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«Il Governo ci regala il vento dell’Africa» dalla illusione garibaldina a Lu Setti-e-menzu (Zenone di Elea - Dic. 2021)

I CASI DI PALERMO

Cenni storici

SUGLI AVVENIMENTI DI SETTEMBRE 1866

PER GIUSEPPE CIOTTI

PALERMO

TIPOGRAFIA DI GAETANO PRIULLA

1866

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Illustre Amico,

i casi che si narrano in questo scritto in questo scritto dimostrare, con rara eloquenza, quanto sia grande in Voi la religione del dovere. — Primo magistrato della Città — nei giorni propizi come negli avversi, in pace ed in guerra — siete stato sempre all'altezza della Vostra missione.

Il paese, l'Italia, il Governo ed il Re, la comune riconoscenza han voluto in tutti i modi testimoniarvi, associandosi ai tutti ed ai danni della Vostra casa, ed onorando unanimi la virtù Vostra.

Col consentire che a voi s'intitoli questa modesta scrittura, mi avete porto il destro di recare anch'io un sassolino, all'edificio di gratitudine de' Vostri cittadini, ed io ve ne rendo quelle grazie che so e posso maggiori.

Il nome di Antonio di Rudini, posto in fronte del libro, mi farà, spero, più mite il giudizio del pubblico.

Vogliate adunque porlo sotto il Vostro patrocinio, e credetemi intanto con grato animo

Palermo, settembre 1866.


Ill. Signore

Sig. Comm. Marchese Antonio di Rudini

Sindaco di Palermo.

Vostro amico

Giuseppe Ciotti

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I

La rivoluzione palermitana del 1866—nelle proporzioni che Io stato d’Italia e di questo paese consentivano — è riuscita.

Essa è riuscita al di là di qualunque previsione—Perché?

Studiare questo perché,rendersi ragione delle cause onde emerse l’orribile attentato, parci indispensabile per chi voglia narrare e far comprendere i casi luttuosi e incredibili di cui Palermo fu testimonio e vittima.

A quest'uopo, gioverà gittare un rapido sguardo-retrospettivo sulle condizioni del paese in generale e di questa provincia in particolare considerarla dal Iato della pubblica sicurezza e del l’indole dei suoi abitanti, affetti, per causa del malgoverno, borbonico, da tante e sì crudeli piaghe.

II

 Il moto del 1866 fu moto eminentemente malandrinesco; i reazionari, gli anarchisti, i clericali Io promossero, ma la sua riuscita si deve soltanto alle condizioni sociali della provincia nostra, né, per quanto vi si potesse affaticare, potea la mala settaprodurlo altrove. — Ci proveremo a dimostrarlo.

III

L’origine del malandrinismo in Sicilia rimonta al medio evo— I vari governi che da quell’epoca tennero l'Isola lo hanno sempre compresso, spesso accarezzato, curato giammai. — Pianta, che attecchisce maravigliosamente in questa terra — per le ragioni che andremo man mano svolgendo — alla menoma circostanza favorevole, torna rigogliosissima, e adugia e soperchia qualunque altra vegetazione—Le radici son buone!

IV

La storia dei nostri rivolgimenti è lì per dimostrare questo fatto, e per convincere che lungi di estirparla, i vari governi trovarono lor tornaconto nel transiger con essa pur comprimendola, niente curando di avvalorare la repressione, talvolta crudele, con buone leggi educatrici e moralizzatrici, senza le quali tutto è invano per rialzare la dignità di un popolo.

V

Il governo italiano ha voluto, invece, educare e moralizzare, ma si è dimenticato della indispensabile repressione. —. I primi gettarono le fondamenta del male, l'altro il buon seme dell'avvenire; il presente fu seminato da quelli, e questo ebbe — per la sua debolezza —a raccoglierne amarissimi i frutti.

VI

Come si faceva la polizia in Sicilia?—Per mezzo delle Compagnie d'armi.

L’organizzazione di cotesta forza, ab antiquo destinata alla repressione del malandrinaggio, racchiude in se stessa gran parte del marcio delle nostre popolazioni.

I Compagni d'armi,più modernamente chiamati Militi a cavallo, erano gli appaltatori della pubblica sicurezza.

«L’origine di questa famosa istituzione (noi citiamo un documento officiale) rimonta all'epoca feudale, quando alla forza pubblica sostituivasi da per tutto la forza personale, quando il barone, il proprietario, per difender la roba erano obbligati a tenere al loro soldo dello squadre di uomini facinorosi, i quali proteggevano, è vero, il castello e la masseria, ma a patto di essere difesi e protetti contro l’autorità per tutte le prepotenze, delitti, e ruberie che commettevano sugli altri. In questo stato di cose, il governo non avea nessun mezzo di soggiogare quell'immensa camorra che vivea e prepoteva all’ombra dell’istesso castello feudale. Priva di strade e di organizzazione regolare, divisa in mille giurisdizioni comuni di ecclesiastiche e baronali, la Sicilia del medio evo, dove cercare un po’ di sicurezza informandosi alle idee del tempo: e poiché la braveria era organizzata e prevalente, il governo pensò di farsi forte in essa e di usufruttuarla (ci si consenta la parola) a beneficio del paese. » Ecco l’origine delle compagnie d’armi, che abolite qui e in poche altre province, durano ancora, ma molto mutate e corrette, in tutto il resto della Sicilia.

Vediamo adesso con qual logica, con qual moralità, con quai risultamenti poteva darsi la pubblica sicurezza in appalto ai facinorosi?

VII

Inabile a perseguitarlo, a coglierlo, a punirlo, il governo discese a patti col delitto, lo usufruttuò. I più matricolati ribaldi, invece del capestro ebbero una divisa, un soldo, talvolta una decorazione, e si resero mallevadori della pubblica sicurezza. La plebe dei ladri fu spesso sopraffatta; ma in mezzo allo scadere dell’aristocrazia della nascita sorse fuoi l'aristocrazia del delitto, riconosciuto, accarezzato, ed onorato.

A salvaguardare l'estesissimo territorio della Sicilia dovrà provvedersi con un personale che raramente raggiunse la forza di 209 uomini. I compagni d’arme doveano quindi ricorrere ad espedienti degni di loro, ed il governo doveva accomodarvisi — Sorsero gli affiliati. — Egli affiliati erano altrettanti anelli della catena malandrinesca.

Purché tu mi guardi quel tale ambito, diceva il compagno ad un famoso assassino, tu resterai tranquillo a casa tua; sui furti perpetrati, sugli omicidi commessi noi chiuderemo un occhio; fatti onore, e non ti potrà mancare un posto nella Compagnia alla prima occasione. Ma siccome devi vivere, e non puoi, non sai, e non vuoi lavorare, ti si concede intanto di prepotere ad libitum sul debole e sul tapino. Tu non ruberai, chiederai, e, forte del tuo prestigio e della nostra protezione, nessuno ardirà dirti no. — Tutti sappiamo come e quanto chiedessero, e come nessuno dicesse mai di no.

Se gli affiliati e i protetti aveano cotesta illimitata facoltà del chiedere, che cosa diremo dei protettori?

Del resto le prepotenze sapeano a capello con chi le doveano fare, e la lunga esperienza avesse provato i pericoli e l'inutilità dello sporger querela.

Anzi del querelarsi, del denunciare i tristi si perdea — mercé loro — per fin l’abitudine, alimentandosi invece e infiltrandosi nei costumi quel principio dell'omertà di cui raccogliamo si triste messe.

E perché, difatti, avrebbesi dovuto querelarsi? Impotente era l'autorità e potentissimi essi —Se qualcuno pativa aggravio ed era persona riguardata, senza darsi una briga al mondo facea obbligare la Compagnia all’indennizzo; dei rei taceva per non nimicarsi alcuno; ed in effetto tutte le denunzie di ruberie appartengono alla categoria dei rei ignoti.

Spesso un capitano, del furto pagato nel suo si rifaceva rubando nel distretto di un altro. Spesso, quello che commetteva la ruberia, era l’istesso compagno per mezzo dei suoi compari.

In questo caso si presentava al derubato, gli profferiva i suoi buoni uffici, lo esortava a non ricorrere, a non far spese, ché vedrebbe lui, lui penserebbe; e finiva per venire ad una turpe composizione: dava ottanta per un furto di cento, e non se ne parlava più.

Se poi la mano rapace fosse una mano profana, allora cambiavasi metro;—si arrestava a dritto e a torto, si bastonava, si dava fa tortura perché il furto che dovea pagarsi dovea provarsi ad ogni costo, e sventuratamente si provò sempre.

Quando poi questa regola subiva un eccezione, allora in rasa campagna, nell’alveo di un fiume, nel follo di un bosco, si rinveniva un uomo morto. Accorreva il giudice: che è che non è... una parolina all’orecchio del capitano sopiva tutto... Un profano di meno, una lezione alla debolezza dei tribunali, ed un trionfo di più per la giustizia sommaria delle Compagnie.

Con tutto questo sistema di terrorismo, di delazione, di malandrinismo, interessato nel negozio e posto a parte dei benefici, la sicurezza pubblica—se pur meriti il nome—era tutt'altro che buona.

Non raro avveniva che comitive armate sbucassero, come per incanto, dalle viscere della terra. Che volete?—Erano giovani che doveano laurearsi in malandrineria, erano aspiranti al posto di titolari nelle compagnie d’armi; per aver la promozione qualche cosa dovevano pur fare!

Se si volesse stender la biografia di tutti i ribaldi onde componevasi quella organizzazione si troverebbe che la gran maggioranza, oltre al corredo de' delitti rituali, avea sostenuto qualche scontro contro la pubblica forza. Erano generali che venivano dalla giberna, che avean percorso tutti i gradi della gerarchia; — gente provata!

Cosa potea sperarsi in un paese in cui la forza istessa, l’istessa autorità era la semente della corruzione e del malandrinismo, in un paese in cui il governo sapea alzare una forca ma non una cattedra, sapea schiudere una prigione non una scuola, e che tutte le arti di Stato concentrava nell’ignoranza, nella corruzione, e nella superstizione?

Noi fummo quindi paese malandrinesco come un altro è paese militare.

Ignoranza, corruzione, e superstizione: ecco i tre fattori della ribellione di Palermo di cui con animo sgomento ci accingiamo a narrare la storia.

VIII

Abbiamo voluto insistere su questi fatti, imperocché in essi risieda la chiave per giudicar con sano criterio degli ultimi eventi, i quali errerebbe grandemente chi volesse attribuirli unicamente ad un accidente sventurato, alla inettitudine del governo, alla mancanza del presidio etc.  etc.; tutto questo diede l’occasione: la lava potè, schiudersi un varco, aprirsi un cratere; ma il fuoco, ma la forza latente esisteva, e nulla erasi fatto per dominarla.

IX

Noi torniamo all’argomento.

Corrotto il governo, corrotti i suoi agenti, corrotta la pubblica forza per lunghissimo secolo, a poco a poco, la turpitudine nelle masse vestì le forme del dovere e della virtù.

La corruzione fu non solo confessata ma esaltata, si trasfuse negli abiti della vita, si scolpì nella lingua, ebbe il suo decalogo:

A chi ti toglie il pane e tu togligli la vita;

Ciò che non ti appartiene né male né bene;

Quando ci è l'uomo morto dece pensarsi al vivo;

La testimonianza è buona finché non noccia al prossimo, ed altro.

Adagi di simil conio furono tenuti come dommi di fede.

Per questo la giustizia e l’autorità si trovaron circondate, ove non foss’altro, da un generale mutismo, nel quale si riverì una virtù.

Era ammazzato un individuo? Ben gli stà, dicevasi, area tolto ilpane all'interfettore; né si badava se il pane fosse stato tolto davvero o se era onestamente guadagnato—Fare il controbando, rubar in ufficio, falsificare una firma, scroccare uno scudo questo era tutto guadagnarsi il pane. Abbiamo noi stessi udito questa teoria confessata, con raro candore, da vari contrabandisti, da alcuni agenti dell’amministrazione; questo delitto di togliere il pane, le turbe saccheggiatrici del Municipio rimproveravano all’autorità comunale—Ma non anticipiamo gli eventi.

Era perseguitato un assassino? Tutti gli schiudevano la via allo scampo; il morto era morto e dovea pensarsi al vivo.

Compariva in giustizia un delinquente? non si rivelava nulla, imperocché la testimonianza potesse nuocere al prossimo.

Qualche grave caso interveniva? Acqua in bocca, che ciò che non ti appartiene né male né bene.

Ecco che cosa è l'omertà; il lettore vi può fare le sue ampliazioni, le sue applicazioni e i suoi comenti.

X.

Il male però non andava disgiunto dal bene; che nel nostro popolo non è rea la natura, ma l’educazione. In ogni tempo, in ogni occasione Io storico imparziale è obbligato a registrare atti magnanimi e generosi; anzi non dubitiamo di affermare come ad onta dello studio diabolico con cui il passato governo tentò d’imbestiarci, qualche cosa di nobile, di cavalleresco e di assennato rimanesse pur sempre nel carattere delle nostre popolazioni; ed al caso risplende maravigliosamente.

Imperocché qui sia salda l’amicizia, e sacra l'ospitalità, la riconoscenza incrollabile, e veramente passionato e ammirevole l’amore della famiglia. Che se ora sian costretti a narrar turpi casi, non ci mancherà pertanto l’occasione di rilevare dei tatti di rara virtù, mercé dei quali sarà più mite, speriamo, il giudizio che di noi faranno i popoli della penisola e gli stranieri. Fervea ancora accanita la lotta, ed uomini e donne popolani, moltissimi dei perseguitati, con loro pericolo, custodirono, e molle case destinate al saccheggio con ogni cura salvarono, e con amorosa sollecitudine» prigioneri accolsero, tenendoli quali figli, di nulla facendoli mancare, e soffrendo qualsiasi privazione per far più larga e decorosa la loro ospitalità.

E questo ei è di gran conforto all’anima, ché per ogni immanità avvenuta—e ve ne furono delle orribili—potrà mettere a con tra posto qualche allo che conforta a non disperare della natura umana.

XI.

Non possiamo por termine al presente preambolo senza accennare alla parte che la malandrineria ha avuto in tutti i rivolgimenti politici del paese, accostandoci così più da presso all'argomento di questo scritto.

Il malgoverno di tutte le dominazioni straniere — straniera sopra lutto la napoletana — avea gittato le fondamenta di quello spirito d’indipendenza, che con parola più moderna addimandasi autonomia, onde informavansi, per non far storia antica, i moti del 1812, e le rivoluzioni del 1820 e del 1848.

L'autonomia, anzi, da principio disegnassi colle forme più grette di cui fosse capace, con gare municipali bruttissime di preminenze e di privilegi, ed in esse riposero lor maggior forza le varie dinastie che dominarono l’isola.

Dividere ed imperare!

I progressi della civiltà, a poco a poco, chetarono quegli stolti dissidi, ed al 1848 e d al 1860 si trovò l’Isola rispondere unanime all’iniziativa e al programma della sua capitale.

XII.

Ma anche prima. di allora l’influenza di Palermo era grandissima. Fatta la somma di virtù e di vizii, qui la preminenza era incontrastata. Lo stacco tra la capitale e gli altri comuni, immenso; — il provinciale si teneva lui stesso da meno del palermitano, e questo chiamava villani tutti quelli che non avesser sortiti i natali nella fedelissima.

Quanto maggiore la coltura, altrettanto era qui l’ardimento delle masse popolari, fiere dei loro privilegi e dei fatti guerreschi con cui li aveano saputo mantenere. Le circostanze, la tipografia, e la razza li aveano resi i più battaglieri e maneschidi tutta l’Isola. 

Il giogo di una capitale diversa pesava orribile, anzi qualunque governo sembrava un giogo. Sia che comandasse Madrid, Vienna, o Napoli, il palermitano, ove non tentasse una rivoluzione, ti abborracciava alla meglio un tumulto. Si vantava di essere il popolo dei Vespri, di Squarcialupo, di Alessi, di Meccio, di Vaglica etc.

Il resto dell’Isola o seguiva, o ammirava, o temeva, o astiava.

XII.

Questo continuo bisogno d’insorgere avea però creata una solidarietà fra gli uomini di azione appartenenti alle classi popolari, e la cittadinanza più elevata. Questa era la mente, quelli la forza delle rivoluzioni; guai ogni volta che si divisero.

E disperate erano le nostre lotte, e terribili le conseguenze, trattandosi di dover distruggere un governo senza poter supplitene un altro; di modo che vinta oggi la tirannia, intronjzzavasi l’indomani, con tutte le più laide forme, l’anarchia

Con tutto questo, il male del presente facea chiuder gli occhi su quelli del futuro, e le lotte eran tanto più accanite quanto più esoso pesava il governo.

XIII.

Perciò non si andava tanto pel sottile nella ricerca dei mezzi purché si raggiungesse lo scopo — Tra l’onesto cittadino e l'audace malfattore esisteva un tacito patto, mercé del quale, in certe date occasioni, doveano stringersi in salda alleanza.

Nei momenti del pericolo si ricercavano individui coraggiosi ed adusati alle armi — non importa chi fossero. In quei momenti l’uomo diveniva uno strumento di guerra, e nelle file dei patrioti si accettava un malfattore coll'istessa premura onde in un esercito si accoglie il cannone Cavalli o il fucile ad ago.

XIV.

Quando poi l’anarchia susseguente alla rivoluzione era vinta dalla guerra-—e fu così al 1820 e al 1848— chi pagava le spese non erano tanto le braccia quanto le menti di essa; la restaurazione fucilava qualche birbante volgare, esiliava i migliori cittadini, e cercava d’ingraziarsi i più formidabili capi-squadra. —Era sempre l’istesso sistema.

Al 1848, per non recar che un esempio, Settimo e Stabile sono esclusi dall’amnistia, Scordato e Miceli perdonati e nominati Capitani d’arme;—-noi parliamo di quell’istesso Miceli che al 1866 ricomparisce come il capo visibile delle bande repubblicane reazionarie, per farsi ammazzare da un colpo di mitraglia mentre cercava—more solito—di liberare i carcerati.

XV.

Ma non il solo governo era indulgente coi malfattori; per una ragione opposta, anche i cittadini li coprivano della loro egida. —L’indomani di una rivoluzione qui si pensa ad un’altra; — la plebaglia riottosa del 1866 già ci pensa — E così, quelli che scampavano o ai favori o ai rigori del governo, l’aristocrazia e i proprietari li mandavan a fare i campieri nei loro ex-feudi, i borghesi nelle officine o nei fondachi li ricoveravano, e l’istesso governo talvolta glieli disputava per metterli nel numero della malandrineria ufficiale, a guardare il paese.

Il direttore Maniscalco, di nefasta memoria, adoperò cosi con moltissimi, mettendo il dilemma: o che essi servissero, nelle compagnie d’armi, o che andassero relegati in un’isola.

E molti preferirono il confino, tanto era orribile il governo borbonico anche agli occhi dei meno incorrotti.

XVI.

Tutti questi elementi di forza e di debolezza, di ordine e di disordine, di libertà e di anarchia, di vizi e di virtù, ad onta dei tempi progrediti si presentarono sulla scena politica nella rivoluzione del 1860 — La quale fu il facsimile delle altre, e sarebbe finita con una restaurazione, ove alle idee grette dell’autonomismo o della federazione non si fosse sostituita l’idea dell’unità nazionale. Idea così fortemente sentita nell’Isola, e nell'istess a Palermo che ora è stato teatro di questa brutta ribellione, che le stesse orde reazionarie borboniche e clericali furono obbligate, dovendo pur mettere innanzi un motto ed una bandiera, di gridar viva la repubblica italiana e inalberare il cencio rosso.

XVII.

Or vedremo su chi dee ricadere la responsabilità del fatto; imperocché ci sembri proprio cieco della mente chi creda il moto di Palermo opera soltanto dei malandrini o di plebi ignoranti; — questi erano le marionette, ma chi tenea i fili non poteano essere essi stessi. —E voglia il cielo che il governo se ne persuada, e che non resti sviato dietro la traccia di qualche volgare malvivente o di qualche audace caposquadra.

XVIII.

Noi dobbiamo tornare alquanto indietro: alla rivoluzione del 1860.

Al 1860 come al 1848 e come al 1820 vi fu la solita alleanza tra elementi buoni ed elementi tristi, vi fu la solita liberazione di carcerati, seguita dalla solita amnistia. —

Era necessario.

Chi amnistiò questa volta fu Garibaldi; fu Garibaldi che, dopo essersene giovato, sciolse le squadre; ma, tanto il prestigio del suo nome, tanto, la sua impresa stupenda, che ad un semplice cenno tutta la parte men buona, che avea cooperato alla riscossa, tornossene quetamente a casa. La grande idea nazionale che presiedeva al moto, il grand’uomo che lo capitanava, la maturità de' tempi avean fatto il miracolo — Al 1860 fu doma, per virtù di popolo la tirannia, ed evitossi il periodo anarchico. Si stabili anzi un governo regolare, e la guerra che dovea farsi, sdegnando gli aiuti delle squadre, venne intrapresa per isforzo di volontari e di soldati.

Però, il doversi ritirar si tosto dalla scena, il sùbito scadere dalla loro importanza, l’essere astretti a rinunziare a ciò che nel loro intendimento è una legittima conquista un bottino di guerra, e che il governo includeva in un articolo del codice penale; il pagamento de' balzelli, l’azione della polizia, degli uffici, de' tribunali restaurati; l’obbligo della leva etc. etc. furon potenti ad intiepidire il primitivo entusiasmo di quella gente.

La quale, se si muove per un’idea politica, quella si è precipuamente di scuotere qualunque governo, e far tempone senza una paura al mondo.

La formola che il migliore governo risieda nell’amenza di qualunque governo dovette certamente avere sua origine quaggiù.

Gli squadranti adunque e i loro amici, e i loro adepti rimasero delusi, e cupidi di nuovi rivolgimenti sin dall’indomani della rivoluzione; per essi, che nell’impero delle leggi scorgono un oltraggio alla loro personalità e al loro benessere, le cose erano tornate da capo: era un’altra specie di tirannia che si chiamava libertà.

L’azione malandrinesca, era sicuro, alla prima opportunità sarebbe stata contro il governo.

XIX

Però, che cosa può l’elemento malandrinesco senza una mente che lo diriga, senza un’autorità che lo ordini, senza una borsa che lo paghi? — Questa volta, trionfante in modo stabile e nazionale la rivoluzione, non erano più i liberali che potessero ancora simpatizzare con codeste classi, erano bensì i borbonici, i clericali e gli anarchisti—E se ne giovarono!

XX

Se ne giovarono tanto più in quanto che i liberali onesti, divisi e nemici fra loro, guerreggiavansi con una guerra così accanita e furibonda da non trovar riscontro nella storia de' civili parteggiamenti — Il partito governativo —che pure ha i suoi torti, e li diremo appresso —mal potea opporsi alla piena dell'opposizione che traboccava da tutte le parti. Il governo nazionale ebbe il torto di inaugurarsi scontendando nel suo capo e nei suoi membri quello che chiamossi il partito di azione. — Le ire e le delusioni cominciarono a intiepidire il comune entusiasmo.

