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«Il Governo ci regala il vento dell’Africa» dalla illusione garibaldina a Lu Setti-e-menzu (Zenone di Elea - Dic. 2021)

NUOVA ANTOLOGIA

DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI

ANNO SECONDO

VOLUME SESTO

Fascicolo IX. — Settembre 1867

FIRENZE

DIREZIONE DELLA NUOVA ANTOLOGIA

Via San Galle, n° 33

1867

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L’APOSTOLICA LEGAZIA DI SICILIA


Tra il dolore e l’ansietà che recano ad ogni buon italiano gli avvenimenti politici del cadente mese, noi sentiamo ronzarci molestamente agli orecchi una bolla e un breve di gennaio 1864, pubblicati a Roma per espresso comando di Pio IX il 10 di quest'ottobre 1867, pei quali l’editore del Sillabo pretende annullare in Sicilia la giurisdizione ecclesiastica che s’appella Tribunale della Monarchia ed Apostolica Legazia: antichissima giurisdizione, comoda al paese, quanto l’è uggiosa alla Curia Romana. Il Governo italiano dovrà ora, in mezzo alle gravissime sue preoccupazioni, prendere il partito di ribattere quest'altro colpo o sprezzarlo. E però mi sembra che importi agli uomini politici del paese, anzi ad ogni cittadino, di conoscere più particolarmente ch'e’non si può dagli studii generali su la Storia d’Italia, l’origine e le vicende di quella istituzione nell'Europa moderna.

La prima cosa egli è da ritrarre fedelmente la dinastia che ottenne o più tosto prese, cosi fatto privilegio dalla mano di due papi, altrimenti celebri nell’istoria che mai noi sarà l’infelice Pio IX; e son da toccare le opinioni e gli intenti politici che spinsero il conte Ruggiero a domandare, le condizioni di cose e gli interessi mondani che consigliarono Gregorio VII a tollerare, sforzarono Urbano II a promettere e, riluttante, a mantener la parola. La casa di Hauteville, come ognun sa, avea guadagnato a punta di spada, verso la metà dell’XI secolo, il primato nelle compagnie di ventura che liberarono l’Italia meridionale dalla dominazione bizantina: piccioli nodi di Normanni, ingrossati a tanti doppii da guerrieri di tutte le parti d’Italia; condotti a soldo da questo e da quel principe; finché il milanese Ardoino non li strinse in federazione a Melfi, e non chiamò a libertà i popoli della Puglia. La Corte di Roma, caduta da gran tempo in quel discredito dal quale la trasse Ildebrando, e fatta stromento degli imperatori tedeschi, osteggiò dapprima i Normanni, anzi li combatté in carne e in ossa a Civita (1033); dove Roberto Guiscardo, capitano sotto il fratello Uilfredo di Hauteville, apprese a far prigione un papa mentre gli si baciava il piede. E giovò quella lezione ad entrambi. Perché il papato, volendo ormai scuotere il giogo dell’impero, avea bisogno di quelle buone spade italiane temprate all'uso di Normandia; e il Guiscardo, anelando a mutare in uno scettro il baston di comando de' venturieri confederati, desiderava di santificare l’usurpazione all'uso della Corte Romana. Si alternarono, ciò nondimeno, la nimistà e gli accordi tra' due poteri, ciascun dei quali presumea troppo di sé. Roberto or creato duca di Puglia e di Calabria (1039); ora scomunicato e mossegli contro quante armi si potea (1074): in ultimo quell’impetuoso Ildebrando si gittò nelle sue braccia (1080); e il Normanno, andato a liberarlo da' Romani e da Arrigo IV, con un esercito di Pugliesi, Calabresi e Saraceni di Sicilia, bruciò mezza Roma (1084): uno dei mille benefizii che la città eterna riconosce da' suoi Pastori.

Che pensava dunque nell’undecimo secolo la Chiesa cattolica; che pensavano i più religiosi principi dell’età delle crociate? Guardando addentro nella Storia si vede che reggeano allora la Chiesa gli addetti di poche scuole vescovili, e sopratutto i monaci di alcuni Ordini potentissimi per riputazione di santità e dottrina e non meno per ricchezze, parentele e seguito appo i grandi; come in Italia il monastero di Monte Cassino, e in Francia que’ di Fleury, del Bec, di Cluny: vivai di papi, prelati, ministri di Stato; centri di maneggi politici, dove la potenza mondana era il fine, la religione lo strumento, la Corte di Roma il centro di gravità sul quale si bilanciava la gran macchina. Ma non ostante quell’infelice primato lasciatoci in dote dall'antico impero, e non ostante la forza che talvolta dettero alla macchina religiosa altissimi intelletti italiani, prevalea pure in quella il genio ecclesiastico della Francia, ch'è stato di tutti i tempi in Europa il più ardente e il meno ragionevole, sospinto da vanità e armato di dottrina, infaticabile, astuto, da meritar la lode che il chierico francese contemporaneo, Guglielmo di Puglia, dava a' guerrieri normanni:

Decipit Ausonios prudentia gallica.

Cotesta scuola politica era nata da un secolo in circa, mentre i laici, nobili e plebei, pasceansi di superstizioni, deliravano tra vani terrori, senza scorta di morale; e i molti ignoranti del clero innestavano l’impostura sulla credulità. Scuola, dico, di savii che voleano usare l’altrui ignoranza ad effetto grande e santo a prima vista: far comandare l’intelletto alla forza; guidare con unità di consiglio nelle vie della fede, della morale, del ben pubblico, quella società feudale eterogenea e disgregata che fermentava per tutta Europa. La quale scuola, trascinata dagli interessi, divenne setta; e, come disarmata, adoperò necessariamente l’ambito e le astuzie; preferì gli effetti alle teorie, accomodò la morale ai propri intenti, s’insinuò nelle corti, trattò matrimonii, intavolò negoziati politici, promosse l’uno, rovinò l’altro, stese un paretaio da chiappare donazioni d’ogni maniera: lo stato della contessa Matilde, come il bottino di Roberto Guiscardo. Cotesti Gesuiti del-l’undecimo e duodecimo secolo, dominavano necessariamente nella Corte papale.

