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«Il Governo ci regala il vento dell’Africa» dalla illusione garibaldina a Lu Setti-e-menzu (Zenone di Elea - Dic. 2021)

PALERMO GOVERNANTI E GOVERNATI

PRIMA E DOPO IL TUMULTO DI SETTEMBRE

PENSIERI DI GIUSEPPE FAZIO BUA

PALERMO

TIPOGRAFIA FRANCO E GIOVANNI CARINI

entrata R. Teatro Principe Umberto

secondo piano

1867

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PENSIERI DI GIUSEPPE FAZIO BUA

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Dopoché dei dolorosi avvenimenti che accaddero in Palermo nel settembre dell’anno ora scorso si occuparono tanto la stampa siciliana e del continente, e le autorità governative, militari, comunali e di sicurezza pubblica colle loro relazioni officiali, troppo ardua sarebbe l'impresa di chi volesse dar dei giudizi del tutto contrari a quelli dati da persone per più versi onorevolissime. Però s’egli è vero che nel bollore delle passioni anche alle più illuminate intelligenze il vero non si appalesi in tutta la sua nudità, che anche le persone più rette giudichino attraverso il velo del loro stato subbiettivo; e d’altra parte che il giudizio su quanto accadde fu dato dalla stampa periodica a seconda l’intento ed il colore politico dei diversi diari, senza parlare di altri scritti dati alla luce anche per ispirito di parte od a solo oggetto di denigrare il paese; non sarà opera perduta ritornare sui fatti di settembre ora che le passioni sono più calme, per giudicare più ponderatamente delle cause di tante sciagure, dei fatti e delle persone che vi ebber parte, e dei mezzi che dovrebbero adoperarsi, non che quei fatti non si rinnovellino (ch’essi non hanno, né avranno riscontro nella storia) ma che se ne cancelli la memoria perfino a noi che sventuratamente ne fummo spettatori.

Le cause:—e chi tutte potrebbe annoverarle?—In un paese uscito dalle mani di un governo ladro, crudele e demoralizzatore, che per secolare dominio lo educò al servaggio ed al bigottismo; dove il cittadino non sapea, né potea sapere del destino delle imposte che da lui si pagavano e che servivano in parte a ribadire le sue catene; dove non solo il pronunziare patria e libertà era un delitto, ma si puniva più severamente chi nutrisse liberi pensieri e caldo affetto patrio, di chi attentasse alle sostanze ed alla vita dei cittadini, ed era elevato a sistema lo spionaggio perfino dei pensieri politici; dove l’istruzione del popolo era trascurata, anzi attraversata in mille guise, talché il saper leggere e scrivere era privilegio di pochi, né incoraggiato era lo insegnamento superiore; dove fu alterato nel concetto delle masse il vero senso della bontà e della giustizia, per modo che si riputava infamia lo aiutare il magistrato a scoprire i reati, e pietoso ufficio, anzi dovere l’aiutar invece i colpevoli a sottrarsi alle ricerche della giustizia; dove tutta la educazione morale e religiosa si riducea agli esercizi del culto esterno, talché era in fama di onesto cittadino chi sentiva la messa ed accompagnava le processioni, non importa se prima avesse rubato o ferito; dove il governo più volte avea dato prove di debolezza, ed era valso a rovesciarlo l’ardire dei pochi, agevolato dalla brutale forza anche dei più facinorosi che così aveano ottenuto perdono ai loro delitti e trovato nuovamente ricovero in mezzo alla società; in questo paese ben può dirsi che i fatti di settembre siano stati per la maggior causa funesto retaggio del passato. Qui l’odio al governo è tradizionale, profondo, istintivo; attraversare in tutti i modi l’opera dei governanti è eroismo; rovesciare l’ordine, anche senza un programma concreto, è abituale.

Al miglioramento del popolo per nulla ha cooperato la classe onesta ed intelligente dei cittadini. Da tutti si predica che il lavoro riabilita le masse, che una scuola che si apre è una prigione che si chiude, è una sciagura che si risparmia all’umanità sofferente; eppure, se si toglie il municipio di Palermo, il lavoro si attende ovunque dal governo, e l’associazione dei capitali per lo sviluppo dell’industria e dei commercio è sconosciuta in Sicilia: se si toglie il municipio di Palermo, l’istruzione popolare è trascurata in quasi tutti i comuni dell’isola.

Néil presente ordine di cose ha influito meno ai tumulti di settembre. Non vuoisi censurare in tutto l’opera governativa, ma per esser giusti bisogna confessare che ci è stato ben d’onde rimanerne scontenti.

In Sicilia pel fatale privilegio che a caro prezzo i Borboni le aveano accordato, era sconosciuto il reclutamento militare; il soldato si riguardava come il sostenitore della tirannide, quindi nemico del popolo, e come un essere quasi degradato dalla condizione umana pel suo tenore di vita; non è quindi a meravigliare se, allorquando venne pubblicata la legge sulla leva, il popolo ne fosse stato pienamente scontento, e molto più poi alla sua attuazione; perocché di austriaci, di guerra collo straniero, di onore nazionale qui l’agricoltore e l’artigiano sconosceano perfino il significato, e per contrario i figli tolti al lavoro erano per essi una vera calamità, una raggione di ostilità al governo. Il popolo misura sempre la bontà governativa col termometro del suo apparente ed attuale tornaconto. Era perciò conveniente che la legge sul reclutamento militare avesse cominciato ad attuarsi con discrezione, onde prevenire gravi disordini. Ma di essa nessuna classe di cittadini potè non risentirne la gravezza; sia per l’esorbitante numero dei giovani portati in pochi anni sotto le armi; sia perché, se si toglie il chiericato, nessun merito di sapere esenta dalla leva, neanco la laurea; sia perché il cambio in denaro è troppo oneroso.

Quindi non è a sorprendersi del gran numero dei renitenti, e delle conseguenze che ne avvennero; poiché si stimò facile esentare i coscritti coll’occultazione in campagna, sperando forse poterli rendere ivi utili; ma poi ebber luogo per necessità gli assembramenti, i furti, gli assassini, le bande armate.

Però questi inconvenienti che hanno avuto luogo ovunque per la prima volta si è introdotto il reclutamento militare, presto si sarebbero tolti, sé si fosse contentata la classe intelligente dei cittadini. Il popolo non regola le sue azioni che a seconda l’influenza del ceto più alto, e la sua opera isolata (poiché egli non ha facoltà a collegarsi) a nulla può condurre, né può a lungo sostenersi.

Ma la classe intelligente, massime in Palermo, polca rimaner contenta del presente ordine di cose?