Nel concetto di alcuni la libertà e l’Italia doveano significare fiumi di latte e miele che scorressero in quest’Eden della Sicilia: i campi liberi di fondiaria, le porte francate di gabellieri; la promozione se erano impiegati, l’impiego se erano a spasso.

Per altri, la libertà significava assenza di qualunque freno di legge e di autorità, i più rischiosi principi della democrazia messi in atto; voleano fare l’Italia al passo di corsa, per furia di popolo, senza, e anche contro dell’esercito e del governo; chiedeano le strade di ferro, i ponti, i fari, la pubblica istruzione, gli istituti di credito; voleano la pensione per quelli che aveano servito, la collocazione per quelli che aveano congiurato; scuole ed università senza fine, soccorsi all’emigrazione di tutti i paesi; ma poi s’impennavano quando trattavasi di pagare i balzelli, e gridavano economia coll’istesso furore onde esigevano che si spendesse a ufo.

In costoro, l’opposizione intitolavasi a Garibaldi; erano quindi unitari deliberati con tendenza al repubblicanismo, ma non lauto che esso potesse nuocere all’unità di un’Italia anche monarchicamente costituita.

XXI

Questa parte che in fondo era buona guasta vasi per le alleanze;—pur di prevalere, pur d’ingrossarsi, pur di vincer nella lotta, qualunque ribaldo si presentasse con un cencio di camicia rossa, con un grido democratico, era sicuro di ricevere l'accollade fraternelle, si numeravano i torti del governo con insano furore, si concitavano le plebi, si promuoveva, non il culto, ma l’idolatria per Garibaldi; erano tutti vittime, tutti martiri, che in nome della libertà, della dignità, della legalità offesa dal governo d’Italia gridavano a tutta gola che si era peggio di prima.

Vi fu bene qualche egregio nucleo tra essi che si accorgea del mal tiro, che vedeva le conseguenze di questa ultra democratica opera di demolizione; ma la piena lo travolgeva appena cercasse di arrestarsi. Quando poi ebbe forza abbastanza per chiedere ed ottenere la epurazione del partito, era già troppo tardi, la mala setta avea preso il sopravvento, e lo spirito delle masse era stato pervertito.

Nel giorno della ribellione questo nucleo di onesti, che tanto amò e tanto sofferse pel paese, che tanto e sì strenuamente combatté a favor delle masse, fu il primo ad esser notato nelle liste di proscrizione.

XXII

Più pericoloso, perché più avveduto, era un altro centro di opposizione: gli autonomisti.

Voleano a bella prima la Sicilia del 1812 e del 48 colla lega. — Spinti dai tempi fecero un passo avanti e chiesero unione e non unità; poi bisognò che anche all'unità si acconciassero, ma con certe restrizioni che avrebbero costituito una federazione bell'e buona. Il sistema regionale del Minghetti al suo apparire parve loro un’irrisione, poi, in mancanza di meglio lo accettarono — ci correggiamo — lo subirono, per ripianger sempre (a seconda degli umori e dell’impero che esercitava sulle loro menti il sentimento dell’epoca) la federazione, l’unione, e l’assoluta indipendenza.

Però, contrariamente agli autonomisti dell’Italia continentale, i nostri — parliamo di quelli che davano tuono ed autorità al partito — aborrivano da' vecchi tiranni ed eran liberali.

Questo giudizio parrà troppo mite nella presente concitazione degli animi, ma noi scriviamo la storia, senza concitazione nervosa, né intendiamo di servire a nessun partito.

Erano liberali ed antiborbonici, anzi per questi principii aveano sofferto, persecuzioni, perdita d’impieghi, di sostanza ed esilii.

Questo stesso però li rese tanto più pericolosi, imperocché chi propinava, senza addarsene, il veleno, fossero in generale uomini di reputazione meritata ed accetti al paese; —non dubitiamo di affermare che gran parte dei presenti danni sia fattura di essi.

Il partito democratico, in mezzo ai suoi furori, avea sempre il quarto d’ora buono; esaltavasi al bene, rattristavasi al male, credeva alla patria ed alla libertà: esuberante in tutto. L’autonomista invece ebbe sempre sdegni e malumori; incapato nella sua idea, le venture o i danni del paese vedeva a traverso il prisma di un gretto programma; nulla amava, a nulla credeva.

Palermo prima, poi la Sicilia erano il sogno dorato dei suoi pensieri; l’Italia veniva appresso ed a gran distanza, pallidamente adombrata in un concetto tisico e muto di qualsiasi fede — se avesse potuto, nel concetto del sicilianismo avrebbe affogato mille Italie.

XXIII

Costoro faceano l’opposizione appoggiandosi precipuamente alle albagie municipali, tanto radicate nel nostro popolo, ed a quel cumulo d’interessi lesi, che qualsiasi rivoluzione — e questa sopratutto — si traggo dietro. Però in omaggio della corrente—davvero o per finta — erano garibaldini anch’essi, né sdegnavano l’alleanza della democrazia, né questa sgradivate; — turpe connubio per cui fur visti, tendenti ad unico scopo di distruzione e di discredito, uomini fra le cui idee politiche si frapponeva un abisso.

XXIV

Agli autonomisti faceva codazzo, mascherata anch'essa di liberale e garibaldina, la schiera burocratica che avea sofferto dell’ultimo rivolgimento, tutte le brutture del governo borbonico, tutti quelli che nel rinnovamento dell'amministrazione comunale avean visto chiudersi in faccia le porte del Municipio, e i clericali — Imperocché l’autonomista o per convinzione o per interesse sia clericale.

Però, questo partito sì fatale alla patria, evitò sempre di ammetter nelle sue file e di farsi fiancheggiare dal malandrinismo. Qui le fedi di perquisizione erano nette.

XXV

Tutti costoro, vizio e virtù, oro e melma, congiuravano a forze unite contro il governo d'Italia, e contro i moderali che lo sostenevano, lavorando a tutta possa, inconsci forse del male che facevano, per far cadere l’autorità e le istituzioni sotto il peso del più basso ed incurabile discredito—I tristi pigliavano rimbeccata, usufruattuavano il loro credito,cementavano o svisavano le loro idee, e poi opravan da sé — Insinuarsi nelle masse ignoranti colla stampa e colla parola, servirsi del confessionile e del pergamo, della taverna e dalla piazza per bandire massime di pervertimento sociale; calunniare ove non potessero colle armi della verità combattere il nuovo ordine di cose, non vi fu arte non vi fu turpitudine a cui non ricorsero; — gl’incerti, gl’ignoranti vincevano coll’autorità di un nome rispettabile, ed ove alcuno esitasse appellavansi alla testimonianza di tutti i giornali di entrambi i partiti, che a voce unanime gridavano il crucifìgge.

XXVI

Il governo lasciavali fare; i moderati, fiacchi e snervati, non davano segno di vita che mercé di un solo giornale che ebbe il coraggio di parlar sempre, di parlar forte, tenendo alta la bandiera dell'autorità e del governo italiano, e cercando con ogni cura di molcire quelle piaghe che altri adopravasi ad esacerbare.

Era la voce nel deserto.

Vi erano bensì, e molti, che ne dividevano le idee, che si informavano al suo concetto politico, ma ben pochi eran coloro che osavan difenderlo coll’efficacia della parola e coll’energia delle opere — In politica vi fu la mafia e Temerli come vi era in malandrineria; né furon pochi quelli che se ne lasciarono imporre—Moderali, per non compromettersi permisero che l’acqua corresse alla china; moderati, nascosero la loro fede come se fosse un delitto, di modo che la temperanza in politica divenne una religione professata di nascosto, come la religione cristiana professavasi nelle catacombe ai tempi della persecuzione.

XXVI

Per questo nacque e si dilatò una crittogama giornalistica non sappiamo se più virulenta o ridicola, essendo provato che quanto più fiera e sfrenata era l’opposizione altrettanto maggiore il guadagno degli intraprenditori — Così l'avventatezza divenne anche un mestiere, ed il giornale una speculazione.

XXVI

I. E il governo lasciava fare, e i liberali democratici onesti, che finalmente si avvidero a che approdava la cosa, ne rimasero anch’essi sgomenti.

Aveano con tanto impeto, con tanta convinzione predicato che si era peggio di prima, che quando dissero la libertà esser rimedio a qualunque male, e a petto del governo borbonico un paradiso terrestre il governo italiano, ne ebbero l'onta e le fischiate. Sei anni di lavoro avean portato i lor frutti.

XXVII

I. Su questo incendio soffiavano i clericali minacciati sempre, e sempre balordamente conservati dal governo italiano — Le maschere andavan cadendo, le cose chiamavansi del loro nome.

Il partito borbonico clericale, che si era mantenuto allo stato di mito fece la sua solenne comparsa e s’intronizzò offici almente il giorno in cui i liberali vollero in un pubblico meeting protestare contro le corporazioni religiose ed acclamare alla loro soppressione.

XXVIII

Quel giorno, le parti furono nettamente designate; da un lato stettero i liberali di qualunque tinta, dall’altro tutti i reazionari, mentre la quistione dell'uso da farsi dei beni diede origine ai neutrali: la peggior peste del mondo. Imperciocché in politica non vi sia più pericolosa generazione di uomini de' neutrali, ove non sia quella degli eclettici e di cinici.

Il giorno del meeting chi noi rammenta? — sbucato non si sa donde, si versò in piazza tutto quel fecciume che non si vede se non nelle grandi occasioni del disordine, e dell’anarchia;— gridavano viva la religione, viva la Sicilia; erano ordinati, erano inreggimentati, e pagati. Questa marmaglia si rivide all’epoca dell’abortito tentativo di Badia, si rivide ancora nei giorni luttuosi che formano l’argomento di questo libro.

Palermo avea visto gli accoltellatori ad un franco al giorno; Palermo vide i gridatori clericali ad un franco al giorno, Palermo esce ora, sanguinosa e rotta, dalle mani dei saccheggiatori ed omicidi repubblicani ad un franco al giorno.

Ecco l’assisa del delitto; non può dirsi che costi caro.

XXX

E chi pagava erano i reazionari ed i frati, e su chi fondavano era quella plebe al cui beneficio tutte le classi della società onesta si sono con ogni cura ed affetto sacrate. Plebe in tutti i modi avvelenata e cieca della mente, baldanzosa ed insana, la quale ove non potesse combattere tra la malandrineria assoldata le tenne bruttamente il sacco, e le batté furiosamente le mani.

Eravamo peggio di prima!

XXXI

L’attentato di Badia segna il prodromo della ribellione del 1866. — Ma al tempo dell'attentato di Badia la somma del governo civile era in mano del Marchese Gualterio, e quella del governo militare in mano del Medici.

Uomini della rivoluzione, essi comprendevano la rivoluzione. Benché turpe, insensata, ridicola ed impossibile,. essi — per la conoscenza che aveano dei luoghi e dell'indole delle masse — vi credettero, e questa loro credenza salvò il paese — Dicea il Marchese Gualterio, della cui maschia e sapiente amministrazione durerà eterna la memoria in questo paese, che alle mene dei reazionari ed alle improntitudini delle plebi bisogna creder sempre. In questo, lo storico insigne sovveniva all'insigne uomo di Stato. Lo accusarono di esagerazione, i fatti gli detter ragione.

E in questa sua fede si mantenne così incrollabile, che visitatolo in Napoli, nel maggio dell’anno passato, lo scrittore delle presenti storie, questa ne ebbe parola di commiato:

Badate alla reazione!

Se Gualterio avesse dormito tranquilli i suoi sonni, se le forze di cui disponeva (e bisogna dire per debito di storia che disponeva di forze ragguardevoli che fecce difetto assoluto questa volta) le avesse lasciato a quartiere, se la G. Nazionale non avesse chiamato, ed il concorso dei cittadini respinto, il 14 maggio dell'anno 1865 non passava tranquillo.

Noi non possiamo dire qual frutto abbia ritratto il governo da quel tentativo abortito, questo però sappiamo che ad un anno di distanza, l’orribile attentato divenne possibile, e ciò ne induce a credere che le fila dalla orribile congiurazione sfuggissero alla vigilanza dell’autorità, alle investigazioni della giustizia; questo però sappiamo che molli implicati nel processo Badia, latitanti o per sentenza di giudice liberali, figuran adesso tra' caporioni della rivolta; e questo sappiamo finalmente che le bande sono state assoldale, e che dei capi qualcuno si è pubblicamente vantato, il 16 settembre altro noti esser che la continuazione del 14 maggio.

Mentirebbe chi dicesse che esso fu anche la continuazione delle pugnalazioni, della giornata del meeting, ed altro?

XXXII

La epurazione dei partito di azione onesto avea creato il nucleo del partito di azione disonesto; quello volea l’Italia e facea l’opposizione informandosi ai principii della legalità e della costituzione; questo non vedea altro scampo che nella violenza — Uno dei più feroci moventi era la vendetta; il primo exploit fu di fatti la pugnalazione del Perroni Paladini.

Il Perroni Paladini ama il partito, ama la democrazia, ama la rivoluzione, ma più di tutto l’Italia; ed in ogni occasione, gettata la penna del pubblicista avventato, si è stretto al governo contro la reazione e l’anarchia. Carattere onesto, egli non potea per nulla al mondo rimaner nella melma onde insozzavasi la sua parie; ne venne la scissione. Da essa nacquero due altre celebrità: quella dal Generale Corrao, e quella del Badia. — Corrao giacque proditoriamente ucciso da mano ignota, Badia volle ad ogni costo novità. La marmaglia dovea esser con lui;—terroni e il nucleo buono del partito di azione fu, peggio che i moderati, vituperato e bistrattato — Covarono aspre ire, feroci vendette.

XXXIII

Cagione e gravissima di malcontento — la maggiore forse— erano le misserrime condizioni in cui, più o meno, per quanti duraron i sei anni dalla rivoluzione, era caduta la pubblica sicurezza — Il paese erasi sobbarcato ai più gran sagrificii, di nuovi e pesantissimi balzelli era stato aggravato, i suoi figli avea dato all'esercito, a tutti i bisogni dello Stato erasi con grandissimo affetto sottoposto; chiedeva invece un poco di sicurezza: la libertà della agricoltura e dei commerci, l’incolumità della vita e delle sostanze, la protezione contro le prepotenze dell'elemento malandrinesco che pesava — orribile incubo — su tutto l’organismo sociale —

Il governo non seppe dargliela per ragioni che diremo poi, e di cui non è esso solo responsabile; ma il fatto doloroso esisteva, ed esso bastava ad alienargli gli animi, specialmente di tutti gli agricoltori e delle popolazioni rurali.

XXXIV

La venuta fra noi del Commendatore Torelli come Prefetto coincise colla guerra dell'Indipendenza —

A quel tempo — benché durassero ancora gli effetti salutari dell’amministrazione del Gualterio — la provincia era ancora gremita da una popolazione di malandrini: amnistiali del 1848, amnistiati del 1860, renitenti di leva e disertori, accresciuti dalla chiamata sotto le bandiere di nuove leve e categorie; essi soli sarebbero stati quanto le cavallette anche senza il rinforzo dei dilettanti reazionari; — la mancanza della truppa, accorrente sul continente per le esigenze della guerra, rendevali più baldanzosi.

Imperava su questa ciurmaglia e sulle plebi, abrutite, pervertite, e ignoranti, la mala setta che avea già organizzato la forza del disordine, proteggendone la strategia, dando la parola d’ordine e i danari — Tutto era preparato, né si aspettava che l’occasione ad insorgere.

Piano della reazione dovea esser queste, di profittare, cioè, di un possibile rovescio delle armi nostre o anche del prolungarsi della guerra, per creare una potente diversione nell’isola o almeno nella provincia; il governo, colla sua fidanza aiutavali; la plebaglia e i malcontenti avrebbersi senza dubbio unito ad un moto qualunque; aiuti di reazionari esterni erano largamente promessi, e da cosa nascerebbe cosa: Ecco il loro programma.

La pronta e inattesa conchiusione della pace ne sconcertò i piani, tanto che all'ultim'ora i capi si tirarono indietro, e i più compromessi e fidenti furon obbligati a venir fuori con una rivoluzione anonima e con una bandiera che suonava menzogna.

XXXV

Ma se illudevasi il governo, il paese non si lasciava cosi di leggieri cullare. — Domandavansi per ogni dove provvedimenti e soldati, ma né soldati né provvedimenti ottenevansi.

Il capo della polizia si era incaponito nella convinzione che qualunque moto in Palermo fosse assolutamente impossibile, e questa convinzione con ogni arte, anche men buona, cercava di trasfondere nel capo della provincia.

Le bande ingrossavansi ne dintorni di Palermo, le vetture corriere erano di preferenza assalite, incendi destavansi quinci e quindi ne vari quartieri della città, squadre di due e trecent’uomini alla Pizzuta, a Montagna di Cane segnalavansi; aveano già una divisa, una bandiera rossa, un grido di guerra repubblicano; — un’ansia, un malessere, un’agitazione, un fremito forieri di tempesta spandevansi per la città commossa, atterrita, o sperante; soldati e carabinieri fucilavansi proditoriamente su per gli stradali e pe’ monti, proclami repubblicano-religiosi affiggevansi per le cantonate, mandavansi a domicilio, consegnavate mano a mano per le contrade; e il capo della polizia sorrideva, chiamavali esagerati, restringevasi nel suo stolido isolamento.

Invece ispiratasi ai tristi ed ai reazionari che accerchiavanlo, che eran divenuti di casa nell'ufficio del questore, e lo barcamenavano in un lago di olio, facendogli credere, il dabben uomo, che mene de' suoi nemici personali per nuocergli fossero tutti gli allarmi di cui era preda il paese.

La sicurezza dell'autorità di polizia avea pur qualche peso in qualche ordine della cittadinanza; — un giornale ricantava ogni giorno le lodi del Pinna, e si avventava furibondo contro chi osasse metterlo in guardia. La fiducia raggiunse le proporzioni della cecità — Per nostra e loro comune sventura il contagio attaccossi a tutte le autorità politiche, militari e giudiziarie della provincia.

XXXVII

Ed erano così convinte in questa loro persuasione che parea proprio facessero a posta per rendersi insensibili all’evidenza; aveano gli occhi e non vedeano, aveano le orecchie e non sentivano. Che più? Gli stessi agenti della polizia che la verità esponevano funzionari, magistrati ed amici che delle condizioni del paese muovevan lamento, venivano o a rassicurarsi confortati, o tal volta, come propagatori di esagerazioni e di ubbie garriti.

XXXVIII

Ciò non vuol significare che delle condizioni della pubblica sicurezza nella sua provincia non si preoccupasse, come di importantissima e vitale cosa, il Torelli. Che anzi questo era primissimo de' suoi pensieri, e con affetto pari al senno vi dedicava la mente ed il cuore.

In una relazione letta al Consiglio provinciale, e poco prima che scoppiassero i torbidi di cui è argomento, egli non dissimulava affatto le pessime condizioni in cui trovatasi la pubblica sicurezza, né il male sotto il velame di frasi ufficiali, buone a nulla, copriva.

La paurosa recrudescenza del malandrinismo attribuiva il Torelli a tre cause: la mancanza de' soldati, l’accrescimento de' renitenti di leva e disertori, la quasi assoluta sospensione de' pubblici lavori, per cui meglio di 5000 operai eran rimasti senza risorse.

È pregio dell’opera riportare qualche brano della sudetta relazione. —Esposte prima le condizioni della provincia e il mancato concorso de' cittadini all’opera della repressione, il Prefetto così continua:

«In questo stato di cose io non poteva farmi illusioni, e per questo giudicai mio dovere trasfondere la mia convinzione in tutte le autorità sopratutto municipali, annunciando ben chiaramente, che quando lo Stato avea bisogno della truppa, la sicurezza interna doveva venir assunta dai cittadini ed affidata alla Guardia nazionale—Pur troppo, questa non esisteva che di nome, ma nella realtà pochissimi erano i comuni che la possedevano bene organizzata. Era tuttavia la principale risorsa che rimaneva. Eccitare i Comuni ad organizzarla, e mostrarne loro la necessità per la loro sicurezza in pari tempo che si toglieva ogni illusione di fondar speranze sulla truppa, fu un primo passo che giudicai dover fare, ed in modo che non fossero possibili equivoci—Con una circolare del 28 maggio diretta ai Sindaci raccomandai loro che organizzassero bene la Guardia Nazionale, perché il concorso sul quale non si aveva piùdiritto di contare era quello della truppa....

«Un altro provvedimento lo ravvisai nella creazione della Guardia Campestri, già accordata in massima dal Ministero, e che alcuni Sindaci mi consigliavano come opportunissima. Con circolare dell’8 giugno invitava i Comuni ad attivare pure quella forza, dichiarando anche in quella, come simile provvedimento, utile in tutti i tempi, doterà tornare utilissimo in quei momenti in cui le forze militari della nazione lasciano di concorrere ai servizi interni del regno, per concentrarsi nelle provinciedell'alta e media Italia onde essere pronti a combattere le ultime battaglie dell'unità e dell'indipendenza.

«In ogni occasione, diretta od indiretta, io non mancai giammai di ricordare il dovere della propria difesa

«Come gradatamente cresceva l’elemento del disordine e si mostravano gli effetti, avrebbero dovuto crescere ed organizzarsi le forze dei Comuni, richieste con tante ripetute sollecitazioni; ma, salvo lodevolissime eccezioni, pur troppo questa forza non fu pari al bisogno

«Condizione più grave era difficile l’immaginare; la forza era evidentemente impari all’assunto. In tali condizioni feci, intorno ai primi di luglio, un nuovo tentativo per avere il concorso dei Comuni. Dopo aver riunito quanta forza aveva di carabinieri, soldati, e guardie di pubblica sicurezza per formare colonne mobili, sotto un solo capo, ed ottenuto dalla vostra Deputazione Provinciale un soprassoldo giornaliero, onde poterle ristorare, destinate come erano a percorrere luoghi inospiti e sotto il cocente sole, di luglio ed agosto: si combinarono perlustrazioni in ogni senso per quanto era possibile con quel numero; le guardie nazionali dovevano coadiuvare: alcune, quasi sempre le medesime, lo fecero, ma il maggior numero non rispose all’appello. La forza reale concentrala nei carabinieri, nei soldati dei quinti battaglioni e nelle guardie di pubblica sicurezza sostenne incredibili fatiche, ottenne alcuni anche importanti successi, ma contò non poche vittime e popolò gli ospedali, mentre invece il malandrinaggio cresceva. Mi rivolsi di nuovo al ministero che mandò altra forza tolta dalle altre parti dell'isola che valse a riparare il vuoto delle sottrazioni larghe che gli stenti mi facevano nella forza attiva, che fu di una abnegazione esemplare e lo prova il numero delle vittime.