Roberto e il suo fratello Ruggiero, uomini di ferro entrambi, capitani, statisti sagacissimi, più audace il primo ne’ concetti di grandi imprese, più savio e costante il secondo, non pensavano al certo, in materie di religione, come i filosofi del XVIII secolo o i critici del XIX; pur non rimaneano addietro di alcuno de' principi e feudatarii del medio evo, i quali conobbero a proprie spese l’ambizione e cupidigia del clero cattolico e sopra tutto della Corte di Roma, e disprezzarono le armi spirituali di quella, non meno che le materiali. Agevol cosa era a distinguere, nell'urto quotidiano degli interessi, il ministro di Cristo da quello del «Dio d’oro e d’argento;» né in alcun tempo gli uomini dotati di un po’ di ragione, massime quelli chiamati a trattare le pubbliche faccende, poterono credere profondamente e schiettamente a tutti i precetti che il Sacerdozio dicea scesi dal Cielo. Un dubbio rimanea sempre per quelli contrarii all'interesse proprio; e il credente stesso li violava tanto più franco, quanto la dottrina delle espiazioni gli dava bello e pronto il rimedio. Oltre coteste idee comuni del secolo, i due principi di casa d’Hauteville s’imbevvero di quelle particolari dell'Italia, dove il papato visto da presso è parso in tutti i tempi più brutto, e di quelle, alquanto diverse, dell’Italia meridionale, dove il diritto ecclesiastico bizantino, del quale diremo più particolarmente in appresso, attribuiva larghissima giurisdizione al principe. La pietà, com io credo, non la diffidenza, avea suggerita la fondazione del monastero di sant’Eufemia in Calabria, nel quale si ridussero molti religiosi normanni, e il conte Ruggiero ne trasse i suoi cappellani e indi i vescovi. Pur l’alito de' Normanni e l’aria della Magna Grecia vi fecero crescer buone piante: piante non oltramontane, come solea dirsi di là dalle Alpi ai fautori ciechi della Corte di Roma; ed a più forte ragione gli Italiani or posson rimandare questo aggettivo ai cattolici di là.

Verso la meta dell'undecimo secolo, quando i Normanni principiarono l'impresa di Sicilia allettati dalla guerra civile dei Musulmani, la popolazione battezzata s’era di molto diradata; prevalea la Musulmana, per apostasie e immigrazioni accumulate da due secoli e mezzo. Le chiese mutate in moschee, mezzo abbandonati i monasteri e tanto rifinito lo zelo patriottico e religioso che si mostrò assai poco in trent'anni di guerra. E perché la Sicilia era stata fin dall'ottavo secolo, tolta alla giurisdizione di Roma ed assegnata al Patriarca di Costantinopoli, i seguaci della confessione latina, i Cristiani come li appella per antonomasia Amato monaco di Monte Cassino, storiografo di Roberto, non ragguagliavano per numero i Cattolici, com’ei chiama que’ di lingua e rito greco. I Normanni in tutta la guerra trovarono un sol pastore, ed egli era di rito greco, l’Arcivescovo di Palermo. Facea mestieri dunque rapire a Maometto sei o sette decimi della popolazione (dico una cifra che non ho letta di certo in tavole statistiche ma non mi par lontana dal vero) e due o tre decimi a Fozio e aggiugnerli a poco a poco all’altro decimo, che rimaneva a san Pietro. Senza ciò si sarebbe fabbricato su la sabbia. Allo stesso fine di assicurare il conquisto, che l’isola al primo rovescio di fortuna non ritornasse agli antichi signori di Costantinopoli o d’Affrica, la necessità comandava di piantarvi colonie latine e, sendo lontana la Normandia e ogni altra terra francese, prenderle dalla Terraferma d’Italia. Non è di questo luogo il dimostare com'esse vennero da tutta la Penisola e precipuamente dalle costiere di mezzo e dalla valle del Po, che avea forniti tanti uomini alle compagnie normanne.

Ognuno intende adesso, come la fondazione delle sedi vescovili in Sicilia (poiché tutte fondar si doveano fuorché quella di Palermo, e quivi anco era da sostituire il clero latino al greco) tornasse ad ordinamento principale del nuovo Stato, e i vescovi a prefetti, anzi commissarii generali del nuovo governo, deputati a rigenerare la popolazione, a convertire i nemici in cittadini: appunto il contrario di quello ch'or vorrebbe il papa da' vescovi

italiani. Alla propaganda religiosa s’aggiunsero ufficii del tutto civili. Ancorché nella Terraferma italiana declinasse già, nella seconda metà del secolo, l’autorità politica de' vescovi, noi veggiamo allora il vescovo di Catania e l’abate di Patti, e mezzo secolo appresso il vescovo di Cefalù, bandire franchige a' nuovi coloni e raccolta in Patti una popolazione di linguaggio italiano. Donde si vede che il vescovo, ovvero l’abate con giurisdizione vescovile, era propriamente il feudatario secondo il cuor del conte Ruggiero. Il quale, essendo stato per trent'anni spettatore ed ausiliare della grande e forse necessaria usurpazione di Roberto, che riduceva i confederati a feudatari!, volle ordinare il baronaggio in Sicilia in guisa che non fosse molesto a lui né a' suoi successori. Tra gli altri espedienti divisati a questo fine, ei concedette molti feudi alle Chiese: ond’è venuta la favola che abbiam sentita ripetere in Firenze questo anno stesso, come tanti altri errori storici che ripullulano, sempre, cioè la tripartizione dei beni della Sicilia tra il principe, i baroni e la Chiesa. Ruggiero divise, come gli parve e piacque, tutti i beni che non furono lasciati per accordo agli antichi abitatori cristiani e musulmani. E diè gran copia, fors’anco una terza parte, di que’ beni, a vescovi ed abati, come a feudatarii disarmati e però più maneggevoli; o celò anco nella concessione lo stipendio di prefetti e commissarii generali. Gli è naturale ch'ei non amasse a vedere i prefetti e i feudatarii mitrati, ubbidienti ad un papa più che a sé medesimo. E però dovea sentir tutto lieto i casi della storia ecclesiastica di Costantinopoli e le teorie di dritto canonico, narrategli per avventura da qualche suo fidato calabrese o siciliano di linguaggio greco, come il prete Scholaro, cappellano, fattore e messaggiere suo, raccoglitore di manoscritti greci e dipinture, e ricchissimo fondatore di un monastero non lungi da Messina. Questi o altri, gli avea detto di certo che gli imperatori della Nuova Roma, memori dell'antica potestà pontificia, soleano presedere a' concilii, sancire le decisioni di essi, sottoporre a giudizio i patriarchi, non che gli arcivescovi e i vescovi, deporli, tramutarli da sede a sede; che gli imperatori comandavano a verga il clero; ch’eran tenuti persone sacre e capi della giurisdizione ecclesiastica; la quale autorità, come sa ognuno, è passata da loro agli Czar delle Russie. Cosi fatte teorie, antiquate al secolo XIX, empie e mostruose agli occhi della Chiesa latina in tutte le età, se l’erano riprovate in generale dal pio conte Ruggiero, non poteva egli non prenderne tuttociò che si confaceva agli interessi del principato e ai dettami della propria ragione, illuminata dalla esperienza sua e de' suoi tutti in Italia.

Ruggiero avea capitanata la vanguardia di Roberto Guiscardo nelle prime imprese su la Sicilia (1061); avea poscia acquistata per sè, con la propria compagnia mezzo feudale e mezzo di ventura, Traina e qualche altro luogo; or solo, or con aiuti del fratello, avea combattuto, avea vinto e talvolta perduto; ed entrambi occupata, dopo lungo assedio, Palermo (1072), aveano fatto un partaggio in questa forma: che Roberto prendesse la capitale e il Val Demone, e Ruggiero tutte le altre terre acquistate e le molte più eh erano da acquistare. Ma correndo Roberto alla guerra di Grecia, vendé, com'io credo, il Val Demone al fratello, il quale avea serbati maggior tesori che i suoi: e quindi a poco a poco, mentre Roberto combatteva e moriva in Grecia, ei prese le altre terre di Sicilia; talché il 1093 signoreggiava tutta l’isola, da Palermo all’infuori, rimasta all’erede di Roberto. Alla cui morte (1085) il conte fu tenuto come il capo di casa Hauteville e il più possente principe d’Italia. Ei fece conseguire il ducato di Puglia e Calabria al nipote Ruggiero anziché al costui maggior fratello Boemondo: con la riputazione, la esperienza della guerra, i danari e le schiere di Musulmani siciliani ch’ei si traea dietro in Terraferma, il conte di Sicilia sostenne il novello duca e il principe normanno d’Aversa; ond’ebbe in merito dal primo una metà di Palermo. L’argomento nostro ci conduce a discorrere più particolarmente gli obblighi ch'ebbe al conte Ruggiero la corte di Roma.