Non è a sconoscere che Palermo ab immemorabili èvissuto di una vita artificiale; sede della più antica monarchia della penisola, qui sono sempre confluite le ricchezze di tutta la Sicilia, le famiglie più cospicue, le più elette intelligenze; sia perché qui si occupavano tutti i posti dello stato, da qui partivano tutti i provvedimenti; sia perché l’aristocrazia qui trovasse e magnificenze e onori e divertimenti che potessero appagarla; sia perché, essendo centro e movimento di tutti gli affari, qui l’ingegno fosse stato bene apprezzato, fosse salito ai più alti gradi, avesse ottenuto condegni guiderdoni. L’opulenza ed il fasto con cui si mantenevano gli antichi impiegati, i tesori che si profondevano e si sprecavano dagli antichi nobili, le colossali fortune lasciate dagli antichi forensi, sembrano oggi racconti da leggende; eppure le son cose che accaddero sotto gli occhi dei nostri anziani—e come ne serbano memoria!

Lo scioglimento dei fidecommessi e quasi coeva la dipendenza da Napoli segnarono il primo decadimento. La nobiltà ne risentì un gran crollo, sia per la divisione della proprietà, sia pel pieno godimento della stessa, d’onde il libero passaggio in altrui mani; ed li prestigio del caput regniera finito. Però rimaneano ancora nobili famiglie assai doviziose, rimaneva ancora tanto che potesse appagare questa città e continuare a farla vivere di vita artificiale.

Qui v'era una Luogotenenza ed un simulacro di Corte, attorno alla quale potea aggirarsi la nobiltà pel suo lusso e per isfoggiare in magnificenze; qui un centro di affari, per parte dei quali si davano e per parte si provocavano i provvedimenti; qui il foro trovava ancora d’onde bene occuparsi.

Non vuolsi lodare, anzi si biasima la triste signoria dei Borboni, che condannarono questa illustre città a vivere di vita burocratica ed artificiale; però è interessante notare il fatto, per vedere cosa avrebbe dovuto farsi dal governo italiano per riparare a quei mali, per non togliere un elemento vivificatore, senza averne pria sostituita un altro.

Allorquando una splendida rivoluzione qui s’iniziava e compiva con grido e bandiera, italiana, e costava tesori e prezioso sangue cittadino quel che in altri punti della penisola facilmente si era ottenuto o coll’ajuto di armi straniere, qui ben si comprendeva che tanti sacrifici altri ancora ne avrebbero richiesti; ed allorquando si votava il plebiscito, non era chi non vedesse che sull’altare della patria italiana non si deponea solo il fasto dell’antica corona e della porpora dei Re di Sicilia, ma si rinunziava a vitali interessi; però s’era ben facile il comprendere che la rivoluzione non sarebbe per ottenere un bene materiale alla presente generazione, nessuno avrebbe potuto aspettarsi tutto quel danno che qui l’è avvenuto.

La soppressione della Luogotenenza non potea mancare, poiché il sistema regionale, travagliato dal principio autonomico, fu condannato dall’opinione pubblica fin dal suo nascere; però era necessario si fosse prima ben ponderato se n’era il tempo: se alle tante risorse che faceano mancarsi, altre se ne sostituivano: se i mille impiegati che si spostavano dalle loro occupazioni, potevano aver altrove collocamento. Non basta che un sistema sia giusto ed abbia fatto buona prova in un punto, per attuarlo ovunque, se, al dire del sapiente Filangeri pochi anni di tempo o un meridiano di distanza bastano per rendere pernicioso in un tempo o in un luogo quello ch’era utile in altro tempo o in altro luogo.

Senza dir di Torino (citata sempre come modello d’italianità) che si mosse al tumulto, quando seppe non dover essere più la capitale dei regno; allorquando fu novellamente trasportata da Milano a Torino la sede della Corte di Cassazione dell’Italia superiore, venne osservato che oltre a venti milioni all’anno mancavano di circolare nella piazza di Milano; ed era quella una perdita considerevole che altamente venne lamentata; eppure Milano è la città più industriosa e manifatturiera che si abbia l’Italia; dove l’associazione dei capitali per le grandi intraprese è più che altrove sviluppata; e poi fino al 1859 non avea avuto la Corte di Cassazione—In Palermo in brevissimo tempo furono abolite la Luogotenenza, la Direzione generale dei rami e dritti diversi, la Gran Corte dei conti, la Tesoreria generale di Sicilia; e gli altri centri di affari od ebbero minorate le loro attribuzioni o ne restarono senza. Quanti interessi quindi andarono conquassati, quanti guadagni perduti!

La legge sulla disponibilità venne a spargere la desolazione in tutte le famiglie degl'impiegati. E perché centro di affari, e perché qui mancava ogni altra occupazione e risorsa, i giovani si avviavano quasi tutti agl’impieghi governativi: avere un posto nel paradiso del bilancio era quasi la meta unica cui si tendeva; si era destinati agl’impieghi in età ancor molto tenera, se non altro per non esser di peso alla famiglia paterna, ed in tal modo la gioventù si rendeva inabile ad ogni altra occupazione; coi numerosi impieghi dei giovani anche le fanciulle si aveano onesti collocamenti. La legge sulla disponibilità, congiunta alle soppressioni continue di tanti uffici, fece si che molti antichi impiegati si trovasser di un tratto nel pericolo imminente di vedersi ridotti all’indigenza, fece veder malsicura la carriera a tutti i giovani che l’aveano intrapresa. Vero egli è che la massima parte o quasi tutti gl’impiegati furono addetti, conservando il loro stipendio, a prestare altrove il loro servizio in via provvisoria, eh è continuata fino al giorno d’oggi; vero egli è che per molti casi se il padre ebbe minorato lo stipendio, l’ebbero aumentato di molto i figli; ma ciò non valse ad affezionare al governo gli animi che se n’erano alienati, sia perché la provvisorietà dell’impiego non fece veder meno in pericolo il sostentamento, sia perché il vantaggio del figlio non era di giovamento alla famiglia paterna. Quindi il governo cominciò ad avere i suoi nemici nella classe stessa dei suoi impiegati, e lo andamento degli affari non potea che andar male.

Il foro che avea avuto delle perdite coll’abolizione della Corte dei Conti e della Luogotenenza, vide venir meno gli affari colla creazione dei tribunali circondariali e colla perdita delle cause di rinvio per le annullate decisioni delle corti di Catania e Messina; le enormi tasse per gli alti giudiziari, gravate tutte di un tratto, lo ridussero quasi all’inazione; e per ultimo lo desolò ancora (oltre ad averlo umiliato) la tariffa giudiziaria. Mancate quindi tante risorse, avvilita si direbbe quasi una classe nobilissima.