«Ma l’enorme sproporzione indicata sussisteva sempre. Dopo la metà d’agosto alcuni Sindaci dei due circondari di Termini e Cefalù ed il signor Ispettore mi fecero la proposta di tentare l'organizzazione di una Guardia Nazionale a cavallo a spesa dei Comuni, esperimento che aveva già fatto buona prova a Caccama. Questo esperimento doveva attivarsi col 1° settembre. Accettai di buon grado l'offerta e il 21 di agosto andai io stesso a Termini ove si gettarono le basi e furono consegnate in un processo verbale sottoscritto dagl’intervenuti in buon numero, ma è inutile che mi dilunghi a quello dacché fra i promotori vi ebbero Consiglieri provinciali e tutti già ne siete edotti. Egual misura venne presa ier l’altro per il Circondario di Palermo e Corleone sempre per ispontanea iniziativa dei Sindaci e proprietari. Una forza tolta da elemento locali, che ha pratica delle persone e de' luoghi, racchiude duo preziose qualità per la riescita, altre cause potranno impedirla o paralizzarla, ma per un’autorità che nella mancanza di quelle nozioni locali, per parte della forza della quale dispone, deve avvisare uno de' più potenti ostacoli, alla riescita, non poteva essere che gradita quest’offerta di concorso. Ottimo fu l’effetto del solo annunzio; la buona disposizione dei principali fra i proprietari, è un fatto che rianima lo spirito pubblico. Alcuni successi ottenuti, verso la fine del mese, dalla forza pubblica, e l'annunzio di nuova truppa che si manda dal continente lo hanno ancor più rafforzato. Il generale di divisione Righini si dichiarò disposto ad entrar esso in campagna contro i malandrini, fosse anche solo colla metà delle forze che furono impiegate lo scorso anno, purché vi sia l’aiuto del paese, sotto qualsiasi forma: aiuto tanto più indispensabile in quanto che la leva 1846 darà essa pure il suo contingente ai malandrini, contingente non ancora entrato in azione, non pertanto memorabile quale si fu par tante cause, anche quel periodo ha il suo lato buono, il suo ricordo grato per la sicurezza pubblica, ed è la stessa città di Palermo. Per oltre tre mesi a partire dal maggio La sua sicurezza fu completa, non fu turbata da alcun grave delitto e ciò nell’epoca la più difficile...

«Se non che, egli importa per tutti, sia m città sia in provincia che la tranquillità si stabilisca ovunque; ma possiamo noi credere che anche con sforzi straordinari, fatti più o meno, come noi passali anni, si otterrà una quiete stabile quale ha d’uopo  il paese per rimettersi? E quello un rimedio efficace al primo dei mali che affligge questa Provincia? Io non credo.

«Incominciamo a chiedere se è vero che con quegli sforzi straordinari che si sono fatti nei 1863 e nello scorso anno siasi ristabilita una tranquillità, una sicurezza nel senso ricevuto ovunque d’un paese sicuro e tranquillo? La tabella qui riportata estratta dai rapporti ufficiali trasmessi lo scorso anno dall’arma dei Reali Carabinieri e che comprende i delitti di omicidio e grassazione nei mesi di aprile, maggio e giugno cioè quando la provincia era tutta occupata da truppa, posta a confronto di egual epoca nel corrente anno quando veniva tolta, ed aumentati di tanto i renitenti e disertori, ve lo dica.

«Questo confronto che del resto non fa che constatare un fatto, non diminuisce per nulla il merito reale dei magistrati e dei Comandanti delle forze, che combattendo i malandrini ne ridussero il numero e crearono uno stato relativo di maggior sicurezza, il che è già molto per una popolazione cotanto travagliata dal malandrinaggio; mi in cospetto a quella cifre, a quei confronti si può forse asserire che regni versi sicurezza e tranquillità laddove in tre mesi avvengono 48 omicidi e 70 grassazioni? Quelle cifre non vi dimostrano invece che non vi ha energia che basti per vincere quel mal che havvi qualche causa che paralizzi il successo degli sforzi i più risoluti? Il fatto è precisamene cosi e non conviene illudersi ma chiamarlo anch'esso pel suo nome. Quando si parla del governo borbonico è unanime il giudizio che fu il governo il più demoralizza torà che forse esistesse, e su di lui dovrebbesi far ricadere la vera colpa; ma quando si viene alle conseguenze, si rinnegano, come fossero colpe da attribuirsi alla popolazione che invece le subì. La Sicilia presenta tante individualità così elevate in tutti i rami, che sotto tale rapporto non ha da invidiare alle altre parti d’Italia: sono forze che sfuggirono all’azione letale del governo, si svilupparono a fronte d'ogni ostacolo, ma le masse oppresse da secoli hanno subita la triste influenza, e cosi noi abbiamo una popolazione per la quale è delitto l'aiutare l’autorità nello scoprire i delinquenti, abbiamo radicata l’opinione che passa come infame colui che si presta a ciò fare, abbiamo per contrario che non solo non è un male, ma un dovere l’aiutare a sottrarsi alla giustizia chiunque viene ricercalo, abbiamo che ben pochi hanno il coraggio di denunciare e talvolta si rifiutano i più interessati a farlo. È questo l'incaglio terribile che paralizza nella grandissima parte gli sforzi delle autorità. Nei quattro mesi decorsi n’ebbi quasi quotidianamente la più dolorosa prova, ed alcune toccano all'Incredibile.
«È questa la lotta che esaurisce e stanca e reca la sfiducia in chi la deve sostenere; quasi sempre quella poca forza che lottò contro tanti malandrini ritornata affranta dalle fatiche narrava come fosse presso a raggiungerli, ma che aiutati non già solo da manutengoli loro compagni, ma dalle popolazioni, trovassero modo di sottrarsi; eppure sono le popolazioni stesse le prime a subire i tristi effetti, sono esse pure che invocano sicurezza, e mentre nel fatto fuorviano l'autorità quando ricerca i malandrini, proteggono questi nelle lotte e si negano a deporre contro di loro nei processi accagionando il governo di non saper procurare la sicurezza. non v’ha dubbio che vi sono eccezioni e si faranno sempre più numerose, ma il fatto dominante è quello; lasciale che tutti ripetiamo che queste sono appunto le conseguenze di quel secolare triste governo che alterò, nel concetto delle popolazioni, il vero senso della giustizia, talché ne venne perfino il punto d’onore di non mai palesar nulla a chi è chiamato ad amministrarla, eia falsa compassione per chi è ricercalo dalla forza pubblica, ma non neghiamo questi fatti, che sono fra le principali cause che turbano la sicurezza pubblica, procurando l’impunità ai malandrini. Senza giustizia non vi sarà mai sicurezza, ma la giustizia non può agire senza prove.

Il rifiutarsi a darle è renderla difficile se non impossibile, è un ridurre l’autorità all’impotenza e spingerla poi a sortir dalla legge. Prevenni che conveniva avere il coraggio della verità e faceva appello al vostro, perché da uomini pratici ed amanti il vostro paese voleste studiare le condizioni e suggerirne i rimedii, perché in parte sono condizioni speciali proprie ai luoghi, alle popolazioni, e nessuno può essere miglior giudice di chi è in grado di meglio conoscerle.

«Finora non si è preso che il partito di occupare, diremo, militarmente il paese, e data l’urgenza è il migliore; ma potete voi ammettere che si chiami slabbro la sicurezza? È rimedio momentaneo ed esso pure non completo, e la tabella citata ve lo prova; d'altronde due volte si è già ripetuto, e sempre s’avverò, che abbandonalo il paese dalle truppe, i malandrini ripresero a molestar come prima; è un’altalena che non può soddisfare né il vostro paese, né lo Stato: la sicurezza che procura è effimera, mentre poi costa cara assai per sacrifici di uomini e di danaro. Convieni: mutar via; un principio che parmi dovrebbe avere innegabili buoni effetti è quello di chiamar all'opera la forza locale, valersi di elementi dei luoghi; la sua organizzazione stabile adottata al servizio che si richiede è forse il perno del quesito; per questo a me parve si pratica la proposta dei sindaci e proprietari dianzi accennata. Voi col vostro senno e colla vostra pratica la studierete, ed io l’accennai di preferenza solo perché d’essa partì in realtà da' vostri colleghi; del resto illimitato è il vostro campo. Quanto io chieggo alla vostra compiacenza si è, che vogliate nominare una commissione nel vostro seno che studii questa importantissima questione, lo gli somministrerò tutti gli elementi che mi sarà' possibile, e nutro fiducia che sortiranno proposte pratiche. Certo non sarà dato cambiar lo stato delle cose in brevissimo tempo, non si distruggono sì presto effetti prodotti da un passato che ha durato secoli, ma entrati nella giusta via, il miglioramento procederà certo celere, aiutato da tanti mezzi la cui efficacia è potente, come l'istruzione le strade ed altre istituzioni che voi promovete instancabili da sci anni come ne fa Tede il vostro bilancio.»

XXXIX

Il discorso venne vivamente applaudito del Consiglio, il quale elesse una commissione di 7 membri per occuparsi delle proposte e riferire.

Il Torelli, rivolgendosi ai rappresentanti della Provincia, avea provato la ferma risoluzione di fondare la pubblica sicurezza sui lumi e sul concorso dell’elemento locale; — la sua non era una vana parola.

Però, dalla relazione istessa si desume come gli ardimenti della reazione non entrassero per nulla negli apprezzamenti dell'autorità; la quale, dello stato del paese non vedea se non che quella sola parte che ha tratto alla pubblica sicurezza.

Non per questo stancavasi il Torelli di richiedere la forza militare; ma essa era concessa a spilluzzico, di modo, che sciolto il battaglione mobile della G. N., al momento della ribellione non si trovavano in Palermo più di 2000 uomini di vario armi, compreso un reggimento provvisorio di granatieri, composto o di reclute è di seconde categorie, cd incompleto nei quadri dei suoi uffiziali.

Il governo centrale trovava meglio di abbandonare Palermo in mano del disordine, ma gli costò caro.

È opinione generale di quanti furon testimoni della lotta che un paio di battaglioni di bersaglieri fossero più che sufficienti a spegnere la ribellione in sul nascere — L’indomani lo sforzo dovea essere immerso, e 40 mila uomini si credettero appena sufficienti.

XL

Però a discarico del governo centrale — non già come argomento ad assolvere ma ad attenuare le colpa — lo storico è astretto a dire due cose.

La prima si è che le giuste esigenze del paese in fatto di pubblica salute aveano obbligato il ministro dell'interno ad imporre qui una contumacia per tutte le provenienze dal littorale italiano, ciò che rendeva difficile e dispendioso l’invio della truppa. Secondo, che queste autorità, giudicando la posizione come una semplice anormalità della pubblica sicurezza, chiedeano bensì ausilio di soldati come misura urgentissima di polizia, ma non come indispensabile alla pace interna ed alla sicurezza dello Stato.

Se la polizia, ingannando prima se stessa, non avesse neutralizzato le ottime intenzioni del Prefetto, se il governo avesse potuto sapere di che effettivamente trattavasi, in tal caso l'ausilio della truppa non avrebbe certamente mancato. Ma era scritto altrimenti — Di questo solo non sappiamo capacitarci che un battaglione di Bersaglieri, il quale avea scontalo—a quanto affermasi — la contumacia a Nisida, e che era stato promesso a questo Prefetto, abbiasi invece mandato in Calabria, in nome di non sappiamo quali emergenze superiori alle nostre.

XLI

Ecco le condizioni del paese la vigilia del 16 settembre — La nuova che l’alba dell’indomani dovesse esser foriera di qualche serio avvenimento, era sparsa e creduta fra io plebi. Il governo, come si disse, non vi prestava alcun credito, pochissimo la borghesia, dubitando e quello e questa non fosse la ripetizione di quelle voci che al quattro ed all’otto settembre si erano senza alcun seguito, ma con uguale insistenza, divulgate per la città.

Però, questa volta l’allarme avea raggiunto più forti proporzioni; parlavasi di masnade armate già appostate nei contorni dalla città, parlavasi di insorti nascosti già nell’interno, di depositi d’armi, di concerti presi; — i mercati presentavano un pauroso affollamento di cittadini accorrenti ad approvigionarsi; il pane e le paste disputavansi con incredibil pressa; accanto ai forni stanziava da per tutto una calca compatta, gridavasi, stringevasi, spesso anche disputavasi e venivasi alle mani per ottenere una forma di pane.

La paura è il peggior dei contagi; quelli che di giorno né credevano né temevano, cominciarono e a temere ed a credere appena fu notte; e tutti a versarsi nelle vie, a chieder notizie, ad esagerarle, ad inventarle se occorresse; vi fu chi cercò rifugio fuor delle sue case che credea troppo esposte, vi fu chi dalla campagna ricoverò in città, e viceversa; alcuni non si credetter sicuri se non a bordo di qualche legno.

Parea il finimondo.

XLII

Frattanto i cittadini, cui la posizione sociale consentivate, correano al Palazzo o alla Questura, dell'attitudine del paese ragguagliavano il governo, le informazioni avute comunicavano: non esser tutto sdragionevele allarme; tentarsi veramente qualche colpo disperato, effettiva la presenza di malfattori armati nei dintorni, brutti ceffi essersi visti, brutti propositi ascoltati in città, dessero qualche provvedimento, i posti rinforzassero, le porte di militari guernissero, la chiamata della G. Nazionale battessero.

Non erano ascoltati — Il Sindaco Rudinì, che nulla avea lasciato intentalo per iscongiurare il pericolo, sia scrivendo al ministero, sia caldeggiando il governo locale a destarsi, avea la sera innanzi lasciato il palazzo Municipale, di questo solo sicuro, che ad ogni evento avrebbe fatto il suo dovere al suo posto— Come abbia attenuto, con qual coraggio, con qual perseveranza, con quale abnegazione, con quale eroismo, Palermo lo sa.

Il Generale Camozzi, Comandante Generale della milizia cittadina, non credeva di sicuro all’orribile attentato che preparavasi, ma né anche discredeva al punto che lutto ciò che vedeva ed udiva non avesse potenza di fare una grandissima impressione sul suo animo. — E poi, a che nuocerebbe il porsi in guardia? Corse quindi anch'esso a sera fatta al Palazzo, narrò ciò che gli era stato dato di udire e di vedere; animata da ottime disposizioni la G. Nazionale, i militi e gli ufficiali più animosi e bene intenzionali recarsi spontanei ai quartieri e al Comando in cerca di ordini; si profittasse del momento ancora opportuno, battessesi la chiamata; non su tutta la milizia fare assegnamento il Comando, ma un buon nucleo promettere ad ogni evento, deciso a battersi ed operare colla truppa.

Non ebbe che la solita risposta; rimandasse i volenterosi a dormire a casa, lui stesso andasse tranquillamente a dormire.

Era il sonno dei morti!

XXIII

Celebravasi intanto a Morreale—fucina di tutta la congiurazione — il prossimo avvenimento della repubblica con fuochi artificiali, mortaretti, e sparo di fucileria; da Porta Nuova, nel silenzio della notte, ascoltavansi le detonazioni, vedevansi i lampi — Anche nella direzione di Montecuccio, dopo la mezza notte, segnalavasi fuoco di moschetteria — E la fidanza durava!

XLIV

Siamo all’alba del 16; — le fantasmagorie, le illusioni, le esagerazioni eransi cambiate in realtà — Le bande dei rivoltosi già erano apparse e combattevano proprio alle porte della città, parecchi armati già percorrevano nell’interno; aveano una bandiera rossa, tiravan fucilate, ed armi e munizioni e soccorso di popolazioni chiedevano ed anche ottenevano nelle contrade più interne della città.

XLV

Stavano a presidio del Palazzo reale, di truppe disponibili in tutto 1600 soldati, e un nucleo di carabinieri; nuovi alle armi i soldati, animosi, ma pochi i R. Carabinieri. Al carcere e ai Quattro, Venti non erano più di 350; 200 circa al Castello, una scarsa compagnia alle finanze., una ventina d’uomini alla Piazza — Con queste gramo truppe, scarse di munizioni e di vettovaglie, divise fra loro, senza una base di operazione, senza speranza di pronto soccorso, doveasi tener lesta alla rivolta che ingrossava con paurose proporzioni.

XXVI

Il primo conflitto con la forza pubblica avvenne— per quanto sappiamo—al piano dei Porrazzi. Avutone appena sentore, il Prefetto Torelli—che dal momento in cui comincia la lotta si distinguo per un coraggio ed una fermezza a tutta prova accorre in persona sul luogo, ma troppo tardi per vedere le orde ribelli, le quali eransi date a fuga precipitosa verso i giardini del Duca d’Orleans. Invece, con pietosa cura, raccoglie nel proprio legno duo carabinieri gravemente feriti, e questi manda all'ospedale, ed esso a piedi con tre soli uom ini di scorta si riconduce al Palazzo — La ribellione nella sua più laida forma, era già dentro della desolata città — I posti di Pubblica Sicurezza erano stati presi; delle Guardie, alcune in fuga, altre prigioniere, le più riconcentrantesi, al Municipio, al R. Palazzo, o nei quartieri della Guardia Nazionale.

I ribelli ingrossavansi, qualche morte deploravasi; la fiera avea già assaggiato il sangue.

XLVII

Torelli si reca al Municipio—Al Municipio raccoglievasi in quel momento il senno, la dignità, la virtù del paese. Sin dalle cinque del mattino il Sindaco era al suo posto; con esso stava in permanenza la Giunta, il Comandante della G. Nazionale, il Segretario del Comune, parecchi impiegati ed egregi cittadini ai quali parlava imperiosa la voce del dovere — La prova della loro virtù non dovea farsi aspettare — Un nucleo non numeroso d’insorti, attaccava i pochi militari (in tutto tre o quattro) che stavano a guardia dell'ufficio delle R. Poste, e dopo avere ucciso il caporale Comandante, che combatté e morì da eroe, e ferito due dei soldati, dirigevasi, imbaldanzito dalla vittoria, ad aggredire Io stesso palazzo di città — Il Sindaco, il generale Camozzi, e i pochi militi della G. Nazionale che lo presidiavano i cittadini ivi presenti si difesero valorosamente,, respinsero l'attacco; — l’osso era ancora troppo duro pei denti della reazione; gl’insorti si diressero altrove.

XLVIII

Però, la loro stessa audacia reclamava qualche provvedimento per assicurare la sede della Città. Un rinforzo di soldati fu richiesto ed ottenuto dal Generale Righini che ordinava in persona due compagnie di granatieri ai Quattro Cantoni; con una di queste, comandala dal Capitano Bruni—che poi si distinse tanto nella difesa del Municipio, che vi lasciò miseramente la vita—erasi provveduto al più urgente bisogno di quel posto così importante.

XLIX

La storia deve registrare i nomi di quei cittadini che accorsero al palazzo Municipale; abbiamo detto del Sindaco e del Generale Camozzi, giova adesso a testimonianza di elogio, enumerare: il Capitano di Stato Maggiore della G. N. cav. Rammacca, il capitano Giuseppe Vassallo e suo figlio, entrambi de' bersaglieri G. N., il Senatore Duca di Verdura, il Capitano Saraceno, gli Assessori Notarbartolo, Traina, Trigona, l'Avvocalo Albanese, il sig. Serra Caracciolo direttore dei ritmico del Popolo, tre fratelli Notarbartolo, il Colonnello Ispettore della G. Nazionale cavaliere Cappello, il sig. Luigi Corona, il prof. Tommasi, il barone Francesco Anca, il prof. Cannizzaro, il Capitano in aspettativa cavaliere Francesco Vassallo, il sig. Antonino Magliocco, il cav. Martino Bellrani Ispettore generale delle prigioni del Regno ((1)), il cav. De Maria Ispettore della forza attiva 'dei Dazii civici, il sig. Francesco Perrone Paladini, il sig. Salvatore Perrico-ne Amministratore dei Dazi, il sig. Antonino d'Onufrio segretario del Comune, il sig. Murena Consigliere della Corte di Appello, il cav. Carega Direttore delle Gabelle ((2)), ed altri di cui Io storico non rammenta i nomi, ma che dovrebber anch'essi esser tramandati ai nepoti.

L

Che avveniva intanto in città? Una compagnia di granatieri—capitano Cavigliolti — crasi per ordine del comando divisionale, dal Castello, dove era di guarnigione, trasferita per l’interno al R. Palazzo. — Accolta a fucilate per la via Cavour, combattendo valorosamente e superando ogni ostacolo, si era spinta colla perdita di cinque uomini sino al Monastero delle Stigmate. Arrestatasi alquanto innanzi al fuoco che partiva da quel luogo e dalle strade adiacenti, con uno slancio ammirabile erasi quindi cacciata al passo di corsa per la via Macqueda,e, dai Quattro Cantoni, incolume, pel Corso avea riparato a Palazzo. Questa compagnia, la vedremo sino al termine della lotta, sempre ai primi posti, prodigarsi per quella causa che avea giurato, e che con tanto valore, seppe difendere.

LI

Luogotenente Lamponi, Comandante dei R. Carabinieri, (Sezione Marina) dopo aver tutta la notte esplorato le adiacenze occidentali della città, saputo dei successi degli insorti all’interno, con quaranta carabinieri ed un drappello di granatieri (comandante Vigna) avea anch’esso riparato in cerca di ordini al Palazzo; — lo incaricarono di recare un piego al comando della truppa ai Quattro Venti, ed egli, in modo inverso, percorse l’istessa via che i granatieri del Castello avean battuto onde recarsi al quartier generale — Questa colonna è bersagliata lungo la via Macqueda, ma procede sempre, ora sparando, ora attaccando alla baionetta: alle Stigmate, al piano Ruggiero Settimo; — riuscì ad aprirsi il varco, compì la sua missione. — Di questa colonna, e del suo comandante non è facile ridire gli alti di valore e i servigi resi alla buona causa —

Per onore dell’esercito italiano, i fatti magnanimi, lo storico più che cercarli studiosamente, resta confuso e imbarazzato nello sceglierli.

LI

La ribellione ingrossavasi sempre—Noi torniamo al Municipio.

Falliti i tentativi di repressione fatti dalla truppa in città, venuta meno la speranza che la G. Nazionale, troppo tardi chiamala, accorresse ai quartieri, si ricorse ad un ultimo tentativo disperato»

Riunita a consulta la Giunta, il Sindaco, presente il Prefetto Torelli, propose che fatto un nucleo delle forze che starano al Palazzo di Città, armati i borghesi ivi convenuti, lui e il Prefetto alla testa, si Scendesse in piazza, si cercasse con un miracolo di ardimento di soffocar la ribellione pria che trascorresse la giornata—L’esperienza insegnava che l’indomani sarebbe troppo tardi.