La prima cosa, ei le rendea la Sicilia, ritolta all’emulo patriarca di Costantinopoli; fabbricava chiese per tutta l’isola; fondava monasteri; ristorava il culto cristiano, più prontamente, più liberalmente che mai non l’avesse fatto alcun principe; onde potea piangerne di gioia cosi un papa mondano come un papa ascetico. Il mondano inoltre scorgea nel conte Ruggiero un sostegno, pericoloso forse, ma pur necessario, del poter temporale. Ruggiero e Roberto, dopo le brighe sanguinose ell'ebbero in gioventù allo spartire i frutti de' conquisti loro in Calabria, si unirono poi si strettamente, come se un sol pensiero li movesse entrambi in ogni passo; e morto il Guiscardo, l’altro gli sottentrò nel primato politico su l’Italia. Pertanto Gregorio VII, non prima rappacificato col duca di Puglia, avea mostrato al conte di Sicilia quella singolare condiscendenza che or ora ci faremo a narrare. Scomparse dalla scena del mondo quelle due sommità che furono Gregorio e Roberto, sottentrarono, ingegni diversi più tosto che inferiori, meno strepitosi perché più cauti e più sodi, Urbano II e Ruggero; i quali, se talvolta si offesero l’un l’altro, dissimularono pure entrambi, litigarono con buone parole e s’accordarono ne’ partiti di mezzo. Del 1089, proposta da Alessio Comneno ad Urbano la rappacificazione delle due Chiese, il papa andò in Sicilia a consultarsene con Ruggiero, il quale assediava Butera, e lasciò il campo per correre subito a Traina; dove ebbero insieme lunghi abboccamenti e per certo si trattò del-l'ordinamento de' vescovati in Sicilia e degli interessi della corte romana nella Penisola. Questi spinsero Urbano, parecchi anni appresso, a chieder la mano d'una figliuola di Ruggiero, cioè ricchissima dote e speranza d’altri soccorsi, pel figliuolo dell'imperatore Arrigo IV, Corrado; il quale, ribellatosi dal padre a istigazione del sommo pontefice, per diffalta di danari, mal si reggea contro la parte imperiale in Italia. Ruggiero esitò; poi ingannato su le forze della fazione che sostenea Corrado, diè la figliuola e la dote; e dopo i successi, non si chiamò, al certo, contento del papa. Urbano, dal canto suo, non potea lodar la ripugnanza del conte alla prima Crociata; né le dicerie che corsero il 1098 all'assedio di Capua, dove certi monaci inglesi esagerando, com'e’ parmi, la tolleranza politica del conte, affermavano che i suoi soldati musulmani si sarebbero molto volentieri lavati nelle acque del battesimo se il Conte non avesse aspramente punito chiunque Tosava. Ma ciò non tolse che Urbano, andato allora appunto al campo normanno, lodasse e accarezzasse Ruggiero e lo pregasse di non esporre troppo ai pericoli della guerra «la sua vita necessaria a Roma e all’Italia.» Le quali parole, serbateci dallo storiografo del conte, spiegano senz’altro comento il privilegio dell'apostolica legazia che Urbano conce-dea, pochi mesi appresso, a Ruggiero.

Padrone d’una metà dell'isola, e forse manco, Ruggiero avea già esercitato il primo atto di quella, giurisdizione ecclesiastica ch'ei vagheggiava. Traina, capitale de' suoi dominii in Sicilia, non avea se non che qualche misera chiesa greca. Ecco che il conte, espugnata con grande fatica e rischio Taormina (1089), «per non parere ingrato a Dio» scrive il suo storiografo, prorompendo in versi, com'ei suole quando il soggetto gli scalda la fantasia «il conte, raccoglie muratori d’ogni luogo, gitta le fondamenta d’un tempio, che tantosto è fornito; assodate le travi e le correnti dei tetti; dipinte le pareti a varii colori; provveduti a ribocco, vasi sacri, arredi, candelabri, croci, pallii, incensieri; fabbricati de' segnacoli di metallo per invitare il popolo con dolce melodia (sic). Consacrata indi la chiesa nel nome della Vergine Puerpera, l’è dotata largamente di terreni e decime, abbellita d’ornamenti e ricchezze di varie maniere, accresciutovi, secondo le entrate, il clero e innalzatavi una cattedra pontificale, dalla quale il vescovo semina tra le genti la parola 0 della sacra legge.» E tra questa e altre dicerie a lode del gran principe 0 il monaco scrittore non fa pur allusione al papa. Ritraggiamo bensì da una epistola di Gregorio VII, che verso il 1081, cioè dopo il fatto, Ruggiero avea domandata la consagrazione del vescovo eletto da lui; e che il terribil papa, tra que’ suoi rigori in punto d’investiture, rispondea con insolita mansuetudine: non essergli stato chiesto permesso della elezione, non essere intervenuto a quella il Legato della Sede Apostolica, pure, a condizione che non si rinnovassero tai falli, ei darebbe la consagrazione. Ma ceduto il Val Demone da Roberto, rese dai Musulmani lor ultime fortezze, e sottomessa anco Malta, il conte pose mano all'ordinamento ecclesiastico, si come al politico. Al-l’arcivescovo di Palermo, avanzo della dominazione musulmana, egli aggiunse cinque vescovi, Mazara, Girgenti, Siracusa, Catania, Messina (tramutando in quella città la sede di Traina senza alterare la diocesi) e l’abate di Patti con giurisdizione vescovile. Talché, con poco divario, le diocesi del conte Ruggiero e le sedi, tornano alle odierne province della Sicilia ed a' loro capo-luoghi; e la giusta misura delle circoscrizioni ecclesiastiche dell’XI secolo fa strano contrasto con lo spensierato eccesso d’oggidì: nientemeno che diciotto sedi, senza contar l’abate di Santa Lucia, né il vescovo di Malta, né quel d’Acireale pel quale v’ha una bolla, ma in fatto non è stato istituito. Di coteste sedi non men che sette sono surte per procaccio de' piissimi Borboni di Napoli.