Néil resto dei cittadini, che non fossero impiegati o forensi, l’intese minori danni. L’esorbitante aggravio della proprietà fondiaria generò il malcontento nei possidenti, scoraggiò le intraprese agricole, fece venir meno alla classe povera il lavoro, tolse a tutti il vantaggio dell'industria; le tasse di bollo e registro (oltre, ad aver ostacolato lo accesso alla giustizia) fecero venir meno le contrattazioni, ed è gran cosa in un paese ove la buona fede è una parola vuota di senso, legalizzarono ad ogni tratto una spoliazione, ed offersero perfino lo scandaloso ed inumano esempio del fisco ch’entra con mano ingorda ed avara nella desolata famiglia che piange ancora la perdita del genitore a chiedervi la sua tangente, del povero che non può ricorrere all’autorità governativa a chiedere una grazia od un atto di giustizia, senza stendere la sua domanda in carta, la cui compra gli costi un giorno o più di digiuno; la legge di tassa sui fabbricati, contrariamente a tutti i principi di dritto, ebbe effetto retroattivo: in virtù di una legge precedente un proprietario che avea fatto una nuova fabbrica, non pagava imposta alcuna per un dato tempo: la legge novella (che può dirsi piuttosto un fatto violento anziché una legge) tolse l’esenzione, gravò l’imposta, fece venir meno ai proprietari la voglia di alzar nuovi edifici, fece mancare alle città comodo e magnificenza, agli artigiani pane e lavoro; anche la classe indigente non fu meno risparmiata alle ingordigie finanziarie; l’imposta sulla ricchezza mobile, i dazi di consumo, tutto fu speculato per aver denaro e denaro; e frattanto i fondi pubblici eran caduti nel massimo discredito, la sicurezza pubblica era nulla più che un desiderio, le opere pubbliche erano nei progetti di legge o nelle leggi votate e non eseguite, la libertà una parola illusoria, la vita e le sostanze dei cittadini sempre in pericolo; talché vi fa perfino un Senatore del Regno che scrivendo al Presidente dei Ministri dicea: E però mi vado spesso dimandando che mai avrebbe potuto farsi di peggio a danno di popoli debellati, la cui conquista non si voglia conservare!?(1).

Non è quindi a far meraviglia se aggiunta al triste retaggio del passato la malamministrazione succedutavi, nessuno o solo pochi fossero rimasti contenti del presente ordine di cose, se l’animo dei più se ne fosse alienato; perocché è un’amara irrisione mettere avanti il Regno d’Italia, la trionfata nazionalità a chi per questo trionfo vede malfermo il suo avvenire, o ridotta all’indigenza la sua famiglia, od isterilita la sua proprietà, o difficoltato il conseguimento dei suoi diritti, od in pericolo le sue sostanze, la sua libertà, la sua vita.

Da tutti si desiderava migliorato lo andamento della cosa pubblica, ed era brama di ogni onesto cittadino che il governo cambiasse indirizzo, che comprendesse i bisogni del paese, che vi desse riparo. Però del generale malcontento non tardarono ad usufruire, secondo le loro malvagge voglie, i retrivi; cominciarono a farsi i confronti col passato, ed il popolo che i vantaggi dell'istruzione e della libertà non apprezza, né conosce, cominciò a credere che i suoi sacrifici, il cambiamento da lui voluto, fossero stati per peggiorare la sua condizione,

La legge sulla soppressione delle corporazioni religiose che copre la spada di Damocle stiede per lungo tempo pendente sul fratismo, non polca non essere patentemente nociva; molti ordini possedeano ricchezze esorbitanti, il fratismo in generale godea la protezione del cessato governo, un’infinità di privilegi; si rider perfino i cassinesi di Morreale occupare, contrariamente alle leggi canoniche, i benefici di quella metropolitana chiesa, qualunque fosse stato il loro merito o demerito personale, togliendo così anche alle persone più insigni del clero secolare di poter occupare quei benefici (2); quindi il fratismo non potea quetamente sobbarcarsi all’idea di dover perdere la sua esistenza; e mentre i pochi buoni eran do lenti di venir tolti a quello stato, cui per vocazione si erano addetti, i tristi che lo aveano abbracciato per mestiere (ed erano i più) o, se soggetti, per godersi nel secolo la pensione che loro si sarebbe assegnata, voleano presto tolto il loro giogo, e spargeano il discredito sul governo che per essere debole non avea attuato là legge: o, se amministratori e possidenti, si vedeano tolte di mano le dovizie che diceano loro proprietà, ed insinuavano al popolo che le corporazioni religiose si voleano togliere, perché la religione sua si volea abbattere, perché si volea commettere una spoliazione.

Non è senza fondamento il dire che il fratismo, venuta meno la sua missione, lordatosi di tutti i vizi della società che da lui veniva corrotta, ridotto agli estremi aneliti, non volle morir da codardo, e tentò di avvalersi del braccio della plebe per esser da lei sostenuto.

All’appello non dové mancare quella parte del secolar chiericato che, sconoscendo l’altezza della sua missione, vorrebbe tarpare le ali al progresso, e crede consistere tutta la morale religiosa negli esercizi del culto esterno che gli fruttano la sua posizione, il suo prestigio nel popolo. La libertà della stampa porta seco la libertà delle credenze religiose, ed al prete ignorarne, fanatico ed intollerante, che sa di non poter sostenere la discussione, piace meglio imporsi col domma e colla fede cieca; per altro dalla discussione non potranno che venir meno le superstizioni ed i pregiudizi del popolo, e ciò non può tornar a grado a coloro che nell’amministrazione del culto vedon solo la lor bottega.

Quindi è ben naturale che col fantasma della religione distrutta il popolo si sia distolto dall’obbedienza alla legge e, seminato ovunque il malcontento, si sia aumentato lo stuolo dei renitenti, dei disertori, degli assassini.

A migliorare moralmente il popolo non ha mancato l’opera governativa; l’istruzione popolare sviluppata e protetta, la leva, sono due grandi fattori di civiltà; però l’opera loro è lenta, e non potrà che tardi vedersene il profitto.

A conseguire più prontamente lo scopo avrebbe potuto essere molto efficace l’opera del giornalismo, se la stampa periodica in Palermo non avesse sconosciuto, quasi in generale, la sua missione, per non dir di peggio.

