presidio delle Carceri, in cui se non era mancato il coraggio, cominciavano a mancare i viveri e le munizioni. Il comandante del Tancredi seppe prendere posizione dirimpetto le Carceri, e per garantirle da tutti gli assalti, dispose un ben alimentato tiro di metraglie e di granate sul Piano dei Quattro Venti e sulla via Scinà. Il presidio, appoggiato da un ausiliare così valevole, si trovò in grado di fare delle spesse sortite, e di tenere a dovere quella numerosa orda di malviventi ch’eravi chiusa, e che si sforzava di evadere.

Le Finanze si trovavano in più strette condizioni. Erano mancate le munizioni e colle munizioni anche il pane. Si videro allora molti onesti cittadini delle vicine abitazioni affrontare pericoli e difficoltà, per somministrare industriosamente ai difensori, dei vivete, che in parte erano destinati alle loro famiglie. Parrebbe inesplicabile come le squadre sospendessero le loro ostilità, e soffrissero questi clandestini soccorsi. Erano le squadre cittadine che imponevano alle squadre dei campagnuoli, di cui si conoscevano le intenzioni e lo spirito di distruzione?

In mezzo a queste scene, che noi ci sforziamo di tracciare fugacemente, ne succedeva un’altra ben singolare. La plebe che finisce per cedere sempre alle idee dell’apologo di Menenio Agrippa, sente il bisogno, per agire, di un’influenza superiore. Gl’insorti per dare un’importanza, che i loro sforzi non aveano potuto ottenere, armata mano obbligarono il Barone Riso, il Principe Pignatelli, il Principe di Linguaglossa, il Principe di Niscemi, il Barone Sutera, il Principe di Galati, il Principe s. Vincenzo, il Principe di Rammacca, Monsignor Bellavia, ed il Dottor Di Benedetto a costituirsi in comitato provvisorio. Tutti conoscono le circostanze, che accompagnarono quest’atto, tutti sanno che non bastando la preghiera si ricorse alla minaccia. Bisognò che le vittime subissero le vigenze della insurrezione. Si volle eleggere un presidente, l’età fu trovata un titolo di precedenza, ed il Principe di Linguaglossa, il più anziano di tutti, fu nominato presidente. La posizione era delle più ardue. Questo comitato, che la violenza aveva improvvisato, ebbe il buon senso di circoscrivere la sua autorità a delle disposizioni, destinate a mantenere il buon ordine.

I fatti debbono valere più che le menzogne. I fatti provano che non esisteva un partito politico. Un partito politico ha un programma, e de' capi. Quali furono i capi ed il programma de' moti di settembre? Tutto contribuisce a convincere riflesso non fu che un movimento puramente sociale. Una società, in cui sono stati scossi tutti gl’interessi, in cui l'esistenza d’ogni cittadino è divenuta precaria, cade inevitabilmente in una malattia cronica. I parosismi si succedono l' un giorno più che l’altro. I suoi dolori inaspriti dall’abbandono divengono insoffribili. In uno di questi parosismi, l’ammalato perde la ragione, spinge le sue mani omicide, e si strozza.

Il Comitato pubblicò un proclama, con cui fece conoscere la sua esistenza.

«Concittadini!—In questi momenti supremi è mestiere che il paese pensi alla sua tutela. La Guardia Nazionale renderà certamente questo servigio. Il Governo provvisorio fa ad essa un appello.

«Animo dunque e virtù cittadina. Compatti ai vostri «quartieri, il paese è salvo.

«Palermo li 18 settembre 1866.»

La giornata, se non fu delle più importanti, fu la più feconda in piccoli fatti. Essa si chiuse con due attacchi sulla strada dei Lolli, ch’era divenuta un punto di comunicazione tra le truppe del Palazzo Reale e quelle del Molo. Sessanta Granatieri,distaccati dal Palazzo Reale per portare degli ordini al Molo, si trovarono circondati sulla via dei Lolli da numerose squadre. Essi fecero il loro dovere, e sostennero una resistenza onorata per qualche tempo. Una parte riparava in un’abitazione, che si convertì in una piccola fortezza, quando il padrone di casa, conosciuto l’inutile sforzo, si frappose volontario tra i combattenti, e stabili la resa a condizione che i prigionieri non dovessero essere molestati.