Il conte Ruggiero fondava le sue dassè, com'abbiam detto per quella di Traina; come si legge ne’ diplomi che risguardano tutte le altre, dati dal 1091 al 1096, ne’ quali il conte scrive sempre «ho edificata tal chiesa, ho istituito tal vescovado; gli assegno la diocesi con questi confini; e volgendosi agli eletti lor dice: «ti affido il governo del tal vescovato, avrai tu sotto la tua potestà i monasteri, ec. ; 0 e nel preambolo della fondazione del vescovato di Catania è un passo di questo tenore: «Urbano II,

con la sua propria bocca santissima e veneranda, mi prescrisse come padre spirituale, e come uom santo mi richiese di nutrire la santissima nostra madre la Chiesa e promuoverla... ond’io ne’ luoghi opportuni della Sicilia edificai chiese per comando del Sommo Pontefice e vi posi i vescovi; lodando e concedendo ciò l’apostolico padre e consagrando gli eletti.» Da queste e somiglianti frasi, genuine senza alcun dubbio poiché le tornano con poco divario in tutte le carte del conte Ruggiero, si scorge ch’egli credea diritto suo proprio la fondazione e la elezione, lodata dal papa, o consigliata, come si dice della edificazione d’una nuova chiesa in Messina; quando, all’incontro, Gregorio VII affermava essere necessario alla fondazione il suo permesso ed alla elezione l’intervento del suo Legato. E poiché noi veggiamo a capo di pochi anni Ruggiero promosso a Legato perpetuo, risulta chiarissimo il fatto che, non potendo spuntarlo dalle regalie bizantine e non volendo nimicarselo altrimenti, Urbano prese l’espediente di offrirgli sotto nome di delegazione il potere che quegli già esercitava e lo credea necessario al buon governo della Sicilia. Abbiamo la contro prova degli esercitati diritti, ne’ diplomi pei quali il conte Ruggiero, fondando o dotando non pochi monasteri, i suoi monasteri, com’ei li chiamava, li esentò dalla giurisdizione de' vescovi. In uno dato a pro del monastero di Santa Maria in Vicari nell’ottobre 1098, e però dopo la bolla d’Urbano, ei dice espressamente accordare la esenzione per autorità conferitagli dal romano pontefice. Più notevole ancora quello del Monastero di San Pietro d’itala, dato avanti la bolla, cioè di dicembre 1093; nel quale il conte dice accordare la esenzione «perché gli costava che il papa fosse solito a darne.» Quivi egli scomunica, per autorità conferitagli dal papa, chiunque contravvenisse al suo ordinamento; la quale scomunica è tanto diversa dalle solite imprecazioni de' fondatori o donatori di quel secolo, ch'egli le adopera in fin del medesimo diploma, chiamando su i contravventori l’ira della Divinità e dei santi padri che assistettero al Concilio di Nicea,

Si comprenderà meglio, dopo coteste premesse, il racconto del Malaterra che scrisse le geste del conte per espresso comando di lui. Narrato come questi fosse ito a Salerno dopo la resa di Capua, e come il papa fosse corso per trovarlo prima ch'ei facesse vela per la Sicilia, il cronista nota che il papa giunto a Salerno, andò il primo in fretta a visitare il conte, ch'entrambi con gran diletto s’intrattennero insieme, e continua: «Ma perché l’Apostolico avea, senza consultarne il conte, eletto legato in Sicilia, a fin d’esercitarvi il giure della Santa Romana Chiesa, Roberto vescovo di Traina; ritraendo che il conte mal soffrisse ciò e dicesse non volere a niun patto lasciar le cose in questi termini; conoscendo altresì l’ardente zelo di lui nel compimento di tutte le ecclesiastiche bisogne, cassata la nominazione del vescovo di Traina, diè la Legazione del Beato Pietro per tutta la Sicilia (una variante vi aggiugne la Calabria) al Conte ed a' suoi eredi;» e segue facendo la perifrasi della bolla che si trova trascritta in fine della sua stessa cronica. La bolla è data di Salerno il 3 luglio del 1098 e indirizzata al conte di Calabria e di Sicilia. Ricordate brevemente le virtù di Ruggiero, i confini della Chiesa ampliati da lui sopra i Saraceni «e la devozione sempre in varii modi provata alla sede apostolica, Urbano lo dichiara speciale e carissimo figliuolo della Chiesa universale; e sì come gli avea promesso già a voce, conferma con l’autorità dello scritto questo privilegio: che per tutto il tempo della sua vita e del figliuolo Simone e di qualunque altro suo legittimo erede, il papa non mandi, senza volere e senza consiglio di lui, alcun legato della Chiesa romana nella terra soggetta al suo potere. Di più, occorrendo d’inviar legato a falere per lo bene delle chiese poste ne’ dominii del conte, il papa farà per mezzo di lui ciò che avrebbe dovuto per mezzo del legato. E in caso che si bandisse concilio, il papa richiederà il conte di inviarvi i suoi vescovi ed abati; ma il conte ne lascerà partire quali e quanti vorrà e riterrà gli altri al servigio delle sue Chiese.»

A migliore intelligenza di coteste parole gli è da sapere che i legati a falere in quella età convocavano conci lii diocesani e ne approvavano, rigettavano o rifaceano i canoni; s’intrometteano nelle elezioni de' vescovi, e sospendean questi o li deponeano. Inoltre santo Stefano re di Ungheria aveva ottenuto dal papa, al principio dello XI secolo, «l’autorità di legato apostolico, cioè di designare le diocesi e le parrocchie e nella prima istituzione eleggerne i vescovi col consiglio d’altri prelati;» come si legge in una petizione di Bela IV, il quale, l’anno 1238, chiese a Gregorio IX la medesima autorità per le terre conquistate sopra il pagano Arsenio. Non era dunque nuova nella Chiesa latina la delegazione apostolica in persona di principe laico: la quale i canonisti spiegano senza impaccio, dimostrando che la potenza dell’ordine sia distinta affatto da quella della giurisdizione e che, se non può trasmettere l'ordine chi non lo abbia in sé medesimo, nulla osta a ciò che la giurisdizione sia delegata a laici. Ma su cosi fatti argomenti la storia non ha da ragionare. Dee ben essa conchiudere che il breve di Gregorio VII ricordato di sopra e il fatto del conte Ruggiero accettato e ratificato sempre da Urbano, proverebbero, se pur mancasse la bolla, il privilegio goduto dal conte in virtù d’un concordato, come or si chiama; privilegio dell’apostolica legazia, il quale comprendeva, oltre la istituzione de' vescovi, la somma giurisdizione nelle cause ecclesiastiche; la quale re Ruggiero esercitò, papa Adriano riconobbe nel trattato con Guglielmo I, e l’é stata inalterabilmente osservata in Sicilia infino ad oggi. Ove si consideri la restituzione di si vasta e nobile provincia, il favore dato con la spada e co’ danari alla sede romana e la prodigalità dei doni stabili e mobili d’ogni maniera alla Chiese di Sicilia, non si dirà che il conte Ruggiero s’ebbe gratuitamente la legazia apostolica, né ch'ei comperolla a buon mercato. E non si dimenticherà che Urbano II, il quale l’avea promessa a voce, disdisse la sua propria parola nominando legato il vescovo di Traina, quando le Chiese di Sicilia erano belle ed instituite, arricchite e messe sotto la sua verga pastorale; e ch'ei non rammentò la promessa, se non quando vide sì adirato il conte, dal quale avea molto da sperare e da temere. Morto Urbano, il conte porgeva un sussidio di mille once d'oro a Pasquale II.