Se, invece di spargere il ridicolo sulle inveterate credenze religiose, si fossero pacatamente dimostrate al popolo le sue superstizioni che bisognava abbandonare, e si fosse persuaso che col volere tolto il monachismo, venuto meno il suo scopo, o migliorata parte del chiericato, non si volea distrutta la sua religione; se da un lato si avesse avuto il coraggio e la franchezza di confessare i torti dei governo, e dall’altro si fosse detto ell'è stranezza pretendere un governo di uomini scevro assolutamente di difetti che la cattiva prova dei nuovi ordinamenti in parte è ad attribuirsi al cessalo dispotismo ed in parte alla necessità delle cose, poiché fattone un solo di sette governi, non tutto potea riuscir facile a tutti, e quindi era naturale che molte cose in vari luoghi incontrassero delle difficoltà ritenute insormontabili: che non sempre gli antichi impiegati poteano conservarsi ai loro posti, o perché quei posti dovean sopprimersi, o perché ad ordinamenti nuovi ci ha bisogno di persone nuove che non lutti gli uffici poteano conservarsi nelle città ov’erano stabiliti, tornando ciò incompatibile coll’unità del sistema amministrativo: che le imposte erano di assoluta necessità ai bisogni della nazione, ed il bisogno della nazione è suprema tra tutte le leggi: ch’era necessario formare un esercito ed una flotta, per cui abbisognavano immensi tesori; se insomma in questo campo si fosse aggirato il giornalismo, avrebbe potuto essere di grande utile al paese. Qui invece il giornalismo serviva solo alle mire private ed egoistiche dei partiti, e mentre alcuni diari a tutto gridavano osanna,altri a tutto gridavano crucifige—Gli uni batteano le mani perfino alla catastrofe di Aspromonte, ad ogni()istallazione di nuovo Ministero, ad ogni nuova legge, perfino a quella sulla disponibilità degl'impiegati; tacciavano di calunnia perfino i furti di Bastoggi e di Susani; gridavano all’incontentabilità di tutte le classi; lodavano ad ogni tratto le autorità per la sicurezza pubblica sempre ristabilita; dicevano una menzogna i furti, le grassazioni, le bande armate in campagna, e non dubitarono di spargere il ridicolo sulla possibilità di un tumulto; tutto travolgeano a modo loro, e perfino dissero il consorzio nazionale essere stato una spontanea manifestazione generale che quanto si pagava non era sufficiente a sopperire ai bisogni della nazione, d’onde spontaneamente si dava il resto. —Gli altri per l’opposto non mancarono di dichiarare traditori della patria perfino i firmatari della convenzione di settembre che allontanò lo straniero da Roma; non dubitarono di dire una nequizia ed una violenza ogni nuova legge; come ieri si era riuscito a rovesciare un Ministero, oggi si lavorava per iscalzare il nuovo venuto; per loro il furto era all’ordine del giorno in tutte le amministrazioni; il consorzio nazionale non fu altro che uno schiaffo morale dato ai governanti, perché avessero sprecato meno l’obolo del povero; le autorità locali non altro erano che persone inette, incapaci a ristabilire la pubblica sicurezza; e, contrasto singolare! mentre ad ogni istante si facea vedere il paese in preda all’anarchia, non mancò alcun diario ad eccitare il popolo al tumulto fino a giorni prima dei dolorosi fatti di settembre, abbenché dopo avesse pianto sulle sciagure del popolo—il pianto del coccodrillo!

Conseguenza funesta era che i secondi invece di ottenere salutari cambiamenti, facean solo cadere nel massimo discredito le autorità e la legge; ed i primi invece di recar appoggio morale al governo, colle loro spudorate difese si procuravano il titolo di gente venduta, talché la lettura dei loro fogli finiva con un amaro sarcasmo.

Quando poi si scendeva a discutere di qualche fatto particolare, quando si trattava delle persone affiliate alle varie consorterie, non si veniva coll’animo d’illuminare la pubblicaopinione o colla magnanimità dei gladiatori, sibbene per detrarre o adulare e colla rabbia dei cani; talché dopo essersi dilaniati scambievolmente, senza misericordia, il paese non ne raccogliea che scandalo.

Non é quindi a dire qual fosse in tale stato di cose lo sconforto generale.

Però il grido di guerra all’Austria, così a lungo aspettato, non mancò di produrre anche qui i suoi benefici effetti, di rialzare lo spirito pubblico; qui nella terra vulcanica, nel paese delle forti passioni quel grido destò grande entusiasmo; alfine si vedea prossimo il momento in cui tanti sacrifici ci frutterebbero il trionfo sullo straniero; in mezzo a frenetici applausi partiva la gioventù per combattere le ultime battaglie per la liberazione della patria, e la speranza della vittoria sorridea bella alla mente di tutti; d’un tratto si obliava il passato, ed i desideri e gli sforzi comuni eran rivolti ad unico scopo— l’onore, il trionfo nazionale. La vittoria è una sirena che dolcemente addormenta e fa dimenticar tutti i mali, e se avesse arriso alle armi italiane, il malgoverno si sarebbe dimenticato, le arti dei retrivi e dei tristi non sarebbero valsi a far credere cosi debole l’attuale ordine di cose, da poter essere rovesciato al primo attacco di pochi manigoldi.

Ma gl’inqualificabili insuccessi di Custozza e di Lissa; l’incomprensibile inazione dell’esercito italiano dopo il primo fatto d’armi, non ostante il magnilogico programma del Re, e mentre l’alleata Prussia procedeva di vittoria in vittoria; l’ingrata spedizione dei volontari sui monti del Tirolo vestiti Dio sa come, armati peggio(secondo disse loro il Generale Garibaldi) mentre tanti milioni avean figurato nei bilanci dello stato per lo armamento nazionale, e mentre da tutti i punti del regno si erano offerte oblazioni spontanee ai volontari; la loro subitanea retrocessione da quelle terre conquistate con tanto sangue, ove Bulle salme dei perduti fratelli ritornava a passeggiare l’abortito tedesco; tutto valse a scuotere profondamente la pubblica opinione, a far svanire ogni resto d’illusione.

Intanto la legge sulla soppressione delle corporazioni religiose, già votata e pubblicata, fece avvertito il monachismo che non era più a perder tempo per tentare l’ultimo conato, ora che avrebbe potuto eccitare maggior fanatismo nel popolo ed avrebbe trovato spettatore indifferente il resto dei cittadini. Per altro, chiamato l’esercito sul continente a combattere le battaglie nazionali, poca forza era rimasta in Sicilia,cosicché i malandrini potevano prender ansia ad aver altri seguaci, sicuri che avrebbero avuto minor molestia. Le classi della seconda categoria richiamate, una nuova leva fatta durante la guerra, diedero un nuovo contingente al malandrinaggio, sempre più crescente; per modo che potea ben inferirsi che il mantenere la pubblica sicurezza era qui impresa troppo ardua, ed alla quale avrebbe dovuto pensarsi seriamente.

A ciò eran chiamati e il Governo centrale e le Autorità locali, che pure avrebber potuto ottenere il concorso degli onesti cittadini, se in tanta apatia il loro concorso era a sperarsi efficace.

Le Autorità locali non devono l’una all’altra confondersi, né delle colpe o della inettezza dell'una deve rendersi l’altra solidale. —Si è parlato del Prefetto Torelli confondendo il di lui operato a quello del Questore Pinna; e comunque non si sia negata capacità amministrativa a quel funzionario, pure si è tacciato d’inettezza e d’imprevigenza, per non aver saputo conoscere le condizioni della sicurezza pubblica e del malandrinaggio nella provincia, per non aver saputo misurarne le conseguenze e darvi riparo. Ma in tutto ciò si va grandemente errati. Il Prefetto, come rappresentante del governo nella provincia, ha special missione per l’amministrazione pubblica; che se anche a lui è affidata la pubblica sicurezza, egli però non può badarvi che con occhio sorvegliatore e direttore, non in modo che da lui promanino direttamente gli ordini che valgono a mantenerla o ristabilirla; a ciò è chiamato invece il Questore, il quale, come colui che ha il contatto diretto coi subalterni e colla forza locale della sicurezza pubblica, meglio che il Prefetto può conoscere le condizioni. Così meglio che il Torelli avrebbe dovuto essere il Pinna a conoscenza del numero dei malandrini, delle loro operazioni, dei loro progetti. Però tutto il contrario avvenne, e mentre il Questore dormiva sonni tranquilli e credeva domato il malandrinaggio con arresti inconsiderati o con movimenti ed operazioni che a nulla concludevano, il Prefetto conoscea pienamente lo stato delle cose, e dava o provocava quei provvedimenti che soli sarebbero valsi a ristabilire la pubblica tranquillità.