Qualche ora di più e questi soldati si sarebbero trovati nella posizione di ottenere un valido soccorso. Poco dopo un battaglione, facendosi strada lungo la stessa via, spuntava non avvertito al trivio delle Terre Rosse. Pochi uomini di squadra, che vi si trovavano a guardia, o per caso, tentarono invano di arrestarne la marcia. Si chiamò alle armi, e questa voce che si tramandava nei pericoli quasi elettrica scintilla, chiamò sul luogo le bande, che custodivano la barricata di Porta Carini. Soldati che aveano superato tutti gli ostacoli lungo la loro marcia, non potevano presentare che una accanita resistenza. Ma dopo quasi tre ore di una lotta incerta, la truppa, o per l’inferiorità del numero, o per la difficoltà del luogo, fu obbligata indietreggiare sostenendo un fuoco di ritirata.

§ VIII. Mercoledì 19 settembre

Appena giorno apparve nella rada, proveniente da Taranto, una squadra sotto il comando del Contrammiraglio Ribotty, composta di sei fregate e due piccoli vapori. Gl’insorti, ch’erano illusi dai fomentatori che appena scoppiata la rivolta, sarebbero venuti dei soccorsi stranieri, ebbero a convincersi una volta di più quanto siano fallaci simili promesse. Ma la Sicilia, di cui la quiete, non' è stata mai assicurata, si ò convinta di questa dolorosa verità?

La flotta, appena dato fondo, metteva a terra circa 1300 uomini fra marinari, fanteria di marina e Bersaglieri, sotto il comando del capitano di fregata Emerico Acton. Questo corpo animato dalla fiducia che ispirava la sua forza, ed appoggiato da sedici obici da campo, formandosi in colonna tentò, ciò che non era stato possibile nei giorni scorsi, di portar viveri e munizioni al Palazzo Reale. La colonna compatta, ardita, si slancia ai Quattro Venti, rovescia tutto ciò, che le si para innanzi, combatte al Borgo, nella Via Scinà, nel Largo Ruggiero Settimo, nella Via Stabile, sbocca nella Piazza di San Francesco di Paola, e si estende alla Villa Filippina e fino a Porta Macqueda. Era stato impossibile alle poche squadre d’impedirne la marcia, per quanto facessero prove di persistenza e di accanimento. Pure i loro sforzi non furono inutili. Si era dato tempo alle altre squadre di sopraggiungere da tutti i punti. Allora l’attacco diviene imponentissimo per le proporzioni, che assumeva. Se i soldati si battevano per disciplina e coraggio, le squadre si battevano per coraggio e per impeto. Finalmente la truppa, che per sei ore avea fatto il suo dovere, è obbligata retrocedere, conservando il massimo ordine, sino ai Quattro Venti, dove non si credette sicura, che quando si trovò garantita dal fuoco delle Carceri, del pastello e della flotta. La storia non deve essere parziale, la storia ammirerà il valore mostrato da gente, sopra di cui cadeva la pubblica esecrazione.

Non mancavano intanto a mettersi in contribuzione tutti i mezzi di guerra, di cui può disporre un’agguerrita nazione. Le fregate avevano messo in mare i loro lanciotti a vapore, i quali potendosi muovere con maggiore speditezza, che i grossi legni, si avvicinavano alla spiaggia, tirando granate e mitraglie sul Corso Vittorio Emmanuele, e sulle vie che sboccano al mare. Il Castello più libero e più sicuro di agire, tirava ancor esso delle granate, che, scoppiando in qualche casa particolare, destavano più timore che guasti reali. Era pur vero che alle granate sarebbero seguite le bombe?