Nel corso d’otto secoli, i papi hanno continuato il gioco d’Urbano II, spiando il tempo di sottrarre la Legazia di Sicilia, quando una man più forte della loro non fosse pronta a chiapparli sul fatto. La questione ecclesiastica s’è intrecciata sempre con le questioni più propriamente politiche, essendo stati sempre i signori della Sicilia, in grado di favorire o contrastare le ambizioni dei papi in Italia. Trovossi inoltre la Sicilia necessariamente opposta al poter temporale, per la pretesa sovranità del papa su la Puglia e la Calabria, poiché queste dal 1128 al 1282, fecero con essa una sola corona; e indi avvenne che i papi, nelle loro contese con gli Hohenstauffen, avvilupparono una pretensione sfacciata con una debolissima, la signoria feudale della Sicilia con quella del Napoletano; onde concessero a' novelli campioni di San Pietro anche l’isola di Sicilia, e ne fu sparso, come ognun sa, un mar di sangue.

Or non possiam noi proseguire la istoria della Legazia con tutti que’ particolari con che ne abbiamo raccontata l’origine, poiché s’avrebbe a scrivere, in luogo di poche pagine, un volume. Accenneremo dunque le dette brighe per sommi capi, a mo’ di cronologia più tosto che di racconto. D’altronde non è stato che il medesimo tentativo replicato una diecina di volte con date e nomi diversi, con qualche variante negli episodii, secondo l’umore de' personaggi e la foggia dei tempi, e sempre con successo alterno: il papa or inveisce contro il principe odiato o debole; or si ritira quando il principe gli può giovare e nuocere, oppure non s’è curato delle scomuniche ed ha saputo tenere a segno i preti troppo zelanti. Nell'altalena intanto, non s’è smentito il proverbio che la gocciola cavi la pietra: ogni novello papa ha limato sempre qualcosa nel privilegio del santo padre Urbano.

Non disputassi in vero della Legazia nel primo scontro grosso che segui dopo la morte del conquistatore. Il costui figlio Ruggiero s’era impadronito de' principati normanni di Terraferma, se n’era fatta dar l’investitura da Onorio II, dopo una guerra in cui l’uno e l’altro capitanarono gli eserciti (1128); e nello stesso modo, incoronatosi Ruggiero re di Sicilia e del ducato di Puglia e Calabria, e riconosciuto dall’antipapa Anacleto (1129), Innocenzo II lo combatté per parecchi anni con le scomuniche e le armi degli stranieri e de' ribelli; ma caduto prigione in uno scontro (1139), anch’egli salutavate il vincitore. Lucio li nicchiò; poi dovendo resistere con le armi materiali a' Romani, accettò da Ruggiero un sussidio di moneta, e gli concedette di usare, quasi insegne della Legazia, il bacolo pastorale, l’anello, la dalmatica, la mitra ed i sandali: strano abbigliamento d’un re mezzo musulmano. Più seriamente questi esercitò l’ufficio di legato, quando istitui dassè solo il vescovado di Cefalù, esentò la cappella reale di Palermo dalla giurisdizione dell’arcivescovo e decise in appello le cause ecclesiastiche. E che la dalmatica non l’impacciasse negli atti da re, mostrollo con le sue leggi civili sopra i matrimonii, l’amministrazione delle sedi vacanti e la verificazione dei titoli di proprietà di tutte le Chiese. Mutato il nome del re, di Ruggiero in Guglielmo primo, quello di Innocenzo in Adriano IV, e l’anno nel 1154, ritentò il papa la prova di sradicare quel trono dell’Italia meridionale che resisteva alla impotente cupidigia sua; ma rimasa la vittoria a Guglielmo e minacciata Benevento, Innocenzo venne a patti come i suoi predecessori. Nel concordato ch’ei stipolò con Guglielmo (1156), limi-tossi alquanto, in ambo i reami di Sicilia e di Puglia, la potestà regia nelle elezioni dei vescovi, e riserbaronsi al papa le consegrazioni e le visite. In Puglia poi, e vi si aggiunse, stracciando un pezzo della bolla d’Urbano, anco la Calabria, fu riconosciuta dal re la giurisdizione del legato pontificio, e il diritto degli appelli a Roma. Ma il papa rinunziò all'una ed all'altro in Sicilia, e confermò quel patto della bolla di Urbano per lo quale il re potea trattenere i prelati di Sicilia chiamati a Concilio. Abbiamo noi il tenor delle proposizioni di Guglielmo accettate dal papa. Poco appresso, Clemente III confermò il concordato a Guglielmo II, del quale la sede di Roma bramava la protezione contro il Barbarossa. Ma III non arrossi di usar le sventure dell'ultimo re normanno di Sicilia, pur suo confederato e nemico del-l'imperatore tedesco, quand’egli riserbossi in un trattato con Tancredi, il diritto di mandare un legato in Sicilia ogni cinque anni. Per iscusare il papa si può allegar solo l'avarizia; poiché i legati apostolici nel XII secolo eran lupi affamati messi a guardia del gregge. L’attesta con parole ch’oggi si direbbero di volteriani e frammassoni, lo stesso San Bernardo, là dove ei prega Eugenio III, di scegliere a legati uomini «che non ispoglino le chiese ma le emendino, non votino le borse, ma ristorino gli animi e correggano i delitti; uomini che ritornino quindi alla sede apostolica stanchi delle fatiche durate, ma non imbottiti d’oro, che possano vantarsi non di riportare le robe più curiose e preziose delle provincie, ma di aver lasciato pace a' reami, leggi ai Barbari, quiete nei monasteri, ordine nelle chiese, disciplina ai chierici, e a Dio un popolo seguace d’opere buone.»

Succeduta la dinastia sveva alla normanna, tentò Innocenzo III, nell’infanzia di Federigo, di rivocare il concordato di Adriano IV e di Clemente III; e il principe tedesco cresciuto tra i musulmani della corte di Palermo, finse nella prima sua gioventù d’abbassarsi tanto che il chiamarono in Germania il re de' preti; promesse ad Onorio III di rinunziare alle appellazioni e tante altre cose; ma poi, salito all’impero, le disdisse apertamente, e ripigliò non solo i diritti della Legazia, ma anco tutti quegli altri che nelle materie ecclesiastiche richiedea la sicurezza e dignità del principato civile. Vennero in Sicilia per la prima volta i legati pontificii, e furono richiamati gli appelli ecclesiastici a Roma, sotto Carlo d’Angiò che aveva accettata con questi ed altri ignominiosi patti l’investitura del regno da Clemente (1265). Cacciato nel Vespro Siciliano il principe francese feudatario di Roma (1282), la spada italiana troncò le usurpazioni pontificie; e le spade francesi e spagnuole le fecero ricominciare dopo venti anni di guerre, quando Federigo II di Sicilia, nel trattato di Castronovo, salvò l’onore ma perdette un poco di bagaglie (1302). Pur Bonifacio VIII in quel patto avea badato ad assicurare la sua pretesa signoria feudale, più tosto che la giurisdizione ecclesiastica. Di li a poco, l’anarchia feudale lacerò la Sicilia si orribilmente, che gli avvoltoi calarono più audaci sopra di lei. Gregorio XI non solamente si fece prestare omaggio (1372-4) da Federigo III ben soprannominato il Semplice, ma annullò i privilegi ecclesiastici della Sicilia, richiamando in osservanza i capitoli dettati da Clemente a Carlo d’Angiò. Se non che la navicella di Pietro che avea riportata questa vittoria, fortuneggiò di nuovo, contrastata tra due nocchieri, nello scisma del XIV secolo; ed al contrario, l’anarchia portò in Sicilia, necessaria catastrofe, la dominazione straniera. Almeno la fu salda e forte contro i papi. Martino re d’Aragona, oppugnando insieme i baroni masnadieri e Bonifacio IX che li suscitava, ripigliò l’esercizio di tutti i diritti abbandonati da' predecessori, e v’aggiunse che nessuna bolla si promulgasse senza permesso del principe (1408).