Nella sua relazione sulle condizioni della provincia, letta al Consiglio provinciale nella tornata del 3 settembre, ei narrò come, scoppiata la guerra e chiamato sul continente quasi tutto l’esercito, si era rivolto ai Sindaci, perché fosse ovunque ben organizzata la guardia nazionale,la sola che in mancanza di truppe regolari potea mantenere la tranquillità locale, non potendo a ciò essere sufficiente la sola forza di pubblica sicurezza. Però a quell’appello pochi comuni avean risposto, e per contrario il malandrinaggio avea preso ardire ed era imbaldanzito; egli quindi era ricorso ad altro espediente, avea proposto la formazione delle guardie campestri, utilissime pel valido concorso che possono dare le persone locali all’autorità di pubblica sicurezza; ma anche quello si era trascurato, ed un sol comune avea organizzato la formazione di alcune guardie nazionali a cavallo che aveano reso importanti servigi; quindi facea proposta che quell’esempio si fosse imitato dagli altri comuni che in concorso col governo avrebbero sopportato la spesa. Ma frattanto delle condizioni della pubblica sicurezza ei punto non s’illudeva, coi dati statistici alla mano, su cui solamente l’uomo pratico può riposare, ei faceva il confronto tra le forze che si trovavano nella provincia nell’anno precedente, all’epoca delle operazioni militari dirette dal Luogotenente Generale Medici, e quelle ch’erano in atto: allora vecchi soldati, uomini esperti nel maneggio delle armi: ora reclute della seconda categoria, nuovi alla strategica militare; nel 1865 si trovavano nella città e provincia di Palermo 8347 uomini: nel settembre del 1866 soli 2612, oltre a tre battaglioni di guardia nazionale mobile, che vennero indi nei primi del settembre stesso disciolti. Per contrario il numero dei malandrini era di gran lunga superiore ela sola leva della classe 1845 avea dato 1280 renitenti: tra disertori e renitenti si trovavano nella provincia 1445 uomini, i quali uniti al resto dei malandrini e da loro capitanati ben davano a temere qualche serio inconveniente. Quindi invitando il Consiglio provinciale a studiare i rimedi che potessero riparar tanto danno, il Prefetto dicea: Conviene avere il coraggio della verità ed io faccio appello al vostro, poiché colle reticenze, col velare l’una o l’altra causa noi non arriveremo né a valutar bene il male, né a bene scegliere i rimedi.

Così tra il Questore ed il Prefetto v’era questa differenza che quegli non credea possibile il turbamento dell'ordine, meno gl’inconvenienti che accadeano nelle campagne, inconvenienti mai sempre accaduti e pei quali erano sufficienti le forze della pubblica sicurezza, congiunte alla poca truppa che qui si trovava; mentre il seconde vedea turbato l'ordine da un giorno all'altro, e da una parte si rivolgea al Consiglio provinciale, per aversi il concorso della forza locale, dall'altra si rivolgea al Governo, chiedendo imponenti forze che valessero a prevenire il danno.

Il Governo, finita oramai la guerra, non avrebbe dovuto perder tempo a secondare lo richieste del Prefetto, inviando forze considerevoli; però si sconosceano forse i torbidi ed il malcontento generale, si era dimenticato che questo è il paese dei vespri, del 1848 e del 1860.Un dispaccio telegrafico, su cui l’attenzione di alcuno non si è fermata, varrebbe esso solo a dimostrare la preveggenza del sig. Torelli, non secondata. Alle continue richieste di truppa fatte dal Prefetto così si rispondea nei primi del settembre: Oltre truppa già segnalata precedente telegramma, partito questa mattina piroscafo Volturno con battaglione bersaglieri. —Il Direttore superiore: D’Amore. Eppure la truppa precedentemente segnalata altro non era che qualche compagnia di seconda categoria, ed ilVolturno non venne a Palermo a portarvi il battaglione dei bersaglieri.

Si è voluto censurar l'operato del Prefetto, perché quando ne fu richiesto dal Comandante la Guardia Nazionale non fece batter la generale per chiamare sotto le armi quanta maggior forza fosse stato possibile; si è detto che con quello espediente forse si sarebbe impedito lo ingresso dei malandrini in città. Ma quando si ragiona sulle ipotesi, le conseguenze non possono essere che chimeriche.

La Guardia Nazionale, istituzione veramente libera, valmeglio a dimostrare la fiducia che nudre il governo armando il braccio dei singoli cittadini, anziché a tutelare la libertà del popolo, a ripristinare l’ordine turbato. Quando i perturbatori dell’ordine sono un incognito, un che d’ipotetico, la guardia nazionale, uscita già dalle proprie case per correre là dove il dovere del suo servizio la chiama, può essere grandemente utile alla pubblica sicurezza; ma quando l'ordine è turbato da gente facinorosa e disperata che a viso scoperto tenta un estremo colpo, allora è vana posa implorare l’aiuto della guardia nazionale: nella perplessità degli animi, nella evidenza del pericolo, la pressione morale dei parenti, le lacrime della madre, della sposa, dei figli fan tornare vana qualunque chiamata; ed il male è forse maggiore del bene, perché da una parte gli animi dei cittadini più s’intimidiscono, maggiore diviene lo spavento, e dall'altra i ribelli più disperatamente combattono. Inoltre il Prefetto non 'potea sconoscere la generale apatia che avea snervato l'animo dei cittadini, che quindi non era a farsi assegnamento sul loro braccio; perocché il governo che non semina amore non può non sperare sacrificii spontanei, massime quello della vita.

Allo estremo espediente di chiamare in ora inopportuna la guardia nazionale sotto le armi col terribile suono della generale non dovea ricorrersi che nello estremo pericolo, e quando Ciò fu fatto, si sa bene quel che ne avvenne, quanti siano corsi a cimentare la propria vita.

Néil paese merita perciò quel biasimo che gli si è voluto da taluni con mala fede scagliare. Qui le cagioni del malcontento erano infinite: qui in sei anni erano svanite tutte le più belle illusioni, erano state deluse tutte le più belle speranze, e nuovi tormenti e nuovi tormentati si attendeano. Qual meraviglia quindi che si fosse lasciato solo al governo il carico di ristabilire quell’ordine, al cui turbamento in parte avea contribuito il fatto suo? Qual meraviglia che si fosse lasciata consumare una dimostrazione armata, perché il governo avesse appreso una volta che quando si è sordi ed ostinatamente sordi ai giusti reclami del paese, qui si scende in piazza e colle anni alla mano a scuotere l'animo dei governanti?