Il contrammiraglio Ribotty, lodato pe’ fatti di Lissa, divenuto impaziente di nuove lodi, minacciava di bombardare, affettando, poco a proposito, la parte d’inesorabile.

Diciamo un fatto caratteristico, che fa onore al Marchese Rudinì. Si sospettò al Palazzo Reale che vi fosse questa intenzione. Il Sindaco, in cui i torti ricevuti non avevano scemato l’amore del suo paese, protestò, innanzi al Prefetto, insieme alla Giunta Municipale, contro, un atto ingiustificabile, soggiungendo che in questo caso, essi avrebbero preferito di esporsi piuttosto al furore delle bande, che assistere indifferenti ad una scena così funesta. Tale è pure la storia delle popolari insurrezioni, dove accanto ad un fatto atroce si trova un esempio di virtù cittadina!

Il Palazzo Reale non ebbe a sostenere in questo giorno alcun serio assalto, essendo le squadre occupate a combattere la truppa, che era sbarcata, e che cominciava a sviluppare il suo piano di attacco. Ma se il presidio non temé alcun attacco, cominciò a temere le conseguenze di un nemico assai più potente, la fame. Bisognava rimediare, e rimediare al più presto possibile. Soldati, cittadini, autorità, donne, ragazzi, mescolati e confusi per timore, per caso, per obbligo, incerti dell’indomani, sentivano i più stretti bisogni. Si pensò d’inviare dei Carabinieri ed un drappello guidato dal signor Perricone, per tentare una perquisizione. Fortunatamente le squadre non sorvegliavano con attenzione i luoghi. Essi trovarono modo, se non altro, di provvedere per un giorno alla fame.

Noi abbiamo dimenticato di dire come il Governo aveva abbandonato il quartiere della Vittoria, situato a pochi chilometri della Città. In esso aveva lasciato imprudentemente un presidio ed un importante materiale, che per tutte le previdenze, avrebbe dovuto mettersi in sicuro. Assalito dalle squadre non presentò alcuna resistenza, per altro resistenza inutile ed infruttuosa. Circa ottanta tra soldati e Carabinieri furono fatti prigionieri, ed il quartiere non fu risparmiato dal saccheggio. Si è detto da una relazione ufficiale, che in questa fazione si commisero dalle squadre atti di crudeltà, che la mente rifugge. Si disse sinanco che un soldato fu crocifisso! Ma per l’onore dell’umanità questa asserzione, che una calcolata esagerazione ha dettato, non ha alcun fondamento.

Fu in questo giorno che il Comitato, che non aveva dato altre prove di esistenza, trovò la necessità di ricorrere ad un secondo proclama. Questa volta non si rivolse ai cittadini ma alla maestranza, esortandola a mantenere l’ordine, troppo e fatalmente minacciato in Città. Non avea nulla d’un editto, era una semplice esortazione, che servì ad accrescere sempre più le apprensioni.

Verso le 11 pomeridiane le campane tutto ad un tratto suonarono a stormo. Bisogna trovarsi in mezzo ad una. insurrezione, in mezzo ad una profonda notte, tra il si* lenzio e l’incertezza, minacciati da un nemico, che già forza le porte, per farsi un’idea di un allarme. Al suono delle campane le bande, che erano disperse come ogni notte per bisogno di riposo è di vitto, accorsero fuori Porta Macqueda, dove un corpo di truppa aveva tentato, per sorpresa, di portar viveri al Palazzo Reale.

Fallito il colpo, la truppa si ritirò ai Quattro Venti, e la notte si passò dall’una parte e dall’altra piena di sospetti e di passeggieri equivoci.

§ IX. Giovedì 20 settembre

Si è detto che le squadre mancavano di una mente direttrice. Dove non vi è centro non vi è piano di azione. Le squadre, che pel passato avevano attaccato debolmente il Palazzo Reale, in questo giorno rivolsero tutti i loro sforzi contro di esso. Il Generale Carderina ed il Generale Righini, che per dignità edonore militare, doveano tener alta la bandiera, parlarono di capitolazione. Per una contraddizione inesplicabile, questa dignità e quest’onore non furono sostenuti che dai civili, i quali fecero conoscere con alta fronte, che erano decisi piuttosto morire che commettere simile viltà.