Tranquillamente proseguirono i re aragonesi e poi gli spagnuoli, ad esercitare la Legazia; la quale alla metà del XV secolo cominciò a chiamarsi Tribunale della Monarchia, perché l’attributo suo precipuo era giudiziale, e perch'essa parea, come dicono tutti i compilatori copiandosi l’un l’altro, il più bel gioiello della corona; e tacitamente i papi tollerarono quella che nel linguaggio loro suonava usurpazione; se non che si sforzarono, quando venia lor fatto, a tirar qualche appello a Roma ed a proporre qualche insidiosa transazione, che fu rigettata. Filippo II protestò al Concilio di Trento contro qualunque diminuzione del privilegio della Legazia; e perché tre capitoli veramente l’offendeano, furono esclusi dall’esecutoria accordata in Sicilia a' decreti del Concilio. Nè asseguirono del tutto l’intento loro Pio I e Gregorio XIII, mettendo a scrupolo di coscienza del Tiberio cristiano certi abusi ch'e’ dissero introdotti nella Legazia e in altre parti della polizia ecclesiastica in Sicilia; poiché egli, accordatosi o no con la Corte di Roma, il che è dubbio, provvide che d’allora in poi fosse scelto a giudice della monarchia un prelato, e che si lasciassero le prime istanze ai vescovi, le seconde ai metropolitani (1371). Questi ed altri capitoli che non appartengono al nostro argomento, furono chiamati in Sicilia la Concordia Alessandrina, dalla patria del papa Ghislieri o dal nome del cardinale che li avea trattati; i quali non soddisfecero alla Corte di Roma né a' magistrati siciliani, e però dopo nuove negoziazioni, al paro infruttuose, Filippo fece eseguire con lievi mutamenti il primo rescritto (1381).

La Corte di Roma, disperando allora degli angioli custodi del trono di Spagna, si volse a quella tra le nove sorelle che sempre le fu più acerba nemica, la Musa, dico, della Storia. I negoziatori di Pio l'aveano già messa in dubbio la bolla d’Urbano II; il cardinal Baronio, pubblicando non guari dopo a Roma (1605), l’undecimo tomo degli Annali Ecclesiastici, con grande apparato di erudizione, la dichiarò apocrifa o interpolata; al qual nuovo assalto Filippo III rispose alla moda de' tempi, con proibire e bruciare il volume (1610), onde i capitoli su la monarchia di Sicilia furon poi soppressi nelle edizioni del Baronio uscite nei domimi spagnuoli. Parecchi laici ed ecclesiastici, intanto, e tra gli altri il grand’inquisitore in Sicilia, smentirono il cardinale con dotte dissertazioni. Non potendosi dubitare dell’attestato di Mala-terra, né dell’antichità dei codici nei quali è trascritta la sua cronica non men che la bolla di Urbano, né dell’autenticità de' diplomi del conte Ruggiero che istituivano le chiese di Sicilia, né degli atti della stessa Corte di Roma anteriori al XVI secolo, i quali suppongono certo e vigente tal privilegio, noi non diremo altro sugli argomenti del Baronio. Furon questi d’altronde confutati abbastanza al principio del XVIII secolo, nella iliade della Legazia siciliana, guerra senz’armi e pur feroce e calamitosa, combattuta tra il papa e la Casa di Savoja.

Nacque da futil cagione in apparenza, e realmente dalla tracotanza de' prelati che sdegnavano tuttavia di sopportare come ogni altro cittadino i pubblici pesi e la pubblica autorità. Il vescovo di Lipari, teologo imbevuto delle idee curiali di Roma, raccolte sue decime in derrate, avea mandati in mercato de' ceci; due grascini, che in Sicilia con sonante vocabolo bizantino si chiamavano catapani, vollero riscuotere il diritto di mostra: ricusandolo il bottegaio, i catapani gli presero due libbre e mezza del legume ecclesiastico. Di botto il vescovo te li scomunica, rifiuta ogni scusa del magistrato municipale, manda un messaggio insolente al viceré, che lo mette in prigione; e perché i catapani ebbero ricorso al giudice della Monarchia, e questi li assolvette a cautela, com’era solito, e richiamò gli atti per procedere al giudizio, il vescovo, imperversando nella bizza, senza tòr commiato, corre a Roma. Indi una lettera circolare della Sacra Congregazione delle Immunità (1712), la quale significava ai vescovi di Sicilia che di censure cosi fatte non si giudicasse se non che a Roma. I magistrati di Sicilia negano la esecutoria di quella lettera; de' vescovi chi temporeggia, chi sprezza il divieto regio: e s’appicca la zuffa, con le scomuniche da una parte, dall'altra gli esilii e di rado il sequestro di beni. Regnava tuttavia Filippo I di Spagna.

Ceduta in questo mentre, per lo trattato di Utrecht, la corona di Sicilia a Vittorio Amedeo duca di Savoja, e venuto questi in Palermo (ottobre 1713), Clemente XI rincalzò contro il principe italiano la briga incominciata con lo straniero: scomunicò il giudice della Monarchia e non so quanti altri ufiziali, e vietò agli ecclesiastici di pagare il donativo (cosi chiamavansi i sussidii straordinarii) testé accordato dal Parlamento siciliano al nuovo re (1714). Il quale, con molta prudenza e pazienza, studiossi a rabbonire Clemente; profferì di richiamare i vescovi banditi; liberò alcuni ecclesiastici incarcerati; usò 1 intercessione di potenze amiche: e ad ogni atto conciliativo, superbiva tanto più la Corte romana. Vittorio non volle menomare i diritti di quella corona che teste s’era messa sul capo. Senti molti eruditi intorno i diritti e la origine storica del privilegio della Monarchia, e con gli elementi forniti dal marchese Settimo e da Giambattita Caruso, siciliani dottissimi nella storia patria, fece scrivere dal francese abate Dupin, il celebre trattato che usci in luce senza nome d’autore ad Amsterdam il 1716, preceduto e seguito da molti altri pro e contro, stampati o inediti. E non bastando la disputa accademica, il re, pria di partire dalla Sicilia, creò un’apposita giunta di sei primarii magistrati, incaricati di curare l’osservanza della polizia ecclesiastica di quel reame (1714); e poi da Torino lor dette autorità illimitata, quando la Corte romana, visto il fuoco acceso in Sicilia, vi soffiò sopra co’ mille suoi mantici di preti, frati e pinzochere.