Le proteste di quasi tutti i comuni dell’isola hanno il loro significato politico, per riprovare il motto della ribellione, i tristi fatti che qui ebber luogo: e sta bene; ma sarebbero bugiarde, se si ritenessero fatte per ismentire il generale malcontento, per lodare in tutto l’opera governativa; sarebbero un’ingiuria troppo grave ed immeritata a questa illustre città, se la si volesse render complice di quei fatti, o responsabile per non averli impediti;

Dei resto se il Questore, che pur dovea conoscere le condizioni della pubblica sicurezza, mostrava tanta fiducia nelle forze ch’erano in suo potere, qual meraviglia che i cittadini fossero altresì fiduciosi l’ordine si sarebbe ristabilito senza un serio inconveniente?

Perltutti andarono delusi, e la generale apatia, la baldanza del Questore, il mal regime, le perfide arti degl’interni nemici fruttarono funeste conseguenze. Il 16 settembre verso le 4 a. m. si odono i primi fuochi ai Torrazzi, dove proditoriamente si erano uccisi tre carabinieri; il Prefetto che in tutte le emergenze dimostrò il coraggio di un giovane che abbia più volte cimentato la vita sui campi di battaglia, vi accorre con una compagnia di linea e mette in fuga i malandrini, ma verso le 6 è chiamato in città dall'avviso che delle bande armate vi erano penetrate; alle 1 va al Municipio dove la Giunta sedeva in permanenza, e verso le 9 unitamente al giovane ed intrepido Sindaco, con 50 soldati, altri militi di forza cittadina ed i pochi della guardia nazionale ch’erano accorsi alla battuta della generale, deliberano percorrere la città per ristabilirvi l’ordine; passando per Toledo entrano nell'Argenteria vecchia, dove si incontrano dei ribelli, coi quali si viene alle prese, e due di costoro restano morii, due altri son fatti prigionieri; si procede verso via Macqueda, ma allo sbocco della via Bara, rimpetto al monastero delle Stimmate, è impedito lo andare avanti da un vivissimo fuoco di fucileria. — Singolare coincidenza! i ribelli che proclamavano la repubblica, aveano scelto a loro baluardi i luoghi del più feroce dispotismo—il dispotismo claustrale che impera perfino sulle coscienze! — Tornato vano il tentativo di domare i ribelli, il Prefetto ed il Sindaco con una strategica ammirevole pensano al concentramento, sia per difendere gli stabilimenti di maggiore importanza, sia per riunire tutto il nucleo della forza, colla quale possa indi farsi un nuovo tentativo; rimane quindi il Sindaco al palazzo municipale con quanti uomini fossero stati sufficienti a difenderlo da cui un’aggressione, ed il Prefetto va al palazzo reale a rilevar altra truppa; però il generale Righini non vi manda che un battaglione, il quale, composto tutto di soldatidi seconda categoria, prima di arrivare ad una barricata che i ribelli avean fatta, ebbe morti un ufficiale ed un soldato ed altri feriti, retrocede quindi in disordine.

Da quel punto il tumulto prende vaste proporzioni.

Il domani, lunedì, arriva un battaglione di Messina, anche di soldati di seconda categoria; va al palazzo reale e quindi vuol portare dei viveri al municipio, dove se ne avea penuria; vano tentativo, poiché i ribelli che aveano occupato altre case religiose, ne lo impediscono; però i soldati occupano il monastero dei Sett’Angeli che domina l’accesso al palazzo reale, e sulla proposta del Prefetto si fa una gran barricata al principio della via Toledo, in modo che si contenda altresì l’accesso al piano del palazzo reale dalla via della Matrice. La notte del lunedì istesso viene sgombrato il municipio, e quella poca forza, insufficiente oramai a difenderlo più a lungo e mancante di tutto, guidala dall’animoso Sindaco, va a concentrarsi al palazzo reale. L’indomani due battaglioni, anch'essi di truppe di seconda categoria, pergiunti da Napoli, tentano di soccorrere il palazzo, ma il numero delle squadre ne li impedisce.Da quel punto non era più a far assegnamento sulla poca truppa che si trovava a Palermo per tentar di ristabilire l’ordine; a ciò erano necessarie imponenti forze che bisognavano attendersi; non potea pensarsi che a difendere le posizioni mantenute ancora, a difenderle fino agli estremi; e ciò fu fatto con grande eroismo, colla massima abnegazione, abbenchè di tutto si mancasse, perfino di viveri.

La città intanto era caduta in preda alla più desolante anarchia. I sedicenti repubblicani che combattevano al grido di viva Maria Santissima, vira S. Rosalia, e ne portavano le immagini sulle bandiere, faceano quello che la lor fede sapea ispirare; mentre punto principale dei loro attacchi erano le grandi prigioni, d’onde attendeano la liberazione dei loro fratelli, in città non si mancava di condurre in trionfo a S. Cita i frati dell’ordine dei predicatori, che tempo prima erano stati assembrati ai loro correligionari nel vastissimo convento di S. Domenico, per lasciare che di S. Cita si formasse un’opera filantropica, un ospedal militare; e mentre i ribaldi nella loro brutale ebbrezza facevano affacciare i frati dalle finestre ed a capo scoperto, prosternati per terra, imploravano da loro la celeste benedizione, altri compagni incrudelivano perfino sui soldati infermi, togliendo anco le lenzuola dai loro letti. Non si ebbe ribrezzo a stendere il braccio parricida contro i figli del popolo, educati nell’istituto militare Garibaldi, i quali giovanetti ancora appresero a quegli scellerati come sa affrontarsi la morte per adempiere al proprio dovere. Si spogliavano e si saccheggiavano tutti i pubblici stabilimenti che cadessero nelle mani dei ribelli; anche le scuole, anche gli asili infantili erano distrutti, e perfin vi furono case di privati alle quali vennero tolte le stesse imposte.

Già erano incominciate le private vendette, le violenze private, i furti alla spicciolata; e se non fosse stata la grande, avvedutezza dei pochi patriotti, portati a forza a dirigere lo scellerato tumulto, se non fosse stata la loro somma scaltrezza a frustrare gli effetti di una forza brutale imponente, la resistenza sarebbe stata più lunga, gli effetti più funesti.

Il giovedì intanto arrivano navi da guerra con numerose forze:la speranza comincia a trasfondersi nell'animo dei cittadini, compresi da spavento, ed il coraggio si rialza nei difensori del: governo; il venerdì a mezzo giorno entra per il primo in città il Generale Masi, indi il Generale Angioletti, ma non perciò la ribellione era domata, che anzi più disperatamente si combattea. Ancora una notte dovea passarsi in agonia. Fu solo il sabato verso le dieci antimeridiane che la città potè dirsi interamente sgombra d’insorti, fu solo allora che potè ripetersi, come il Ministro francese per Varsavia: L’ordine regna a Palermo.