Il loro coraggio e il loro esempio produssero salutari effetti. La buona volontà supplì a tutte le mancanze. Si mancava di carne, e furono scannati i cavalli ed imbanditi; mancavano le munizioni e sopratutto le palle, e si trovò mezzo di fonderne.

Le squadre raddoppiavano i loro sforzi, e verso le ore 6 p. m. tentavano assaltare le barricate, costruite all’angolo della caserma della Trinità, ma trovando una decisa resistenza, pensarono ricorrere ad uno di quei mezzi, che in mancanza di arte, si trovano per istinto e per ingegno. Esse posero un barile di polvere sopra fascine i n una casa attigua al quartiere: era un nuovo genere di mina. Con l’esplosione avrebbero fatto saltare in aria l’edifizio, ed apertasi una breccia, sarebbero sboccate nel piano della Vittoria. Fortunatamente questa formidabile macchina fu scoperta a tempo. Un minuto di più e una parte, delle più nobili della città sarebbe stata distrutta. I soldati, sfondando un magazzino, assalirono alle spalle le squadre,che disordinate dalla sorpresa, abbandonarono il posto.

Anche questo giorno il Castello non ebbe a sostenere alcun attacco importante. Le squadre ebbero il buon senso di vedere, che i loro sforzi non sarebbero riusciti a nulla contro i bastioni, contro la mitraglia e contro le granate.

Il tempo non era che tutto a vantaggio dell’ordine. Il Governo aveva avuto il tempo di richiamare da tutti i punti del continente delle truppe, che i vapori successivamente trasportavano. Così alle 5 p. m. di questo giorno arrivava il Generale Angioletti ed il Generale Masi, con due battaglioni di fanteria. Il Generale Angioletti capace amministratore,prudente più che ardito militare, avrebbe potuto attaccare la sera stessa la città, ma volle aspettare altri rinforzi. Questi rinforzi giunsero la notte stessa-

Chi ben guarda la successione degli avvenimenti, converrà che in questo giorno l’insurrezione segnò l’epoca della sua caduta. Le squadre aveano potuto convincersi una volta, che tutte le illusioni erano cadute l’una dopo l’altra. Erano mancati i promessi soccorsi stranieri, era mancato un comitato direttore, e ciò che era una prova più forte perchè materiale, erano mancate le somministrazioni di vitto e di polvere. Le più avvedute o le meno animose non aspettarono più tempo, ed abbandonarono l’impresa. L’esempio in questi casi è contagioso, e le squadre dei campagnuoli, l’una dopo l’altra, si allontanarono, non senza qualche sospetto di tradimento.

Non era così per le squadre cittadine. Sia indole speciale del popolo Palermitano, sia abitudine alla rivoluzione, sia necessità di difendere i propri focolari, esse abbandonate a se stesse, non rinunziarono ad una lotta ineguale, e persuase di non potere più ripigliare le offensive, si prepararono a respingere, quanto onore e forza permettevanlo, un nemico divenuto formidabile.

La notte si passò tra le voci di all’erta ed i lavori che si credevano necessari; si fortificarono sempre più le barricate, ed altre nuove se ne costruirono.

Gli onesti cittadini, incerti dell’indomani, impotenti ad intervenire come mediatori, facevano voti perchè si fosse trovato un mezzo come scansare la licenza del soldato, vittorioso, o l’ira del popolo abbandonato a se stesso.