Il gran potere agitatore del medio evo osò far prove di robustezza al principio del fatal XVIII secolo. Ai 20 febbraio 1714, Clemente XI mise fuori una costituzione per la quale era abolito il tribunale della Monarchia di Sicilia: quella costituzione medesima ora citata con tanta ammirazione e rinnovata da Pio IX. A questo, la Giunta inferoci al paro de' vescovi. Chi è nato in Sicilia nel primo decennio del nostro secolo, ha conosciuti gli ultimi addetti di quella vecchia scuola di magistrati siciliani, religiosi e nemici del Papa, integerrimi e dotti, ma ciechi sostenitori del dispotismo, avvezzi a cercar sempre il delinquente più tosto che la giustizia, inflessibili, anzi crudeli. Or le geste loro contro i liberali del XVIII e del XIX secolo, notissime in Italia, danno l’immagine delle persecuzioni che i maestri degli Artali e de' Mastro paoli conduceano, dal 1713 al 1718, contro chiunque ubbidisse al papa più volentieri che al re. A dispetto delle scomuniche che fioccavano d’ogni lato, la Giunta fece aprir le chiese e celebrare le cerimonie sacre, fe’ tacere in pubblico i partigiani della corte di Roma; ma accrebbe le maledizioni del volgo e fece sentire pietà per que’ fanatici anco a' savii che li spregiavano. Pronunziarono i magistrati infinite condanne di confiscazioni. prigioni, esilii, galere e due anco di morte per vere o supposte congiure. Assurda si dica pure la legge, spietati gli esecutori, ma nessuno sostenga che la potestà civile non era provocata, sospinta, sforzata a quegli estremi dalla potestà della Chiesa.

La quale dopo aver cagionati tanti mali, non pur mantenne il proposito suo. Entro pochi anni, nuova guerra e nuovi accordi davano la Sicilia a Casa d'Austria; e tra quelle vicende si rammolliva il braccio del magistrato civile; il papato mantenea la costituzione di Clemente XI, ma facea le viste di non sapere che il Tribunale della Monarchia sussistesse come prima; l’imperatore era ascoltato a Roma con maggiore rispetto che il duca di Savoja: e la conchiusione fu che firmato un accordo tra' ministri d’Austria e di Roma, una congregazione di cinque cardinali lo giudicò pienamente conforme alle dottrine cristiane, cattoliche, apostoliche e romane, non men che la costituzione di Clemente XI; e Benedetto XIII l’approvò a' di 30 agosto 1728. Da lui chiamossi la Concordia Benedettina; poco diversa dall’Alessandrina ricordata di sopra, e sono 35 capitoli, nei quali se mancano molti diritti della legazia de' principi normanni, pure furono mantenute al Giudice della Monarchia eletto dal re le appellazioni e le cause degli esenti. La Concordia Benedettina ha regolato per un secolo e mezzo questa parte della giurisdizione ecclesiastica in Sicilia; il re è proceduto per suoi commissari alla visita delle chiese tutte, nella triplice qualità di principe, di patrono e di legato apostolico; egli o il suo rappresentante nell'isola ha sostenuto senza contrasto nelle pubbliche cerimonie il grado di legato apostolico; né altro legato è stato mandato dal papa in Sicilia. E badisi che Ferdinando I delle Due Sicilie, com’ei si chiamò, avendo pattuito nel capitolo 22 del concordato del 1818 che fossero liberi gli appelli alla Santa Sede, s’affrettò a dichiarare (5 e 19 aprile 1818) che non s’intendessero aboliti con ciò i privilegii del Tribunale della Monarchia e che fosse questo regolato dalla Benedettina. Sotto i suoi successori bacchettoni e tiranni, la Corte di Roma si studiò sempre a distruggere o almeno scorciare il privilegio della legazia, né le venne fatto come ella bramava. Ma pure il 26 gennaio 1864 i due amici di Gaeta, Pio IX e Ferdinando II, stipularono alcune modificazioni, trascritte nel Breve Peculiaribus. il quale accordo fu annullato dal prodittatore Mordini, per legge del 19 ottobre 1860, revocando la esecutoria accordata al Breve pontificio per rescritto del 12 febbraio 1856, e prescrivendo che rimanesse fermo l’antico privilegio, secondo la concessione primitiva, la Concordia Benedettina e le consuetudini che n’erano derivate.

L’ultima bolla di Pio IX, lunga quantunque ella sia e gravosa di formole curiali, non rifulge per novelli motivi che giustificassero questo ecclesiastico colpo di Stato. Evitando le spine della storia, Pio IX prende le mosse dalla Costituzione di Clemente XI; accenna alla bolla di Benedetto XIII come a transazione temporanea e fallita, per colpa, s’intende, della Sicilia, i cui magistrati avessero sempre trascorsi i limiti posti da Benedetto; e revoca il provvedimento di quest'ultimo, conferma quel di Clemente «per la grande affezione di Sua Santità a' popoli della Sicilia che ne sono degni» e pei terribili mali che da quella istituzione erano derivati alla Chiesa siciliana. Oltre cotesta grazia compartita alla Sicilia, il Vicario di Cristo le promette che non le mancherà la giurisdizione degli Uditori del sagro palazzo apostolico, de' Cardinali, dei Legati a latere e de' Nunzii della Santa Chiesa. Ma come coteste lettere, per via di quella maledetta legge dello exequatur, non si possono promulgare in Sicilia con sicurezza, cosi, dice il papa, e’ basterà pubblicarle in Roma. E di fatti la bolla, data il 28 gennaio 1864, è stata affissa nella Chiesa di Laterano il 10 di questo ottobre 1867. L’accompagna un breve soscritto lo stesso giorno 28 gennaio 1864,'il quale provvede per derisione, credo io, agli appelli; cioè che della sentenza in secondo grado pronunziata dal Metropolitano o dagli altri vescovi a ciò designati, si richiami al papa o ad un giudice ecclesiastico ch'egli delegherà appositamente; e seguono particolari provvedimenti sul diritto da seguire ne’ giudizii e su le cause matrimoniali, la gran cuccagna della Curia romana; e in fondo del breve si avverte che cotesti favori di qualche delegazione a' vescovi dureranno sol dieci anni. Stando dunque alle parole del papa, il re d’Italia sarebbe spogliato del privilegio goduto da' principi della Sicilia per otto secoli: non isterile privilegio, al certo, né limitato al gusto che aver potesse il re d’Italia a vestire la dalmatica e pigliar parte alla celebrazione della messa. Sarebbe anco da sperare che un dì la Sicilia vedesse que’ tali legati dell'XI e XII secolo, de' quali abbiam detto di sopra; poiché i secoli non contano nell’eternità del papato: e finalmente che tutte le cause ecclesiastiche dell’isola si decidessero a Roma, sapendosi bene che in nessun paese, e meno che ogni altro in Sicilia, suole acquetarsi chi perda in seconda istanza e possa tentare la terza o la centesima.