Il paese buono—così orava il Sindaco—estraneo all’attentato; la vista delle primarie autorità alla testa della forza armata, forza armata essi stessi, sarà potente a sgominare i tristi a rianimare i buoni; dietro i passi dell’animosa colonna ti rovescerebbe tutta la G. Nazionale, tutta l’onesta cittadinanza; il sassolino, rotolando di balza in balza sulle vetta nevose, raggiunge al termine della sua corsa immense proporzioni; ci conforti l’esempio.

E così fu deliberato.

Il Sindaco e il Prefetto alla testa, la Giunta, e la cittadinanza raccolta al Palazzo, dietro; e quindi le G. Nazionali, i soldati, le guardie daziarie, le doganali e i pompieri.

Viva l’Italia, viva il re, viva la libertà: questo il grido di guerra—Vi fu un momento di speranza;—i destini della città pendevano da questo pugno di uomini di buona volontà.

LII

Per la via de Giudici dirigonsi al quartiere della Guardia Nazionale fai S. Anna; invitano i pochi militi che vi sono raccolti ad uscir della chiusa, a percorrere la città, adoprandosi a far sì che i loro compagni avesser agio di uscir delle case e congiungersi al Palazzo di Città; — da S. Anna per la via di S. Cecilia sbucano alla Fieravecchia.

Quartier generale di tutte le rivoluzioni, benché questa volta i capi del movimento avessero scelto altro luogo, (lo Spirito Santo) l’antica consuetudine avea fatto che in quel luogo si trovasse raccolto un nucleo d’insorgenti. — La Vista dalla forza e dell’autorità parve li sgominasse dappria; chiesero non si tirasse, promisero di non tirare; ma quando la colonna al passo di corsa, gittossi loro addosso, alcuni disarmando altri arrestando, i ribaldi apersero il fuoco dagli svolti delle cantonale—Al fuoco si rispose col fuoco; la colonna procedé innanzi risolutamente; gl’insorti si diedero a fuga precipitosa.

LIII

Quel primo vantaggio, l'applauso generale onde gli animosi difensori del paese venivano accolti dovunque, il batter delle mani, lo sventolar delle bandiere fecero sperare una vittoria completa ed incruenta. Se tutti in Palermo si fossero penetrati del sentimento del dovere, se i mali sovrastanti alla città avessero parlato più forte della comune paura, se il sassolino giungeva alle proporzioni del masso di neve, il successo della Fieravecchia decidea la sorte della giornata, né una masnada di ribaldi avrebbe potuto imprimere sulla nostra città quel marchio indelebile di vitupero, di essersi, cioè, per una settimana, lasciato dominare dalla marmaglia.

Invece, il magnanimo esempio trovò applauditori molti, imitatori rarissimi. —Metter fuori una bandiera, rammentare con un grido sterile e imbelle la patria, sventolare nell’aria, contaminata da tanto lezzo, i tre colori nazionali, questo parve alla fiacca e trepida cittadinanza il non plus ultra del civismo. Però che cosa potea questa effimera dimostrazione, in tanta distretta?—Era senza dubbio una protesta, ma, contro l'anarchia e il delitto, armati e insorgenti a' danni della società, è coll’armi e col coraggio che si protesta, non colle bandiere e coll’applauso. Sotto questo aspetto la città buona deve anche arrossire degli ardimenti malandrineschi.

LIV

In generale adunque la G. Nazionale restossene a casa, e la colonna, non potendo contare che su se stessa, proseguì ardimentosa in suo cammino—Dalla Fiera vecchia, per la via Tornieri e Pannieri, il battaglione sacro riuscì in piazza Caracciolo— Era già occupala dagli insorti, i quali l'accolsero a fucilale. La selvaggia provocazione ebbe condegna risposta per bocca de' moschetti; la colonna si avanzò alla bajonetta, rovesciossi sui ribelli che mal si sostennero dietro lo schermo delle cantonate, due ne uccisero, altri ne ferirono, il resto dileguaronsi per lo strade adiacenti — Il cencio rosso era stato vinto due volte.

LV

Dalla piazza Caracciolo, la colonna si diresse verso l’Olivella. In quel quartiere di G. Nazionale, dicevasi stanziasse un picciol numero di militi; erano isolati ed aveano potuto mantenere la posizione tenendosi alfa Ilo neutrali nella lotta che già fervea accesissima in quei dintorni; non sarebbe difficile che quel nucleo di forza si unisse a quella del Sindaco — Ignoriamo so tale speranza si traducesse in realtà, questo sappiamo, che quello del quartiere dell’Olivello fu ben misero soccorso—Da questo punto la posizione diventò anche più ardua.

LVI

La base di operazione degli insorti era, come si disse, allo Spirito Santo: località assai bene scelta, come quella che appoggiandosi alle piccole o tortuose vie del quartiere del Capo, potea difendersi colle barricate e coll'occupazione dei monasteri delle Stigmate, di S. Giuliano, di Santo Vito, e di S. Agostino:—il quadrilatero.

L'importanza del monastero delle Stigmate era poi immensa per gl'insorti, come quello che dominava porta Macqueda, dando il vantaggio a chi lo tenea di potere operare, tanto all'interno che all'esterno della città, dal punto più strategicamente vantaggioso.

I capi del movimento vi si afforzarono di buon mattino; alcuni anzi affermano che sin dalla notte precedente vi penetrassero dai giardini; ma intorno a ciò non sonvi notizie sicure; quello che possiam dire si è che il giorno 16, assai per tempo, le campane delle Stigmate suonavano a stormo.

Nè solo il monastero, ma lutte le vie adiacenti erano già popolate di armati, e questi aveano preso il posto per gli svolti della via Bara, dell'Orologio, di Giocatone, deliberati a contendere il passo alla colonna del Sindaco, e coprire la posizione di porta Macqueda. 

Da quelle vie partiva molto nutrita la fucilata; vi fu un momento di esitazione—-Non esitava però il Sindaco, il quale al gridò di viva l'Italia entrò pel primo nella via Orologio, e dietro, il Prefetto e gli altri, unitosi anche alla colonna l'Assessore Manfredi Lanza di Trabia,al quale era finalmente riuscito di venir fuori dal suo palazzo—Si procedeva innanzi; animosissimi i cittadini tentennante già la truppa (seconda categoria). Allo sbocco di via Macqueda una grandine di proiettili accoglie la colonna, due militi della G. Nazionale restano feriti, il professore Tommasi ha il cappello forato da una palla; la lotta diveniva troppo disuguale, e il panico si era impadronito de' sol dati; — fu mestieri retrocedere, e per la via S. Basilio, Finanze, e Corso Vittorio Emanuele, seguita sempre e preceduta dagli applausi che partivano dai balconi, dallo sventolar delle bandiere—inutil soccorso—la colonna si ricondusse al Municipio—Eravi già convenuto l’Assessore Scalia.

LVII

Intanto una barricala era sorta in via Macqueda, diretta ad assicurare la posizione delle Stigmate; — vi stava a guardia un discreto numero d’insorti, altri eransi appostali nella via Sant’Agoslino, Bandiera, ed altre adiacenti. — Da questi punti le squadre bersagliavano senza posa una compagnia di granatieri stancante ancora a' Quattro Cantoni, la quale rispondeva efficacemente; ma eia piuttosto strepito vano che combattimento effettivo. Girare gl’insorti alle spalle e prender di sbieco la barricata, sarebbe stato il miglior dei consigli — Il duca di Verdura, e il cav. Bellrani si offersero a guidare essi stessi, per diversi lati, la truppa al conquisto di quella barricala; però la consegna non permise all’ufficiale che comandava la compagnia di aderire alla proposta, e di mettere i suoi soldati a disposizione di persone che forse non conoscea.

Invece, dal quartier generale venne più tardi l’ordine si attaccasse, si espugnasse di fronte la barricata;—parea che disponessero d’immense forze e agguerrite; non pensavano che quelle poche reclute sulle quali dovea farsi assegnamento andavan con industre e pietosa cura risparmiate. E mosse di fatti il battaglione (maggiore Fiastri); ma, assalito da una grandine di palle dalla barricata e dalle vie adiacenti, fu astretto a ritirarsi disordinatamente dopo aver avuto un ufficiale e due soldati morti e parecchi feriti.

LVIII

Ad organizzar la difesa del palazzo comunale, affaticavasi intanto, con operosità e coraggio pari all’intelligenza, quel caldissimo patriota che è il cav. Francesco Vassallo de Paleoioghi, capitano del regio esercito in aspettativa—Guarnir di materasse i balconi, collocare le sentinelle, chiudere e asserragliare le porte, occupare i tetti, ogni argomento di offesa e di difesa apprestare; tutto questo il cav. Vassallo dispose con ammirevole sangue freddo. Animosi i difensori, balda e disciplinata la truppa, strenuissimo sopra tutto il suo capitano, se i viveri e le munizioni non avessero fatto difetto, se qualche soccorso avesse potuto giungere, se il capitano comandante non fosse caduto vittima del suo incredibil coraggio, il Palazzo del Comune non sarebbe venuto in mano della rivoluzione che ne fe’ aspro scempio — Ma volle altrimenti il destino — non anticipiamo.

LIX

Intanto il Sindaco, fallito il tentativo di comprimere la rivolta coll’ardimento e coll’autorità della prima sortita, riuniva a consulta, oltre alla Giunta, i più ragguardevoli cittadini convenuti, come si disse, al Municipio—Due opinioni diverse trovavansi di fronte. Opinavano alcuni rimanersi nella sede della Città; difendervisi sino all’ultima estremità; la presenza del Magistrato al suo posto, nel centro del paese, valevole a mantenere il prestigio dell'autorità, ad incorare i timidi, a tenere in rispetto gl’insorti, a disanimare i tristi.

Sostenetesi, dall’altro canto, urgentissimo il bisogno di avvicinare all’autorità politica la municipale, difficile nelle presenti contingenze di mantener libera la comunicazione tra il Palazzo Reale e il Municipio, riunissersi in unico luogo tutte le autorità, più efficace la comune aziono, più sicura quivi da un colpo di mano malandrinesco, la rappresentanza cittadina.

Prevalse quest ultimo consiglio, e verso le sei della sera, profittando di un momento di sosta, il Municipio e i suor ospiti, il drappello di guardie nazionali, civiche e daziarie lasciavano la casa comunale, ricoverando incolumi a Palazzo ((1)).

LX

La sera della domenica, la rivoluzione era padrona della città, salvo ne’ punti occupali dalle truppe;—il comitato rivoluzionario sedeva allo Spirito Santo, facea la liquidazione de' successi ottenuti, spediva messi nelle campagne e ne’ comuni propinqui, apparecchiava il piano per l'indomani. Squallida e spopolala la città, brulli ceffi armati circolavano da per lutto; s’impose una generale luminaria, si gozzovigliò attorno al cencio rosso; si volle, pena la vita, che i cittadini che per le loro bisogne praticavano in città gridassero viva la repubblica e la religione —La plebaglia sfrenata deliziavast nella speranza del successo, sognava le dolcezze della rapina. —Trista notte questa del 16 settembre 1866; le altre furon anche peggiori.

La truppa manteneva ancora tutte le sue posizioni, al Municipio, alla Piazza, al Palazzo Reale, alle prigioni, al Castello, ai Quattro Venti, all'Istituto Garibaldi, all’Ospedale Militare, ed alle Finanze — Il posto ai Quattro Cantoni era stato ritirato, poiché il Municipio trasferissi a Palazzo.

LXI

L’indomani (lunedì) la rivoluzione svegliossi più forte; gli insorti, inanimiti dal successo, erano tutti in piazza, e torme di villici armati versavansi, come torrente irrefrenato, nella città — Portavano una croce o una coccarda rossa sul petto, i capi squadra aveano ciarpa e berretto ugualmente rossi: viva la repubblica italiana, era la parola di ordine, l’obbiettivo, tutti i punti in cui stesse la truppa, specialmente le Prigioni, e il Palazzo Reale; forza molta, ma altrettanto disordine, al comando suppliva l'istinto, al piano il genio di malfare, di uccidere, di rubare. Si combattea dapertutto.

Gli avamposti militari de' Quattro Venti stendevansi sino al piano di S. Oliva, tenevan in rispetto quei delle Stigmate, appoggiavano l’Istituto Militare Garibaldi...

L’assalto dell’Istituto Garibaldi, rispondeva a tre moventi delle squadre; da un lato occupare una forte posizione capace ad interrompere le comunicazioni tra i Quattro Venti e il Palazzo per S. Francesco di Paola; dall'altro far allegro bottino di quel convitto, e provvedersi di nuove armi.

Il maggiore Canetli, che con tanta sapienza ed amore ha tenuto la direzione di quello Stabilimento, trattandosi d'Istituto militare non potea cedere senza combattimento il posto alle sue cure affidato.

Quei giovanotti fecero una splendida sortita col comandante alla testa; però, poco efficaci le armi, e destinate piuttosto a studio che ad offesa, enorme la sproporzione del numero, e scarso il soccorso che vi arrecò co' suoi carabinieri e pochi granatieri il luogotenente Lamponi; dopo avere avuto parecchi de' suoi alunni posti fuori combattimento il Canotti fu obbligato di cedere.

Pare incredibile la rabbia con cui la marmaglia assalse l’Istituto militare Garibaldi, quell'istituto ove mantenuti ed educati a spese dello Stato, aveano stanza tutti figli del popolo a cui vantaggio fu crealo. La belva sbranava i suoi nati ((1)). Lo stabilimento fu in modo vandalico saccheggiato; gli alunni, rapiti a quell'asilo di educazione e di beneficenza, vennero resi ai parenti—prigioni tutti gli uffiziali e i serventi.

LXII

Da quel punto rimase libero l'accesso alle adiacenze delle grandi prigioni. E con quanta rabbia, con quanta pertinacia fossero esse assalite nella settimana repubblicana, e con quanta virtù le difendessero quei duecento eroi—non erano più di tanto— che vi stavano a guardia, salvando così la città da peggiori eccidi, sarà il soggetto di altri capitoli.

LXIII

Per ora conviene tornare indietro in città—I pompieri, dopo essersi valorosamente difesi nella loro caserma nella casa dei PP. Crociferi, vinti dal numero e privi di munizioni e di vettovaglia, aveano dovuto abbandonare, ricoverandosi alla Città, quel posto—Non contenta di saccheggiare il quartiere, la insana rabbia della marmaglia disfogossi stolidamente sulle pompe e sugli altri utensili destinali a domare gl'incendi, di cui il quell'arsenale era ricchissimo—Quante cure, quante spese, quanto tesoro di previdenza; e di sicurezza non furono mandali a male? Un di quei forsennati, dando disperatamente dell’accetta su quelle macchine, e con risa sataniche di scherno incitando gli altri a imitarlo, tra il beffardo e lo spietato esclamava: che a desiare nuove fiamme dovea quinci, innanzi pensarsi, non agli argomenti per ispegnerle— Su Palermo, come vari incendi in diversi punii della città preludessero alla ribellione, e con quanta virtù e coraggio si adoprassero i pompieri a dominarli — La rea sentenza riceveva la sua spiegazione dal turpe fatto.

LXIV

Le case dei Budini sono attigue a quello dei Padri Crociferi; la idea del ricco bollino e della vendetta non potea non sorridere a quei tristi.
Si apersero un varco a traverso le mura, penetrarono nella ricchissima dimora del Sindaco, ne sfondarono il portone al-l'irrompere della folla, e poi, a spezzare spietatamente quella splendida mobilia, a fare a brani lo tapezzerie, a bruciare lo scritture, ed a rubare con universal piglia piglia;—una popolazione di ladri: uomini, vecchi, donne e fanciulli, armali ed inermi, con grida di gioia, di ira rovesciavasi a prendere le argenterie, le biancherie, i mobili, gli arnesi più usuali, perfino le imposte. Voleano dar fuoco al palazzo, diroccare quel quarto dei Quattro Cantoni che appartiensi ai Budini. Erano i baccanali della rapina e della distruzione, vi prendeva parte tutto un popolo.

La giovane marchesa, che per la sua bellezza o la sua virtù, avea saputo attirarsi, essa estranea al paese, tutte le simpatie dei buoni, è astretta a salvarsi per una finestra.

Essa chiede ricovero ad un vicino, ma — fatto rarissimo in questi casi — si vide chiusa in faccia quella porta inospitale;—era incinta, recavasi in braccio un bambolotto lattante: ma la madre non fu più fortunata della donna, verso chi tornea compromettersi accogliendo la moglie del Sindaco; un altro la salvò.

Chi parla adesso del palazzo di Rudini, parla della distruzioni; e dello squallore. Il marchese padre ne morì di cordoglio.

LXV

Le stesse scene di depredazione seguirono in altri punti; depredato il magazzino Merci, depredala la casa di Perrone Paladini, depredala quella dell’avvocato Spina, rapitigli i figli perché fosse più grosso il riscatto, depredala la casa dell’Amministratore Perricone, ed altre non poche; che più! anche l’ospedale militare fu fatto segno alla cupidigia dei malfattori; ivi le orde briache di rapina e di sangue fecero levare anche i graveolenti malati per prendere materasse e lenzuoli; ivi, questi empi che portavan pure una croce rossa sul petto, gettaron per terra le ostie consacrate per appropriarsi la pisside.

Sembra incredibile, eppure è così. E dove non si potea rubare e saccheggiare, chiedevasi colla carabina in pugno, organavasi su vastissima scala la componendo.

Lo Stato, avrebbe certamente di che rifarsi, e gliene avanzerebbe, delle ingenti spese che costeranno questi fatti se potesse avere in mano ciò che si rubò o si scroccò nella fatal settimana in Palermo.

LXVI

Per tener dietro ai fatti che si succedono nei diversi punti della città, Io storico è astretto a procedere a sbalzi, a salti; a precorrere gli avvenimenti o a tornare indietro. La narrazione sarà dunque confusa, come confusi e intralciali si svolgono gli avvenimenti.

La occupazione dell'ospedale militare per parte delle squadre, ponea in condizioni assai critiche il presidio di Castellammare; l’istesso avveniva per quello del palazzo Comunale, dietro la presa dei Crociferi e di Casa Budini.

La parola d’ordine per le squadre fu il Municipio, senza che perciò si tralasciasse di molestare tutti gli altri posti occupati dalle truppe all’interno ed all’esterno della città. Però, questo piano, a bella prima, per una circostanza che gl'insorti non prevedevano, fu di assai sconcertato.

Per s'ingoiar fortuna del paese, il governo locale avea avuto il tempo, pria che i ribelli rompessero i fili telegrafici, di far passare (la domenica) un telegramma, pel quale si annunziava a Firenze lo scoppio della rivoluziono e il bisogno di pronti soccorsi — Un momento più tardi, e chi sa quali altri mali sovrastavano a questo paese.

All’annunzio del fatto, Messina si era commossa ad altissimo sdegno, l'autorità avea compreso l’urgenza dei soccorsi, la G. Nazionale si era offerta ad assumer essa il servizio della truppa che si volea senza perder tempo spedila in Palermo; un battaglione di granatieri, imbarcato nelle ore pomeridiane della domenica, non più lardi delle 8 p. m. dell’indomani (lunedì 17) era già sbarcalo in Palermo. — non se l’aspettavano — Al passo di corsa, a tamburo battente, al grido d'Italia, il battaglione si mise pel Corso Vittorio Emanuele, lo percorse in breve spazio di tempo — Acclamalo dai cittadini, che dai balconi sventolavano bandiere e fazzoletti, debolmente molestato da qualche rara fucilata tirata dalla lunge, ai Quattro Cantoni supera senza stento un più forte contrasto, ed alle nove, incolume, ricovera a Palazzo.

Le orde sconcertate da tanta audacia si erano dileguate.

Bisognava adunque profittar di questo momento, mandar soccorso di munizioni e di viveri, alla Piazza, al Municipio ed alle Finanze che ne pativan difetto, provare alle squadre la forza ed il coraggio della truppa, passeggiar loro sul muso la via principale della città.

Questo consigliava il Sindaco ed il Prefetto; — prevalse contrario avviso tra i militari: stanca ed affamata la truppa, aver fatto già troppo a percorrere il Corso, non potersi chiedere l'impossibile: due ore di riposo essere indispensabili, indispensabile il rancio, prima che fosse lecito di richieder altro dai nuovi arrivali—Era forse vero militarmente; ma nelle rivoluzioni vince chi osa e fa presto.

Quelle due ore concesse ai soldati mandarono a monte l’impresa, bastarono a rialzare il morale dei rivoltosi.

I quali già tornavano allo assalto del Municipio in tanta forza, che, tentatosi dopo due ore la sortita del battaglione, esso venne sì crudemente maltrattato dalle fucilale che partivano degni dove che fu astretto a tornarsene confusamente indietro — Lo scopo era mancalo, le conseguenze di questa perdila di tempo, incalcolabili.

Ben ritentossi la prova il dopopranzo, con una sortita capitanala dal prode Maggiore Fiastri. —

Il suo distaccamento, superando ogni ostacolo riusci nel Corso, giunse a Piazza Bologni, ma quivi colpito al fianco—era la terza ferita riportata in questa guerra fratricida — cadde esanime il maggiore Fiastri; la sua truppa dové retrocedere portando seco il malvivo comandante.

Avea combattuto in sei campagne per la salute d’Italia, era il modello dei militari, de' galantuomini, de' patrioti; a Custoza, caricando gli austriaci alla bajonetta — lui sempre il primo—era stato ammirato ed acclamato come il prode dei prodi; del suo volere rendevano testimonianza due medaglie al valor militare, conquistate sui campi delle patrie battaglie. Il maggiore Fiastri è morto delle sue ferite, morto quando coll'ordine tornava a sventolare in Palermo il vessillo d’Italia, morto benedicendo alla patria perdonando al nemico.

Non avea che 37 anni!! ((1)).

LXVI

Noi torniamo al Palazzo del Comune, dove per tutto il giorno di lunedì durava accesissima la pugna. — Da casa Budini, dall’Università degli studii, dai portici della Posta, da S. Caterina, dagli sbocchi di tutte le strade bersagliavansi i defensori pel Municipio. Comandava in capo il generale Ca-mozzi, la truppa slava sotto gli ordini del capitano Bruni.

Le guardie finanziarie, le doganali, i pompieri i trombettieri della G. Nazionale combattevano da prodi; combattevano anche i civili, il signor Perricone, il signor De Maria, il Magliocco, il Perrore, il signor Crisafi ed altri che erano rimasti alla Città—Però, ogni colpo tirato, ogni istante perduto rapiva una speranza ai difensori. Difettavano di munizioni, di viveri, di acqua; eppur resistevan sempre, augurando la loro virtù fosse più fortunata del cieco e perseverante accanimento delle turbe salvaggie onde erano accerchiati. — Verso sera un’immensa disgrazia li assalse. —Il capitano Bruni fu ferito a morte da una palla partila dai portici della posta; erano stanchi, erano morti di fame e di sete, aveano bruciato tutte le loro cartucce; il presidio militare scorato, speranza di soccorso nessuna. Pensossi alla ritirata a Palazzo.