§ 10. Venerdì 21 settembre

Il generale Angioletti aveva avuto il tempo di formare un piano strategico. Le forze ch’egli avea già riunite, e che ascendevano ad una cifra sufficiente per l’esecuzione del suo piano, cominciarono a spiegarsi sin dalla mattina. Il Maggior Generale Masi ebbe affidata la parte più difficile di questo piano. La scelta non poteva essere più fortunata, o si riguardi l’intelligenza o l’intrepidezza di questo ufficiale. Alla testa di tre battaglioni di linea, del 31° Bersaglieri con due pezzi di sbarco, si diresse al Palazzo Reale, girando la Città per la via delle Croci, dei Cavallacci, di Malaspina e dell’Olivuzza.

Era grave interesse rendere quanto era possibile libero e spedito il cammino a questa colonna. Fu perciò che il Generale in Capo faceva occupare dal 24 Bersaglieri con due pezzi di sbarco, la via della Libertà, e da sufficiente truppa di linea, il difficile trivio delle Terre Rosse, onde chiamare in questi punti l’attenzione delle squadre.

Tutto era stato preveduto nello svolgimento del piano. Altre truppe sbarcavano alla destra del fiume 0reto, per prendere posizione sul punto dove fanno capo le strade, che conducono a Misilmeri ed alla Bagheria, con l’intendimento di tagliare la ritirata alle squadre. Anche i lancioni, che erano disponibili dopo che la posizione dei Quattro Venti, era divenuta il centro delle operazioni militari, si destinarono ad appoggiare l’azione della truppa.

Il Maggior Generale Masi era arrivato, sulla via Lolli senza trovar resistenza. Le squadre si accorsero che non era questo il terreno per attaccare il nemico. All’Olivuzza, dove si erano concentrate, tentarono di arrestarne la marcia. Solcati e squadre s’impegnarono in un combattimento accanitissimo. Non è nostra intenzione perderci in descrizioni. Il Generale Masi, che unisce al coraggio la franchezza militare, non ha saputo frenarsi di esclamare: «Un’altra ora di resistenza, ed io sarei stato obbligato abbandonare la posizione.»

Il Generale Angioletti, col suo colpo d’occhio, non si fece illusione dei fatti che seguivano all'Olivuzza. Per non fare riunire maggiori forze di squadre nel combattimento, da cui dipendeva l’esito della giornata, fece attaccare dai Bersaglieri, comandati dal Maggiore Brunetta, la difficile barricata costruita ai Quattro Cantoni di Campagna. Fece marciare il Capitano Acton colla sua fanteria di marina sui Quattro Cantoni. Fece per ultimo occupare alle truppe del trivio delle Terre Rosse, il Convento di S. Francesco di Paola.

Tutti questi movimenti, eseguiti colla massima precisione, riuscirono completamente. L’intrepido Maggiore Brunetta, dopo tre sanguinosi assalti, superò la barricata, e spintosi più innanzi attaccò l’altra di Porta Macqueda, la superò similmente, e s’inoltrò nella via Macqueda. Qui ebbe luogo uno di quegli incidenti, tanto drammatici, e tanto frequenti nelle fazioni militari. Le bande accresciutesi in questo momento di numero e di coraggio, riuscirono a separarlo dal resto del suo battaglione, ch’era stato obbligato ritirarsi.

Il Maggior Brunetta, separato dai suoi con circa cinquanta Bersaglieri, che per una curiosa coincidenza erano in gran parte Siciliani, in mezzo ad una città ostile, continuò la sua strada, bersagliato da tutti i punti, finché giunse al Palazzo Reale, dove destò non meno sorpresa che ammirazione.

Il Maggior Generale Masi, mercé la sua ostinazione e l’esattezza del piano generale, giunse ancor esso al Palazzo Reale, guidato dal signor Magliocco palermitano, ufficiale garibaldino. Ognuno può immaginare la gioia degli assediati, i quali poterono una volta di più convincersi, che i successi spesso non sono che il frutto della perseveranza.