Dopo la esposizione dei fatti, due quesiti s’affacciano alla mente: Perché la Corte di Roma vuol oggi abolire la Legazia di Sicilia? Come or dee rispondere il Governo italiano!

Messa da canto la salute delle anime, che non entra per nulla in questo ordinamento disciplinare, e lo sviscerato amor del papa, che i Siciliani non credo abbiano giammai meritato, egli è evidente che la Corte di Roma non isdegna i lucri che tornar le possono dalle cause ecclesiastiche e dalle dispense sopra due milioni e mezzo di battezzati; che la Legazia di Sicilia le è stata sempre come uno stecco negli occhi; e che, avendo cercato di cavarsi cotesto impaccio quante volte le è parso di poterlo senza mettere a repentaglio i proprii interessi temporali, ella dee ritentar la prova, oggi che tra lei e l’Italia son tirate le spade e gittati via i foderi ed ella sa, come noi, che il potere temporale ormai tanto durerà quanto lo sosterrà l’ipocrisia e la violenza degli stranieri. La Corte di Roma se non vantasse altro ufficio che quello di un potere politico, farebbe benissimo a molestare e offendere l’Italia in ogni modo. Che può temere da noi? Le armi? Ma essa sa bene che noi le adopreremo quando il potremo senza pericolo. Uno scisma? Ma essa non ignora che cotesta erba non spunta più in Europa nel secolo XIX. 0 le faranno spavento le calamità de' popoli, il biasimo delle nazioni, la giustizia divina? La Corte di Roma prevede che la bolla Suprema (cosi la incomincia e cosi sarà citata negli annali delle iniquità pontificie), poco o molto ci nuocerà; che dissipato appena il cholera, potrà molestar la Sicilia l’ira papale, vestita al solito di santità e di carità, e la potrà gareggiare questo prossimo inverno con gli altri flagelli che travagliano quella regione d’Italia: il caro della vivanda, i malandrini, le fazioni. Deliberato il provvedimento e sottoscritto, s’ egli è vero, il 28 gennaio del 1864, Pio IX lo tiene sul tavolo più di tre anni e mezzo e poi, per comando espresso contrassegnato di sua mano, lo fa pubblicare il 10 di questo mese d’ottobre 1867, che nessun italiano vivente potrà dimenticare. Se il Governo italiano l’ingozza, dice la Corte di Roma, si mostrerà debole, come in tante altre cose, e ne cadrà in maggiore dispregio. Se, al contrario, vuol mantenere la Legazia col potere delle leggi e ne segue malcontento e turbamento come al tempo di Vittorio Amedeo, tanto meglio; e forse il misfatto palermitano del settembre 1866 si rinnoverà più grosso.

E il Governo italiano, a parer nostro, dee scansar l’uno come l’altro errore. Non che domandare al Parlamento leggi e magistrati eccezionali, il Governo deve usare con moderazione i mezzi che gli apprestano gli statuti di polizia ecclesiastica e i regolamenti di pubblica sicurezza, contro tutti coloro che promulgassero ritualmente le ultime due lettere di Pio IX, e ne procacciassero in qualunque modo la esecuzione. A protestazioni diplomatiche, non è luogo tra due governi ciascun de' quali non può riconoscere l’altro; né occorre dichiarar nulli quegli atti, poiché il papa ha evitata la promulgazione di essi in Sicilia, e il governo italiano non è obbligato a sapere ciò che si stampa nel Giornale di Roma, né i cedoloni che i cursori pontifìcii attaccano alle porte del Laterano e di San Pietro. Bensì deve il Governo al paese ed a sé medesimo, di mantenere i diritti dell’apostolica Legazia e la giurisdizione del Tribunale della Monarchia, quali essi erano il giorno che la Sicilia fu unita per plebiscito alle altre province italiane. Avran poi effetto civile le sentenze del Tribunale della Monarchia, e non quelle pronunziate secondo la bolla di Pio IX. E l’Italia rinunzierà quel privilegio delle sue provincie siciliane, quando cesserà il poter temporale, e si potrà, senza pericolo della nazione, ridurre ad effetto il teorema della libera Chiesa in libero Stato. *

Firenze, 28 ottobre 1867.

M. Amari.

* La bolla di Urbano II, egli altri documenti citati da me, si ritrovano, più o meno compiuti, nelle raccolte di Pirro, Baronio, ecc. nel Lunig, Codex Italia: diplomaticus, nel Codice ecclesiastico siculo, pubblicato dall’avvocato Andrea Gallo, Palermo, 1846, e segg. in-4; e in parecchie storie generali di Sicilia o trattati particolari. Delle istorie generali ricorderò solamente il Fazzello, il Palmieri e il Diblasi (Storia cronologica dei Viceré di Sicilia, Iib. IV) il quale narrò diffusamente le briglie del secolo XVIII. De’ trattati di Diritto pubblico siciliano, può riscontrarsi quello del Gregorio, Considerazioni ecc. , Iib. I, cap. VII; lib. II, cap. ix, ecc., e il Dichiara, Opuscoli, Palermo, 4855, in-8, pag. 1 segg. , 211 segg.

Il Botta, nella continuazione del Guicciardini, tocca il nostro argomento a proposito del governo di Vittorio Amedeo; e la sua narrazione è corretta ed accresciuta di moltissimi particolari nelle Considerazioni sulla Storia di Sicilia, pubblicate in Palermo, da Pietro Lanza, principe di Scordia, erudito e patriotta, mio compagno nel governo di Sicilia del 1848 e poi nell’esilio, alla cui memoria mi piace dover qui rendere un tributo di lode. Questi si diè la premura di fare anco, pag. 275, una lista de' libri stampati e manoscritti che riguardano particolarmente questo subbietto. De’ quali si ritrovano anco i titoli nella Bibliografia Sicula sistematica del gesuita Alessio Narbone, tomo II, Palermo, 1851, pag. 276 segg., e tra quelle sono da notarsi particolarmente il libro di Dupin, da me citato dianzi, la Storia dell’apostolica Legazione ec. , di Agostino Forno, Palermo, 1800, due vol. in-8, lo Studio sull'apostolica Legazia ecc. , dell’abate Vincenzo Crisafulli, Palermo, 1850, in-8. È stata poi pubblicata in Palermo, 1863, l’opera postuma del celebre Giambattista Caruso, intitolata: Discorso isterico apologetico della Monarchia di Sicilia, la quale servi al Dupin manoscritta. Il sacerdote Girolamo di Marzo Ferro, stampò in Palermo nel 1860: Un voto per l’apostolica sicula Legazia, opuscolo di poche pagine in 8: e molti altri di certo ne sono usciti che io non ho ora alle mani.

Debbo avvertire che. la mia esposizione su l’origine della Legazia del conte Ruggiero è fondata su varie autorità, le quali saranno diligentemente citate nella mia Storia de’ Musulmani di Sicilia, libro V, cap. I a X, stampati ma non pubblicati, non essendo compiuto del tutto il 3° ed ultimo volume al quale appartengono.

























Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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