Si: l’ordine regnava a Palermo, e se non era amara ironia o stupido egoismo che quel motto indettava, pure non era senza profondo rattristamento che i buoni patriotti potessero pronunziarlo. — Quanti danni erano stati sofferti: quanti ancora erano ad aspettarsene: quante vittime cadute per mani fratricide: quali funeste terribili conseguenze!

Alla fatale anarchia, al fiero tumulto tenne dietro il militarismo; perocché quando il popolo rende impotente qualunque legge, obbliga il governo ad uscir anch’esso dalla legge, e deve sopportarne le conseguenze. Cosi avessero tutti il dovuto ammaestramento da quella terribile lezione: così si mutasse da tutti indirizzo! —Quel giorno in cui l’ordine venne ristabilito, e con grande emozione si abbracciavano i cittadini, come persone che si trovano in porto dopo un terribile naufragio, s’intese esclamare anche agli uomini più devoti all’attuale ordine di cose, agli uomini che più sono amanti della patria: Possa il Governo comprendere nel suo vero significato questa dimostrazione armata: possa dare ai mali del paese quel riparo che in sei anni non ha voluto o non ha saputo dare!

I luttuosi fatti di settembre furono in parte effetto di. un programma politico, per gli autori che concepirono e combinarono il movimento; ma questo nei suoi risultati dee dirsi piuttosto l’espressione di un bisogno sociale. Il vessillo ed il motto repubblicano erano una mascherata menzogna, poiché dopo sei anni non potea venirsi a chiedere palesemente il ritorno al passato, qui dove l’odio alla dinastia dei Borboni era radicato nell’animo di tutti; però non si avrebbe avuto l’ardire di turbare l’ordine senza farsi assegnamento sul malcontento generale, da cui potea sperarsi soccorso. Il soccorso della classe onesta ed intelligente non si ebbe, poiché qui la fede all’unità nazionale non si perderà mai, né tanti sacrifici per essa fatti poteano rinnegarsi: e gli autori del movimento rimasero nel mistero; ma nel momento del bisogno il governo si trovò solo, e sette giorni d’insurrezione valsero a protestare altamente contro la mala amministrazione di sei anni.

Era dunque necessario si fosse cambiato indirizzo, era necessario si fosser mutati gl’infausti sistemi seguiti; ma sventuratamente pare che, a malgrado della triste esperienza, ciò non siasi praticato, e si proseguano a calcare vie sempre più rovinose.

Quasi che una profonda scossa non avesse portata nel popolo la legge sulla soppressione delle corporazioni religiose, e per la credenza alla loro inviolabilità, e pei vitali interessi di tante famiglie, il militarismo con aperta violazione della legge cacciò brutalmente le monache dai loro chiostri, come lo avrebbero fatto i musulmani; d’onde gli uomini di mala fede hanno detto al popolo che il movimento di settembre fu procurato dal Governo, per dare indi più agevolmente attuazione col terrorismo alla legge sulla soppressione delle corporazioni religiose—Néancora si son dati, abbenché più volte promessi, quei provvedimenti necessari per riparare ai danni di migliaia di persone che vivevano presentando l’opera loro in servigio di quelle corporazioni, e che ora a nulla possono attuarsi; provvedimenti che una legge inconsiderata non diede, per modo che tante sventurate famiglie si vider d’un tratto buttate sul lastrico, condannate all’indigenza. Ora per contrario si va spargendo la voce (tanto sono incomprensibili i progetti e. la condotta del Ministero) che il monachismo sarà richiamato in vita sotto la dipendenza dei Vescovi e saranno a lui restituiti i beni, purché paghi un’imponente rendita allo stato; come so il governo non dasse con ciò prova di estrema insania: come se la legge che tolse il monachiamo fosse stata per una sordida speculazione finanziaria, e non piuttosto una giusta esigenza del progresso, sia pel più rapido sviluppo della proprietà, sia perché non tramandassimo ai nostri nipoti il triste retaggio di stabilimenti posti sotto la tutela della legge, baluardi del dispotismo e dell’ignoranza, nei quali si mantengono persone le cui bocche mangiano, ma le braccia, le menti non lavorano.

Quasi che gli uffici soppressi fossero stati pochi, quasi che poco danno ne avesse risentito questa misera città, si sono tolti ancora la Direzione compartimentale del Tesoro, l’Ufficio di riscontai), la Direzione del Gran Libro, la Direzione della Sanità marittima; così d’ora in avanti si attenderà da Firenze il mandato di pagamento per la più tenue somma, di là attenderassi il pagamento della più tenue rendita suldebito pubblico; e questo in omaggio ai principi di discentramento che da tutti si è predicato, che tutti i Ministri hanno promesso—Ma se tante istituzioni non si videro contrarie all’unità dei sistema amministrativo, tanto che datano da due o tre anni,perché mai si è voluto ora innovare? Si crede forse che senza compromettere gl’interessi vitali di tante città, fino a ieri centri d’infiniti affari, si potranno esse ridurre al livello delle altre città di secondo e di terz’ordine?—Che se infine necessità inesorabile vorrà si sacrifichi il compartimento all'unità nazionale, si discuta prima tal quistione, per più luoghi interessantissima, dalle Camere legislative, si mostri alle città cui tanto si chiede, il bisogno del loro sacrificio, e poi si sopprimano ancora,se sarà possibile, la Direzione compartimentale delle Poste, quella del Lotto, quella delle Gabelle, quella del Contenzioso finanziario, quella dell'Amministrazione militare. In atto ogni cambiamento nel sistema amministrativo non ad altro serve che a creare nuovi malcontenti in tutte le classi, a complicare e difficoltare sempre più il servizio pubblico.

Quasi che il retaggio dell'ignoranza tramandatoci dal cessato governo fosse poca cosa; quasi che tanto e così bene non si fosse detto contro quel governo che facea costar molto cara l’istruzione superiore, ora le nuove esorbitanti tasse per l'insegnamentogovernativo nei ginnasi nei licei, negl'istituti tecnici, nelle università hanno scoraggiato molti padri di famiglia, hanno distolto molta gioventù dallo studio, e quelle scuole sono deserte; così in avvenire l’istruzione superiore sarà più attraversata che prima, e gl’ingegni più eletti non potranno nudrire la nobile ambizione di aver nella società un posto, per cui sia necessario un diploma, se la loro posizione finanziaria non consenta di aversi quel diploma. Eppure da un governo libero era ad attendersi il gratuito insegnamento!

Quasi che poche fossero state le perdite sofferte dal foro di Palermo, si fa presentire vicina l’abolizione della Corte di Cassazione, non si sa con quanto miglioramento nell’amministrazione della giustizia, si fa temere il restringimento di attribuzione territoriale della Corte di appello.