Fuori Porta Macqueda si combatteva sempre. Il Maggior Rasponi coi Bersaglieri aveva occupato il Convento di San Francesco di Paola, il capitano di fregata Acton colla fanteria di marina, oltrepassando il limite che gli era stato assegnato, si era spinto fino a Porta Carini, conquistando due barricate, e la linea si sosteneva ai Quattro Cantoni di Campagna. Ma essendo impossibile coll’ingrossare delle bande, di mantenere tanti punti avanzati, e non avendo intenzione di entrare in città la sera stessa, il Generale Angioletti diede ordine di ritirarsi e concentrarsi nella via della Libertà, tenendo però sempre occupati il Convento di San Francesco di Paola e il trivio delle Terre Rosse.

Il Maggior Generale Masi che ardeva di combattere, volle anche tentare qualche altra fazione in città. Profittando della disposizione dei suoi soldati, discese lungo il Corso Vittorio Emmanuele, bruciò una tela che si distendeva per quanto era larga la strada, e che le squadre nella loro strategica, aveano collocato per impedire la segnalazione tra il Palazzo Reale e la flotta, ed occupò il Palazzo del Municipio. Ma dovendo nell'interesse del piano militare ritornare al Palazzo Reale, fu obbligato abbandonarlo.

§ 11. Sabato 22 settembre

L’insurrezione era finita. Il popolo palermitano, come tutti i popoli che hanno delle tradizioni storiche, sorpreso, trasportato nella lotta, si era battuto strenuamente, quantunque non si fosse trattato più d’una vittoria.

Il Maggior Generale Masi, ricominciando le sue operazioni al far del giorno, scese dalla Piazza Vittoria coi suoi Bersaglieri, e non ebbe a fare molta fatica a respingere qualche insorto, che il furore dell’insurrezione incitava alla resistenza; così percorsa la via Vittorio Emmanuele, giunse sino a Porta Felice, mettendo in opera più la forza morale che le armi.

Il Generale Angioletti, conoscendo lo stato degli spiriti, non esitò entrare in Città, dove non incontrò nemici, ma cittadini, che dai balconi applaudivano a’ suoi soldati, nelle cui file riconoscevano anche i propri figli.

L’ordine che era divenuto un ardente desiderio, immediatamente fu rimesso col concorso di tutte le classi, e la città ritornava alla sua vita ordinaria. Nessuna materiale testimonianza esisteva più del passato, e tutti si sforzarono di cancellare dalla memoria la ricordanza dei tristi avvenimenti.

Arrivava lo stesso giorno il Generale Cadorna, investito del carattere di Regio Commissario.

Il Governo nella scelta di lui volle trovare uno strumento di rigore, odi conciliazione? In mezzo all’incertezza universale fu pubblicato un proclama d’uso, che non avea né anco il merito della redazione...

Dispensandoci di trascriverlo nella sua lunghezza,, ci-. teremo il passaggio più importante.

«Le gravi condizioni, egli dice, della pubblica sicurezza, e gli ultimi dolorosi avvenimenti, che hanno per più giorni desolato le popolazioni di Palermo e i dintorni, rendono indispensabile il ricorrere a rigorose ed eccezionali misure, le quali, per quanto lasceranno incolumi la libertà e l’esercizio dei dritti d’ogni buon, cittadino, altrettanto, e più ancora varranno a sgomentare la ribaldaglia, ed a prevenire la rinnovazione di fatti cosi deplorevoli.»

Non si saprebbe comprendere come le misure eccezionali, che sono la sospensione della legge, possano lasciare incolumi la libertà e l’esercizio dei dritti di ogni cittadino! I fatti che sono seguiti, e che sfuggono alla sfera della nostra narrazione, avranno potuto provare se il Generale abbia conseguito il suo compito.

Si dice che la storia è la maestra degli uomini. Ma gli uomini hanno troppe passioni, perchè possa sperarsi -(1 )che imparino alle lezioni dell’esperienza. ,

Nel nostro caso siamo tutti che dobbiamo imparare qualche cosa. Se gli uomini che sono al potere hanno le loro colpe, anche noi abbiamo le nostre. Ciascuno tolga la sua pietra, passi la mano sulla sua coscienza, e colpisca il reo, se si crede innocente!










Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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