Il generale Camozzi ordinò il presidio in due drappelli, raccolse le bandiere delle 4 legioni della G. Nazionale, perché non venissero contaminale della marmaglia, e poi, lui alla testa, e gli altri dietro, ordinò la ritirata, che compissi ordinatissima, al Palazzo Reale.

Il cencio rosso prese il posto dei tre colori che con tanto onore aveano sventolalo sul palazzo della città durante tutta la lolla; la marmaglia irruppe l’indomani in quella magione ove con tanto decoro avea seduto il Magistrato cittadino— Il cernitalo—diremo in seguilo che cosa fosse questo comitato— non tardò ad insediarvisi. (x)

LXVII

La penna rifugge dal contaminarsi ancora negli eccessi che la turba saccheggiatrice commise in quel luogo— Chi vide prima, e ora vegga questa casa con tanto amore e tanto decoro ordinata e abbellita, non potrà di certo credere agli occhi suoi, tanto imperò terribile il genio della rapina e della distruzione; questo soltanto diremo ad insegnamento de' posteri e a documento del significato di questa rivoluzione, che con rabbia feroce venne anche stracciato e pestalo coi piedi il ritratto di Garibaldi, che il Municipio serbava con religioso rispetto, e l’altro, di cui la reverenza per un nome augusto non ci consente di nominare.

Era più che un delitto, un sagrilegio!!

LXVIII

Noi ci domandiamo: perche tant'ira contro del Municipio e del Sindaco? Perché un’orda di forsennati la casa comune distruggevano, e lui e i suoi chiamavano a morte?

II Sindaco Rudinì, seguendo le orme de' predecessori, la sua larga rappresentanza impiegava tutta a soccorso del popolo, né mai vi fu mano che a lui si stendesse supplichevole, che si ritirasse vuota:—per dar pane e lavoro al popolo, e far più bella insieme e decorosa la città natia, non stancavasi a promuovere i pubblici lavori;— opere di carità e di beneficenza quali sorsero nel paese a cui non si associasse largamente il Comune? Quante scuole, quanti istituti educativi del popolo, quanti soccorsi agli ospedali? Ovunque si sentisse un bisogno per le masse, ovunque si tentasse uno immegliamento, quivi si era sicuri di vedere accorrere un Municipio, che a giustissima ragione fu giudicato fra i migliori, se non il migliore, d’Italia.

Tutto questo bene però non piaceva ai selvaggi della civiltà. Era proibito che s’insudiciasse o ingomberasse le vie della città; con ogni rigore combattevasi la piaga del controbando; si perseguitava l’impiegato disonesto, né per nulla al mondo transigevasi col dovere e colla legge.

Bastava questo perché le masse abrutite ed ignoranti gli si dichiarassero nemiche; tutte le sozzure, tutti gli abusi, tutte le turpitudini municipali del tempo borbonico non mancavano di partigiani.

Pare incredibile, ma pure è un fatto: queste classi popolane per cui si era fatto tanto, il giorno della rivolta se non combatterono, paleggiarono per chi combatteva; se non uccisero o saccheggiarono, parteggiarono per chi saccheggiava ed uccideva.

Ciò non sarebbe certamente avvenuto se un veleno continuo non si fosse insinuato nelle infime plebi, con diabolica pertinaria, da certe classi più elevate, che sono pertanto la peggior plebe del mondo.

Sei anni di mene reazionarie impunite, sci anni di calunnie, di perfide insinuazioni contro del governo e del Municipio; sei anni di studii per dimostrare che si era peggio di prima, aveano portalo il loro frutto. — La mala semenza s’era gittata in terreno proprio a questo genere di produzioni!.»

LXIX

Per iscimiottare le rivoluzioni buone e patriottiche, il Comitato della marmaglia, insediavasi, come abbiamo detto, al palazzo di Città — Il posto di Ruggero Settimo e di Garibaldi fu contaminato, non sappiam bene da quali e quanti manigoldi. Però ebbero paura del loro isolamento, che nulla è la forza senza l'opinione; videro che il moto non potea procedere anonimo; — gli stessi combattenti chiedevansi esterrefatti: ma chi comanda, ma che facciamo, dove andiamo? non un alto che indicasse un certo ordine nel disordine; non un proclama che spiegasse la cagione e gl’intendimenti della rivolta. Si sapea che dovea gridarsi repubblica, sapeasi che cosa si sottintendessi; sotto quel motto; ma era troppo poco: anche nelle società dei ribaldi e degliex-lege è necessario un programma ed un indirizzo.

Cosi dunque non potea durare; avean mestieri di darsi una certa importanza e del credito.

Che pensarono? Correre armati alle case di probi e ragguardevoli cittadini,trarli per forza dalle mura domestiche obbligandoli ad associarsi a loro nel reo attentato, a firmarne gli atti.

Cosi rubarono il principe di Linguaglossa, il principe Pignatelli di Monteleone, il barone Riso di Calabria, il principe Valguarnera di Niscemi, il principe di Galati, il barone Stilerà ed altri (vedi documenti), che senza partecipare per nulla (come si può comprendere) ai loro attentati dovetter pure presenziarli, e vedere le loro firme figurare apocritamente a piè della sozza scrittura dei ribelli ((1)).

Protestarono tutti contro la violenza patita; tra i protestanti mancano due nomi: quelli di Francesco Bonafede e di Salvatore nobile.

Dai proclami, che troverà fra' documenti, il lettore potrà formarsi un’idea delle incertezze in cui ondeggiavano i capi squadra.

LXX

Intanto come meglio poteano cercavan di torsi d’impaccio; rubando un quindici mila lire al Municipio, non sappiam quante all’ufficio della Posta, alla Cassa di risparmio, all’Istituto Garibaldi, all’ospedale militare, aveano già tanto in mano per supplire al pagamento delle squadre, alle spese della guerra; i fondi borbonico-clericali eran tutt'qltro che esauriti; e chi non era pagato rubava, e chi lo era rubava anche peggio. — Con barricale improvvisale malamente guastando le vie, provvedevano alla difesa interna; di munizioni e di armi eran provvisti a sufficienza, ove mancavan le polveri, supplivano col cotone fulminante; — all’assalto dei posti, al piano dell’attacco, in mancanza di un concetto prestabilito, provvedevano coll’istinto della difesa, colla partinacia dell’offesa, co’ lumi, colle indicazioni, collo spionaggio di cui fu larga la marmaglia popolana del pianterreno — non essendosi potuti metter di accordo sul come e sul quando spartirsi il ricco tesoro che si adunava alle Finanze, si contentarono di molestarle sempre, senza deliberarsi ad aggredirle mai con isforzo supremo; e questo solo valse a salvarle. Imperocché pochi, e di vettovaglie sforniti fossero i suoi difensori, tanto che per un tacito accordo tra essi ed i capi del Comitato si era convenuto che ove cedesse il forte Castellammare, cederebbero le Finanze.

Nel frattempo, con industria e coraggio infinito, cercava quel presidio di procurarsi di che vivere, aiutandolo in questo, celatamente, la carità cittadina.

Nei civili rivolgimenti il tempo è salvezza; Castellammare, pei casi che intervennero, e che narreremo nei seguenti capitoci, non si arrese; — il palazzo delle Finanze fu salvo.

LXXI

Vinta, dopo ott’ore di combattimento, la guarnigione (20 uomini in tutto ) che slava a presidio della Piazza ((1)), lo sforzo delle squadre concentratasi alle Carceri ed al Palazzo Reale—Parleremo prima di questo.

LXXII

Il ritirarsi del presidio Municipale—a sera fatta — poco mancò non riuscisse ad una catastrofe orrenda. Scorgevasi dagli avamposti del Palazzo una frotta d’uomini avanzarsi pel Corso; udivansi grida confuse: erano amici', erano squadre quelli che appressavansi? Vi fu un momento di angosciosa esitazione: le micce accese, pronte le armi, si era già sul punto di far fuoco, quando, pel silenzio della notte, s’intesero le grida di Viva il Re, Viva l’Italia;— si temé per un momento un’insidia; ma il dubbio fu subito dileguato da volti, amici da franche parole, e quei prodi vennero accolti come ben meritava il loro valore e la loro sventura.

Miserande intanto le condizioni in cui versava il presidio del R. Palazzo. Poche, e poco esperimentate le truppe, scarsissime le munizioni, mancanti affatto le vettovaglie — Usi ad affrontarlo in campo, alla lesta di milizie agguerrite, di ogni argomento di guerra provvisti, quei generali non sapevano comprendere un nemico invisibile; quel nuovo genere di guerra li confondeva, e, della mancanza di mezzi a combatterlo, restavano costernali ed affranti.

Sovveniva però in quelle distrette la virtù civile. —

Il Prefetto fu in questa circostanza al Palazzo, ciò che il Sindaco era stato al Municipio — Intendere a tutto ed a tutti, ad ogni inconveniente riparare, con senno, con coraggio, con perseveranza degni di miglior fortuna, ad ogni bisogno della difesa provvedere; questo, il prefetto Torelli, aiutato dai ricoverati al Palazzo, seppe con animo invitto e costante ottenere.

All’alba del martedì, lavorandovi intorno, e lui ed il Sindaco e gli altri, confusi ai soldati ed agli ufficiali, senza distinzione di grado o di dignità, il quadrilatero della piazza Vittoria era munito di regolari barricate;—postali i cannoni, gl’insorti che già eransi mostrali all'altezza del Palazzo vescovile, ne venner respinti. Il monastero di S. Elisabetta e quello dei Sette Angeli e la casa episcopale occupale, aveano reso migliore la difesa dal lato del Corso Vittorio Emanuele. Però da quello dei Biscottari e dai forni militari posti a tergo del palazzo, la lotta durò sempre accesa, disuguale e micidiale. Il coraggio dei soldati prostravasi, i generali lottavano come uomini sicuri del naufragio.

Però l’idea che si potesse cedere alla marmaglia assediante che il Palazzo del Re potesse divenire preda di quelle orde sagrileghe, che la bandiera italiana potesse abbassarsi innanzi al cencio rosso, infondeva nuovo ardore ed ardimento in lutti. La parola capitolazione, non fu appena balbettala che soffocata in gola a chi aveala pel primo profferita.

Mancavano, dicevasi, le munizioni, i viveri, le bende e le filacce pe feriti — A tutto provvederebbesi, esclamava il Prefetti, colla costanza e col buon volere; a cose disperate preferir piuttosto aprirsi ed a qualunque rischio un varco a traverse gl’insorti; meglio morire che patteggiare colla sozza ribaldaglia che li tenea assediati; — lui stesso, gli egregi che secolui dividevano i pericoli della lotta voler resistere a qualunque costo; patteggiasse pur chi volea, non patteggerebbero essi; e richiese quaranta uniformi complete e la analoghe armi — Il funzionario si era fatto soldato ed in quel posto elevatosi ad incommensurabile altezza.

I fatti rispondeano alle parole; tre Commissioni furono elette per provvedere ai bisogni, della munizione, della cibaria, e dell’ospedale. Fecero parte della prima il cav. Notarbartolo, il duca di Verdura, e l’assessore Traina; della seconda, l’amministratore dei Dazii Civici sig. Salvatore Particene, il Capitano Saraceni, e vari ufficiali dei R. Carabinieri; della terza l’assessore Manfredi Lanza di Trabia, il signor Perrone Paladini il sig. Massimiliano De Maria — Un comitato permanente fu del pari crealo fra gli uomini che in quel frangente mostravano maggior senno e sangue freddo; ne fecero parte il Sindaco l’Ispettore delle Carceri cav. Beltrani, il Consigliere Delegato sig. Achille Basile l’Assessore Luigi Scalia, il Duca di Verdura ed altri; — a tutti presiedeva il Prefetto.

La Commissione per le munizioni di guerra rispose alla comune aspettazione; passando di casa in casa, adoperando tutti gli accorgimenti possibili, riuscì a mettere insieme una buona provvista di polvere e di capsule. noi diamo in fine fra i documenti, la nota delle munizioni requisite. — S’improvvisò una pallottoliera di legno, e nella notte dal 18 al 19 si fusero molte palle, molte cartucce si fabbricarono, di modo da avere in pronto, oltre a quelle esistenti, da otto a nove mila colpi. Se ne erano già fabbricale altre 2000 quando cessò il bisogno.

Pei viveri, molto giovarono i carabinieri, molto il signor Perricone che trovò in essi un prezioso concorso; — un magazzino di formaggi diede da cinque a sei mila razioni; i carabinieri procurarono vari sacchi di farina, poche teste di bestiame; si uccisero tre cavalli, e nel complesso si ebber viveri per sette giorni a coniar dal 18, scura calcolare i ca-valli che rimanevano, mercé dei quali avrebbesi potuto prolungar per altrettanti la difesa.

Il monastero dei sett’Angeli contribuì abbastanza di biancheria fina per le bende e per le filacce; tutte le signore ricoverate a palazzo, ed anche gli uomini nei momenti di sosta, oocupavansi nel pietoso ufficio; la baronessa Righini, la duchessa di Verdura, la sua figliuola, ed altre di cui ignoriamo i nomi, lavorando dì e notte, ne apprestarono una quantità più che sufficiente al bisogno—E intanto si combatteva, ed ogni assalto della marmaglia, con rara virtù, re-spingevasi.

Grande aiuto dette in quel frangente il R. Osservatorio, spiando da luogo eminentissimo, e con istrumenti perfetti, le mosse del nemico, l’arrivo dei rinforzi, i movimenti delle truppe. Il cav. Cacciatore, direttore di esso, e i suoi impiegati resero degl’importantissimi servigi. —Al Palazzo Reale, l’onor della truppa venne salvo dalle autorità civili e dai borghesi.

LXXIII

Più fiera fervea la lotta attorno a Castellammare ed alle Prigioni — Ne diremo parti temente.

Quando parlasi del Castellammare, dee intendersi di un fortilizio a metà distrutto dalla parte di terra; la sua guarnigione, stremata per le due compagnie spedite alle Finanze al Palazzo, riducevasi appena ad un centinajo di uomini; ricco di munizioni di guerra, avea pochissimi artiglieri per servire i cannoni, di vettovaglie difettava affatto. Con casse e con fascine piene di terra quel comandante (signor Belli) avea guernito gli spalti, e collocato un pezzo che guardava d’infilata il corso Cavour. Le squadre lo teneano assediato e lo bersagliavano dall’ospedale militare, dal Bastione dei Sordo-Muti, da tutte le case e da tutto le cantonate adiacenti. — Il possederlo, per esse, era di suprema importanza, come quello che di armi, di cannoni e di polvere polca fornirli a dovizia, dando al tempo stesso agio di dominare il porto e battere i Quattro Venti.

Però, aveano fitto il conto senza pensare alla bravura della guarnigione e del suo comandante, il quale con senno, con coraggio ed industria cercò di provvedersi di qualche vivere, tenendoli anche a bada rolla promessa di una possibile resa. — A liberarlo da tanta distretta, intervenne la mattina del 18, lo arrivo della regia piro-corvetta Tancredi.

I ribelli se ne morsero le dita per la rabbia; l’impresa del Castello non era più per loro; tutti gli sforzi furono riconcentrali alle Prigioni.

LXXIV

Abbiamo dello come il luogotenente Lamponi, vista inutile l’opera sua a Porta Macqueda e a S. Francesco di Paola, si ritirasse co’ suoi carabinieri e colla compagnia dei granatieri che appoggiava dentro quel penitenziario-— Erano le Grandi Prigioni assediate con diabolica perseveranza da un nucleo d'insorti, che mal furon meno di 5000, e spesso assai più. Avean due cannoncini di ferro coi quali ne battevan in breccia le mura. La liberazione dello Badia proclamavano non che utilissima al moto, necessaria, e per ottenerla si prodigavano combattendo da disperati. Intanto ogni soccorso della guarnigione dei Quattro Venti a quel presidio era divenuto impossibile, per aver le Squadre occupalo i giardini e le case che si frappongono. Posizionale alle Croci, a S. Lucia, nelle case dell’Ucciardone, aveano eretto una barricata nel Corso Scinà, e non davano un momento di requie.

Tentò bensì qualche sortita il presidio, giunse per fino alla piazza Ruggiero Setiimo, una volta anche alla villa Filippina—facendo prodigi il Capitano Vigna che ne avea il comando—ma benché gravi danni recasse agl’insorti, era stato sempre astretto a ritirarsi con perdila. Miglior fortuna gl’incorse per supplire alle munizioni di guerra e di bocca di cui diffettavasi.

I carabinieri, a notte fatta, facean delle requisizioni ne' dintorni, né mai tornaron a mani vuote; una volta, con ardimento pari al pericolo, un carro di munizioni da guerra dai Quattro Venti alle prigioni recarono—Erano miracoli.

LXXV

L’arrivo del Tancredi, migliorò anche qui la posizione; i cannoni degl’insorti dovettero tacere innanzi a quelli della corvetta. Eppure, non si disaminavano; uomini di galera e di vicaria, volevano a qualunque costo liberare quelli che chiamavano i loro fratelli: duemila jene, pronti già ad insorgere all’interno, e coi loro fardelli apparecchiali per rovesciarsi in città—Chi sa quali altri danni non sovrastavano al paese ove il loro reo intendimento si fosse tradotto ne’ fatti! —

Nol permiselo Iddio.

LXXV

All’alba del giorno 19, procedente da Taranto, dava fondo in questa rada la squadra sotto gli ordini dell’ammiraglio Ribotty — La vista di quelle moli galleggianti incusse un indescrivibile panico in mezzo aglinsorli; aveano sparso voce che a soccorso della ribellione sarebbe giunto non sappiam bene se una squadra austriaca, inglese o turca; invece la bandiera italiana li sgomentò; — le turbe illuse e ignoranti ne mormoravano apertamente, i capi di nuove fola pascevanle.

Però, si rianimavano, e con nuovo ardore apprestavansi alla lotta, quando ebbero la certezza che quelle navi non conteneva n soldati.

L'ammiraglio Ribottv, il prode marinaro di, Lissa, augurò per un momento di poter domare la rivolta senz'altro soccorso; e così non pose tempo in mezzo al disbarco degli equipaggi e dei bersaglieri R. Navi, de' quali compose un battaglione, ausiliato da numerose artiglierie da sbarco, e dalla poca truppa stanziata ai Quattro Venti. Ristabilire le comunicazioni tra quei quartieri e le prigioni; spazzare con barche cannoniere le strade rettilinee al mare; correre a soccorso del pericolante presidio del Real Palazzo, furono i tre obiettivi dell'ammiraglio.

LXXVII

Di qual conforto fosse al Palazzo Reale l’arrivo della squadra può meglio immaginarsi che descriversi. —Ma come mettersi in comunicazione con essa, come farle pervenire gli ordini, come designare la via da percorrere a gente così poco pratica del paese? — Si pensò ad organizzare una spedizione onde trasmettere gli ordini; grande il rischio, dubbia la riuscita, scarso il presidio, fu giocoforza fare appello al buon volere dei volontari—Presentavansi pronti all’impresa fra' granatieri, una sessantina d’uomini, fra te guardie nazionali, un solo: il signor Pirandelli, e qualche carabiniere. Comandava il drappello il capitano Fallardi.

Per Colonna Rotta corsero all’Olivuzza, ove sostennero un primo scontro; si spinsero, malgrado la perdite, per la via Lolli dove più fiera apettavali la resistenza. Le bande bersagliavanli da dietro ai muri, dalle finestre, dagli svolti; e il drappello procedea con inenarrabile valore, gravi danni facendo al nemico, gravissimi subendone esso stesso. Nelle vicinanze di S. Francesco di Paola venne accerchiato e divise; quelli che si erano spinti più innanzi caddero prigioni; gli altri si addogarono, si chiusero in una casa; resistettero finché duraron le munizioni; poi, sopraffatti dal numero, furono astretti ad arrendersi. Brillante fazione di guerra di cui —e ce ne duole—le proporzioni di questo scritto non ci consentono di narrare tutte le gloriose (peripezie. Ben però ci sarà consentito di raccomandare specialmente alla pubblica estimazione il signor Pirandelli, il quale per generale testimonianza di quei soldati, bravi fra bravi, si condusse da prode, combattendo in prima linea al grido d’Italia. e Vittorio Emanuele ((1)).

Le turbe vincitrici, concessa salva la vita alle truppe, vo-leano fucilarlo—scampò per miracolo.

LXXVIII

La nuova di cotesto rovescio fu potente a spargere la costernazione ne’ difensori del palazzo, e massime tra' militari poco usi e poco adatti a questa genere di guerra.

Però, ove l’ardimento e la forza erano venuti meno, dovea supplire l’accorgimento e gli stratagemmi—Chiesto, chi sotto varii travestimenti, si volesse con animo e con astuzia intromettere fra le squadre assedianti, latore di. un messaggio all’ammiraglio, si presentarono otto. Si scrisse il dispaccio, adoperando acido di limone, come quello che non lascia nessuna traccia sulla carta, ravvivandosi poi lo scritto coll’esporlo all’azione del fuoco: Abbiam viveri per due giorni, diceva si, munizioni da guerra per due, peniate ad unirvi con noi—Degli otto messaggieri spediti, un solo riuscì nell’intento e portò la risposta. L’ammiraglio diceva: vengo.

La storia registra il nome del messo fortunato, certo Polsini, guardia di P. S. Bergamasco ((2)).

LXXIX

Le compagnie equipaggi, e R. Navi erano già tutte mosse quando pervenne il dispaccio da Palazzo Reale.

Questa colonna da sbarco componevasi di 1200 uomini in circa, comandati dal capitano di fregata Emerico Acton; recava seco de’ cannoni; due compagnie di granatieri Pausi 1lavano in riserva, la precedeva il 24° bersaglieri, giunto la sera innanzi — Al primo slancio della colonna, le barricata in via Scinà furon prese di assalto; aspra la difesa, l’offesa irresistibile ((1)).

Tutto il corso Scinà è superato, Piazza Ruggiero Settimo occupata, i cannoni son postati sulla via dello stesso nome per battere la barricata di Porta Macqueda, e la colonna si avanza a S. Francesco di Paola. —Era intendimento del capitano Acton di giungere a Palazzo per l’Olivuzza, dopo aver fatto tacere le squadre appostate nel convento, nelle case o nelle vie adjacenti a S. Francesco di Paola.

Però qui, tanto pel luogo poderosamente munito, quanto pel numero strabocchevole degli insorti che vi aveano concentrato il loro sforzo maggiore, e pel vantaggio di chi combatteva dietro valido schermo, la colonna fu prima obbligata ad arrestarsi, e quindi, dopo considerevoli perdite, a retrocedere.

Oprossi la ritirata col massimo ordine, tenendo in rispetto i rivoltosi che da ogni lato incalzavano; né per essi la vittoria fu lieta, avendo subito delle gravissime perdite.