Quasi che poco fosse stata scoraggiata l’industria agricola, questa fonte della pubblica ricchezza, la legge sulla privativa dei tabacchi, contrariamente ai dettami più ovvii ed inconcussi della scienza, ad ogni sentimento di equità e di giustizia, interdisse un genere di coltura, fece venir meno una significante risorsa, tolse il lavoro ed il pane a migliaia di persone.

Quasi che pochi siano i balzelli che si pagano allo stato, il Ministro delle finanze dichiara con un cinismo ributtante che ancora altro sangue dovrà cavarsi alle esauste vene, ancora altri pesi dovranno imporsi sullo affralito corpo; né sa comprendersi la tanta insipienza nello speculare imposte enormi, vessatorie, insoffribili, di esazione incerta, dispendiosa, arbitraria; cosicché oggi come che altra volta può dirsi l’edificio finanziario sia una enorme fabbrica, composta di pezzi deformi ed ammassati l’uno sull’altro da architetti piuttosto avidi che istruiti.

Le economie promesse da tutti i Ministri e sulle quali si fondavano le più belle speranze, non si fanno aspettare; ma solo quando valgono a togliere l’obolo del povero, a togliere quanto spetta altrui di santa ragione.

Sembra incredibile, ma egli è pur vero, come se ci fosse dritto ad avere gratuita l’opera altrui, il governo con una prepotenza senza riscontro dice all’usciere: Tu devi lavorare per me; senza pretendere alcun compenso, altrimenti t'interdirò la facoltà di lavorare per altri; così anche ora che per l’abolizione delle corporazioni religiose un significante numero di cause sono nell’interesse del demanio dello stato, anche ora il governo esige gratuita l’opera dell’usciere, sicché questi debba lavorar digiuno e vedendo la sua famiglia languir di fame. È così che dal governo, primo esecutore della legge, si attua iljus suum unicuique tribuere.

E frattanto le opere pubbliche che sarebbero valse a dar pane e lavoro a migliaia di sventurati, a prosperare qui l’industria ed il commercio, a sostituir una fonte di risorse alle tante che andarono perdute, le opere pubbliche sono ancora nei progetti di legge, nelle leggi promulgate, nelle cifre stanziate in bilancio. Pochi chilometri di ferrovia son tutto che ha saputo o voluto farsi per questa provincia.

Népiù si finirebbe se tutto volesse dipingersi il triste, luttuoso ed affligente quadro dell'attualità.

Ma non era così che dovea ripararsi al mal fatto, non è così che si può riacquistare l’amore del popolo.

Ed a nulla vale che siasi posta al governo della provincia una persona degnissima ed onorevolissima, sui cui buoni propositi, sulla cui efficace opera si vive fiduciosi; né vale che a reggere la pubblica sicurezza sia stato chiamato un ottimo patriotta, il quale in breve tempo, per quanto fosse possibile, ha rassicurato la vita e le sostanze dei cittadini, ha riparato in gran parte le violenze consumate dal militarismo. La loro opera non coadiuvata, anzi attraversata da tutto lo andamento amministrativo, sarà sterile di buoni risultamenti, simile a tutti i temperamenti mezzani che valgono a mitigare il male, anziché a toglierlo dalla radice.

È solo mutando sistema, è solo non pensando a distruggere quanto forma in parte il sostentamento di questo paese, è solo soddisfacendo ai giusti desideri, alle imperiose necessità del popolo che potrassi sperare tranquillità, consolidamento del governo, rispetto alle autorità, alla legge; ed è ciò che si brama, che si chiede al governo da tutti i buoni patriotti, perché una volta finiscano le ragioni dei torbidi che potranno recare più funeste conseguenze.

Alla buona opera governativa non dovrà andar disgiunta quella diluiti gli onesti cittadini.

Il popolo si persuada che il suo interesse non va congiunto a quello di quei falsi ministri della religione che trovano il loro tornaconto a mantenerlo in una fede cieca 'e corrotta, a sostituirsi a Dio nella sua mente e nel suo cuore, si persuada che solo può attendere il suo miglioramento spezzando le catene della superstizione e dell’ignoranza, prestando obbedienza alla legge, acquistando amore al lavoro, all'istruzione, alle libere istituzioni. Le sommosse del 1848 e del 1860 lo trovarono qui feroce e crudele; ma al 1866, comunque non si trattasse che di un tumulto acefalo, di una vera anarchia, non ebbero a rinnovellarsi in Palermo le scene di raffinata barbarie consumate sui Leto e compagni (1): al 1866, meno poche eccezioni, si rispettò la vita delle persone di pubblica sicurezza che caddero nelle mani dei ribelli—Tanto le libere istituzioni valgono esse sole a migliorare i costumi del popolo.

Il monachismo, tornato oramai colla pienezza dei dritti civili in mezzo alla società, si metta a parte dei suoi veri bisogni, si vesta dei suoi interessi, cooperi al suo miglioramento. Ed il sacerdozio in generale adempia tutto al suo nobile ufficio: predichi la parola dell’amore, l’obbedienza alla legge: sia sacerdozio di Cristo, non d’interessi terreni: si persuada una volta che nulla può più sperarsi coll’eccitare il fanatismo religioso, che mai più potrà pergiungere ad innalzare roghi al libero pensiero.

E la stampa sia all’altezza della sua missione: il giornalismo invece di farsi servo dei partiti, di eccedere in sfrenate passioni, adempia il suo mandato d'illuminare il governo, di ben dirigere la pubblica opinione; confessi i torti dell’uno, ma scenda pacatamente ad indicarne i rimedi, a discutere le quistioni vitali che interessano il paese, i suoi veri bisogni; e dall’altro canto dica a tutti come dalle declamazioni, dall'eccitamento delle passioni nulla si ottiene: com’è opera più santa sostenere il governo, benché tanti torti si abbia, anziché tentar ad ogni istante il discredito della legge, l indebolimento del rispetto ad ogni autorità—via funesta che cresce la demoralizzazione e conduce all’anarchia.

Allorquando lo indirizzo del governo sarà in bene mutato, allorquando l’azione governativa troverà Io appoggio di tutti, e ciascuno concorrerà spontaneo al buon andamento della cosa pubblica, potremo allora vivere fiduciosi che la pace non sarà più turbata, che si cammina nella via del miglioramento e del progresso; ed allora saranno benedetti gli sforzi ed i sacrifici fatti da questa generazione per la libertà e per l’unità nazionale, che fu desiderio di tanti secoli, aspirazione di tutti i grandi italiani.

NOTE

(1) La seconda lettera del Senatore DcMonte al Generale la Marmora, data alle stampe — 24 febbraio 1866.

(2) Tre bolle pontificie aveano tolto quello scandaloso privilegio, ma il governo non vi diede esecuzione.

(1) Gioachino Leto, agente della polizia borbonica, fu qui ucciso dal popolo insorto net gennaio del 1848 con tali sevizie che disonorano la razza umana.







Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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