La sortita della colonna da sbarco benché non potesse conseguire il suo intento, ebbe, ciò non ostante, un immenso risultato e fu quello di mettere in comunicazione i Quattro Venti colle Prigioni, e di toglier qualunque possibilità alle squadre di operare la tanto careggiata liberazione del Badia e dei fratelli.

Due cannoni di ferro che battevano in breccia le Prigioni caddero in mano della truppa.

La rivoluzione da questo lato era già stata obbligata, anche prima che giungessero gli ajuti effettivi, a porsi sulla difensiva. —A Palazzo durava sempre accanita la lotta.

LXXX

Infuriavano intanto in città i baccanali del disordine e dell’anarchia;—i Giudicati di Mandamento; le Delegazioni di questura, i Tribunali, l’Officio di leva, il Comando di piazza saccheggiavansi, carte importantissime davansi alle fiamme—uomini, vecchi, fanciulli, non uno era della plebaglia sfrenata che procedesse disarmato; nell’ufficio del Procuratore del Re i pochi inermi trovavano ancora di che armarsi con circa un migliajo di fucili repertati.

II processo di Badia ricercavano con ansia febbrile; lo voltano a forza dall'Istruttore Nicolosi, che ebbe a gran ventura se potè salvarsi la vita a prezzo di oro.

Armati sino ai denti, non per questo ristarono dal volerne ancora, ne chiedevano ai cittadini, poi colla scusa del fucile rubavano e faceano nuove componende.

Una delle ragioni per cui la rivoluzione del 1866 riuscì cosi ostinata quella fu appunto della legge troppo mite, e troppo, anche, fiaccamente e stolidamente eseguita, sulla detenzione e il porto d’armi—Tanta fiacchezza, in mezzo ad un popolo che ha per massima: prima l’armatura e poi la moglie! pare veramente incredibile.

Con ciò un gridare, e gozzovigliare in mezzo alle strade, un dar furiosamente nelle trombe e ne’ tamburi, un suonare a martello da mane a sera, un sparare a caso, a spauracchio, a libidine di chiasso e di terrore.

Il grido di repubblica italiana, a poco a poco, per insinuazione de' capi, si tramutava in quello di repubblica soltanto, poi anche questo passò di moda, e si gridò viva la Sicilia; (il Borbonismo) viva la Religione; (il clericalismo) viva S. Rosolia (il malandrismo). Erano già belli e trovati i tre fattori della rivolta. La plebe avea indovinato.

LXXXI

 Intanto più efficaci soccorsi pervenivano dal continente— Varii spezzoni di soldati era» già arrivati da Napoli, più tardi il 31° battaglione bersaglieri e nelle ore pomeridiane del 20, altri 3 battaglioni del 53° di fanteria, ed insieme il maggior generale Masi, e il generale di divisione Angioletti, che dovea prendere sotto il suo comando tutta la truppa. Altri rinforzi erano già in via.

L’indomani cominciò l’azione.

Noi lasciamo la parola al Generale Angioletti citando alla lettera la sua splendida relazione al Ministro della Guerra.

«Dati gli ordini ai miei dipendenti, e presi i debiti concerti col contro-ammiraglio Ribottv, l’operazione cominciò il successivo 21 sull’albeggiare, e prosegui nel modo che vado ad esporre.

«Affidata alle truppe di marina (sotte gli ordini del capitano di fregata signor Acton Emerico) la difesa dei Quattro Venti, base della mia operazione, diressi il maggior generale cavalier Masi col 31° bersaglieri, il 1°,3° e 4-° battaglione del 53° fanteria e due pezzi da sbarco, sul Palazzo Reale per la via grande delle Croci, via Cavallacci, via Malaspina ed Olivuzza.

«Mandai i granatieri ad esplorare il terreno sul nostro fianco destro verso il monte Pellegrino, e presi sotto i miei ordini diretti il 21° bersaglieri, quei del 19° e 51° fanteria, due pezzi da sbarco, ed un uffiziale e pochi carabinieri del presidio di Palermo, per occupare coi bersaglieri ed i due pezzi da sbarco la strada della Libertà, e cogli altri la via Cimìterio al Trivio fra strada Lolli e Terre Rosse, lo mi tenni col 21° bersaglieri alla strada della Libertà.

«Scopo di queste disposizioni era il richiamare sopra di me l'attenzione dei briganti (la qual cosa aveva ragione di sperare nel giorno precedente le poche truppe che mi avevan proceduto, avevan tentato da quella parte un attacco che andò fallito) e coprire così il movimento girante che il generale Masi slava eseguendo sul nostro obbiettivo.

«Frattanto la squadra del contrammiraglio Ribottv tirava d’infilata a piccole cariche sulla via Toledo e sulla via Lincoln per scacciare i briganti, i quali accortisi della nostra presenza alla strada della Libertà e alla via Cimiteri  o cominciarono il loro fuoco dal convento di San Francesco di Paola e da una grande barricata eretta ai Quattro Cantoni di Campaglia.

«Le mie truppe si limitavano a fare strepito coi cannoncini da sbarco, ed a rispondere al fuoco lentamente e di piè fermo.

«Verso le ore olio, avendo ricevuto avviso che tre battaglioni del 51° erano giunti in porto, io invitava il contro-ammiraglio signor Ribottv a farli sbarcare oltre la sinistra dell’attacco, e precisamente sulla destra del piccolo fiume Oreto, coll’ingiunzione di prender posizione a cavallo delle strade che sortendo da Palermo tendono a Misilmeri e Bagheria, e coll’ordine di impedire ai briganti di evadersi per quella parte.

«Dall’alto di una terrazza frattanto avendo veduto la lesta di colonna del generale Masi che si batteva all’Olivuzza, credei giunto il momento opportuno per serrarmi sulla barricata dei Quattro Cantoni di campagna verso Porla Macqueda, da cui i briganti certamente credevano che io volessi entrare. Mandai ordine, per conseguenza, al comandante Acton di marciare dai Quattro Venti sui Quattro Cantoni di campagna, inviai il mio aiutante di campo signor luogotenente Jhicos al trivio di via Cimiteri© per coadiuvare il maggiore Rasponi del 51° ad impadronirsi del convento di San Francesco di Paola, ed ordinai al maggior Brunetta di marciare all’assalto della barricata dei Quattro Cantoni. I pochi granatieri $ carabinieri appoggiarono i bersaglieri. Il movimento fu eseguilo in modo brillante, ed il maggiore Brunetta, dopo aver dato provo luminose del più grande coraggio, fu traportato dal suo valore tanto oltre la barricata che i briganti, dapprima sgominati per le strade laterali, si richiusero dietro di lui, e riuscirono a separarlo dal rimanente del battaglione insieme ad alcuni ufficiali e circa cinquanta bersaglieri.

«I briganti però avevano ripresa la barricala, ma bastarono pochi altri bersaglieri ed alcuni uomini di marina con dotti da me stesso per riconquistarla.

«Quasi nell’istesso tempo il comandante Acton coi suoi di marina oltrepassava il limite assegnatogli, e si spingeva sulla direzione di Porta Carini, ove conquistava l’una dopo l’altra due barricate difese con grande accanimento.

«Dopo poco il generale Masi, favorito da questa diversione, arrivava al Palazzo Reale, e compiva così l’onorevolissima missione da me affidatagli.

«Avvertito di ciò, ritirai le truppe dai Quattro Cantoni di campagna, e tenni occupali il convento di San Francesco, il Trivio di via Cimiterio, e la strada della Libertà, per mantenere le nostre comunicazioni. »

LXXXII

 Ma prima che a Palazzo giungesse il Masi, vi era già pervenuto questo miracolo di ardimento che è il Maggiore Brunetta e i suoi ottanta bersaglieri.

Tornare indietro, come già. si è visto dal rapporto del generale Angioletti gli era impossibile, non lo desiderava, non lo voleva a ogni costo;—noi crediamo anzi che l’atto del Maggiore Brunetta sia una sublime disubbidienza. Dunque spingersi avanti, sparando e correndo alla baionetta, saltando lo barricate, e sgominando da per lutto con prodigi di valore la bordaglia che non credeva ai suoi occhi. Ottanta uomini, in mezzo ad una città in piena rivoluzione; questo più che valore è prodigio! — Percorre così tutta la via Macqueda, oltrepassa i Quattro Cantoni, distrugge quivi una immensa barricata di legno, e quindi pel Corso Vittorio Emanuele, con pochi soldati leggermente feriti, ricovera a Palazzo.

A chi gli domandava come avesse fatto a superare tanti pericoli, il Brunello mostrò i suoi soldati e disse; costoro hanno una patria; a chi gli chiese dove erano, quanti er o i nemici rispose baldamente: ma chi gli ha visti!

Fu il più brillante fatto di cui illustrassi, in mezzo a tanto eroismo, quella parte il esercito italiano che fu serbata a combattere questa guerra infelice.

LXXXIII

 La rivoluzione era già agli ultimi aneliti, la coccarda rossa spariva, le armi nascondevansi, tacquero le campane;—si combatté un poco a porta Macqueda, più debolmente altrove:—l’indomani, di tutto questo edilizio di sceleratezza e di abominio altro non rimase che il triste ricordo e le conseguenze lunghe, vergognose e fatali.

LXXIV

Noi lasciamo ancora la parola al Generale Angioletti:

«Liberato il Palazzo, mi posi agli ordini del luogotenente generale cavalier Carderina, comandante il dipartimento, il quale mi ordinò di recarmi in persona, nella mattina susseguente, al Palazzo Reale con due di quei battaglioni del 54° che si trovavano sull'Oreto. Ma essendo sbarcali poche ore prima ai Quattro-Venti due battaglioni del 59° fanteria (divisione Longoni) marciai al Palazzo Reale con quelli, persuaso così di meglio interpretare gli ordini del comandante il dipartimento. »

Finalmente, il maggiore generale Masi, al seguilo di ordini direttamente ricevuti dal luogotenente generale Carderina, marciava con il 31° battaglione bersaglieri e con il 4° del 53° dalla piazza della Vittoria sul palazzo del Municipio, e quindi su Porta Felice, conquistando alla baionetta una dopo l’altra tre barricate di via Toledo, onde occupalo il Municipio e Porla Felice, la città cadde tutta intiera in suo potere.

Finalmente si era potuto fare a fidanza con veri soldati; — l'AngioIetti ed il Masi possono aggiungere alle loro glorie quella di Palermo; ahi, quanto penosa al cuore di soldati italiani!

LXXXV

Noi non ci proveremo «descrivere la grande, la generale esultanza con cui la città buona accolse la sua liberazione; essa non può agguagliarsi rfre atta violenza patita. Aggiravansi ancora in città le ultime e bieche reliquie delle bande, e già il mutamento di scena avveniva con maravigliosa celerità;— i cittadini a versarsi per le vie, a imbandierare le case, ad abbracciare i soldati, ad abbracciarsi essi stessi come chi scampa da un gran pericolo,, con evviva alla patria, all’esercito, al Re. — Raccontavansi l’un l’altro ciò che aveano udito, ciò che aveano veduto, ciò che aveano sofferto: tutte orribili cose, rendendo testimonianza al valore alla moderazione ed alla disciplina della troppa. La quale fu veramente superiore ad ogni elogio, e degna in tutto di questa gran patria italiana, che gli stolti, cui venne a combattere, volean trarre ad estrema mina.

Il popolo (non la plebaglia sfrenata né i suoi incitatori) vedeva ed ammirava, né potea persuadersi come tanta umanità, tanta amorevolezza, tanto ordine protessero regnare in mezzo a schiero si stolidamente e selvaggiamente provocate ed offese.

Pensavasi alle truppe borboniche — al bombardamento borbonico — che differenza!

LXXVI

Nelle ore p. m. entrava in Palermo, il Generale Raffaele Cadorna, Comandante Cenerate delle truppe in Sicilia, e Regio Commissario con poteri straordinari per la città e provincia di Palermo; esso prendea stanza al R. Palazzo. — L’ordine era restaurato.

Il Sindaco, rientrava insieme alla truppa nella sede del Municipio — oh quanto mutata! —Al Marchese di Torrearsa, che corse a salutarlo, disse queste parole: Marchese, le mie case sono distrutte io e la mia famiglia sunna stati perseguitati: ho il padre moribondo; dalla deprecazione deldomestico focolare altro non ho potuto salvare che questa camicia: ma io sto qui al mio posto, pronto sempre a servire questo povero paese, che ne ha tanto bisogno. Io farò ancora e sempre il mio dovere.

Parole memorabili, che la storia dee registrare, e che i contemporanei dovrebbero tradurre nel marmo.

II marchese di Rudinì resterà senza fallo Fa più bella e nobile figura di questo tratto di storia.

LXXXVII

Non è nostro intendimento varcare i limiti della settimana repubblicana, narrando e giudicando i fatti che vanno svolgendosi innanzi ai nostri occhi; ciò ne condurrebbe assai lungi dal modesto compito che ci siamo assegnato; e molto meno intendiamo occuparci degli avvenimenti che in quel fatale periodo ebber luogo in qualche comune della provincia; imperocché, oltre al pericolo di fallire, in tanta pressa di tempo, alla verità, ci occorrerebbe rammentar fatti, dai quali la mente rifugge inorridita.

Diremo invece, come in Palermo atti di feroce crudeltà ve ne sian stati ben pochi a lamentarsi; — i soldati prigionieri, qualunque fosse la divisa che portassero, furon generalmente rispettali, rispettate le guardie e gli impiegati di questura, rispettale fin anco le odiatissime (perché facean il loro dovere) guardie municipali; e questo, se non altro, dimostra istinti meno rei, e sopratutto mancanza di odii giustificali nelle masse che fa cenno la rivoluzione. Esse credevano (o almeno sforzavansi a crederlo, tanto lo avean sentito a ripetere) che si era peggio di prima, che gli agenti della polizia superassero in nefandità gli sgherri di' Maniscalco; con ogni modo cercavano di montarsi la testa, di infocarsi negli odi, di compiacersi nella vendetta; — lo dicevano, ma non lo sentivano; — l'odio, perché infuri terribile, bisogna che sia vero, profondo e non artefatto.

Odio vero, ma bensì quello imperversante negli animi della plebaglia più elevata; essa avrà onte da vendicare, torti, offese e persecuzioni da punire; ma più che contro il governo quegli odii dovean disfogarsi sugli uomini più onorandi di tutti i partiti, i quali ebbero a gran ventura se involandosi alle ricerche dei malfattori, poterono risparmiare ad essi e a sé stessi i più orribili fasti della repubblica. Qui non la volontà, ma l'opportunità ed il tempo mancarono.

LXXXVIII

E or faremmo punto, ove non ci rimanesse un altro ed ultimo argomento da trattare.

Noi abbiamo detto delle cause del disordine, e del malcontento di cui lo stesso era cagione: dobbiamo adesso accennare, per sommi capi, ad altre sorgenti di scontentezza, per dare a ciascheduno la parte di responsabilità che pei casi avvenuti gli aspetta.

Il dire che la settimana repubblicana sia stato effetto del mal governo, è un oltraggio, il peggiore anzi degli oltraggi, che possa avventarsi alla libertà ed al nostro povero paese che ha subito l’orribile attentato. Imperocché, qui non vi fosso un governo geografico fatto a posta per tormentare e mettere alla disperazione le nostre popolazioni;—gli uomini che governavano il resto del regno, qui governavano; il bene e il male, i vantaggi ed i pesi, le speranze e le delusioni, tutto noi avevamo comune colla grande famiglia italiana; — anzi, a nostro speciale riguardo, l’Italia avea dovuto sobbarcarsi a dei sagrifici che la storia imparziale non de tacere. I debiti comunali della Sicilia, il mutuo forzoso del 1848, erano stati iscritti sul bilancio dello Stato; tutti quasi i licei, i ginnasi, le scuole e gli istituti tecnici, le scuole normali, le magistrali, lungi dal pesare pre rata sui comuni, sulle province, e sullo Stato, erano stati dichiarati Reali, e a pese delle Finanze mantenuti; coll'abolizione del macinato senza che lo si supplisse con altro balzello, la Sicilia per ben due anni si assise al banchetto d'Italia pagando metta dello scotto e godendo di tutti vantaggi; i beni di manomorta, che altrove vendonsi, qui, con incommensurabile beneficio delle popolazioni, concedevansi ad enfiteusi, ec., ec. —questo era tutto bene, valevole a dimostrare la sollecitudine che il governo del Re non mancò mai di avere per l'Isola: però un tal bene non procedeva disgiunto da molto male.

Paese senza risorse, scarso d’iniziativa e di commerci, la classe burocratica numerosissima, fu qui con guerra aspra combattuta e posta sul lastrico; ogni impiegato che cadeva sotto i colpi di quella legge fatale, era una numerosa famiglia che cade a con esso, erano amici, congiunti, familiari, che ne ricevevano il controcolpo. non sappiamo, al giusto, quanto milioni facesse risparmiare allo Stato quella legge, ma sappiamo pur troppo qual tesoro di odi ne abbia raccolto in un luogo, ove l’impiegato non sa, né, anche sapendo, può fare altro.

A questo inconveniente avrebbe potato in parte ovviare il governo spingendo su larga scala i lavori pubblici, promuovendo la operosa attività dei privati, cercando fecondare ed espandere quella vita economica nella quale si risolvono i più astrusi problemi sociali. In quanto a questo — colpa anche dei tempi, e di noi stessi — il governo tantomeno fece quanto più promise; buone senza dubbio le intenzioni, ma poco soddisfacenti i risultali, a tale, che mentre sul continente in opere pubbliche e strade di ferro si facevano prodigi, qui, dopo sei anni di libertà, il tronco di ferrovia Termini Palermo, e f altro Messina Catania, rendon testimonianza del lento e stentato procedere di quella compiuta rete ferroviaria che ci era stata promessa pel 1867.

Eppure, qui più che altrove—perché parse più lungamente deseredalo da ogni bene ed oppresso—dovea il governo prodigar le sue più vigili cure. Avevamo tanto tempo aspettato, che, in verità non ci si polca ragionevolmente dire: — abbiate ancora pazienza, aspettate ancora.

Tanto più, che mentre da un lato aspetlavasi con ansia febbrile, dall'altro andavano no mano — come marea che si avanza — accrescendosi i carichi del paese, tanto più pesanti, quanto minori erano i benefici che risentiva il paese. — Cosi ad ogni nuovo chilometro di ferrovie che a privasi al pubblico servizio in Italia, ad ogni nuova opera pubblica che inauguravasi, venivano quasi spontanei gli ingrati confronti, ed i soffioni e pervertitori di tutti i generi, gli autonomisti in prima riga dicevano, che i danari, i beni, i tesori, di questa California siciliana, servivano per avvantaggiare ed arricchire i piemontesi.

Poi, colla solita buona fede esagerando il male, ed il bene tacendo, tutto ciò che faceasi cercavano con ogni modo odi negare odi calunniare, inducendo fra gl'ignoranti la convinzione che in fatto di opere pubbliche il governo italiano andasse a paro col borbonico; — brutta menzogna; imperocché il poco che in un solo anno fece la libertà superò di gran lunga quello che in 30 anni fece il dispotismo borbonico.

Ma a paragone del desiderio e del bisogno, e delle promesse era poco. — Se il governo avesse riflettuto qual cumulo di sdegni e di malumori si sarebbero sfiatati per la valvola di un vapore, se avesse riflettuto quante chiacchiere avrebbe fatto lacere il fischio di una locomotiva, oh, allora certamente tutti gli ostacoli {ostacoli che pure in gran parie emanavano da noi stessi) sarebbero stati vinti.

A ciò aggiungasi una congerie di nuove leggi, di nuovi obblighi, d’incomodi nuovi. Pesava il pagamento delle lasse, ma più di esse pesavano tutti gli scritti, tutti i numeri e tutte le dichiarazioni che si dovean porre sulle schede; pesava l’obbligo della G. Nazionale, quello del giurì, spesso anche il dritto elettorale, sopratutto la leva; pesava l’impero della legge spogliata da brutte condiscendenze, privilegi e transazioni; pesava quell'oblio completo del passato, degli usi delle idee connaturate nel popolo; pesava quella smania accentratrice e rinnovatrice di ogni cosa Meglio sarebbe stato se si fosse andato più adagio. Si amava la libertà, ma gli obblighi che essa impone, e senza i quali non è possibile, si trovavano troppo gravi.

Sopra questi germi di malcontento, fate che soffino i mantici della reazione, dell'azione e dell'autonomia, e vedrete di leggieri qual incendio si desterà.

Però le classi elevate, se da un canto erano malcontente, dall’allro aborrivano da qualunque novità più che da qualunque sagrifizio, alcune per patriottismo, tal allre, per paura il rimedio non fosse peggiore del male.

LXXXIX

Le condizioni della pubblica sicurezza erano il coronamento dell’edificio; noi ne abbiamo parlato a sufficienza nelle pagine precedenti, ma siccome in fondo questa nostra non è che quistione di pubblica sicurezza, cosi non pare! inutile che avendone già accennato la origine ed i pericoli, ne accennassimo anche i rimedi.

Imperocché a noi sembri che tutto il male origini da un equivoco: dall’aver voluto cioè sottoporre al regime normale, un paese che versa in eccezionalissime condizioni. Da ciò è derivato che le garanzie della libertà hanno nociuto ai buoni e giovato ai tristi; da ciò è derivato questo supplizio di Mezenzio per cui la putredine di un cadavere ha invaso tutto l’organismo sociale o lo ha condotto a mal termine.

Condizioni eccezionali, diciamo noi: leggi eccezionali; cosi si pensa e si opera da per tutto, ove popoli e governi non s’ispirano ai voli pindarici ed alle utopie.

Non raro interviene che in Inghilterra vengan sospese le garenzie dell'Habeas Corpus, senza che per questo dalle tribune, e della stampa sorgano gli energumeni ad imprecare alla perduta libertà.

In Italia, invece, abbiamo una scuola tutta amore pe’ malandrini, tutta severità pe’ carabinieri, tutta scrupoli per l’inviolabilità del domicilio del ladro, e tutta miele pel violato domicilio del cittadino per parte del ladro; abolizionisti della pena di morte, inorridiscono anche alla deportazione, e li fa cadere in deliquio la catena che pesa al piede del forzato.

Tutti costoro hanno ben visto le condizioni eccezionali in x cui versava la Sicilia, ma non hanno voluto accettare le conseguenze.

Tutti costoro hanno dimenticato che l'abolizione della pena di morte, votata dalla Camera dei Deputali, fu accolta con una dimostrazione alla Vicaria, e che il grido di Viva l’Italia in quell'occasione risuonò anche dietro le grate. — Il 1820, il 1848, il 1860 aveano provato che quando si salva il collo, tra il malfattore e la pena si frappone la rivoluzione e la liberazione. — Il 1866 n’è la riprova.

Senza la virtù del presidio, senza l’eroismo del suo comandante (Capitano Vigna), la scena si replicava.

In un paese in cui il prestigio malandrinesco a tale era giunto da imporsi a tutta la società; in un paese in cui il punto d'onore

vieta di deporre in giustizia contro del delinquente, in un paese che fa largo quando fugge l’omicida, se per non getta uno scanno fra i piedi degli inseguitore, in un paese che per ogni assassino produce dieci protettori, in un paese in cui si accoltella ad un franco al giorno, in un paese in cui la bordaglia organizzata potè giungere a faresti giorni di repubblica, in un paese in cui si ammazzano (a Misilmeri) 27 fra carabinieri e soldati, dopo che si erano arresi, e poi si squartano, e se ne vendono le carni a quattro soldi il chilo, facendovi intorno allegro baccano anche donne e fanciulli, era veramente giudizioso questo levarsi a censori delle più miti e garantite misura di eccezione, era veramente provvido il discreditare i carabinieri, la questura e Intruppa, e gridar mitezza quando dovea esigersi rigore.

L'eccesso del male adesso ha convertito molti degli umanitarii; adesso i rigoristi, i terroristi, non devonsi più cercare fra noi.

Un celebre pubblicista inglese—se l'autorità di grand’uomini deve pure in questo mondo avere qualche peso—il signor Mill, ha un tratto che. pare scritto a posta per noi e per la generazione, finora incorreggibile, de' dottrinarii d’Italia; è pregio dell’opera il riprodurlo:

«Un popolo—egli dice-—che è più disposto a nascondere un delinquente che ad arrestarlo; un popolo che si farà spergiuro per salvare l'uomo che l'ha rubalo, piuttosto che di darsi il fastidio di deporre contro lui, ed attirarsi con ciò una vendetta, un popolo che ha l’abitudine di passare dall'altro lato dalla strada, quando vede un uomo assassinarne un altro sulla pubblica via, ritenendo essere compito della polizia di occuparsene, e poco sicuro l'immischiarsi di ciò che non le riguarda (ciò thenon ti appartiene ni mah ni bene) un popolo finalmente che s’indegna per una esecuzione, ma che non sente ribrezzo per un assassinio;—questo popolo ha bisogno di autorità repressive, meglio armate che in qualunque altro luogo, imperocché le prime e le più indispensabili condizioni delta vita civile non hanno altre garenzie {Le gouv. reprès, Parigi, p. 10).

È una lezione che nessuno dovrebbe dimenticare e più di tutti il governò.

XC

E poiché siamo alle citazioni, Ci sia concesso, come chiusa, di citare anche noi stessi— né è la prima volta in questo scritto — ripetendo, dopo la trista esperienza della settimana repubblicana, ciò che per noi si scriveva nel Corriere Siciliano alla vigilia di essa ((1))

«Istituzioni umanitarie e  civilizzatrici, scuole, asili, Casse di risparmio; la censuazione de beni di mano morta, la costruzione delle strade, la creazione degl’istituti di credito; una giustizia imparziale e severa, una polizia oculata; tutti questi son certamente fattori di ordine, di moralità e di sicurezza, ma per fruttare han bisogno di tempo; il vantaggio sarà lutto a profitto della nuova generazione, non per la vecchia, corrotta e selvaggia onde al presente siam vergognosi e tormentati. Apriamo quanto più scuole si possa; ogni nuova scuola che sorge vi spopolerà in avvenire una prigione;— ma se da un lato educhiamo, ci è forza reprimere dall’altro onde il marcio non si propaghi nella società. Intanto vi è urgente bisogno di sollevare lo spirito pubblico abbattuto; di provare che ad onta della libertà vi è una mano inesorabile che colpisce il reo.

«Noi vogliamo due pesi e due misure: pe buoni e pei trilli;— per quelli l’amore, l’educazione e le garenzie. costituzionali, per questi il rigore delle leggi, il domicilio coatto, e la deportazione.

«La fiacchezza e i pregiudizi del paese—rispetto ai tristi— devon trovare un correttivo, se non si viole che la società si scrolli dalle sue fondamenta.

«Rialzato il prestigio delle autorità, provato che la società buona è più potente della malandrineria, organizzata unv polizia nella quale entri l’elemento locale, depurato rigorosamente—se pure è possibile—da tutto ciò che sente appena appena di mafia e di omertà, combattuto ad oltranza, anche confortandolo di ricompense e di premii, il pregiudizio di non denunziare il delitto, noi siamo persuasi che in un avvenire non molto lontano cesserà il bisogno di soldati e di leggi eccezionali. »

Ecco il nostro voto, e i fatti odierni concorrono a confortarlo.

DOCUMENTI

ATTI PUBBLICATI DURANTE L’ANARCHIA

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Comitato provvisorio di Palermo

Concittadini!

In questi momenti supremi, è mestieri che il paese pensi alla sua tutela. La Guardia Nazionale renderà certamente questo servigio, il governo provvisorio fa ad essa un appello.

Animo dunque e virtù cittadina. Compatti ai vostri quartieri; il paese è salvo.

Palermo lì 18 settembre 1866.

Il Presidente
del comitato provvisorio.

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Comitato provvisorio di Palermo

Il sottoscritto, abilitato dal governo Provvisorio, invita i capi squadra a recarsi domani tra le 8 e le 10 ant. al Palazzo di Città col notamente de' loro uomini, ove saranno del sottoscritto pagati.

Palazzo,19 settembre 1866.

Salvatore nobile

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Comitato provvisorio di Palermo

Il Comitato provvisorio a cui son pervenuti reiterati reclami, che alcuni individui alla spicciolata, dandosi come uomini appartenenti alle squadre si son fatti lecito sotto varii pretesti di salire alquante case di pacifici cittadini, ciò che è una violazione al proprio domicilio, e che costituisce un reato in qualunque siasi tempo.

Ad impedire tale rilevante disordine, il Comitato incarica rigorosamente tutti i capisquadra a sorvegliare tutti gli uomini di sua dipendenza non solo, ma usare la massima vigilanza sopra qualunque individuo che fosse, o no armalo, affinché da questo momento in poi, non si sentisse più ripetere il disordine di cui sopra è parola; mentre il Comitato è onninamente deciso a farlo reprimere con ogni mezzo, e facendogli applicare tutto il rigore della legge.

Palermo li 21 settembre 1866.

Per l'intiero Comitato

Il presidente Provvisorio

Principe di Linguaglossa

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Comitato provvisorio di Palermo

Appello al Popolo

Concittadini!

La posizione del nostro paese è nota a tutti. Oggi dopo sei giorni di vittorie esso reclama maggiore difesa, difesa che ridonda al comune interesse.

B perciò s’invitano tutti i cittadini di ogni classe a prendere le armi, e correre al compimento dell’altissimo scopo e ciò non perché manca la forza a sostenere questa suprema lotta, ma perché al bisogno della Patria è dovere d’ogni cittadino apprestare il suo braccio, e la sua vita.

Concittadini!

L’esperienza ci à provato che non mai siete mancati ab l’appello della Patria, e sull’altare di essa rosseggia ancora il sangue dei vostri generosi fratelli.

Fidiamo in voi.

I componenti del comitato provvisorio, chiamati dal popolo:

Principe Antonio Pignatelli di Monteleone.

Barone Giovanni Riso.

Principino di Niscemi.

Principe di Rammacca.

Principe di Galati..

Barene Sutera.

Principe di San Vincenzo.

Monsignor Gaetano Bellavia.

Dr. Onofrio Di Benedetto. Francesco Bonafede.

Palermo lì 21 settembre 1866.

Il Presidente

Principe di Linguaglossa

N. B. Contro la loro firma, apposta mendacemente a piè di cotesti documenti, protestarono tutti ad eccezione di nobile e Bonafede.

ATTI GOVERNATIVI

Ordinanza e proclama del Regio Commissario

Abitanti della Città Provincia di Palermo.

Una mano di sconsigliati profittando abilmente della soverchia fiducia generalmente riposta nel buon senso e nel patriottismo della gran maggioranza di queste popolazioni, e del l’indulgenza che si è creduta di usare verso una gente inesorabilmente avversa al presente ordine di cose; non che traendo vantaggio dall'assenza della Reale Truppa chiamata a combattere le nazionali battaglie, ha irrotto nel 16 del volgente mese ne' dintorni e nell'interno di questa Città, tenendovisi in varie posizioni per più giorni, onde abbandonarsi alle depredazioni ed al saccheggio. Tutte le altre città insulari hanno unanimemente stigmatizzato con un grido di profonda indignazione questi riprovevoli fotti, e la popolazione stessa di Palermo, intendo la parte eletta e civile di essa, non si è resa per nulla solidale dei saturnali di una sfrenata plebaglia. Invano si è tentato di orpellare siffatte scelleratezze con un nome politico che manca di significato; invano si è loro data una bandiera che l'opinione pubblica non può avere riconosciuto. Il paese ha già pur troppo scorto che nessun partito politico ha diritto ha pretendere di essere rispettato per tale, quando i primi atti dalla sua esistenza s'inaugurano in mezzo a palazzi dilapidati, ad innocenti creature affamate, ad incendii e violenze di ogni natura.

Io son deciso fare opera a che forza sia data alla Legge; a che sieno in modo stabile e duraturo garentite la vita e le sostanze di ogni ordine di cittadini; a che cessi una volta per sempre quello stato di incertezza che inferisce tante danno a' più vitali interessi del paese, ed arresta l'industria ed il commercio, ed inaridisce le sorgenti della ricchezza pubblica.

Le gravi condizioni della pubblica sicurezza e gli ultimi dolorosi avvenimenti che hanno per più giorni desolato le popolazioni di Palermo e dintorni, rendono indispensabile il ricorrere a rigorose ed eccezionali misure, le quali, per quanto Nasceranno incolumi la libertà e l’esercizio dei dritti d’ogni. buon cittadino, altrettanto, e più ancora varranno a sgomentare la. ribaldaglia ed a prevenire la rinnovazione di fatti cosi deplorevoli.

La necessità di aggravar la mano su’ malandrini non mi farà però venir meno al debito d’informare i miei alti ad intiera giustizia. Al di sopra di ogni passione partigiana, io mi propongo di far cessare definitivamente ogni causa più, o meno diretta di esiziali oscillazioni dell'ordine pubblico, di quel mal essere artificiale che ha pesalo come un incubo e da gran tempo, su questa cittadinanza.

Il paese ha bisogno di tranquillità solida o perenne — e l'avrà — tanto pe’ mezzi di cui dispone il Governo quanto pel concorso efficace e sincero di tutti gli onesti.

Così avrete dimostrato anche questa volta, che i conati della reazione, per quanto si appoggino su gli osceni connubi! col malandrinaggio, colla camorra, e con tutte quelle altre degradazioni della dignità umana, che furono il retaggio d’un secolare dispotismo, non riescono che a, sempre più rinsaldare la fede delle popolazioni nelle nostre libere istituzioni, e a rinfiammare nella coscienza pubblica l’odio e lo sprezzo per un sistema d’immoralità e di perfidia già travolto nella mina di una abborrita dinastia.

Il Luogot. Gen. Comandantedella forza Militare in Sicilia

R. Comm.. Straord. per la Provincia di Palermo

Raffaele Cadorna

Il Luogotenente Generale Comandante della forza Militare dell’Isola di Sicilia, IL Commissario Straordinario con ampii poteri per la Città e Provincia di Palermo; In virtù delle facoltà conferitegli con Regio Decreto del 18 mese volgente;

Attese le gravi condizioni della Pubblica Sicurezza nella Città e Provincia suddetta, e la necessità di immediatamente ristabilirla,

Proclama.

1. La Città e Provincia di Palermo sono oggi stesso dichiarate in istato di assedio:

Per editti speciali si provvederà al divieto assoluto degli assembramenti, al disarmo e a quante altro potrà essere reputalo necessario nell’interesse della sicurezza interna dello Stato.

2. Sono applicabili per la Città e Provincia summentovate e rispettivi territori]’gli articoli 226,231,521 e 522 del vigente Codice Penale Militare.

Tutte le Autorità Civili e Militari sono chiamate ad eseguire nel limite delle proprie attribuzioni le prescrizioni contenute nel presente editto.

Palermo, 23 settembre 1866.

Il Luogot. Gen. Comand. della forza Militare di Sicilia

R. Commissario Straordinario

Raffaele Cadorna.

Disarmo

IL LUOGOTENENTE GENERALE COMANDANTE LE TRUPPE DI SIC! LIA, 

REGIO COMMISSARIO PER LA CITTÀ E PROVINCIA DI PALERMO.

In virtù delle facoltà conferitegli con Regio Decreto del 18 mese volgente;

Visto l'Editto da Lui emanato nel giorno 23 mese suddetto con cui si è proclamato lo stato di assedio per la Città e Provincia di Palermo

Decreta:

Art. 1. È ordinato l'immediato generale disarmo nella Città e Provincia prementovate.

Art. 2. I detentori di armi di qualunque specie dovranno farne la consegna, per la Città di Palermo entro tre giorni dalla pubblicazione del presente Decreto, presso le rispettive Ispezioni di Sicurezza Pubblica, per tutti gli altri Comuni della Provincia entro sei giorni dalla suindicata pubblicazione, presso gli Uffici locali di Pubblica Sicurezza.

Art. 3. È pure inibita la esposizione, e la vendita di qualunque specie di armi offensive: i venditori saranno tenuti alla consegna prescritta dall’art. precedente.

Art. 4. Restano sin da ora revocati tutti i permessi di porto d'armi rilasciati da qualunque Autorità Politica della Provincia, con doversene fare la consegna nei tempi e nei modi descritti nell’articolo 2.

Art 5. I contravventori al disposto del presente Decreto saranno arrestati, e passibili delle pene comminale dalle Leggi a mente del precitato Edilio del 23 di questo mese, non esclusa la pena della fucilazione.

Art. 6. Le Autorità Politiche e Militari della Provincia di Palermo sono incaricale della esecuzione del presente Decreto.

Palermo 24 settembre 1866.

Il Luogotenente Gen. Comandante le truppe

di Sicilia Regio Commissario

Raffaele Cadorna

___________

Circolazione di notte

Il Luogotenente Generale Comandante le truppe dì Sicilia Regio Commissario Straordinario per la Città e Provincia di Palermo.

In virtù delle facoltà conferitegli con Regio Decrete del'18 mese volgente

Visto l’Editto dà Lui emanato nel giorno 23 mese suddetto con cui si è proclamalo lo stato d’assedio per la città e Provincia di Palermo:

Riconosciuta la necessità di evitare che nelle ore, notturne i malfattori profittando del numeroso accalcarsi delle persone pelle pubbliche vie sfuggano alle ricerche degli Agenti della Forza pubblica o facilmente possano perpetrare reati.

Decreta:

1. Delle 6 p. m. d’ogni giorno sino alle 6 a. m. del giorno successivo non è permesso di uscire fuori della città di Palermo senza una carta di circolazione che dovrà essere rilasciata dalle rispettive Ispezioni dì Sicurezza Pubblica, o rinnovata volta per volta.

2. Non sarà permesso nelle ore-indicate nel precedente articolo qualsivoglia riunione od assembramento di più di' tre persone.

3. Le persone assembrate saranno tenute a sciogliersi af primo invito orale degli Uffiziali e d Agenti di S. P.

4. Resistendo all'invito si procederà immediatamente all'arresto di chi non vi abbia ottemperato, salvo a promuovere in suo danno regolare procedimento secondo i casi e-h gravità delle circostanze.

5. Tutte le Autorità Politiche e Militari del!a città di Palermo sono incaricale della esecuzione del presente Decreto-Palermo-24 settembre 1866.

Il Luogotenente Generale

Comand. le truppe di Sicilia R. Commissario

Raffaele Cadorna

___________

Oggetti dipendenti dal saccheggio

IL QUESTORE DELLA CITTÀ E CIRCONDARIO DI PALERMO.

Visto l’Editto emanalo nel 23 mese volgente da S. E. il Luogotenente Generale Comandante dello truppa dell'Isola, Regio Commissario per la Città e Provincia di Palermo.

Determina:

1. Entro tre giorni dalla pubblicazione della presente Ordinanza, tutti gli abitanti dì questa Città sono tenuti a de-depositare presso le rispettive Ispezioni di Sicurezza Pubblica gli oggetti di qualunque natura provvenienti dal saccheggio fattovi dalle bande armate e dalle squadre, nel tempo decorso dalla mattina del 16 a tutto il giorno 23 di questo mese.

2. Saranno tenuti del pari a depositare presso gli uffici indicati nel precedente articolo gli oggetti pur sopra descritti, i n qualunque modo sieno lor pervenuti o possano pervenirgli nei giorni successivi.

3. Dalia Ispezione consegnatario di quegli oggetti sarà rilasciata analoga quietanza.

4. I contravventori al disposto della presente Ordinanza oltre lo pene in loro danno comminate dal vigente Codice penale, potranno essere passibili dì quelle dipendenti dal precitato Editto del 23 di questo stesso mese, e ritenuti complici nel saccheggio fatto dalle bande armate e dalle squadre, ove perquisite le rispettive dimore vi si rinvenissero oggetti della specie e provenienza descritte nella presente Ordinanza.

Palermo 24 settembre 1866.

Il Reggente la Questura

Pietro Bruno

Scioglimento e disarmo della Guardia Nazionale

II Luogotenente Generale Comandante le truppe dell’Isola, R. Commissario per la Città e Provincia di Palermo.

In virtù dei poteri conferitigli col Regio Decreto del 18 mese volgente;

Visto l'Editto del 24 mese sopradetto da lui emanato, e col quale è stato proclamato per la Città e Provincia di Palermo lo stato di assedio;

Vista la legge 4 marzo 1848;

Vista la proposta inoltrata dal Comandante della Guardia Nazionale di questa Città con nota del 23 stesso mese con cui ne provoca lo scioglimento e il disarmo immediato;

Considerando che la condotta da essa tenuta nei dolorosi avvenimenti che hanno in questi ultimi giorni contristato il paese, non è stata all'altezza della missione affidata ad una istituzione, che è la salvaguardia delle nostre libertà e la guarentigia dell'ordine; e ciò per non essere ancora organizzata a mente della precitata legge 4 marzo 1848 e Regio Decreto del 13 maggio 1866. n. 2928;

Decreta.

1. La Guardia Nazionale di Palermo è sciolta, e sarà ricostituita a tenore delle leggi sopra citale.

2. Entro quattro giorni dalla pubblicazione del presente Decreto ogni milite e graduato è tenuto fare la consegna delle armi presso le sedi delle. Commissioni che verranno stabilite con altro Decreto di pari data.

Palermo 26 settembre 1866.

Il Luogot. Gen. Comuni. le truppe dell’isola

R. Commissario

Raffaele Cadorna.

Il Luogotenente Generale Comandante le truppe in Sicilia, R. Commissario per la Città e Provincia di Palermo.

In virtù dei poteri conferitigli col Regio Decreto del 18 mese volgente;

Visto il Decreto da lui emanalo oggi stesso con cui ordina lo scioglimento della Guardia Nazionale di questa città, e il disarmo immediato di essa;

Visto l’articolo 2 del Decreto citato nel precedente articolo,

Dispone:

1. Le armi dei militi e graduali della Guardia Nazionale disciolla, saranno depositate nei locali segnali in calce.

In ognuno dei locali medesimi risiederà per lutto il tempo stabilito per la consegna delle armi, una commissione presieduta da un assessore delegato dal Sindaco, e composta da due notabili scelti dal Sindaco stesso, da un Delegato di P. S., e da un Uffiziale dei Reali Carabinieri.

1. Lo armi verranno depositale presso le rispettive Commissioni rilasciandosene da esse la corrispondente ricevuta.

2. Le Commissioni, spirato il termine stabilito perla consegua delle armi, stenderanno un analogo processo verbale in cui verranno designati in complesso il numero e la specie delle anni ricevute in consegna.

Palermo,26 settembre 1866.

Il Luogot. Gen. Comand. delle truppe in Sicilia

Regio Commissario

Raffaele Cadorna.

Per la l(a) Legione e Compagnie distaccate dalla stessa dipendenti, nella Congregazione così delta di Santa Maruzza, in piazza Beati Paoli, già S. Cosmo.

Per la 2(a) Legione e Compagnie distaccale dalla stessa dipendenti, nella Congregazione di S. Michele Arcangelo, presso la Biblioteca Comunale.

Per la 3(a) Legione e Compagnie distaccate dalla stessa di pendenti, nella Congregazione del Ss. Rosario, in Santa Cita.

Per la 4(a) Legione e Compagnie distaccate dalla stessa dipendenti., nella congregazione di Gesù e Maria, in piazza Sant’Anna ,

Per lo Stato Maggiore, Corpo delle Guide e Legione dei Bersaglieri nella Congregazione di S-Giuseppe, via Giuseppe d’Alessi.

Disarmo -Munizioni

IL QUESTORE DELLA CITTÀ E CIRCONDARIO DI PALERMO

Col Decreto di S. E. il Luogotenente-Generale Comandante le truppe in Sicilia Regio Commissario Straordinario per la Città e Provincia di Palermo, in data 24 andante mese, venne ordinato fi generale disarmo in tutta la Provincia di Palermo.

Da taluno però si è creduto che le munizioni non vanno comprese nel disarmo.

Sebbene il sudetto Decreto sia esplicito da non ammettere osservazioni, perche le munizioni fan parte integrante delle armi da fuoco, pure onde togliere qualunque dubbio ed a maggior chiarezza

Notifica

Le munizioni fan parte delle armi da fuoco, e perciò dovranno consegnar per come venne ordinato dal Decreto di S. E. il Regio Commissario in data del 24 settembre.

Palermo 27 settembre 1866.

Il Reggente la Questura

Biundk

ATTI AMMINISTRATIVI

Il Consiglio Comunale di Palermo riunitosi in seduta straordinaria, il 24 settembre 1866, ha preso ad unanimità le seguenti deliberazioni:

Consiglio

1. Dà un voto di fiducia alla Giunta Municipale—Applaude alla virtù cittadina di che ha dato prova nelle fatali emergenze, di cui 'Palermo è stato testimone e vittima. E dichiara di avere ben meritato dal paese.

Dolente de' danni materiali recati al Sindaco li dichiara danni della Città.

Questa prima deliberazione fu presa sotto la presidenza del l'Assessore anziano cav. Trigona Mandrascati, essendosi il Sindaco ritirato dalla sala del Consiglio, per ingiunzione del Con tiglio medesimo, I componenti la Giunta si astennero dal votare.

2. La Città di Palermo ha protestato coi fatti, ed ora protesta per mezzo della sua rappresentanza contro ('invasione di un’orda selvaggia che a pretesto politico tentò volgere il paese in campo di rapine e di saccheggiamenti. Rende grazie a' prodi dell'esercito Nazionale che hanno salva la causa dell’ordine e della libertà dagli orrori dell’anarchia.

E’ dolente che un’insurrezione di ribaldi abbia costato un sangue nobile e generoso.

Invita la Giunta Municipale a farsi interpetre de' sentimenti della Città presso i rappresentanti il Governo del Re.

3. Apre provvisoriamente un credito straordinario di Lire 200,000 per provvedere alle spese urgenti onde riparale i guasti fatti al paese, al Palazzo di Città ed agli Ufficii Comunali, non che per le spese sanitarie che nelle attuali e mergenze sono indispensabili.

Palermo 24 settembre 1866.

Conforme all’originale

Il Segretario del Municipio

A. Onufrio.

____________

Il Consiglio Comunale, il 10 ottobre, riunito numerosissimo, votava all’unanimità le seguenti deliberazioni:

I

«Il consiglio:

«Considerando che le luttuose emergenze che conturbarono Palermo negli scorsi giorni di settembre han motivato bene a ragione per parte del regio Commissario la proda

inazione dello stato d’assedio in tutta la Provincia, e la creazione di Tribunali militari straordinari per la pronta punizione dei malfattori.

«Considerando che una efficace ed esemplare repressione degli odiosi attentati commessi contro l’ordine sociale le persone e la proprietà è oramai la sola via per ristabilire una volta il prestigio dell'autorità e la pubblica sicurezza, che da sei anni si anela invano da tutti i buoni ed onesti cittadini.

«Considerando che l’azione energica della autorità debbo altresì estendersi alle speciali località della provincia in cui 1© piaghe non sono troppo appariscenti in distanza.

«Fa voti perché ir governo del re persista nei mezzi eccezionali adottati traducendoli in atto al più presto col disarmo generale effettivo, e con la pronta attivazione dei Tribunali militari localizzati anche nei punti ove più è urgente farne sentire l’azione immediata e locale, e riesca così una volta e compiutamente a ridonare a questa afflitta Provincia l’ordine e la sicurezza, primi elementi d’ogni civile ordinamento a dello svolgimento d’ogni prosperità.

II

Proposta del Sindaco:

«Alla vedova del capitano Bruni morto combattendo in difesa del Palazzo Municipale è accordala una pensione uguale al soldo ch’egli godeva, dedotta però la pensione governativa— in caso di morte o di seconde nozze la sudetta pensione passerà al figlio per goderne sino agli anni ventuno.

III

«Il Consiglio si associa per lire 1000 alla sottoscrizione a favore de' soldati feriti e delle famiglie de' militari morti negli avvenimenti di Palermo. »

Lettera del R. Commissario al Sindaco Rudini

Palermo, 20settembre 1866.

Appena qui giunto ebbi a raccogliere dalle relazioni dei più cospicui Funzionarii locali, come la S. V. III. ma e l’onorevole Giunta, alla quale degnamente presiede, abbiano tenuto nelle dolorose vicissitudini che hanno desolato, or non è guari, questa nobile città, una condotta di cui non saprebbe abbastanza lodarsi e la coraggiosa fermezza, e il caldo patriottismo, e tutte insomma quelle rare prerogative che lasciano un nome rispettato alla storia, un salutare esempio alle generazioni a venire.

Quando una turba di sconsigliati, quando numerose orde di malandrini briache di sangue e di rapina, tentavano compromettere con le loro scelleratezze la riputazione e il nomo di questa cittadinanza dinanzi alle altre Città consorelle e all’intera Europa, la S. V. e molti altri distinti membri della Comunale Rappresentanza eran lì in mezzo ai sanguinosi conflitti, e dote più incalzava il pericolo, a protestare con la loro presenza contro ogni solidarietà che si fosse per avventura voluta far ricadere su la parte buona ed eletta della popolazione. Nè venne mai meno alle Autorità Governative il concorso de' suoi savi! consigli, né mai fu loro negata in quei supremi momenti l’opera sua efficace, tanto per procurare i mezzi indispensabili all’approvvigionamento delle truppe concentrate nel Reai Palazzo, quanto per rendere agevoli quelle requisizioni e ricerche ch’eran richieste dalla difesa di quel locale. Ella poi ch’ebbe a patire dalle inique rappresaglie dai rivoltosi e gravissimi danni pecuniarii, Ella ch’ebbe vandalicamente saccheggiata la sua avita dimora, non si commosse menomamente al triste annunzio, e deplorò soltanto che la sua terra natia fosse, benché per poco, rimasta in preda ad una efferata ribaldaglia

Questo suo nobile contegno, questa prova di civismo, tanto più splendida quanto meno appariscente, non hanno bisogno di comenti per essere raccomandati alla benemerenza del Governo e del paese, e all’ammirazione dei popoli inoltrati net progresso e nella civiltà.

Il Municipio di Palermo ha mantenuto e continuato degnamente le tradizioni del passato: che in tutti i grandi rivolgimenti politici, ed in tutte le catastrofi che hanno pure contristato altre volle questa cospicua città, la Rappresentanza del Comune non è venula meno al suo nobile compito.

Gradisca, signor Sindaco, questa sincere manifestazione dei sentimenti ispiratimi da così solenni attestazioni del suo patriottismo, e voglia rendersene anche interprete presso i Componenti della Giunta, e presso tutti coloro che l’hanno coadiuvata in queste ardue prove di longanimità e di abnegazione.

Il Luogotenente Generale

Com. delle Truppe dell’isola Regio Com.

Raffaele Cadorna.

All’Ill.mo signor Commendatore Antonio Starrabba Marchese di Rudinì Sindaco di Palermo.

Il ministro al Sindaco

Il Sindaco ha ricevuto da Firenze colla data del 25 il seguente dispaccio:

«Commendatore Budini Sindaco — Palermo.

«Il Governo, informato della intrepidezza colla quale Ella in compagnia del Prefetto Torelli si adoperò a resistere quanto poteva alla prima insurrezione delle bande in Palermo, a mantenere l'autorità durando nella resistenza, le ne esprime la sua soddisfazione come ha bene meritato della sua Città e dell'ordine pubblico. »

Ricasoli.

Ed il Sindaco rispose:

«Ho fatto il debito mio — Ringrazio la S. V. 111. ma dei cortese dispaccio. »

Rudinì.

Dal Giornale di Sicilia

Sulla proposta del Ministro della Guerra, S. M. si è degnala d'insignire il Sindaco di Palermo Antonio Marchese di Rudinì della medaglia d'oro al valor militare; e sulla proposta del Ministro dell'Interno gli ha conferito il grado di Grande Uffiziale dell'ordine de' SS. Maurizio e Làzzaro.

___________

Il generale Camozzi prima di partire diresse la seguente lettera al Marchese di Rudini, Sindaco di Palermo:

«Palermo, 28 settembre 1866.

«Illustrissimo sig. Sindaco

«Ora che la G. N. di questa città è disciolta, e che S. E. il R. Commissario Straordinario mi conserte di recarmi nel Continente a visitare la mia famiglia, io mi affretto a rimettere nelle vostre mani le bandiere della G. N. che potei salvare dalla depredazione dei malandrini.

In questa circostanza credo mio obbligo esternare la mia più sentita gratitudine alla S. V. che con tanto coraggio e sangue freddo affrontava nelle contrade le palle dei malfattori qual vecchio soldato, alle poche e brave Guardie Nazionali che ci seguirono, ed ai coraggiosi cittadini che proposero ed eseguirono le importanti sortite.

«Questo sentimento di gratitudine rimarrà indelebilmente impresso nel mio cuore, poiché solo per l’opera vostra e dei pochi che rimasero con me alla difesa del Municipio io posso dire anche in questa circostanza di avere onoratamente adempiuto al mio dovere.

«Sicuro che la S. V. 111. ma vorrà gradire i sentimenti della più alta stima e considerazione, mi pregio dirmi

«Divotissimo — Gabriele Camozzi

Generale Comand. la G. N. di Palermo. »

E il Sindaco gli rispose:

«Ill. Signore,

«La S. V. allontanandosi da Palermo non ha voluto separarsi da me senza consegnarmi le bandiere della Guardia Nazionale che ha gelosamente custodito e, con scarsi compagni, gagliardamente difeso.

«Ma oggi che la Guardia Nazionale è sciolta, queste bandiere altro non sono che un ricordo ed una memoria. Ed io voglio offrirgliene una, acciocché le rammenti quei pochi, ma intrepidi e valorosi che dal suo fianco non si staccarono mai quando maggiore era il pericolo; acciocché le rammenti coloro che, seguendo il suo nobile e coraggioso esempio, seppero conservare illeso l’onore e adempiere ad un dovere che fu tanto difficile e doloroso quanto è grande e sincera la gratitudine della onesta cittadinanza.

«Ponga fede infine nell’affettuosa stima del
«Suo Amico

Firmato: A.Rudinì. »

«Palermo,30 settembre 1866. »

_________

Il Ministro dell'Interno dirigeva il seguente telegramma al

«Sig. Deputato Camozzi, Generale Comandante la Guardia Nazionale di Palermo.

«Firenze 29 settembre 1866.

«Ricevo il suo rapporto che fa testimonianza della sua prudenza e del suo coraggio nei terribili eventi che hanno funestato Palermo. Il governo le rende intanto la lode che si è meritata, e si augura che Ella possa ricondurre a suo tempo la Guardia Nazionale di cotesta Città ai principi! che soli possano rendere onorata ed efficace quella nobile cittadinanza»

«Ricasoli. »

La eletta cittadinanza palermitana avendo aperta una sottoscrizione—che subito è stata coperta di firme — 
per elevare un busto marmoreo al Sindaco Budini, esso ha diretto al Giornale di Sicilia la seguente lettera:

Palermo, 4 ottobre

Albergo della Trinacria.

«Ill. mo Signori,

«Alcuni cittadini proposero di elevarmi un busto in marmo, ed alcuni altri risposero a questa proposta con una contribu zione che la rese possibile.

Mi si permetta ora di domandare il perché di questa non ordinaria onorificenza. Io dico senza modestia che il mio dovere l’ho fatto. Ma aggiungo con profonda convinzione ch’io non merito tanto. Perché dunque tributarmi onori che a me non competono? Sarebbe ridicolo s’io mi sentissi offeso di una dimostrazione di stima ed affetto, ma è possibile accoglierla di buon animo quando si sente d’esserne indegno?

Se si vuole onorare un cittadino e additarlo ad esempio si scelga Cotone di Castelnuovo che fu troppo lungamente dimenticato. È in lui che può senza esitanza onorarsi una vera virtù ed un uomo grandemente benefico. La prego, signor Direttore, di dare pubblicità a questa lettera, e se la contribuzione sarà destinata all’uso ch’io propongo m’iscriva per cento lire

Suo Obb.mo— A. Rudinì.»

All’Ill.mo signor Direttore del Giornale di Sicilia.

La Giunta Municipale avendo, in ossequia del Sindaco, deliberato di associarsi ai funerali del Marchese Rudinì padre), invitando anche il Consiglio e la cittadinanza a questo doloroso u®-ciò, il Sindaco ha indirizzato al direttore del Giornale di Sicilia la seguente lettera:

Ill. mo Signore,

La morte del mio buon Padre portò il lutto e la desolazione intorno ai frantumi del mio focolare domestico.

Ed il lutto mi tolse d’adempiere prontamente al mio debito di gratitudine verso quel gran numero di cittadini che mi dimostrano il loro affetto e la loro simpatia. Ma oggi io prego la S. V. a farsi interprete della mia riconoscenza pubblicando queste poche parole. Se l’adempimento del mio dovere e le sventure onde sono stato colpito destarono un vivo interesse nell’onesta cittadinanza, ciò significa, signor Direttore, che dessa vuole con ogni buon mezzo protestare contro gli avvenimenti dello scorso settembre.

Or questa protesta è per me, che amerò sempre la mia città nativa, argomento di vera e grande soddisfazione, perché attesa che tutta la furia d'una plebe pervertita e sconsigliata non ha trascinato un solo di quei cittadini onde Palermo a giuste titolo poteva vantarsi.

Ponga fede signor Direttore nella mia altissima stima mi creda.

Palermo, 4 ottobre 1866.

Suo Obbligatissimo:

A. Rudinì.

Notamento di oggetti restituitisi dal Prefetto Torelli alla Amministrazione Militare; essi fanno parte di 50 uniformi completi da lui richiesti quando decise di non cadere che colle armi alla mano in potere della rivolta. Gli uniformi servirono per vestire i poveri soldati nudi lasciati in Monreale.

Palermo il 26 settembre 1866.

Dichiaro io sottoscritto aver ritirato da S. E. il sig. Prefetto della Città e provincia di Palermo i seguenti oggetti, per essere consegnati all’amministrazione Militare del magazzino di Palermo.

N.° 50 Zaini di fanteria.

N.° Fucili n. 6 senza bajonetta.

N.° 50 Giberne da fanteria. .

N.° 50 Centurini idem.

N.° 1 Bajonetta.

N.° 48 Cravatte o sciarpe rosse.

N.° 20 Pantaloni di panno,

N.° 3 Cappotti.

N.° 50 Farmaglie da centurini.

N.° 49 Fodere da bajonetta.

N.(Q) 1 Giubba di panno fuori uso.

N.° 1 Pantaloni id. id, In fede mi sono sottoscritto

Il capo lavorante

Guarnero Giovanne

____________________

Elenco delle munizioni da guerra che vennero consegnale dal signor Senatore Torelli all'Ispettorato del Mandamento Palazzo Reale addì 27 settembre 1866, che ha dichiarato provenienti dalle ricognizioni fatte fare nei giorni 18 19 e 20 corrente nelle diverse case in prossimità del Reale Palazzo, e rimaste in gran parte esuberanti per la liberazione avvenuta il 21 stesso mese,

1.° Scattola grande in latta contenente 9 chilogrammi di polvere fina di ragione del Barone Mule via Toledo casa dopo il Monastero dei Setti Angeli.
2.° Cartocci da 10 colpi l’uno per fucile tutti compiti N. 140
3,° Cartucci 10 per pistole, » 65
4.° Barilottino di legno cerchialo in ferro contenente circa chilogrammi due di polvere.
5.° Scattola in latta ripiena di cartuccie da fucile. Chil . 1 80
6.° Numero 4 Sacchetti con palle da munizioni da fucile » 20 »
7.° Due cassette ripiene di cartucci parte intatti parte disfatti » 8 »
8.° Palle sciolte da pistola » 10 50
9.° Altre da fucile » 4 »

CORPI UFFIZIALI BASSA FORZA Totale perdite uffiz. e Bassa forza
Morti Feriti Mancanti Totale Morti Feriti Mancanti Totale
10° Batteria del 18° Reggimento fanteria 1 2 3 3
Reggimento Granatieri temporaneo 5 5 10 12 51 5 68 78
85° Reggi infant. tempor. 1 1 3 6 6 18 19
Deposito dei 69(o )Regg. fan. 1 1 1 12 7 20 21
Deposito del 7° idem 1 1 1 5 6 7
Carabinieri Reali 9 4 13 13
24° Battaglione Bersag. 4 4 6 28 34 38
31° idem 3 21 24 24
53° Reggimento fanteria 1 1 3 27 30 31
54° idem 8 8 8
5° Battag. del 19° Reggimento fanteria 3 —- 3 2 10 12 15
5° Idem del 51° idem 1 7 8 8
REGIA MARINERIA
Re di Portogallo 1 1 14 15 16
Principe Umberto 2 2 14 1 15 17
Maria Adelaide 1 11 12 12
Gaeta 1 1 7 7 8
Duca di Genova 2 2 4 4 6
Garibaldi 3 3 3
Carlo Alberto 1 3 4 4
San Giovanni 1 1 1
Totale 20 27 46 235 24 35 332

Vale di ricevuta

Palermo li 27 settembre 1866,

Il Delegato

A. Filippone,

Tabella -numerica delle perdite sofferte dalle truppe di terra e di mare 
nei moti di Palermo dal 16 al 22 settembre 1866:

N. B. non trovausi comprese nella presente Tabella le perdile che piansi avute dai distaccamenti di truppa nella Pro-vinvia di Palermo non essendo ancora ben note.

Sull’aiuto che i cittadini diedero al presidio delle Finanze,
 leggono i seguenti particolari nel l'Amico del Popolo:

«Nel palazzo delle Finanze erano racchiuse, come ognun sa, 35 persone per custodirlo.

«Mancavano di viveri e di munizioni.

«Di ciò che fece il guardaporta Sampieri in aiuto di quel debole presidio, ne demmo un cenno nel num. 225 del nostro periodico. Ora vogliamo segnalare al pubblico lutto quello che fecero gli abitanti delle case prossime al palazzo delle Finanze per apprestare viveri ai soldati.

«La famiglia Forget fu la prima che, avendo chiesto con segni al Custode maggiore Randazzo se i soldati aveano da mangiare, ed avesser anche con segni la risposta negativa, apromise che sera inoltrata avrebbe apprestato gli occorrenti sussidii dal gradone

dirimpetto alla casa degli stessi Forget.

«Il custode Randazzo ne chiese il permesso all’Ufficiale di guardia, il quale tiretto dalla necessità, perché con 80 gallette non avrebbero potuto sostentarsi per più giorni 35 persone, lo accordò, ed il sussidio fu apprestato.

«Oltre a ciò fu ammirevolissima la condotta di tutti quanti abitavano in quelle vicinanze, sia nel recare furtivamente dei viveri, sia nel dissuadere con molti artifici le bande armalo di attaccare il palazzo delle Finanze. E tra questi onesti cittadini, per le informazioni che abbiamo attinte, ci fa piacere nominare Giuseppe e Francesco Piazza caffettieri, il Sacerdote Giglio e Stefano Mandali, non che la famiglia Forget, la famiglia Giordano, la famiglia Vassallo, Salvatore Ruggiero, Salvatore d’Anneo, Pietro Pescemorto e Giuseppe Patrucco, i quali, non potendo individualmente supplire a tutti i bisogni del presidio, raccolsero danaro fra tutti gli abitami di quelle contrade, e fornirono sempre il necessario, essendosi principalmente distinto il Patrucco, il quale, infaticabile in quel lodevole ufficio, caricava sulle sue spalle e su quello della sua persona di servizio i cofani coi viveri ed i barili col vino per introdurli di soppiatto nel palazzo delle Finanze.

«Allorché poi le bande armate fuggivano da Palermo per l’arrivo delle truppe, rimaneano delle somme raccolte sette lire, che immantinente furono spese per uva e sigari che si diedero ai soldati.

«Né deve tacersi che utilissima in quelle emergenze fu la cooperazione del Custode maggiore Randazzo, il quale dopo essersi battuto insieme al Prefetto, al Sindaco ed agli altri cittadini sino al Monastero delle Stimmate, ritornò al suo posto per compiere il suo dovere. E lo compì egregiamente allorché, avendo le bande armate taglialo il corso all’acqua del palazzo delle Finanze, riuscì egli con l’aiuto di un granatiere a scavare un pozzo di circa cinque metri per dissetare quei valorosi soldati, che tutte le privazioni, meno quella dell’acqua, avrebbero potuto sopportare.»

NOTE

1 Il sig. Martino Beltrani, dopo di aver provveduto alla difesa delle carceri, erasi, superando mille pericoli, condotto a Palazzo R. per richiedere un rinforzo di truppa; l'estensione che prese la ribellione e tutti gli sbocchi occupali dagl'insorti non gli permisero di tornare al suo posto. Il sig. Beltrani tanto al Municipio, quanto al Palazzo Reale si distinse fra i più strenui campioni della buona causa.
2 Il sig. Carega si recò due volte al Municipio, mettendo anche a sua disposizione un drappello di guardie finanziarie che si distinse, come tutta la forza doganale, nelle fazioni del Municipio, del Palazzo Reale, delle prigioni e del castello.
3 A difesa del palazzo di Città restavano insieme alla truppa l'Ispettore del dazio signor cav. De Maria, come rappresentante del Municipio, l’amministratore signor Salvatore Perticone, l'economo si$. Salvatore Crisafi, e, sino alla sera, il maggiore de' bersaglieri principe di Belmonte, il capitano Vassallo Francesco, il capitano Notarbartolo, il capitano dello stato maggiore Giuseppe marchese della Corda, il capitano Giuseppe Vassallo, il luogotenente dello stato maggiore Vincenzo Amato, tutti della G. Nazionale. noi chiediamo scusa a quelli dicui non ci sovvengono i nomi.
4 Un miserando caso, che la storia non può non registrare, intervenne alla barricala di porta Macqueda. Battevasi disperatamente un ribaldo di cui siam lieti di ignorare il nome; era tiratore espertissimo e vantavasi di avere ucciso non pochi soldati, ì compagni lo guardavano con ammirazione, ed avea intorno una platea di piccoli scellerati, che applaudiva ai suoi colpi, che era adescata dalla speranza di spogliare i morti. Sopraggiunge una compagnia di bersaglieri;—un caporale arditissimo, sfidando ogni pericolo si fa innanzi, al grido di viva Italia viva il re— Il manigoldo lo aspetta al segno, lo imbercia; il caporale cade. Gli spogliatori attendono che la truppa si ritiri, conducono quel cadavere dentro città, lo presentano all’inarrivabile tiratore—Lo sciagurato avea ucciso suo figlio!!!
5 Ecco l’ultima lettera che l’illustre soldato scriveva al fratello lo stesso giorno del suo ferimento:

«Palermo 17 settembre 1866

«Ieri fui graffialo da una palla, oggi però hanno tiralo meglio e mi hanno preso più gravemente.

«Non ve ne allarmale, ve lo dico sinceramente e con fondata speranza.

«Ho fatto il mio dovere e come cittadino e come soldato. Mi duole che sia un italiano quegli che mi ha ferito. Credo però che non meriti questo nome chi cerca scindere la patria.

«Addio, vi scriverò presto se la debolezza non sarà soverchia. Un caro bacio a tutti. Addio, miei cari, a rivederci. Viva l'Italiae la Costituzione.

Il vostro: Giulio.»

6 Fra i rubati violentemente alle case si annovera anche il marchese di Torrearsa, Senatore del Regno, il quale ebbe abbastanza coraggio per rinfacciare a quegli sciagurati tutta la enormità del loro attentato—Lo rimandarono a casa.
7 Il Generale Marini, ed altri ufficiali furon raccolti e salvaguardati dalla generosa ospitalità dei Cloos — La truppa cadde prigioniera.
8 Questo giovane si era già distinto combattendo al palazzo di Città, e nella sortita del Sindaco.
9 Un curioso episodio ebbe luogo nella scrittura del dispaccio;—fu incaricato dell’opera il signor cav. Beltrani, il quale per far la prova del processo scrisse sopra un pezzo di carta questa parola «Vinceremo!»

Messo al fuoco lo scritto la parola vinceremo venne benissimo; mancò il punto interrogativo. Gli astanti ne trassero buon augurio—. La duchessa di Verdura soggiunse: sabato saremo salvi.

E così fu.

10 In uno di questi scontri, cadde, come si disse, il famoso capobanda Miceli da Monreale; — fu un colpo terribile irreparabile per la reazione.
11 Vedi il Corriere del 9 settembre.






Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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